La Natura del Pregiudizio: Definizioni ed Evoluzione Storica PDF

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Marco Brambilla, Simona Sacchi

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prejudice social psychology historical evolution social science

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Il capitolo introduce il concetto di pregiudizio, definito come "antipatia fondata su una generalizzazione falsa e inflessibile". All'interno del testo si espone l'evoluzione storica dello studio del pregiudizio, approfondendo la sua natura multidimensionale. Il primo capitolo presenta un'analisi approfondita dei pregiudizi sociali.

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# La natura del pregiudizio: definizioni ed evoluzione storica ## Marco Brambilla, Simona Sacchi ### 1.1 Introduzione Nel 1954 Gordon Allport pubblicò un volume dal titolo *La natura del pregiudizio* nel quale l'autore conduceva un'analisi incisiva sull'origine del conflitto fra gruppi, anticipan...

# La natura del pregiudizio: definizioni ed evoluzione storica ## Marco Brambilla, Simona Sacchi ### 1.1 Introduzione Nel 1954 Gordon Allport pubblicò un volume dal titolo *La natura del pregiudizio* nel quale l'autore conduceva un'analisi incisiva sull'origine del conflitto fra gruppi, anticipando molte scoperte approfondite dagli psicologi sociali negli anni successivi. In quest'ottica, il primo capitolo di questo volume parte da alcune definizioni cardine dell'insegnamento di Allport, fra le quali quella di pregiudizio. Così egli lo definisce: Un'antipatia fondata su una generalizzazione falsa e inflessibile. Può essere sentita internamente o espressa. Può essere diretta verso un gruppo nel suo complesso o verso un individuo in quanto membro di quel gruppo (Allport, 1954, p. 9). In primo luogo, il pregiudizio è definito "antipatia". Da un punto di vista etimologico il termine “pregiudizio” corrisponde a un giudizio formulato prima di una conoscenza diretta e approfondita. Pertanto, idealmente, il pregiudizio potrebbe assumere valenza negativa, positiva o neutra. Tuttavia, la psicologia sociale ha prevalentemente considerato il pregiudizio a valenza negativa declinandolo, come anticipato da Allport, in termini di avversione verso altri gruppi sociali. Tale giudizio, prosegue Allport, è fondato su una generalizzazione falsa e inflessibile. Ovvero, il pregiudizio implica un processo di generalizzazione attraverso il quale una valutazione negativa viene estesa a interi gruppi sociali e a tutte le persone che ne fanno parte. Tale generalizzazione è falsa, poiché è molto improbabile che tutte le persone appartenenti a un gruppo possiedano le medesime caratteristiche o che una persona abbia tutte le caratteristiche impiegate per descrivere un intero gruppo sociale. La generalizzazione è altresì inflessibile, poiché è estremamente resistente al cambiamento. In altre parole, il pregiudizio è poco sensibile a informazioni disconfermanti e ignora la variabilità che vi è fra le persone che appartengono a uno stesso gruppo. Nella seconda parte della definizione, Allport specifica che il pregiudizio può assumere forme esplicitamente discriminatorie, o essere più sottile. In altre parole, esistono forme di pregiudizio che comportano una svalutazione marcata dei membri di gruppi diversi dal proprio (ovvero gli outgroup) e che si accompagnano a condotte apertamente discriminatorie. Vi sono altresì manifestazioni meno esplicite che non implicano la svalutazione manifesta dell'outgroup. Infine, Allport chiarisce che il pregiudizio è un giudizio negativo nei confronti di categorie complessive di persone ancor più che di individui isolati. In altre parole, il pregiudizio è in grado di influenzare le valutazioni di singoli individui, in quanto appartenenti a uno specifico gruppo. Così, per effetto della generalizzazione, la