Capitoli 1-2 sul Cinema: PDF
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Questo documento discute la periodizzazione del cinema, dalla sua nascita fino al cinema moderno e postmoderno. Il focus è posto sulle caratteristiche del cinema nel tempo, includendo le tecnologie e i cambiamenti sociali. Analizza vari approcci alla comprensione di come il cinema sia cambiato e come i teorici e gli storici del cinema hanno descritto tale cambiamento.
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1) TRA "COMPLESSO DELLA MUMMIA" E "SINDROME DI FRANKENSTEIN" La periodizzazione accettata dagli storici del cinema distingue tre macro periodi: Il cinema delle origini (1895-1915); il cinema classico (dalla seconda metà degli anni Dieci agli anni Cinquanta); il cinema moderno (...
1) TRA "COMPLESSO DELLA MUMMIA" E "SINDROME DI FRANKENSTEIN" La periodizzazione accettata dagli storici del cinema distingue tre macro periodi: Il cinema delle origini (1895-1915); il cinema classico (dalla seconda metà degli anni Dieci agli anni Cinquanta); il cinema moderno (dagli anni Cinquanta in poi). È uno schema generale con periodi interni che mettono storici e critici del cinema in disaccordo (ex. neorealismo). Lo schema generale mostra tuttavia complicazioni e incertezze come per esempio quando sia effettivamente iniziata la storia del cinema propriamente detto e quando il periodo in cui ci troviamo ora. Molti sostengono che gli anni 70 siano stati una svolta importante→ il postmoderno: indica la fine della modernità e l’inizio di una nuova fase non ben identificabile, ma in forte opposizione al passato. Si ritiene che con la fine della modernità termini la storia e che con il postmoderno non si è collocati in una linea di progresso continuo. Nell’arte ciò che segna il passaggio tra moderno e postmoderno è la fine della “tradizione della rottura”, che sostiene che il progresso artistico si sia poggiato su una tradizione di nuovi stili, superati da altri e altri ancora in seguito a rivoluzioni. Con il postmoderno si sostiene che tutto sia già stato detto e fatto e non sia possibile in futuro il continuo superamento, che la modernità sia terminata, non si sa quando però. C’è chi sostiene che la sua fine coincida con la bomba atomica di Hiroshima; in Italia c’è chi parla di anni 50 e 60 con il boom economico; in relazione al cinema c’è chi pone come riferimento il 1977, anno in cui è uscito Star Wars di George Lucas, primo film realizzato con il sistema sonoro Dolby-stereo (tesi di Laurent Jullier) Secondo Jullier, la differenza tra cinema moderno e postmoderno è che il primo produce senso, vuole essere capito, è un piacere intellettuale, il secondo produce sensazioni, vuole essere sentito con forme e colori che generano piacere. Il cinema postmoderno per Jullier induce sensazioni fisiche che non sono dovute per forza a verità, si tratta di stimolazione sensoriale e conta lasciarsi "colpire" dall'immagine piuttosto che crederla vera. Con Star Wars c’è un primo passo verso l’annullamento della distanza tra film e spettatore e il passaggio dalla comunicazione alla completa fusione che ha raggiunto il picco con il 3D che permette ancora di più di sentire l’immagine indipendentemente se creduta vera o meno. I processi che fanno finire la modernità e entrare nella postmodernità (dal conoscere al sentire) hanno subito una forte accelerazione + il cinema di una volta non esiste più. Francesco Casetti dice di considerare l’esperienza cinematografica di oggi come completamente diversa da quella che si faceva negli anni 20 o 60, perché cambiano anche i modi di consumare i film: oggi per esempio si può benissimo vedere un film da casa, tramite la televisione, il computer o il telefono e la sala è diversa, non è più luogo di socializzazione come tempo fa, non è più collocata in luoghi accessibili, ma è un luogo in cui si forniscono servizi e si trova in periferia e non a caso nei centri commerciali. Ma lo scarto principale tra il cinema del passato e quello di oggi (o cinema due) è nel modo di produrre immagini: il primo passa per il dispositivo fotografico, il secondo ne può fare a meno grazie al digitale, che permette di realizzare effetti speciali, creare cose che non esistono in natura e di fare a meno della realtà. Quello che vediamo non necessariamente è passato davanti alla cinepresa, ma è nato grazie ad algoritmi al computer. Per esempio la saga di Star Wars prima del digitale usava per Jabba the Hutt un pupazzo di lattice concreto, reale, che la macchina da presa inquadra, ma nel 1997 quando il film viene ridistribuito nelle sale, Lucas ha apportato modifiche e Jabba non è più un pupazzo, ma un algoritmo. Il cinema smette di essere portatore di realtà concreta e può fare a meno di essa. Allora che scopo ha il cinema? Ce lo si chiede da quando è nato. Dalle prime recensioni della prima proiezione pubblica dei film dei fratelli Lumiere dove si parla di cinema come riproduttore di realtà che elude lo scorrere del tempo e restituisce vita girando una manovella. Nöel Burch ha notato che i due quotidiani che parlarono della serata al salon Indien sottolinearono la capacità del cinema di riscrivere il rapporto tra uomo e morte→ «Le Radical» (30 dicembre 1895) dice che qualsiasi sia la scena ripresa e i personaggi rappresentati, li si riesce a vedere a grandezza naturale e ciò che li circonda è una perfetta riproduzione del reale, dunque se già era possibile riprodurre parole, ora si poteva riprodurre anche la vita e vedere i propri cari anche dopo averli perduti. Su un altro giornale si legge: quando sarà disponibile a tutti e si potranno fotografare i propri cari in movimento, allora la morte cesserà di essere assoluta. Ricciotto Canudo dice che il cinema, registrando la realtà, celebra l’uomo nel suo trionfo dell’effimero e la morte. Terminata la seconda guerra mondiale, per fare i conti con le milioni di vittime, il cinema diventa un mezzo di responsabilità che vuole rispondere alla loro scomparsa. André Bazin, in uno studio “Ontologia dell'immagine cinematografica” ritiene che il cinema risponda a «un bisogno fondamentale della psicologia umana: la difesa contro il tempo», un bisogno così radicato nell'uomo da diventare un complesso, il «complesso della mummia». La fotografia e poi il cinema hanno salvato l’uomo con l’apparenza, fermando il tempo, creando «un'impronta digitale», «un calco» (esemplificazione nella Sacra Sindone di Torino). Nel 1946, a partire da diversi riferimenti culturali, nello studio “L'erede”, Sergej Ejzenstejn riconosce le radici del cinema nelle mummie egizie, nei calchi delle maschere funerarie romane, nelle piramidi. Per lui il cinema e la fotografia esprimono il desiderio di immortalità. Burch rifletterà sulla «suprema fantasia» di vincere la morte, cui il cinema risponderebbe, sullo sfondo tecnico-scientifico del positivismo, e preferendo l’espressione «sindrome di Frankenstein». Il confronto diretto con la morte risiede tra le prerogative del cinema, che per Bazin ed Ejzenstejn è un complesso così antico da poter essere nato con l'uomo stesso (il complesso della mummia), e che per Burch risponde a un'esigenza borghese (la sindrome di Frankenstein). Per tutti e tre il cinema è capace di vincere la morte, reiterare il presente e immortalare ciò che filma e che a ogni proiezione sembra rinascere sullo schermo. Con il digitale la prerogativa della morte viene meno dato che sullo schermo vediamo cose che non sono passate necessariamente davanti alla cinepresa che non rispondono più alla necessità dell'uomo di fermare il tempo. L'immagine digitale, non più traccia del reale (sebbene conservi realismo→ dibattito contemporaneo sul digitale), è incapace di rispondere sia al «complesso della mummia» che alla «sindrome di Frankenstein». Se il cinema aiutava l'uomo a non morire, è stato esso stesso soggetto al potere della morte: storici del cinema e archivisti del film sostengono che oltre l'80% della produzione muta mondiale è andata persa e che quello che si è conservato ha attraverso una lunga storia prima di entrare in archivio, storia che l’ha spesso modificato profondamente→ Dobbiamo essere consapevoli che gran parte del cinema del passato non è più reperibile e che quel che si è conservato ci è giunto in una forma spesso lontana da quella originaria. 2) IL CINEMA DELLE ORIGINI Il meccanismo tecnologico alla base del cinema viene inventato alla fine dell'Ottocento e all’inizio veniva inteso come uno strumento scientifico utilizzato per studiare movimenti impercettibili. Importanti sono gli esperimenti di Eadweard Muybridge che con un sistema di macchine fotografiche multiple capaci di fissare l'istante, rivela aspetti della realtà nuove all’uomo→ Nel 1879 il mondo è incredulo di fronte alle sue fotografie di un cavallo al galoppo, ottenute grazie a 24 macchine fotografiche equidistanti in fila, azionate in successione dal passaggio dell'animale. Il suo lavoro ispira il fisiologo francese Etienne-Jules Marey che, per studiare il movimento degli uccelli, elabora un fucile fotografico capace di impressionare in un secondo dodici fotogrammi. Il suo dispositivo rispetto a quello di Muybridge, beneficia di un unico punto di vista, quello del solo obiettivo utilizzato. Il cinema si sviluppa su una duplice dinamica: l'analisi del movimento attraverso materiale fotografico (Muybridge e Marey); la sua riproduzione su uno schermo→ significativo il contributo del francese Emile Reynaud che, con il suo Praxinoscopio (1892) fa proiezioni pubbliche di piccole storie dipinte a mano su nastri flessibili. Il Praxinoscopio è un'evoluzione dello Zootropio di qualche decennio prima, un cilindro aperto con fessure con nella parete interna una banda di cartone con una successione di immagini disegnate, corrispondenti al numero di fessure e l’animazione del soggetto si ottiene facendo ruotare il cilindro con al centro un perno. Il Praxinoscopio mantiene la struttura a cilindro aperto e la banda disegnata all'interno, ma al posto delle fessure nella parete c’è un prisma dotato di un numero di specchi pari alle immagini disegnate che riflette il movimento ottenuto con la rotazione. Reynaud lo unisce a una lanterna riuscendo a proiettare le immagini dipinte su un grande schermo. Tuttavia affinché si arrivi a imprimere il movimento a immagini fotografiche si dovrà aspettare l'avvento del cinema. Un passo in avanti verso la creazione del macchinario cinematografico è stato fatto da Thomas Edison che progetta un apparecchio che riprende immagini istantanee da un unico punto di vista e attraverso un'unica lente, un processo simile a quello di Marey, e sfrutta l'idea della pellicola flessibile, introdotta sul mercato da George Eastman. Tale sperimentazione è stata ideata e finanziata da Edison e viene svolta da un suo collaboratore, William Dickson, che taglia la pellicola in nastri larghi 35 mm, facendo 4 perforazioni su entrambi i lati di ogni fotogramma per trascinare la pellicola all'interno della macchina da presa da ruote dentate→ è lo lo standard tuttora in voga e i primi film di Edison possono essere visti anche con un moderno proiettore. Secondo Charles Musser, il Kinetoscope messo a punto da Dickson nel 1892 può essere considerato la prima macchina moderna per la fotografia animata, dato che utilizza la pellicola in modo simile a come sarà adoperata dal cinematografo dei Lumière. C’è una differenza importante tra il Kinetoscope e il Cinématographe: il primo consente di assistere alla visione (1 min film) uno spettatore alla volta; il secondo proietterà per il pubblico e si imporrà in breve tempo per questo. Tuttavia dal 1894 i Kinetoscopes conoscono un'enorme diffusione e per rifornirle, Edison stipula contratti con artisti del "mondo delle attrazioni": il forzuto Sandow, una danzatrice spagnola, una contorsionista, un funambolo, giocolieri, trapezisti…gatti che fanno pugilato, orsi e cani che ballano, galli da combattimento, cagnolini che fanno il salto mortale ecc. Si tratta di attrazioni, realtà sensazionali, straordinarie che catturano l'attenzione senza attivare rilevanti dinamiche narrative. Le riprese avvengono in una struttura con un tetto apribile e montata su rotaie in modo che possa seguire la luce del sole. Gli artisti si esibiscono in un cono di luce che illumina la loro figura e lascia nell'oscurità lo spazio circostante. Questi film non presentano un ambiente ma un luogo di esibizione, un palcoscenico. Il Kinetoscope ha un enorme successo ma diventa chiaro che il futuro della fotografia è nella proiezione delle immagini su schermo. Sebbene a novembre del 1895 i fratelli Skladanowsky allestiscano in un teatro a Berlino uno spettacolo di 15 minuti su schermo, a imporsi sui mercati internazionali è la macchina dai fratelli Lumière, che piccola e maneggevole, consente con pochi aggiustamenti, sia la ripresa che la proiezione. Il 28 dicembre 1895 a Parigi avviene la prima proiezione pubblica a pagamento dei Lumière: in 25 minuti vengono proiettati 10 film di circa un minuto l'uno→ Da questa proiezione si fa iniziare la storia del cinema. Lo spettacolo delle origini era costituito nei primi anni da film composti da una sola inquadratura o veduta, con la macchina da presa nella stessa posizione e l'azione che si svolgeva nel tempo di un'unica ripresa; i gestori delle sale acquistavano più vedute e le assemblavano a piacimento, inserendole in uno spettacolo di varietà più ampio, dove il cinema era un'attrazione tra le tante; il film era accompagnato da musica e veniva introdotto e spiegato da un imbonitore che sarà sostituito negli anni dopo da titoli e didascalie. La ricerca sul cinema delle origini deve ringraziare il convegno a Brighton (1978) quando vengono proiettati circa 600 film (1900 - 1906) provenienti da cineteche di tutto il mondo: ha spinto i ricercatori a chiedersi se, e in che misura, le vedute di inizio secolo potessero essere considerate cinema. Burch si interrogò tra i primi sulla distinzione tra il cinema delle origini e quello successivo mentre teneva corsi alla NYU negli anni Settanta e in saggi pubblicati negli anni Ottanta, racchiudendo le sue considerazioni in “Il lucernario dell'infinito” dove sostiene l'esistenza di un «Modo di Rappresentazione Primitivo», individuabile nei tratti caratteristici di moltissimi film compresi tra il 1895 e il 1906-1908, biennio in cui ha inizio la sua erosione a causa di una concezione del montaggio nata all'interno dei film primitivi più sperimentali. Ci fu in seguito uno sconvolgimento estetico sfociato negli anni 20 nel «Modo di Rappresentazione Istituzionale». La scelta lessicale di cinema primitivo oggi è visto di mal occhio in quanto figlia di una traduzione evoluzionistica della storia del cinema che da una fase primitiva si svilupperebbe verso una fase più maturità, ma è indubbio che Burch abbia messo in crisi il lavoro di molti storici delle generazioni precedenti→ che esistesse un solo linguaggio cinematografico, una sola modalità di costruzione e concatenazione delle immagini “naturale”, ovvero connaturata al mezzo, che sarebbe prevalsa su altre opzioni grazie alla sua naturalezza e grado di adeguamento a una presunta specificità del cinema. Burch sostiene che i codici del linguaggio cinematografico istituzionale non hanno niente di naturale, ma sono di origine culturale, li concepisce come il prodotto di una data società in un determinato momento storico, in questo caso della società occidentale capitalistica d'inizio Novecento. Burch sostiene ad esempio che il primo piano non era da sempre implicito in attesa di qualcuno che lo scoprisse. Il passaggio dal Modo di Rappresentazione Primitivo al Modo di Rappresentazione Istituzionale e la nascita del primo piano, avviene quando l'industria cinematografica, per allargare il suo pubblico, mette a punto codici linguistici che rispondono alle loro necessità culturali. Al contrario, il cinema delle origini si rivolgeva alle classi popolari con uno spettacolo pre-borghese in un ambiente pieno di fumo, cattiva aerazione, sudore, sedie scomode, persone incivili non adatto a persone per bene (borghesi), ma solo agli strati popolari, come ci fa capire “Let Me Dream Again” (Fammi tornare a sognare, 1900) di George Albert Smith: un uomo e una donna festeggiano, bevendo e fumando, ma nella seconda veduta capiamo che si tratta di un sogno e l'uomo si risveglia nel letto coniugale a fianco di una moglie brutta e scorbutica. Questo film viene presentato al pubblico del cinema delle origini come un attrazione ed è oggetto di risate ≠ borghese. Tuttavia ci si accorge presto che un pubblico popolare è troppo povero per offrire una base sicura a un'espansione industriale, dunque era necessario un nuovo pubblico e il conseguente imborghesimento dei contenuti (= l'attività cinematografica passa da artigianale in industriale consentendo al cinema una poderosa espansione economica)→ radicale mutamento nel modo di rappresentazione (=linguaggio messo a punto per veicolare i nuovi contenuti). C’è stata una rottura assai più marcata nel passaggio tra il Modo di Rappresentazione Primitivo e il Modo di Rappresentazione Istituzionale che non in quello tra le pratiche spettacolari pre e post 1895. Avere una nuova tecnologia non rivoluziona necessariamente i comportamenti e le pratiche culturali e di solito ogni nuovo medium, nel suo debutto, riproduce i modi dei mezzi di comunicazione dai quali deriva→ oggi si preferisce studiare il cinema delle origini in relazione con ciò che l'ha preceduto piuttosto che con quanto l'ha seguito. Prima del convegno di Brighton, si elogiavano le figure e quelle pratiche che annunciavano anche solo velatamente il cinema successivo e si discreditavano quegli elementi del cinema delle origini che provenivano dal periodo precedente, chiamato "pre-cinema". Oggi si procede nella direzione inversa, infatti al posto di spingere il cinema delle origini verso quello istituzionale, si tende a metterlo in relazione al pre-cinema (prima dei Lumière). Per capire il cinema delle origini si deve uscire dai propri panni per calarsi in quelli dello spettatore dell'epoca e per facilitare la presa di coscienza, André Gaudreault suggerisce di usare termini ed espressioni in uso al tempo per descriverlo→ dire "fabbricazione di vedute animate" anziché "produzione cinematografica"; '"veduta" al posto di "inquadratura"; "esibitore" invece di "esercente" perchè il primo manipolava i film che presentava perché le pellicole venivano comprate e non noleggiate. A partire dal 1906-1908, si passa dalla vendita al noleggio dunque gli interventi da parte degli esibitori vengono meno. Prima sceglievano loro le vedute da mostrare e come comporre il programma, l’ordine di proiezione, rifà il montaggio dei film composti da più di una veduta, aggiunge un commento verbale e un accompagnamento musicale, non è semplice agente dello sfruttamento delle pellicole (esercente). È possibile dividere il cinema delle origini in tre periodi. 1895 - 1900: film di una sola veduta. 1900 - 1906/1908: + vedute, ma paratattico (=ogni veduta è accostata all'altra e il loro legame è labile). 1906/1908 - 1915: esperimenti verso la costruzione di più ferrei legami di causa ed effetto, dettati dalle ragioni della narrazione. Il primo periodo vede il minimo intervento di colui che filma→ Lo spettatore è stregato dal fascino del movimento, sufficiente a soddisfare il pubblico. Abbiamo le singole vedute registrate dal vivo dai fratelli Lumière. La ripresa di una veduta si effettua scegliendo un motivo (un gatto, due bambini, una parata militare, ecc.), una posizione per la cinepresa (lontana e frontale che consente la rappresentazione della totalità del motivo), un momento del giorno (luce, le vedute sono girate all'aperto). Fissati questi parametri, l'operatore gira la manovella dell'apparecchio senza fermarsi, fino all'esaurimento dei 17 metri di pellicola che la cinepresa contiene. Il risultato è un film di circa un minuto, 16 fotogrammi al secondo e costituito da un'unica veduta. Le platee di tutto il mondo sono rimaste colpite dal realismo della rappresentazione e dal movimento. Tuttavia i Lumière fanno fotografia animata e la loro attività non si situa all'inizio della storia del cinema ma nel prolungamento della storia della fotografia. I film di Méliès si collocano invece nella pratica del teatro popolare. Egli era infatti il proprietario di un teatro che organizzava spettacoli di prestigio, era un illusionista che decise di arricchire il suo spettacolo con alcuni film. Lo spazio della scena nei suoi film consiste nella ricostruzione di un teatro di posa e chiuso in profondità da una tela dipinta. La cinepresa è fissa e posizionata in modo da delimitare frontalmente il quadro con la scena costruita. Il suo spettatore è il vecchio spettatore teatrale. Il pro filmico si muove verso il punto di vista, come nell'allunaggio in Le voyage dans la Lune (r.l. Il viaggio sulla luna, 1902): la macchina da presa non va incontro alla Luna, ma è quest'ultima ad avvicinarsi alla macchina da presa. Il cinematografo è stato considerato per tanto tempo come semplice apparecchio di riproduzione capace di riprodurre produzioni precedentemente realizzate. Lo si usa per per registrare numeri di magia ad esempio e le vedute di Méliès rientrano in questa logica: riproducono i trucchi che eseguiva prima dell'avvento del cinematografo e facilitano il suo lavoro perché ora gli oggetti sparivano a una velocità impressionante ma sempre con la logico de teatro ed è per questo che non rappresenta un elemento di rottura: vedute non sono altro che il prolungamento della sua attività di mago sulla scena. Lumière e Méliès utilizzano il cinematografo in ambiti che praticano già da tempo: la fotografia (Lumière), il teatro popolare (Méliès). Solamente a partire dal 1906-1908 viene regolamentato un nuovo modo di esprimersi, destinato a imporsi sul vecchio: quello che Burch definisce il Modo di Rappresentazione