valutazione negativa di un intero gruppo viene applicata a tutti i suoi membri. Sebbene la definizione di Allport appaia per certi aspetti limitata alla luce delle più recenti ricerche sul pregiudizio, molte delle sue intuizioni sono ritenute tuttora valide. Infatti, dagli anni Cinquanta a oggi il pregiudizio è stato ampiamente studiato da diverse prospettive e punti di vista e ciò ha consentito di meglio declinare e approfondire i concetti formulati da Allport. Fra i diversi criteri per organizzare la vasta letteratura sul pregiudizio, quello proposto da Dovidio (2001) e Duckitt (2010), sulla scia di precedenti formulazioni (Duckitt, 1992), consente di inquadrare l'evoluzione degli studi secondo una prospettiva storicotemporale. Nel paragrafo seguente analizzeremo il pregiudizio seguendo tale prospettiva per meglio comprendere l'evoluzione del costrutto, le sue caratteristiche, le implicazioni e conseguenze. ### 1.2 Definire il pregiudizio: evoluzione storico-temporale Un fenomeno sociale particolarmente critico sul pregiudizio ha catturato l'attenzione degli psicologi: l'ostilità verso le persone di colore. In realtà, nel corso del XIX secolo tale ostilità era ampiamente accettata e considerata una risposta inevitabile e naturale a fronte dell'inferiorità delle persone di colore e di altri popoli coloniali. Così, le "teorie razziali" basate sull'idea pervasiva che le persone di colore fossero vittime di arretratezza evolutiva e capacità intellettuali limitate hanno dominato il pensiero scientifico-sociale fino agli inizi del Novecento (Haller, 1971). In questo periodo, gli psicologi stessi, elaborando test psicometrici per la misurazione dell'intelligenza non privi di criticità, contribuirono a rafforzare l'idea della superiorità dei bianchi rispetto alle minoranze etniche. Solo a partire dagli anni Venti del Novecento il pensiero scientifico ha iniziato a inquadrare le ostilità verso le minoranze come irrazionali e ingiustificate (Duckitt, 1992). Da quegli anni in avanti, pertanto, è possibile identificare tre grandi fasi nello studio del pregiudizio (tabella 1.1). #### Tabella 1.1 Evoluzione storico-temporale nello studio del pregiudizio. | Fase temporale | Approcci e modelli teorici | |---|---| | XIX secolo e primi anni del Novecento | Pregiudizio come risposta naturale a fronte dell'inferiorità delle minoranze. Teorie razziali. | | 1920-1950 | Prospettiva individuale. Pregiudizio come processo anomalo e tendenzioso. Pregiudizio come espressione di personalità patologica.| | 1960-1990 | Pregiudizio come esito di comuni processi cognitivi e motivazionali. Pregiudizio come fenomeno di gruppo.| | 1990 fino a oggi | Definizione di misure in grado di cogliere le forme meno manifeste di pregiudizio. Natura multidimensionale del pregiudizio: stereotipi, emozioni e condotte.| ### 1.2.1 1920-1950: pregiudizio e psicopatologia Abbandonata l'idea prevalente del XIX secolo secondo la quale il pregiudizio corrispondeva a una naturale risposta verso l'inferiorità che caratterizzava alcuni gruppi minoritari, negli anni Venti e sino a fine anni Cinquanta, nel panorama scientifico-sociale emerse la concezione che il pregiudizio fosse espressione di una struttura di personalità patologica. A determinare tale cambio di prospettiva non fu solo la convinzione che la discriminazione nei confronti delle persone di colore fosse irrazionale, ma anche lo shock e la repulsione ispirati dalla Shoah. In questo quadro, il tentativo più influente di collegare il pregiudizio a un particolare tipo di personalità si deve a Adorno. La teoria della personalità autoritaria (Adorno, Frenkel-Brunswik, Levinson, Sanford, 1950; vedi anche capitolo 4) ritiene infatti che i giudizi e gli atteggiamenti sociali siano espressione di tendenze profonde radicate nella personalità. Nello specifico, le persone più inclini al pregiudizio sarebbero