Istituzionale. Istituzionale perché esercita un potere normativo che assoggetta gli individui a pratiche, regolamenta e sanziona, disciplina come esprimersi e implica un nuovo principio di economia narrativa, che prevede che ogni inquadratura mostri solo ciò che è utile al racconto. Il regista deve dunque mettere in scena gli elementi più importanti, isolarli, valorizzarli e organizzarli in inquadrature. Lo spazio dell'inquadratura non sarà più quel campo indifferenziato ma sarà contrario gerarchizzato, stratificato, centrato su un oggetto, su un viso, un avvenimento ben preciso, attraverso precise strategie di illuminazione, l'utilizzo di mascherini circolari neri, il lavoro sulla composizione dell'immagine, sugli angoli di ripresa, ecc. Se la scena delle origini è confusa e agitata (per noi), l'inquadratura che si impone verso la metà degli anni 10 orienta lo spettatore, è immediatamente decifrabile e non deve distrarre dall'essenziale. La nascita del nuovo linguaggio istituzionale coincide con quella del cinema propriamente detto. Il momento essenziale di rottura nella storia del cinema non è l'invenzione del procedimento per la ripresa di immagini in movimento, ma la costituzione dell' "istituzione cinema". Dopo il 1906-1908 Méliès cerca di adattarsi, ma non riesce perché è innanzitutto un mago, non un cineasta, poi l’istituzione regolamenta e sanziona, quindi Méliès finisce la sua carriera di cinematografista coperto di debiti. Uno degli aspetti che rivelano il cambiamento di atteggiamento degli storici dopo il convegno di Brighton, dove avviene la scoperta di un gran numero di film rimasti nell'ombra per quasi un secolo, riguarda il ruolo attribuito all'opera di David Wark Griffith nell'elaborazione e messa a punto del linguaggio cinematografico. Al convegno si è scoperto che Griffith non ha inventato i procedimenti o le tecniche cinematografiche di cui gli è stata attribuita la paternità (primo piano, campo-controcampo, montaggio alternato, ecc.): erano state utilizzate prima di lui dai cinematografisti della scuola di Brighton. Però quando presentano elementi innovatori (probabile sperimentazione), essi sono inscritti in una prospettiva attrazionale. Griffith non inventerà quasi nulla, ma mette a punto tecniche già sperimentate facendone un uso nuovo, inscritto nella logica del Modo di Rappresentazione Istituzionale. Uno spettacolo basato sull’attrazione, come spiega Tom Gunning, vuole affascinare lo spettatore giocando la carta del sensazionale: l'attrazione è «un elemento che spunta improvvisamente, richiama l'attenzione e poi sparisce senza sviluppare narrative». Secondo Gaudreault, i primi film rappresentano vecchie attrazioni attraverso un dispositivo nuovo e sono il principio dominante del cinema delle origini, all’attrazione si aggiungerà la narrazione con il cinema dell'istituzione. Il passaggio dal cinematografo al cinema avviene quando la narrazione integra l’attrazione che non scomparirà, ma sarà inglobata in un sistema narrativo. Nel cinema delle origini il discorso filmico è al servizio di attrazioni in un regime di pura dimostrazione. In questo primo periodo compaiono figure centrali nel linguaggio cinematografico successivo ma in un regime fondato sul principio dell'attrazione e non hanno dunque le stesse funzioni che assumeranno nel successivo sistema istituzionale. Il piano ravvicinato, ad esempio, nel cinema delle origini funge da ingrandimento, il che era di per sé un'attrazione per lo spettatore di allora→ caso emblematico è Grandma's Reading Glass (t.l. La lente della nonna, 1900) di George Albert Smith: un bambino, attraverso la lente d'ingrandimento della nonna, osserva un giornale, i meccanismi di un orologio da taschino aperto, un canarino in gabbia, l'occhio della nonna, un gatto. Il cinema delle origini tendeva a mostrare il personaggio a una cerca distanza e gli inserti ravvicinati di Grandma's Reading Glass (mostrati ingranditi, entro un mascherino nero rotondo) rappresentano un'eccezione in un contesto nel quale lo spettatore era abituato a una distanza "teatrale" tra sé e il mondo rappresentato. Tale particolarità non sfugge, però, alle logiche attrattive tipiche del cinema delle origini perché qui i piani ravvicinati funzionano da pura e semplice attrazione, senza implicazioni narrative. I cambiamenti di veduta di Grandma's Reading Glass operano in un senso esclusivamente descrittivo, finalizzato a soddisfare una pulsione scopica. Il Modo di Rappresentazione Istituzionale userà il piano ravvicinato per mettere in evidenza un dettaglio senza l’effetto di lente di ingrandimento: il suo scopo non sarà più mostrare un effetto sensazionale, ma operare una sottolineatura narrativa. Per fare ciò occorre che il piano ravvicinato sia integrato nel flusso narrativo. Ciò si verificherà nei film di Griffith prodotti dalla Biograph a partire dal 1908, nei quali i piani ravvicinati vengono sfruttati per approfondire la psicologia dei personaggi (meccanismi di identificazione dello spettatore) e per sottolineare effetti retorici o narrativi. Negli anni Dieci si inizierà a classificare i tipi di inquadrature e versioni della scala dei piani. Il cinema delle origini non è necessariamente un cinema senza racconto (sebbene non sia tra le sue finalità costitutive): quando racconta, lo fa secondo modalità proprie, dominate dall'autonomia della singola veduta ≠ da quelle che si utilizzeranno in seguito. Il cinema di Porter è emblematico per ciò. Il passaggio dal cinema delle origini a quello dell'istituzione determina un profondo cambiamento nelle relazioni tra il film e lo spettatore: nel primo ci sono uno spettatore che guarda e un attore che sa di esibirsi di fronte al pubblico, nel secondo viene negato il contatto diretto tra film e spettatore che verrà assorbito all'interno del racconto e invitato ad assumere una posizione di centralità, diventando però "invisibile" all'attore che si muove sullo schermo. Le strategie del cinema istituzionale coinvolgeranno lo spettatore nel «viaggio immobile» (come lo chiama Burch). Lo spettatore del cinema delle origini è esterno alla vicenda, non vive gli eventi rappresentati, sa di essere seduto in una sala a guardar passare delle immagini su uno schermo e non se lo dimentica perché la sua estraneità rispetto all'immagine era inscritta nelle condizioni di proiezione dato che i primi film venivano mostrati in luoghi pieni di fumo e di chiasso, con la gente che andava e veniva senza interruzione, l'imbonitore e la musica di commento svolgevano anche il compito di sorveglianti. Essi avevano la funzione di imporre ordine più che allo schermo alla sala, poi saranno sostituiti dal nuovo linguaggio istituzionale, capace di scaraventare ogni spettatore all'interno del mondo della finzione e renderlo il protagonista invisibile del film. Diversamente accade allo spettatore di The Great Train Robbery (t.I. La grande rapina al treno, 1903) film di Edwin S. Porter costituito da 13 vedute: prime 9 dedicate all'assalto al treno da parte di un gruppo di malviventi; la ultime 4 all'inseguimento e all'uccisione dei banditi da parte degli uomini dello sceriffo. A queste vedute se ne aggiunge poi 1, tipica del cinema delle origini, collocata all'inizio o alla fine del film, l’ emblematic shot. Come ha messo in luce Elena Dagrada, lo spettatore di questo film, «nonostante sia inquieto per l'esito dell'intrigo, non è triste per le sorti del telegrafista, né dispiaciuto per il fuochista (...) perché non sa nulla di loro», nè nome, né volto. Solo dopo qualche anno compariranno le prime didascalie con i nomi dei personaggi delle vicende narrate. La macchina da presa qui è così lontana dai volti che lo spettatore non si accorge che lo stesso attore interpreta più ruoli all'interno della storia. Per decenni The Great Train Robbery è stato osannato per aver anticipo sui tempi, ma oggi vediamo questo film come prodotto tipico del cinema delle origini. Lo è in riferimento alla distanza della macchina da presa, lo è in relazione al problema del montaggio. Solo quando si è iniziato a costruire film in più riprese, queste sono state pensate come segmenti di un intreccio complessivo. Più spesso le riprese venivano semplicemente giustapposte in modo paratattico: ognuna conservava una sua autonomia e una sua esaustività, tant’è che spesso le diverse riprese venivano vendute separatamente e potevano essere proiettate tutte o in parte, e persino in un ordine variabile. Per questo, nel caso di film delle origini costruiti con più riprese, dovremmo parlare di assemblaggio anziché di montaggio. Dall'assemblaggio si è passati al montaggio, e quindi dalla veduta all'inquadratura quando si è iniziato ad articolare i nessi semantici e di causa-effetto tra le diverse vedute, secondo procedimento ipotattico, che avrebbe condotto a un ordine delle vedute fissato una volta per tutte. Lo stesso anno Porter gira Life of an American Fireman (t.l. Vita di un pompiere americano, 1903). Il finale del film, dopo l'arrivo dei pompieri in una casa in fiamme, si concentra sul salvataggio di una madre e una figlia: siamo all'interno di una stanza al secondo piano, vediamo una donna urlare dalla finestra aiuto prima di svenire sul letto. Un pompiere entra nell'appartamento e cala la donna dalla finestra. Ritornato nella stanza in fumo, salva la bambina e insieme a un collega rientra per spegnere l'incendio. A questo punto Porter mostra in un'altra veduta gli stessi eventi ripresi dall'esterno dell'edificio: un diverso punto di vista della donna che chiede aiuto e del salvataggio. Per lungo tempo questo film è stato considerato perduto, se ne conoscevano pochi fotogrammi e la sceneggiatura riportata in un catalogo Edison. Da queste poche informazioni lo si era considerato un film anticipatore di quanto sarebbe venuto dopo, sperimentatore del montaggio. Negli anni 40, viene ritrovata una copia del film e quanto detto nel catalogo di Edison riguardo l’uso precoce del montaggio sembra vero→ nella copia rinvenuta il salvataggio di madre e figlia è articolato da un montaggio alternato: il film mostra lo stesso evento una sola volta alternando il punto di vista interno alla stanza al punto di vista esterno, come farebbe un regista odierno. Ma è probabile che su questa versione del film sia intervenuto un archivista che, giudicandola "sbagliata", ha corretto il montaggio secondo le regole dell'istituzione. Solo qualche anno fa è stata trovata nel Maine la copia corretta del film, caratterizzata da evidenti «sovrapposizioni temporali», tipico del cinema delle origini. Se la sovrapposizione temporale è manifesta in Life of an American Fireman (lo stesso evento si ripete due volte), si trova anche in The Great Train Robbery, in modo meno palese: qui la sovrapposizione del tempo non determina il ripetersi del medesimo evento. Lo spettatore odierno di The Great Train Robbery «ha difficoltà a collocare in un tempo narrativamente coerente i vari momenti della storia» a