coloro che per via della loro personalità sono più sensibili alle idee fasciste o razziste. Tali differenze di personalità sono da ricercarsi nel contesto familiare nel quale gli individui sono cresciuti: infatti quelli inclini al pregiudizio sarebbero stati esposti a un'educazione familiare rigida ed eccessivamente improntata al controllo e alla repressione delle pulsioni. Ciò comporterebbe la dislocazione dell'aggressività inizialmente sperimentata nei confronti dei genitori verso bersagli sostitutivi: da questo punto di vista, i gruppi minoritari, poiché socialmente stigmatizzati e percepiti come deboli, rappresenterebbero dei capri espiatori ideali verso i quali dirigere rabbia e aggressività. Adorno e collaboratori (1950) impiegano l'espressione "personalità autoritaria" per denominare queste tipologie di persone. Il contributo di Adorno divenne molto popolare fra gli psicologi sociali degli anni Cinquanta, sia a fronte dell'imponente programma di ricerca intrapreso da Adorno e dai suoi collaboratori (1950) a sostegno della loro teoria sia per la grande influenza che in quell'epoca le teorie psicodinamiche esercitavano sulla disciplina. Nello specifico, gli autori iniziarono un intenso lavoro psicometrico volto, in primo luogo, a individuare misure obiettive di pregiudizio verso le minoranze e, in secondo luogo, alla costruzione di un inventario di personalità capace di cogliere le componenti autoritarie. La misura più nota che emerse da tale lungo lavoro fu la cosiddetta scala F, costituita da 30 item in grado di cogliere aspetti diversificati della personalità autoritaria: fra questi, l'obbedienza e il rispetto per l'autorità e l'incapacità di tollerare l'ambiguità cognitiva. I lavori condotti da Adorno mostrarono che la scala F godeva di una buona attendibilità interna e correlava significativamente con le misure di pregiudizio validate. Nonostante l'ampiezza delle prove raccolte, il legame fra personalità autoritaria e pregiudizio presentava però alcune importanti lacune. In primo luogo, sebbene siano state rilevate delle correlazioni fra personalità autoritaria e pregiudizio, tali correlazioni non sono sempre molto elevate. Ciò porterebbe a concludere che, anche se ci fosse un legame fra personalità autoritaria e pregiudizio, altri fattori potrebbero essere coinvolti nella sua manifestazione. A questo si aggiunge il riscontro in alcuni studi di correlazioni nulle fra personalità autoritaria e ostilità intergruppi. Per esempio, in uno studio condotto in Canada emerse una correlazione debolmente positiva (in linea con le aspettative di Adorno) fra autoritarismo e pregiudizio verso la minoranza francofona canadese. Tuttavia, fra i partecipanti francofoni non emerse alcuna correlazione fra autoritarismo e ostilità intergruppi (Forbes, 1985). A tali critiche si aggiunsero poi delle contestazioni metodologiche, secondo le quali i campioni di persone utilizzati per validare la personalità autoritaria erano scarsamente rappresentativi della popolazione. Gran parte dei partecipanti apparteneva alla classe media, che difficilmente può costituire la base per la costruzione di una teoria generale in grado di spiegare il pregiudizio. A queste debolezze metodologiche, si sommano altresì alcune critiche di ordine teorico. In primo luogo, la teoria di Adorno e collaboratori (1950) coglie soltanto le differenze individuali nella condivisione di idee fasciste o razziste e non l'origine di tali idee. Da questo punto di vista, pertanto, il contributo di Adorno non può essere inteso come un vero modello in grado di spiegare la genesi del pregiudizio (Brown, 1995). A questa critica, si aggiunge la difficoltà di conciliare un approccio individuale al pregiudizio con la pervasività e l'uniformità di questo entro certi gruppi sociali. In altre parole, spiegare il pregiudizio nell'ordine di differenze di personalità interindividuali non consente di comprendere a pieno perché in alcuni contesti il pregiudizio sia fortemente consensuale. Si pensi per esempio alla Germania nazista: l'antisemitismo e l'intolleranza verso le minoranze erano così pervasivi da coinvolgere certamente persone molto diverse fra loro e con profili di personalità differenti. Inoltre, la personalità autoritaria non è in grado di cogliere la fluttuazione del pregiudizio nel corso della storia. Se infatti, da un lato, un approccio individuale al pregiudizio non consente di spiegare la pervasività del fenomeno entro certi contesti, dall'altro lato, è difficilmente in grado di chiarire le fluttuazioni dell'ostilità verso alcuni gruppi nel corso del tempo. Per esempio, nella Germania nazista l'antisemitismo crebbe nell'arco di un decennio, un periodo troppo breve affinché un'intera generazione di famiglie tedesche possa aver adottato pratiche educative capaci di generare bambini autoritari con pregiudizio (Brown, 1995). L'insieme di queste evidenze rende pertanto molto fragile l'approccio della personalità autoritaria. Inoltre, le critiche relative alla natura consensuale e alla specificità storica del pregiudizio minano più in generale l'approccio individuale e altri modelli ispirati dalla personalità autoritaria (Rokeach, 1956). ### 1.2.2 1960-1990: la natura ordinaria del pregiudizio Una cornice marcatamente differente è invece rintracciabile negli studi realizzati fra gli anni Sessanta e Novanta, ove, abbandonata la prospettiva individuale, il pregiudizio è inquadrato come esito di normali processi cognitivi e motivazionali. Pertanto, sia la categorizzazione sociale (Tajfel, Wilkes, 1963) sia l'appartenenza di gruppo e l'identità sociale (Tajfel, Turner, 1979) sono ritenute fondamentali nell'attivare la discriminazione verso gli outgroup. Da un punto di vista cognitivo, la complessità della realtà circostante richiede l'impiego di strategie di semplificazione che consentano alle persone di muoversi al suo interno in modo efficace (Tajfel, 1981). Ordinare l'ambiente in differenti categorie mediante un processo di categorizzazione, se consente di ridurre la quantità di informazioni da elaborare, dota anche di significato stimoli ambigui o poco informativi attribuendo a essi le caratteristiche proprie delle categorie cui appartengono (Oakes, Haslam, Turner, 1994). La categorizzazione rappresenta, pertanto, un processo ineludibile dell'esistenza umana per la conoscenza del mondo (Bruner, 1957) e, sia nella prospettiva di Allport (1954) sia in quelle più recenti (Tajfel, 1969), costituisce il precursore di ogni forma di pregiudizio. Una simile affermazione evidenzia la natura ordinaria e comune del pregiudizio che, oltre a costituire il modello attualmente più accettato in ambito psicosociale (Dovidio, Glick, Rudman, 2005), si distanzia anche nettamente da quei filoni di ricerca che lo riconducono a espressione di una particolare struttura di personalità (Adorno, Frenkel-Brunswik, Levinson, Sanford, 1950). La categorizzazione sociale, infatti, coinvolgendo le persone, divide l'ambiente sociale in "noi" (ingroup) e "loro" (outgroup), sulla base dei medesimi processi implicati nella categorizzazione di stimoli fisici. Come vedremo meglio nel capitolo 6, i celebri esperimenti di Tajfel, Flament, Billig e Bundy (1971) hanno dimostrato che la semplice appartenenza a un gruppo può costituire di per sé condizione sufficiente a suscitare una forma embrionale di pregiudizio, caratterizzata da un trattamento differenziale e più favorevole dei membri dell'ingroup rispetto a quelli dell'outgroup. Simili risultati sono riconducibili secondo gli autori a un processo intergruppi secondo il quale la dicotomia noi vs loro conduce a una percezione di discontinuità fra gruppi che genera discriminazione a favore dell'ingroup sulla base dell'assunto che è meglio