causa delle sue sovrapposizioni temporali. Gli pare poco credibile che, nonostante l'azione dello sceriffo entri in scena solo a partire dalla decima veduta, ciò non gli impedisca di raggiungere i banditi, di catturarli e di ucciderli. La sovrapposizione temporale più importante di The Great Train Robbery interviene nella decima veduta, dove il tempo del racconto si ripiega su se stesso sovrapponendosi a quello che intercorre tra la seconda e la nona veduta. L'azione che si svolge nella decima e nell'undicesima veduta è montata dopo che i banditi sono fuggiti, ma in realtà accade mentre si compie la rapina (anche se nulla nel montaggio ce lo suggerisce), ed è per questo che i buoni riescono a raggiungere senza difficoltà i cattivi nella dodicesima veduta. Il film racconta un evento sufficientemente complesso da richiedere il dispiegarsi di più azioni simultanee in luoghi diversi. Di fronte a questa necessità, Porter non alterna (come farebbe un regista di oggi) le immagini dei cattivi e le immagini dei buoni, prima mostra l'azione criminale nella sua interezza, poi recupera dall'inizio quanto accaduto nel frattempo al telegrafista e agli altri personaggi buoni. Fino alla dodicesima veduta, dove le due azioni si ricongiungono nell'inseguimento. Come spiega Dagrada, se Porter realizza il film in questo modo non è per mancanza di capacità, bensì perché obbedisce a un modo di rappresentazione diverso dal nostro. Se avesse alternato i due eventi avrebbe, secondo le modalità allora in uso, sbagliato. «A differenza nostra, il pubblico del 1903 capiva il film senza difficoltà per la sua familiarità con questo modo di raccontare e per la presenza di un imbonitore», che durante la proiezione commentava l'azione e chiariva l'identità dei personaggi: spiegando che la bambina della decima veduta è la figlia del telegrafista e che il personaggio che spara verso il pubblico nella 14^ veduta è il capo dei fuorilegge. La necessità di un imbonitore è dovuta al fatto che il film è privo di didascalie (compariranno qualche anno più tardi), e che il film mostra ogni azione in campo lungo. Le vedute raffigurano sempre la totalità dell'azione: sono entità autonome che, oltre a mostrare un'azione dall'inizio alla fine, includono in campo tutto ciò che si vuole mostrare. In questo modo, però, «tengono lo spettatore a distanza», rendendo difficile la comprensione e impedendo di identificarsi con i personaggi. Il loro contenuto è assimilato dallo spettatore di oggi solo dopo numerose visioni: le vedute non sono centrate, mostrano troppe cose contemporaneamente, alcune ai margini dell'immagine. Lo sviluppo successivo del linguaggio istituzionale dimostrerà l'inutilità dell'imbonitore che verrà integrato prima con le didascalie e poi eliminato dalla pratica di centrare i significati. Non vi è diretta derivazione dal Modo di Rappresentazione Primitivo al Modo di Rappresentazione Istituzionale. Un tempo si pensava che il secondo fosse lo sviluppo del primo più sofisticato e complesso, e si pensava che tale sviluppo avesse coinciso con la scoperta di una "grammatica" naturale del mezzo. Oggi sappiamo che è stata la modificazione del modo di produzione a determinare la modificazione della forma. E il modo di produzione muta quando da basi produttive artigianali viene creata una gigantesca industria dello spettacolo, sostenuta dall'allargamento del pubblico → L’aspirazione a conquistare la classe media definisce la politica della neonata industria cinematografica. Tale politica si applica nel miglioramento delle caratteristiche delle sale e nell'aumento del prezzo del biglietto, la collocazione davanti alle sale di uscieri in uniforme che ha come scopo quello di rassicurare i borghesi timorosi di risse e disordini provocati dal pubblico popolare. Per dimostrare che il cinema non è pericoloso (così si credeva per via dei molti incendi e stragi), ma che anzi può essere utile, l'industria comincia ad allestire spettacoli educativi e moralmente edificanti. Tra il 1907 e il 1908 le forme narrative (i drammi e le commedie) eclissano quelle "documentaristiche": nel 1909 i film narrativi coprono il 97% della produzione statunitense. Intorno al 1908 si sono poste le basi per un'ampia trasformazione del modo di produzione. Si delinea un nuovo pubblico, non più strettamente popolare come quello del cinema delle origini. È composito, ma tendente verso la classe media. Per attirarlo, si deve elevare il livello degli spettacoli, dimostrando l'utilità pubblica del cinema, di cui si esalta la funzione didattica e moralizzatrice. L'orizzonte narrativo è più adatto ai desideri culturali di questo nuovo pubblico (imparentato con le tradizioni del teatro drammatico e della letteratura). Rispetto all'imprevedibilità della forma documentaria, quella narrativa presenta un ulteriore vantaggio sul piano di un'economia industriale: consente di razionalizzare la produzione, standardizzarla e programmarla su base prevedibile. In questo contesto nasce il linguaggio cinematografico. 3) VERSO IL MODO DI RAPPRESENTAZIONE ISTITUZIONALE: IL CONTRIBUTO DI GRIFFITH 3.1. L'importanza di Griffith Il regista statunitense David Wark Griffith si affaccia al cinema nel 1907 a 32 anni, dopo un'altalenante carriera nel teatro; non più tanto giovane e non avendo riscontrato successo, non considerava minimamente la nascente arte cinematografica. Tuttavia, in pochi anni avrebbe rivoluzionato il modo di fare cinema, girato alcuni film destinati a fare scuola e sarebbe diventato leggenda, come sostiene il grande regista russo Ejzenstejn: «Griffith è Dio Padre. Tutto ha creato, tutto ha inventato». Per tanto tempo si è creduto che sia stato Griffith a inventare le principali tecniche del linguaggio cinematografico: il montaggio alternato, il primo piano, la recitazione naturale, il flashback ecc. Perché lui stesso ha contribuito a costruire questo mito, pubblicando nel 1913 un annuncio sul New York Dramatic Mirror in cui il suo manager dichiarava «ha rivoluzionato il dramma cinematografico e ha posto le basi della tecnica moderna di quest'arte. Fra le innovazioni da lui introdotte e ora adottate da quasi tutti i grandi produttori vi sono il piano ravvicinato, i campi Lunghissimi visti in Ramona, lo switchback (flashback], la suspense, la dissolvenza in chiusura e la sobrietà d'espressione». Griffith con questo annuncio voleva ribadire la propria autonomia creativa e mostrare di cosa era capace ai produttori che non gli permettevano di girare alle sue condizioni; si trattava di una dichiarazione strategica e militante. Alcuni storici del cinema del passato, vedendo la modernità dei suoi film e non avendo a disposizione copie della produzione precedente, presero le sue affermazioni alla lettera, presentandolo come un genio isolato che aveva inventato da solo un nuovo modo di fare cinema. Oggi, avendo a disposizione un più vasto accesso ai film e alle fonti, abbiamo ridimensionato l'importanza della ricerca delle "prime volte" sullo schermo perché non è tanto importante scoprire chi ha usato per primo una tecnica espressiva, quanto lo è capire quali siano stati i motivi estetici e narrativi per cui è nata, come si sia sviluppata e come sia gradualmente divenuta parte di un sistema espressivo coerente. Eppure, anche se i “suoi” primati sono stati molto ridimensionati, lo studio di Griffith è indispensabile per comprendere tutto il cinema precedente e successivo perché gli anni compresi tra il 1907 e la fine degli anni 10 sono quelli in cui si è imposto il Modo di Rappresentazione Istituzionale. È uno dei mutamenti più importanti nella storia del linguaggio cinematografico: cambia l'obiettivo del fare cinema, diventando quello di narrare più che quello di attrarre e di stupire; allo stesso tempo muta la relazione tra lo spettatore e lo spazio del film. Le due innovazioni sono legate tra loro: il nuovo modo di narrare risultava efficace perché lo spettatore era più libero e mobile nello spazio e non guardava più i personaggi da un punto di vista statico, al contrario, poteva rivolgere l'attenzione ora a un angolo della stanza ora a un altro, avvicinarsi a un viso, allontanarsi fino a un punto lontanissimo, addirittura viaggiare nel tempo. Tutto ciò grazie al montaggio e alle nuove tecniche di raccordo che permettevano al pubblico di sperimentare diversi punti di vista senza rimanerne confuso o spaesato. In una decina d'anni, il cinema è completamente diverso: il metraggio si allunga e dai film a una bobina si passa al lungometraggio; le storie raccontate diventano più complesse, variano i soggetti e nascono nuovi generi, si sperimenta l'illuminazione artificiale; la recitazione cambia anche perché le riprese si fanno più riavvicinate e serve mettere in risalto l’espressività di viso e mani, piuttosto che gestì troppo teatrali; nasce lo star system e il pubblico muta base sociale. Il cinema non è più solo divertimento da fiera, è di conseguenza molte sale si fanno lussuose ed eleganti. Questi cambiamenti sono avvenuti in meno di 10 anni. In quest'epoca di cambiamenti Griffith è stato il regista più rappresentativo nella sperimentazione di nuove forme di linguaggio e con il suo cinema assistiamo in diretta a questo mutamento epocale. I primi piani, il flashback e il montaggio alternato non compaiono nei suoi film per la prima volta, tuttavia prima di lui non erano mai stati così efficacemente al servizio di narrazione, psicologie complesse, di un nuovo modo di fare cinema. Spesso, per sottolineare l’importanza della produzione di Griffith, si è utilizzata la metafora di "grammatica" cinematografica. La sua opera racchiuderebbe le regole che strutturano il discorso del cinema narrativo classico: per riprendere un soggetto in movimento si ricorre al raccordo sul movimento, per rappresentare simultaneità di azione il montaggio alternato, la dissolvenza in apertura o in chiusura può corrispondere alla punteggiatura e un mascherino può porre l'accento su un preciso elemento dell'immagine. Ciò che si intende con grammatica cinematografica", è molto più flessibile e variabile rispetto alle regole linguistiche. Studiare i film di Griffith significa addentrarsi in un laboratorio di formazione di un nuovo sistema espressivo, comprendendone tecniche e logiche. 3.2. Il periodo Biograph Griffith Griffith nasce in una fattoria del Kentucky in una famiglia povera, sesto figlio di una donna severa e di un reduce della guerra di secessione. Il Kentucky non è uno stato secessionista, ma la contea in cui risiedono i Griffith simpatizza per il Sud. Jacob muore presto e trasmette al figlio l'attaccamento ai valori tradizionali e il senso di trauma da lui subito a seguito del crollo della società sudista. Questi insegnamenti influenzano il giovane David e i suoi futuri film. Alla morte del padre il ragazzo alterna lavoretti al mondo teatrale e nel mentre si fa una cultura che non si era riuscito a fare essendo povero. Esordisce al cinema per caso, come attore, perché aveva bisogno di soldi e desiderava tornare sul palcoscenico; in poco tempo nel 1908 Griffith passa dietro alla macchina da presa e ci rimane per tutta la vita. Dai suoi esordi fino al 1913 Griffith lavora come regista alla casa di produzione Biograph Co. America, la quale gira più di 450 film, la maggior parte di un solo rullo (un quarto d'ora). Per quanto i film della Biograph spazino tra i generi più diversi, restano caratterizzati da un'atmosfera comune dovuta a giovani attori affiatati, con future dive quali Mary Pickford e Lillian Gish; uno stile sobrio e innovativo di regia e montaggio; la fotografia del grande operatore Billy Bitzer, che affiancherà Griffith; un gusto per la natura, temi rurali, personaggi tradizionali in lotta con mutamenti negativi dell'avvento della modernità; eroine fragili ma dalla psicologia complessa. La grandezza di Griffith è nella coerenza con cui costruisce il suo sistema espressivo di film in film. Anche i suoi film meno riusciti insegnano sempre qualcosa come Ramona (1910) che non è un film perfetto: la recitazione è sopra le righe, le inquadrature d'apertura sono poco originali e lo svolgimento della storia inizialmente privo di particolari sfumature; eppure, all'improvviso, sullo schermo si apre l'immenso spazio delle catene montuose americane. Ecco che la storia di amore contrastato si trasforma nel dramma universale di un popolo continuamente scacciato dalla propria terra, Griffith svela allora tutta la sua sensibilità al paesaggio e al suo potenziale lirico, inventando un suggestivo campo lunghissimo per inserire i suoi personaggi nel contesto naturale, territorio negato che a loro apparterebbe di diritto. 3.3. The Lonely Villa (1909): il montaggio alternato e il "finale alla Griffith" Nel 1909 Griffith gira The Lonely Villa (t.l. La casa isolata, 1909), un thriller di dieci minuti che riscuote un enorme successo grazie al ritmo sostenuto, alla narrazione moderna, concatenazione degli eventi perfettamente scorrevole. Un uomo, ingannato da un finto telegramma, lascia moglie e figlie sole nella loro villa isolata; un gruppo di malviventi assale la casa, le donne si barricano in una stanza e la madre fa appena in tempo ad avvisare telefonicamente il marito del pericolo, prima che i fili dell'apparecchio vengano tagliati. Griffith ricorre al montaggio con grande libertà: la macchina da presa segue i personaggi passando da una stanza all'altra e raccordando sul movimento (all'uscita dei domestici), sullo sguardo (quando la donna guarda i ladri dallo spioncino) e sul suono (quando la bambina sente dei rumori fuori dalla casa). Griffith non vuole che il pubblico perda i riferimenti e quindi orchestra un prologo durante il quale chi guarda possa prendere dimestichezza con il setting spaziale della villa accompagnando nelle entrate e nelle uscite i camerieri in libera uscita, il bandito travestito e il padre; grazie a questa preconoscenza, al momento dell'aggressione è tutto familiare allo spettatore che può concentrarsi solo sul procedere della storia. Nella seconda parte del film, costruito uno spazio coerente, il montaggio osa di più intervenendo anche sul tempo e suggerendo relazioni di simultaneità tra le immagini attraverso la tecnica del montaggio alternato. Con ritmo adrenalinico, la macchina da presa ci mostra in alternanza tre azioni simultanee, destinate a ricongiungersi in un unico spazio-tempo: quella del padre angosciato che cerca di correre in aiuto della famiglia, quella delle donne in pericolo e quella dei malviventi in azione. Il montaggio alternato richiede uno spettatore capace di cogliere una relazione tra inquadrature meno intuitiva e come abbiamo visto con Life of an American Fireman, la simultaneità temporale non era scontata per il pubblico del primo cinema. Griffith, consapevole delle difficoltà, introduce la sequenza del salvataggio con un escamotage semplice ed efficace: l'alternanza tra le due linee narrative più distanti (il rientro del marito e la strenua resistenza delle donne) entra nel vivo grazie a una scena che le mette in relazione attraverso la comunicazione telefonica. Il dialogo tra i due protagonisti unisce i due spazi lontani, facilitando la comprensione dello spettatore. L’introduzione del telefono, una novità per il pubblico del 1909, celebra la modernità tecnologica che trova nel cinema massima espressione. Quando i banditi riescono ad abbattere la porta e ad assalire le donne, irrompono i soccorritori che arrestano i ladri. La famiglia, riunita, può infine tirare un sospiro di sollievo. L'ultima sequenza di The Lonely Villa rappresenta il prototipo del last minute rescue (o "finale alla Griffith"), destinato a diventare un marchio di fabbrica del regista: uno o più personaggi sono sotto la minaccia di un pericolo incombente mentre i soccorsi lottano contro il tempo per arrivare prima che sia troppo tardi. La macchina da presa mostra in alternanza le vittime allo stremo, gli assalitori sempre più prossimi e i salvatori spesso rallentati da continui contrattempi. È una formula efficace che il regista utilizzerà in tutti i suoi film più famosi e che avrà grande fortuna. La modernità di Griffith non consiste in un accumulo di primati, ma nell'aver messo le nuove tecniche espressive a servizio della narrazione. All'uscita di The Lonely Villa, il montaggio alternato non era un'assoluta novità. Come hanno rilevato David Bordwell e Kristin Thompson, era già apparso sugli schermi nella divertente comica francese Le cheval emballé (r.l. Il cavallo in fuga, 1908, di Louis J. Gasnier), in cui le immagini di un fattorino che effettua una consegna sono alternate a quelle del suo cavallo che si mangia tutta l'avena esposta fuori da un negozio, ingrassando a vista d'occhio. Tuttavia noi oggi studiamo il montaggio alternato di The Lonely Villa e non quello di Le cheval emballe perchè il film di Griffith lo al servizio di un cinema nuovo, narrativo. Nel film francese le inquadrature del cavallo via via ingrassato fungono da attrazione comica, qui l'attenzione non si concentra su un'immagine particolare ma sull'effetto d'insieme. Gli elementi di attrazione sono il tempo e le sue relazioni con gli eventi narrati: il "finale alla Griffith" funziona grazie al contrasto tra l'accelerazione degli eventi nella villa isolata, in cui il pericolo si più incalzante, e il rallentamento dei soccorsi. Le cheval emballé senza l'utilizzo del montaggio alternato sarebbe forse meno divertente ma comunque intelligibile; senza montaggio alternato, The Lonely Villa perderebbe il ritmo e la conseguente suspense. 3.4. A Corner in Wheat (1909): il montaggio costruttore di senso Ci si potrebbe chiedere se l’utilizzo di alcuni strumenti e tecniche del film del passato siano anacronistici. Nel caso di Griffith non è così perché con coerenza il regista, negli anni, perfeziona e mette a punto il suo sistema. Griffith è pienamente consapevole delle possibilità espressive del montaggio cinematografico. Se in The Lonely Villa padroneggia le leggi che regolano la gestione del ritmo e della suspense, nello stesso anno si spinge oltre, dimostrando di poter gestire il montaggio alternato come base per un paragone tra concetti astratti, finalizzato alla produzione di un significato narrativo E simbolico. Il film è A Corner in Wheat (r.l. Il monopolio del grano, 1909). La prima immagine mostra una famiglia di contadini fuori dalla propria casa; un uomo tasta le sementi contenute in un sacco, sotto gli occhi della moglie e della figlia; sul fondo il vecchio nonno sta seduto su uno sgabello. L'uomo si carica il sacco in spalla ed esce di campo seguito dal vecchio. I movimenti sono così lenti che, pur nel realismo della rappresentazione, la scena ricorda un tableau vivant, che rappresenta la vita dura e onesta della gente umile che vive del lavoro della terra. L'inquadratura successiva mostra il padre e il nonno seminare, seguiti da un terzo lavoratore che manovra l'aratro; la ripresa è ampia e luminosa, le figure dei contadini procedono dal fondo e avanzano fino alla macchina da presa per poi voltarle le spalle e tornare indietro. Nulla nei loro gesti è affettato o magniloquente. Anzi, il vecchio quasi trema sotto il peso del suo sacco, eppure le figure, mentre avanzano e diventano sullo schermo sempre più grandi, trasmettono una sensazione di monumentalità dalla forte valenza simbolica. Poi la scena cambia e una didascalia annuncia «Il re del grano» appare un uomo elegante che fuma un sigaro seduto a una scrivania mentre cinque businessmen lo fissano in attesa. All'improvviso l'uomo si alza, ha un'ispirazione, inizia freneticamente a impartire ordini ai suoi sottoposti e esce furiosamente dalla stanza. La contrapposizione tra la famiglia contadina e il capitalista spietato che specula sul grano, ripetuta nel corso del film in altri momenti, non suggerisce una relazione diretta e questi personaggi non s'incontreranno e non sapranno mai della reciproca esistenza. Eppure le loro vite sono unite da un nesso causale molto forte: è il lavoro dei campi a porre le basi per la ricchezza dell'uomo d'affari, così come sono le speculazioni finanziarie di quest'ultimo a gettare in una cupa miseria il coltivatore che dipende dal prezzo cui potrà rivendere il raccolto. Il contadino è una figura simbolica che rappresenta e condivide la sorte di altri come lui. Anche il finanziere è la rappresentazione di un capitalismo rapace. La sua fine (morire soffocato dal grano che gli ha dato la ricchezza) è una metafora: l'avidità smodata ha portato i poveri alla miseria e il ricco all'autodistruzione, ma alla fine il lavoro della terra e il susseguirsi delle stagioni sopravvivranno a qualsiasi speculazione. L'ultima ripresa ci mostra il contadino tornare alla semina solo e impoverito, ma ancora vivo e pronto a ricominciare. Il montaggio qui non è più al servizio della tensione o del racconto, ma di concetti astratti. L'accostamento di povertà e ricchezza non solo rende più evidente la disparità tra queste due condizioni, ma suggerisce una causalità politico-economica di vicende degli individui singoli dei quali si rappresentano le azioni. È una critica sociale al capitalismo contemporaneo, in nome di un ritorno a uno stato pre-capitalista, basato sui valori tradizionali. Si tratta di chiarezza ed efficacia in un film di dieci minuti e di un cinema profondamente consapevole di se stesso e del suo potere di "costruttore di senso". Ejzenstejn, inventore del "montaggio delle attrazioni" è tra i principali estimatori di Griffith 3.5. Drammi psicologici Biograph: piani ravvicinati e stili di recitazione Lo spettatore teatrale guarda il palcoscenico da un punto preciso della sala mentre quello cinematografico, attraverso il montaggio può muoversi nello spazio del racconto. Gli Stati Uniti dei primi del 900 erano un paese giovane e avevano un rapporto con la tradizione teatrale molto più libero rispetto a quello della "vecchia" Europa. Non a caso la produzione americana