far "vincere" il proprio gruppo rispetto a un altro. Nei primi anni Settanta, Tajfel giunge a ipotizzare che la categorizzazione sia una condizione necessaria ma non sufficiente a generare discriminazione intergruppi e considera a tale fine decisivo il ruolo dell'appartenenza di gruppo. Gli individui, infatti, oltre a dividere la realtà sociale in noi vs loro, hanno anche bisogno di sapere se il gruppo cui appartengono è migliore di altri (Tajfel, 1972). Così gli individui hanno bisogno di valutare i gruppi o le categorie sociali a cui appartengono nel tentativo di cogliere una differenziazione o specificità positiva del proprio gruppo. Il raggiungimento di tale distinzione positiva costituisce il fondamento della teoria dell'identità sociale (Social Identity Theory, SIT) (Tajfel, Turner, 1979; capitolo 6) che ha matrice motivazionale, in quanto volta a un incremento della stima di sé attraverso la differenziazione positiva del proprio gruppo. Da questo punto di vista, la discriminazione intergruppi è l'esito, oltre che dei processi di categorizzazione, anche della necessità di identificarsi in termini positivi con il proprio gruppo e di trarre da tale appartenenza elementi qualificanti per la propria identità in grado di enfatizzare la stima di sé. In questa seconda fase il pregiudizio viene altresì riconosciuto come fenomeno di gruppo. In altre parole, in linea con le formulazioni contenute nella Natura del pregiudizio di Allport, il pregiudizio è inteso come orientamento nei confronti di categorie complessive di individui piuttosto che di singoli (Tajfel, 1981). Così, anche quando il pregiudizio è rivolto concretamente verso un singolo individuo, le sue caratteristiche personali hanno poca rilevanza rispetto a quelle che lo collocano in un gruppo piuttosto che in un altro (per es., il colore della pelle, il sesso, l'orientamento sessuale). Questa svolta concettuale è stata inoltre ulteriormente rafforzata dalla constatazione che il pregiudizio è anche socialmente condiviso. In altre parole, in un dato contesto, è possibile individuare un numero elevato di persone con alti livelli di pregiudizio verso uno specifico gruppo e i suoi membri. Pertanto il pregiudizio rappresenta un fenomeno pervasivo e diffuso che difficilmente può essere spiegato invocando la psicopatologia individuale. La seconda fase di studio del pregiudizio si sviluppa in un clima storico-politico caratterizzato dalla crescente condanna sociale all'adesione a ideologie pregiudizievoli. Così gli anni Sessanta e Settanta sono contraddistinti da importanti battaglie politiche, sociali e culturali per il riconoscimento dei diritti civili ai gruppi tradizionalmente discriminati. Tali mutamenti hanno contribuito a ridurre l'espressione manifesta del pregiudizio, rendendola socialmente inaccettabile e normativamente sanzionabile. Le evidenze di un declino del pregiudizio sono tuttavia risultate più apparenti che reali, dal momento che la condanna sociale e legale dell'espressione manifesta di atteggiamenti ostili verso gli outgroup ha favorito il ricorso a forme di espressione più indirette, politicamente corrette e socialmente accettabili. In questa fase, pertanto, viene avanzata la possibilità che il pregiudizio, oltre ad avere una componente manifesta, può assumere forme più indirette e sottili che talvolta agiscono al di fuori della consapevolezza dell'individuo. Una molteplicità di teorie si sviluppa così, a partire dagli anni Ottanta, al fine di definire le caratteristiche delle forme più nascoste del pregiudizio, che saranno meglio descritte nel capitolo 2. ### 1.2.3 1990 fino a oggi: multidimensionalità del pregiudizio L'insieme delle teorie volte a cogliere le forme più indirette di pregiudizio costituisce il retroterra della terza fase di studio iniziata negli anni Novanta e tuttora in corso. Questa fase è caratterizzata dalla