dei primi due decenni è stata la più disinvolta nello sperimentare nuovi rapporti spaziali della macchina da presa con l'ambiente e le figure del racconto. Griffith, con Ramona, sfrutta i grandi spazi naturali del suo paese girando campi lunghissimi che fanno del paesaggio un personaggio del dramma. Allo stesso tempo, alla Biograph, riduce gradualmente lo spazio tra la macchina da presa e i suoi attori, soprattutto attrici. Il piano ravvicinato del volto umano non era un'assoluta novità. L'avevano già usato i registi della scuola di Brighton, ma in Griffith la nuova tecnica valorizza uno stile di recitazione sobrio, trattenuto, adatto a rendere le sfumature del dramma psicologico, un genere nuovo che a Griffith deve molto. Non sappiamo se Griffith abbia usato il piano riavvicinato per esperimento e poi si è reso conto che era un ottimo mezzo espressivo o se sia successo il contrario. Indipendentemente da cosa sia venuto prima, il risultato di questa convergenza tra modi di messa in scena ed esigenze espressive sono film di grande suggestione, novità per il loro efficace naturalismo psicologico. The Painted Lady (t.1. La ragazza truccata, 1912) racconta la storia tragica di una giovane, repressa da un padre autoritario, che rimane in disparte, rifiutando di provare il belletto propostole dalla sorella ribelle e civetta, simbolo del peccaminoso modello femminile di "donna dipinta". Il film è una storia intima, interiore, e si regge sull'interpretazione di Blanche Sweet, costruita su piccoli gesti e su sfumature di espressione. Mentre la ragazza si prepara al suo primo incontro amoroso, la vediamo fermarsi davanti allo specchio, provare uno scialle ricamato e poi, tentata dall'occasione speciale, accostare al viso il piumino da cipria della sorella. È un attimo: la ragazza si ferma, decide di affrontare il primo appuntamento a viso nudo e ripone il belletto. Nel momento in cui sceglie di rinunciare al trucco, l'espressione della Sweet non è più dimessa: la bocca si serra leggermente in un sorriso; la schiena si rizza; il piumino viene lanciato sul tavolo. In questi piccoli gesti si rivela la fierezza di una psicologia tutt'altro che convenzionale: il corteggiatore - lei crede - l'ha apprezzata per ciò che è, una ragazza semplice e onesta, dunque non c'è motivo di scendere a patti con i propri principi; questa coerenza agli occhi della protagonista è motivo di vanto e di soddisfazione. La nudità del volto dell'attrice è il vero tema del film e le minime variazioni nella sua fisionomia strutturano un intreccio che è quasi tutto mentale. Per parteciparvi lo spettatore deve avvicinarsi ed entrare nello spazio intimo della protagonista, una possibilità negata al pubblico teatrale. Nel finale, in una scena di follia tra le più trattenute e commoventi del suo cinema, Griffith avvi cina la macchina da presa alla sua attrice fino a riprenderne il volto quasi in primo piano, dandole modo di cimentarsi in un pezzo di bravura in cui esprime una vasta gamma di emozioni con pochi movimenti del viso. Qui Griffith adatta le esigenze della messa in scena alla performance di Blanche Sweet. Le attrici di Griffith, dopo il 1910, sono accomunate da una recitazione sobria e da realismo intimo, ognuna con uno stile personale. Mary Pickford, per esempio, in The New York Hat (r.I. Il cappello di New York, 1912) è una giovane donna affidata a un padre severo e bigotto; proprio come in The Painted Lady, anche se in tono più leggero, il dramma si svolge allo specchio. La povera Mary desidererebbe un cappellino decente, ma il padre rifiuta di comprarglielo; lei però non si perde d'animo e tenta di apparire elegante e dignitosa. Le sue fanciullesche prove allo specchio si basano sui movimenti delle mani, sulle rotazioni della testa e su espressioni molto più dinamiche dei gesti sofferti che, avevano caratterizzato l'interpretazione di Blanche Sweet. In questo caso, Griffith, consapevole dei diversi stili delle sue attrici, si tiene un po' più indietro, inquadrando la Pickford dalla vita in su, in modo da mettere in evidenza le mani dell'attrice. Ancora più distante sarà lo sguardo che porrà sulla recitazione melodrammatica di Claire McDowell in The Female of the Species (t.l. L'eterno femminino, 1912), storia forte di passione ambientata in un deserto selvaggio battuto da un vento perenne. La moglie gelosa interpretata dalla McDowell agita i pugni, strabuzza gli occhi e brandisce un'accetta con intenti assassini, gesti che si accordano con l'atmosfera melò del film. In questo caso le tre protagoniste sono riprese in figura intera e piano americano. Il clima psicologico è dettato dal montaggio tra spazi contigui, che isola la ragazza sospettata di aver sedotto l'uomo di un'altra in un'inquadratura singola, divisa da quella che riprende le sue aguzzine. "Entrare" nell'inquadratura delle altre sarà per la giovane sinonimo di pericolo, finché il richiamo dell'eterno femminino risvegliato da un bimbo in fasce non raccoglierà il gruppo in un'unica ripresa armonica. 3.6. The Birth of a Nation (1915) Siamo alla fine del 1913, Griffith è un regista famoso e vuole ottenere maggiore autonomia; è questi anni infatti pubblica un’orgogliosa autocelebrazione. La Biograph non vuole cambiare la sua formula di successo e vuole che il regista continui a produrre one-reels secondo lo schema consolidato. I primi film a lungometraggio europei sono giunti in America e Griffith, vedendoli e apprezzandoli avverte l'esigenza di sperimentare la novità, dando più tempo alle sue storie e più spazio ai suoi personaggi. Abbandona la Biograph e dopo alcune migrazioni produttive e diversi mediometraggi di transizione, nel 1915 dirige The Birth of a Nation (La nascita di una nazione, 1915), film a cavallo tra l'epopea storica e il dramma individuale che costituisce uno tra i primi esempi in cui il nuovo stile di narrazione cinematografica dimostra di poter reggere un racconto lungo e complesso (3 ore), catturando il pubblico. In The Birth of a Nation Griffith investe molto, anche personalmente, e attinge da tutte le tecniche narrative che aveva sperimentato e perfezionato alla Biograph, riuscendo a miscelarle in un insieme compatto, senza sbalzi di tono o forzature di sceneggiatura. La vicenda della tradizionale famiglia sudista dei Cameron e di quella nordista degli Stoneman si intreccia con gli eventi storici (o presunti tali) della guerra di Secessione Americana e del periodo post-bellico. Griffith si trova a gestire una quindicina di personaggi principali, ognuno con una propria psicologia complessa rivelata da piccoli gesti, dal modo di vestire, dai dettagli della vita quotidiana. Per fare un esempio, nella scena di presentazione di Stoneman e della figlia Elsie, lei gli aggiusta il parrucchino sghembo sulla testa; in un solo gesto apparentemente naturale vengono suggerite al pubblico informazioni sul temperamento dei due personaggi: la natura fragile di Stoneman, vanitoso e insicuro probabilmente a causa della sua menomazione alla gamba, e al tempo stesso il legame affettuoso che lega a lui la figlia, disposta per il padre a giustificare tutte le sue debolezze. Il film stupisce non tanto per le grandi scene monumentali (erano già state proposte sullo schermo immagini anche più spettacolari nei film storici italiani) quanto piuttosto per la ricchezza di idee visive, la libertà di montaggio e l'abilità nel mescolare senza forzature storia individuale ed eventi di massa. Questa profusione di abilità e genio registico, però, in The Birth of a Nation è al servizio di una storia e di un'ideologia profondamente razziste. Il film, tratto da un romanzo di Thomas Dixon, sostiene, che il Sud degli Stati Uniti dopo la guerra di Secessione sarebbe stato salvato dall'anarchia grazie alla fondazione del Ku Klux Klan che avrebbe permesso ai bianchi di riportare un supposto "ordine naturale", ridimensionando le conquiste civili dei neri americani. Il film ha un enorme successo di pubblico, ma scatena comprensibili proteste da parte degli afroamericani e delle associazioni per i diritti civili. Griffith è costretto ad apportare alcune modifiche alla seconda parte e a cambiare il titolo, che in origine doveva essere The Clansman. Egli tuttavia non rinnega nulla del suo operato e si difende p in un infuocato pamphlet intitolato The Rise and the Fall of the Free Speech in America, appellandosi alla libertà di espressione e dichiarando di aver solamente riprodotto la realtà dei fatti storici. Quest'ultima affermazione è ambigua, specie pronunciata da un regista che è consapevole del potere manipolatorio della messa in scena cinematografica. Il razzismo di The Birth of a Nation non è solo un pregiudizio evidente in scene reazionarie del film, come l'ispirazione di Ben Cameron che fonda il Ku Klux Klan dopo aver visto dei bambini bianchi spaventare dei bambini neri nascondendosi sotto un lenzuolo o il famoso "finale alla Griffith" in cui un gruppo di protagonisti bianchi, sudisti e nordisti viene salvato dall'assalto della soldataglia nera con l'arrivo al galoppo di un'orda di cavalieri incappucciati. Griffith costruisce un potente sistema ideologico, tutt'altro che ingenuo e quasi ogni elemento del film risponde a questa logica. Non è un caso che l'unico momento della pellicola ambientato nei campi di cotone sia la scena bucolica in cui nasce l'amore tra Margaret e il giovane Stoneman, sotto gli occhi sorridenti degli schiavi dei Cameron al lavoro. Il messaggio sotteso alla scena è che la condizione pre-bellica al Sud fosse "naturale" e soddisfacente per tutti, prima che le idee di uguaglianza e diritti civili arrivassero a rompere l'armonia. Così come non è casuale che l'unica scena di flagellazione, sia quella subita da uno schiavo fedele castigato dagli stessi soldati neri nordisti per aver difeso il suo padrone. The Birth of a Nation è un film portatore di un'ideologia aberrante. Il fatto che sia un'opera particolarmente riuscita è un'aggravante, perché ciò che riesce meglio a un grande film è commuovere, coinvolgere e convincere. Ma è giusto studiare prodotti di questo tipo? Oggi siamo consapevoli che il cinema in generale ha un grandissimo potenziale retorico e manipolatorio. Conoscere i meccanismi con cui si esplicita è una delle possibilità offerte dallo studio della sua storia ed estetica. The Birth of a Nation deve essere studiato nei termini della decodifica ideologica. Come Griffith ha dato forma ai propri discutibili ideali? Come ha fatto a convincerci anche solo per un istante che rifiutarsi di dare la mano a una persona solo per il colore della sua pelle sia un gesto di dignità? Questo approccio può permetterci di apprezzare il film dal punto di vista tecnico ed espressivo pur senza cedere all'ambiguità ideologica. Prendiamo la scena famosa in cui Flora, la sorellina minore dei Cameron, esce a prendere l'acqua e viene importunata da Gus, soldato nero sbandato che le propone il matrimonio e la insegue finché lei, terrorizzata, piuttosto che lasciarsi raggiungere si butta nel vuoto. Flora, grazie alla recitazione sopra le righe di Mae Marsh, appare ancora una bambina che abbandona il secchio dell'acqua per giocare. L'inizio della scena è costruito sui raccordi sullo sguardo: Gus spia Flora che invece osserva uno scoiattolo su un ramo. Questa tripartizione mette a confronto due visioni del mondo opposte e inconciliabili: da una parte quella ingenua della ragazza, cui il gioco impedisce di accorgersi del pericolo reale; dall'altra lo sguardo di Gus che vede delle promesse di seduzione nei gesti fanciulleschi di Flora. Griffith gioca con le aspettative e i timori del suo pubblico alternando alla scena, già complessa, le immagini di Ben che parte ansioso alla ricerca della sorella, orchestrando lo schema di un "finale alla Griffith" che invece si rivelerà ingannevole, perché il soccorso giungerà troppo tardi. Nella copia oggi conosciuta, quando Gus si avvicina a Flora non la aggredisce bensì si qualifica come capitano e le propone di sposarlo e durante l'inseguimento afferma di non volerle fare del male. Potrebbe trattarsi di una modifica di Griffith a seguito delle richieste della censura; anche in questa versione rimane l’ideologia: persino il rinnegato Gus è vittima del caos anarchico che ha spazzato via la "naturale" organizzazione sociale, convincendo persone ingenue e prive di risorse che bastano un cappello da militare e la possibilità di matrimoni interrazziali per poter aspirare a sposare le ragazze bianche di buona famiglia. La fuga di Flora è un susseguirsi d'immagini girate con maestria, ambientate in una natura rigogliosa, dove la luce filtra tra gli alberi e il vento soffia sulle rocce, mentre il climax di tensione è dato dalla durata sempre più breve delle inquadrature. Il senso lirico-simbolico che Griffith ha sempre dimostrato verso il paesaggio americano trova qui piena espressione. I campi lunghissimi si alternano ai piani ravvicinati dei volti. Il contrasto tra il dramma che si sta svolgendo e la bellezza pacifica del bosco è evidente e non casuale: le offerte di Gus a Flora e l'unione interrazziale, sono per Griffith l'emblema dell'innaturale, del disarmonico, del caos. È il punto di rottura che innescherà la reazione di Ben Cameron e dei bianchi sudisti. È la tecnica del contrasto che svela l'ideologia sottesa alla messa in scena. 3.7. Intolerance (1916) Birth of a Nation ha un enorme successo, è ciò permette a Griffith di avere per il suo lavoro successivo un budget consistente e grande libertà creativa. Sfrutta queste condizioni per preparare una risposta alle critiche e alle polemiche che avevano portato alla censura sul suo film precedente, utilizzando il cinema. Nasce così Intolerance (Id., 1916), uno dei film più ambiziosi mai realizzati. Come scrive Paolo Cherchi Usai sul film, «il senso del limite cede il posto al senso della possibilità senza confini». Il tema è quello dell'intolleranza e delle sue nefaste conseguenze, un male che affligge gli uomini da sempre, pur trovando espressioni differenti nel corso della storia. Per realizzare questa idea, Griffith usa la rappresentazione alternata di quattro storie emblematiche ambientate in diversi momenti storici: in epoca moderna una giovane madre proletaria è perseguitata da una società moralista che le sottrae il figlio e condanna a morte il suo compagno per un crimine non compiuto; a Babilonia, nel 539 a.C., i sacerdoti del dio Baal tradiscono la patria consegnando la città impreparata alle truppe di Ciro; nell'antica Galilea i farisei rifiutano il messaggio d'amore di Cristo e tramano per la sua condanna; infine, nel XVI secolo, la bella protestante Occhi Castani e il cattolico Prospero Latour, prossimi alle nozze, sono entrambi uccisi durante il massacro della notte di S. Bartolomeo. L'alternanza tra episodi è talvolta introdotta dall'immagine di Lillian Gish che dondola una culla mentre sullo sfondo tre vecchie evocano le parche, un leitmotiv visivo che vuole rappresentare un verso del poeta Walt Whitman: «dalla culla del tempo in eterno dondolio». Ogni episodio del film ha il proprio ritmo e il proprio stile, ispirandosi a un genere in voga nella produzione anni 10: i kolossal storici sono il riferimento dell'episodio babilonese, i film d'art di quello francese, le rappresentazioni della passione di quello evangelico e infine gli stessi drammi psicologici di Griffith (della Biograph) sono il modello per la vicenda moderna. Ogni storia, tranne quella ambientata in Palestina, ha anche una sua eroina pensata e rappresentata in base al temperamento artistico delle attrici preferite di Griffith. Ecco quindi che Margery Wilson interpreta "Occhi Castani", Constance Talmadge la "Ragazza di Montagna" e Mae Marsh la "Piccola Cara". I nomi delle protagoniste rivelano il desiderio del regista di farne figure universali, tipi umani che prescindono dalla loro individualità. L'obiettivo principale di Griffith non è solo raccontare delle storie, ma trasmettere al suo pubblico, attraverso le immagini, assonanze tematiche e idee astratte. Il montaggio alternato diventa una tecnica "concettuale" che costruisce nella mente dello spettatore un senso non solo narrativo, ma anche storico, politico e filosofico. Gli accostamenti tra inquadrature sono pensati come vere e proprie "rime tematiche" interne al film. Ad esempio, le immagini delle antipatiche rappresentanti della Lega della Moralità sono precedute dalla presentazione dei farisei che pregano in strada ringraziando Dio di essere migliori degli altri. In alcuni casi il legame sotteso agli accostamenti non è così evidente: dipende dal fatto che la storia travagliata del film sia stata rimaneggiata e distribuita in versioni diverse e non siamo sicuri che ci sia giunta la copia esatta. Col procedere delle storie, il montaggio si fa più serrato. Nell'ultima parte si alternano più rapidamente i finali dei quattro racconti in una moltiplicazione dello schema del "finale alla Griffith" che si risolverà positivamente solo nell'episodio moderno. Mentre Gesù viene crocifisso, Babilonia cade e i fidanzati francesi vengono massacrati, la speranza nel futuro è affidata alla giovane moglie che, grazie a una disperata corsa dell'ultimo minuto, riesce a salvare il marito dalla condanna a morte per impiccagione. Le alternanze, in Intolerance, non sono solo narrative. Griffith si muove liberissimo negli spazi da lui creati, utilizzando i raccordi di montaggio in maniera fluida e cerca continuamente il contrasto sia visivo sia d'atmosfera. I momenti più tragici sono caratterizzati da passaggi comici, come quando alla descrizione dello sciopero e delle sue terribili ripercussioni segue la sequenza in cui il padre della ribelle Ragazza di Montagna, esasperato, cerca senza successo di venderla al mercato delle mogli di Babilonia. Allo stesso modo, il film alterna momenti più intimi a quelli più spettacolari. Nella parte finale del dramma moderno, il primo piano della Piccola Cara disperata per la condanna del marito viene accostato a quello impietrito della Ragazza senza Amici, autrice del crimine per cui il ragazzo è condannato. Quasi senza un gesto da parte dell'attrice, il passaggio ci rivela il rimorso dell'assassina e la sua volontà di confessare. Poche inquadrature più tardi, lo spettacolo del volto umano cede il passo alla magnificenza del festino babilonese, il cui monumentale set, tra i più famosi mai costruiti a Hollywood, viene ripreso da Griffith e dai suoi operatori da un pallone aerostatico in volo: un effetto degno di competere con il carrello sinusoidale di Pastrone in Cabiria, che aveva impressionato il regista americano. L'influenza del cinema europeo in Intolerance non si sente solo nella monumentalità scenografica. Griffith, infatti, è un maestro del montaggio e assimila le risorse stilistiche alle sue esigenze espressive, quindi ricorre con frequenza alla costruzione in profondità di campo tipica dei film italiani del periodo, distribuendo gli elementi narrativi su piani diversi dell'immagine. Un esempio è la ripresa in cui il sacerdote di Baal guarda dall'alto l'entrata dei fedeli della dea Ishtar a Babilonia; ma anche quando, sotto lo sguardo muto delle donne che osservano gli scontri dalla collina, il padre del ragazzo viene colpito da una pallottola delle guardie e muore tra le braccia del figlio, mentre sullo sfondo continua la battaglia, si alza il fumo della strada, cadono altri morti e feriti. Subito dopo un raccordo in avanti isolerà nell'inquadratura i protagonisti e la loro sofferenza. Ogni tragedia pubblica è tale perché composta da traumi e lutti individuali. Malgrado un investimento economico ed artistico senza precedenti, Intolerance non ha il successo sperato e non gioca a suo vantaggio il fatto che il film sia portatore di messaggi pacifisti quando si sta per entrare nella prima guerra mondiale. Al tempo stesso, la critica dell'epoca evidenzia la presenza di alcuni punti deboli nella pellicola, accusandola di essere pretenziosa e non molto comprensibile. In effetti gli episodi, hanno pesi diversi e ciò squilibra l’alternanza: quello francese e quello evangelico, oltre che più brevi, sono meno riusciti degli altri due che Griffith qualche anno dopo rimonta, riedita e fa circolare come film singoli con il titolo di The Mother and the Law (t.l. La madre e la legge, 1919) e The Fallen of Babylon (t.l. La caduta di Babilonia, 1919). Intolerance affascina per i suoi difetti e i suoi punti di forza perché rappresenta un esperimento d'indagine dei limiti espressivi della tecnica cinematografica. 