predisposizione di misure in grado di cogliere le componenti meno manifeste del pregiudizio, misure basate su tempi di reazione e tecniche neuroscientifiche che saranno descritte nel dettaglio nel capitolo 3. La terza fase è altresì caratterizzata dal considerare il pregiudizio non solo come un sentimento di antipatia (Allport, 1954), ma come un costrutto che può coinvolgere in modo più ampio giudizi e credenze, emozioni e comportamenti. A fine anni Novanta, infatti, è stata più precisamente rilevata la natura multidimensionale del pregiudizio inteso come atteggiamento complessivo caratterizzato da un nucleo di credenze, articolato con l'espressione di specifici sentimenti e condotte ostili-discriminatorie (Dovidio, Brigham, Johnson, Gaertner, 1996; Fiske, 1998). Se, dunque, negli anni più recenti è stata posta un'attenzione crescente alle forme sottili e nascoste dell'ostilità fra ingroup e outgroup, sono state anche maggiormente considerate le determinanti emotive e comportamentali del pregiudizio e come queste interagiscono con le componenti più cognitive. La componente cognitiva del pregiudizio, nello specifico, è il prodotto diretto della categorizzazione sociale. Questa, infatti, favorisce l'attivazione di stereotipi sociali, intesi come l'insieme delle caratteristiche ritenute tipiche di una categoria sociale (Tajfel, 1981), che possono assumere valenze sia positive sia negative (vedi capitolo 5). L'etimologia stessa del termine "stereotipo", che rimanda al calco utilizzato nei procedimenti di stampa per la riproduzione di modelli o figure sulle pagine (Lippmann, 1922), consente di coglierne le qualità peculiari, ovvero la ripetitività e resistenza al cambiamento, anche nel caso esso induca a conclusioni del tutto improprie. Gli stereotipi diventano propriamente sociali, cessando di essere unicamente cognitivi, quando vengono condivisi da molte persone all'interno dei gruppi sociali e sono radicati nella loro cultura interna. In questo quadro, gli stereotipi, oltre a semplificare l'ambiente sociale, consentono anche di difendere i propri sistemi di valori e di giustificare azioni collettive, talvolta negative. Ciò permette, dunque, di cogliere lo stretto legame fra pregiudizio e stereotipi, che, in una concezione tricomponenziale, rappresenta appunto il nucleo cognitivo del pregiudizio e favorisce la manifestazione di atti discriminatori verso i gruppi diversi dal proprio. Tali azioni discriminatorie, oltre a derivare da specifici stereotipi, sono anche guidate da reazioni emotive nei confronti dei membri dell'outgroup. Le emozioni provate verso gli outgroup definiscono la seconda componente del pregiudizio, quella emotiva. Le caratteristiche di tali emozioni dipendono dal tipo di relazioni intergruppi, le quali, proprio perché complesse, generano valutazioni che rimandano a differenti emozioni, talvolta di valenza opposta. Come descritto meglio nel capitolo 7, infatti, diversi aspetti di uno stesso evento possono suscitare emozioni divergenti. Così, in seguito all'attacco alle Torri gemelle, la popolazione americana ha provato sia rabbia sia disprezzo per quanto accaduto, ma anche orgoglio collettivo per il rischioso lavoro effettuato dai vigili del fuoco. Riconoscere che gli eventi intergruppi possono generare differenti emozioni, talvolta di valenza opposta (Fiske, Cuddy, Glick, Xu, 2002), introduce la questione dell'ambivalenza emotiva che, come vedremo meglio nel capitolo 2, ha importanti implicazioni nella genesi delle forme nascoste del pregiudizio. Le emozioni provate verso gli outgroup determinano inoltre specifiche condotte discriminatorie, che costituiscono la terza componente del pregiudizio. Tali condotte dipendono fortemente dalle emozioni suscitate dagli outgroup. Per esempio, mentre sentimenti di rabbia sfociano in reazioni di attacco, la paura genera condotte di evitamento (Smith, Mackie, 2006). Queste risposte comportamentali assumono forme diverse tra cui lo scontro e l'aggressione fisica, l'evitamento del contatto o la denigrazione verbale. Circa la discriminazione verbale è stato sottolineato (Fiske, 2004) che, anche se essa in apparenza sembra priva di gravi conseguenze, crea però un clima ostile che può aprire la strada a conflitti ben più gravi. L'impiego di etichette a valenza negativa sollecita e facilita condotte discriminatorie, sia in situazioni di conflitto sia al di fuori di contesti conflittuali. Allo stesso modo anche l'evitamento, se può non apparire in grado di generare esiti negativi, preclude però le interazioni, isola gli individui e facilita l'abbandono sociale. In accordo con le prime formulazioni di Allport (1954), l'assenza di conoscenza reciproca è ritenuta una delle cause del pregiudizio. Se la mancata conoscenza dei membri di un gruppo esterno comporta l'applicazione a essi degli stereotipi che caratterizzano l'intero gruppo, l'evitamento può favorire l'insorgere di un circolo vizioso che incrementa la discriminazione. La storia umana documenta, inoltre, molteplici episodi di violenza fisica interpersonale e di gruppo che, nei casi più estremi, sono sfociati in massacri e genocidi. La definizione di un gruppo in base a tratti estremamente negativi può generare e giustificare comportamenti ostili estremi, che possono giungere alla segregazione, alla distruzione e all'annientamento del gruppo (vedi il capitolo 11 sui processi di deumanizzazione). Eventi tragici della storia recente come la Shoah, la repressione delle minoranze etniche nella Russia di Stalin e i genocidi in Cambogia e in Ruanda ne sono le testimonianze più emblematiche. ### 1.3 Conclusioni Alla luce delle considerazioni fin qui esposte, appare chiaro che la definizione di pregiudizio proposta inizialmente da Allport è per molti versi limitata, sebbene alcune sue intuizioni siano ancora largamente condivise. Per questo motivo ci permettiamo di proporre a conclusione di questo capitolo una nuova definizione di pregiudizio, che tiene conto delle intuizioni di Allport e dell'evoluzione storica del costrutto dagli anni Cinquanta a oggi. Così il pregiudizio può essere inteso come: Un atteggiamento a valenza prevalentemente negativa verso un individuo semplicemente sulla base della sua appartenenza a un gruppo sociale. Dal momento che il pregiudizio è un atteggiamento, esso è caratterizzato da una componente cognitiva (ovvero gli stereotipi) che racchiude l'insieme di credenze positive e negative ritenute tipiche dei membri di un determinato gruppo. Accanto agli stereotipi, il pregiudizio è contraddistinto dall'espressione di specifiche emozioni, che ne costituiscono la componente affettiva. Infine, il pregiudizio è in molti casi caratterizzato da condotte ostili e discriminatorie, che possono essere manifeste o talvolta più sottili e subdole. Il pregiudizio è altresì pervasivo e radicato nel tessuto sociale: è pertanto un fenomeno di gruppo ed è esito di processi cognitivi e motivazionali che operano nella quotidianità. In sintesi, se penso che i membri di un gruppo siano stupidi e violenti, sto impiegando degli stereotipi per descrivere tale gruppo. Se sulla base di tali credenze provo paura, sto sperimentando delle emozioni intergruppi. Infine, se sulla base di tali credenze ed emozioni decido di non salire sul taxi guidato da una persona appartenente a quel gruppo, allora sto compiendo, a livello comportamentale, una discriminazione. L'insieme di quanto descritto è la manifestazione di un atteggiamento pregiudizievole. Nei capitoli seguenti vedremo nel dettaglio le forme manifeste e quelle più sottili di pregiudizio, le misure impiegabili per rilevarlo, così come i processi che determinano l'insorgenza di tali atteggiamenti.

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