3.8. Broken Blossoms (1919): la perfezione formale Dopo il mancato successo di Intolerance, Griffith sperimenta altre strade, senza riuscire a ritrovare condizioni economiche e produttive favorevoli, malgrado nel 1919, insieme a Charlie Chaplin, Mary Pickford e Douglas Fairbanks, fondi la United Artists: una casa di produzione nata con il fine di liberare gli artisti dal giogo dei produttori, lasciando loro piena libertà creativa. Se il suo film più ambizioso rimane un'opera sbilanciata, il regista troverà l’equilibrio qualche anno dopo, in un piccolo lavoro con i temi e drammi psicologici del periodo Biograph. Broken Blossoms (Giglio infranto, 1919) racconta l'incontro di due emarginati, un cinese emigrato in uno squallido quartiere portuale inglese e una adolescente brutalizzata dal padre. Nei panni della protagonista Lucy c'è Lillian Gish, in una delle sue prove più riuscite. L'attrice, riesce a interpretare un personaggio che ha dieci anni meno di lei, rifuggendo il patetico e rendendolo memorabile: quando il padre le ordina di sorridere lei, incapace, si spinge le labbra all'insù con le dita; chiusa nello sgabuzzino per sfuggire ai maltrattamenti si abbandona alla disperazione, mentre nella stanza dell'amico cinese riprende lentamente grazia e colore, giocando fiduciosa con una bambola. Griffith, è stato un grande direttore di attrici. Il sodalizio con la Gish sembra segnare un incontro fortunato che continuerà per diversi film successivi. Broken Blossoms abbandona la Storia con la "S" maiuscola e gioca di sottrazione anche nella messa in scena: i montaggi ci sono ancora ma Griffith ne fa meno sfoggio che in precedenza, ricorrendo più spesso ai totali, caricati di forte valore simbolico e illuminati con luce artificiale. Esemplari sono la casa spoglia di Lucy, la stanza misteriosa di Cheng Huan e l'angolo di strada davanti al negozio del cinese. In un film costruito su piccoli gesti, alternati a scatenata violenza, i primi e primissimi piani segnalano i passaggi narrativi chiave con efficacia. Ad esempio, nel momento in cui il cinese cede per un attimo alla tentazione di usare violenza alla sua protetta, un primissimo piano ci mostra l'espressione del volto di lui carico di minaccia. Anche il raccordo sullo sguardo contribuisce alle psicologie. Come la sequenza in cui, al loro primo incontro, Lucy fissa le bambole in vetrina mentre Cheng Huan scruta lei. Questa situazione presenta affinità di messa in scena con l'incontro tra Gus e Flora in The Birth of a Nation; il clima emotivo e le conseguenze di questo incontro tra un uomo e una donna di razze diverse, tuttavia, sono completamente differenti. Anche se racconta una storia minima di ordinaria brutalità, Broken Blossoms, riesce in ciò che a Griffith sembra stare più a cuore: la trasmissione di un'idea della vita attraverso le immagini. La storia di Cheng Huan, della caduta dei suoi ideali di pace e armonia e della sua disperazione parla ancora oggi della fragilità e della grandezza universale delle aspirazioni umane. Importante che il personaggio maschile più riuscito di Griffith sia proprio uno straniero, un diverso, un non-bianco. Abbandonata la dimensione più politica, Griffith ritorna all'universalità dei sentimenti e l'indagine dell'anima, ponendo un’altra pietra miliare nella istituzionalizzazione del cinema classico. In seguito continuerà a girare con alterne fortune fino agli anni 30, senza più replicare il successo precedente. Non si adatterà a pieno al linguaggio nuovo che lui stesso aveva contribuito a costruire. Realizza film considerati "old fashion", rimanendo fedele alla sua consolidata "maniera", che nel frattempo è stata assimilata, rielaborata e superata da una Hollywood in piena età dell'oro. 4) IL CINEMA MUTO ITALIANO 4.1. La presa di Roma (1905) di Filoteo Alberini Il cinema italiano nasce il 20 settembre 1905, quando a Porta Pia (Roma), viene proiettato il primo film di una casa di produzione nazionale: La presa di Roma (1905, di Filoteo Alberini). L'Italia è in ritardo di 10 anni dalla prima proiezione pubblica a pagamento dei fratelli Lumière (1895). Tuttavia, il film dimostra subito l'intenzione di affacciarsi sul mercato senza inferiorità nei riguardi della produzione francese che all'epoca dominava i mercati. La presa di Roma è un film emblematico che anticipa le linee di sviluppo della cinematografia nazionale. Filoteo Alberini, ex militare di carriera, sceglie un tema patriottico e impegnativo, mettendo in scena la conquista di Roma da parte dell'esercito italiano, evento che 35 anni prima aveva sancito l’Unità d'Italia. In 12 quadri (parte dei quali perduti) vediamo personaggi storici: Pio IX, il generale Kanzler e i bersaglieri italiani aprire la breccia di Porta Pia. La messa in scena, composta da inquadrature fisse che alternano esterni reali a riprese in interni ricostruiti, è forte nella precisione storica della ricostruzione, almeno in termini militari e istituzionali: l'arrivo a Roma del conciliatore mostra con verosimiglianza la procedura del saluto militare, e le uniformi dei soldati sono ricostruite con precisione, anche grazie alla pubblicizzata consulenza del Regio Esercito richiesta nel corso delle riprese. La recitazione degli interpreti è rigida e solenne. Il finale rappresenta un "quadro emblematico" allora in voga, teso a riassumere in una sola immagine il senso del film: si tratta dell'apoteosi dell'Italia, rappresentata da una giovane avvenente che regge la bandiera tricolore e la palma della vittoria, ai piedi della quale appaiono in atteggiamento estatico Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele II. Come Alberini, i primi grandi investitori nella neonata industria provengono dalla piccola nobiltà e dall'alta borghesia romana, fedeli alla monarchia, all'esercito e ai valori tradizionali. Questa provenienza sociale influenza molto le scelte di stile e di temi del primo cinema nazionale, di cui si è compresa la potenzialità comunicativa e che offre alla classe dirigente uno strumento per propagandare presso le classi popolari e piccolo-borghesi i propri ideali di riferimento. Nel cinema muto italiano, contrariamente a quello che accade nel cinema francese in un film importante come Germinal (c.l. Germinale, 1913, di Albert Capellani), è raro che vengano messi in scena conflitti sociali rappresentati dalle classi subalterne. Con lo sviluppo dell'industria cinematografica si mantiene questo indirizzo conservatore. In Maciste innamorato (1919, di Luigi Romano Borgnetto) una lunga sequenza inscena lo sciopero nelle fabbriche Thompson di un gruppo di agitatori pagati da un industriale concorrente. La folla si infiamma e diventa violenta senza una precisa ragione, solo in risposta agli incitamenti delle spie. Lancia sassate alla finestra della villa dell'industriale minacciando la sua famiglia finché, riconosciuto tra i difensori Maciste, cambia idea, torna pacifica e inneggia al gigante suo beniamino. Il messaggio di rappresentazioni di questo genere è evidente e funzionale: il popolo è fondamentalmente buono, ma deve accettare le condizioni sociali vigenti, stabilite da uomini saggi e indispensabili per la vita serena di tutti; chi mette in discussione questo ordine costituito è in cattiva fede e agisce per interesse personale. L'Italia del 1905 è un paese giovane e costruire un'identità nazionale condivisa è una priorità e un'urgenza, La presa di Roma quindi funziona. I film a tema risorgimentale, in cui vicende private si mescolano con i fatti storici, rimangono un genere molto in voga fino al 1912. È difficile però competere con l'orgoglio nazionale di paesi come la Francia o l’Inghilterra e presto si comprese che, per alimentare l'orgoglio nazionale attraverso il cinema, ci si doveva spostare su un terreno in cui l’Italia non aveva rivali ovvero le glorie antiche e le vite dei grandi uomini e le bellezze artistiche e naturali. Ad esempio, La presa di Roma usa alcuni esterni reali come avverrà in futuro. Alcuni commentatori stranieri degli anni Dieci dichiarano di invidiare i monumenti e la varietà di paesaggi a disposizione, ma anche il tempo clemente che favorisce le riprese all'aperto. La presa di Roma delinea quale sarebbe stata la vocazione del cinema italiano successivo: ambizioso, paternalista, tecnicamente ricercato, versato nella ricostruzione storica e nello sfruttamento delle bellezze nazionali e questo indebolì molto il genere in voga nel cinema delle origini: il film a trucchi. Però nel 1905, quando il cinema italiano prende avvio, il genere è già in crisi di e cede il passo ai primi tentativi di cinema narrativo. I pochi esperimenti italiani, per esempio Viaggio in una stella (1906, di Gaston Velle), sono dovuti a una influenza francese, chiamate a formare gli inesperti colleghi italiani. La scarsa attitudine al fantastico rimarrà negli anni una caratteristica del nostro cinema nazionale. 4.2. Un modello alternativo La presa di Roma è una produzione di Alberini & Santoni, futura Cines, una delle più importanti e longeve case di produzione del cinema italiano. Negli stessi anni iniziano molte altre realtà produttive: a Torino (le principali sono l'Itala Film e la Società Anonima Ambrosio), ma anche a Milano (Milano Films, Comerio Films) e a Napoli (Polifilms). Si gettano le basi di un sistema produttivo policentrico che caratterizzerà gli anni d'oro del cinema muto italiano che, pur nato tardi, in pochi anni conquista il mercato, entrando nei primi anni 10 tra le principali cinematografie mondiali. Non si tratta di un successo solo economico, infatti i film italiani sono stati fonte di ispirazione di un regista importante come David W. Griffith. Oggi lo stile di questi film potrebbe apparire datato: il montaggio interno alla sequenza è poco usato, specie quando la scena si svolge nello stesso ambiente, il campo-controcampo (che permette allo spettatore di sentirsi al centro dell'azione) è quasi assente; difficilmente la macchina da presa si avvicina al viso dell'attore, quindi la recitazione è molto fisica e stilizzata, come a teatro. Queste caratteristiche hanno dunque spinto alcuni storici a considerare il cinema italiano come legato a forme primitive, teatrali e poco "cinematografiche". Questa accusa non rende giustizia allo stile di film come Quo vadis? (1913, di Enrico Guazzoni) o Ma l'amor mio non muore! (1913, di Mario Caserini) che rispondono a una logica diversa da quella che si imporrà con gli anni attraverso il cinema americano classico. Questo "modello alternativo", alla frammentazione dello spazio attraverso il montaggio sostituisce costruzioni in profondità di campo in cui l'organizzazione del set, i movimenti degli attori, l'interazione con gli oggetti di scena si prefiggono di raccontare la storia, le psicologie e comporre immagini stupefacenti. Il regista cerca di sintetizzare in un solo quadro più elementi narrativi e visuali possibili, affidandosi alla composizione su piani diversi in profondità organizzati, secondo le regole della simmetria e del contrasto. In Italia e in Europa, paesi con alle spalle secoli di storia dell'arte, l'influenza delle arti figurative sul gusto comune è molto forte. Gli Stati Uniti sono invece un paese più giovane, meno condizionato dalla tradizione. Questo è uno dei motivi per cui in italia si sviluppa un tipo di messa in scena rispettoso delle proporzioni e dell'integrità del corpo dell'attore e questa influenza è anche più forte di quella teatrale. Nel cinema italiano la bidimensionalità dell'immagine è utilizzata per comporre quadri armonici attraverso l'alternarsi dei chiari e degli scuri o la variazione scalare tra personaggi minuscoli a fondo campo e personaggi o oggetti di scena molto più grandi (a figura intera) nella parte anteriore del campo. I registi più abili dell'epoca compongono spesso lo schermo come fosse un quadro, citando anche nelle loro inquadrature i pittori preferiti, come Sir Lawrence Alma Tadema che nei suoi quadri ha rappresentato una classicità languida e liberty, vicina al gusto dominante del cinema italiano. 4.3. Comici a confronto Per comparare lo stile americano degli anni 10 a quello italiano, possiamo confrontare la messa in scena di una situazione comica simile offerta dagli artisti che il pubblico dell'epoca riconosceva come campioni di comicità. La prima gag del film A Night in the Show (Charlot a teatro, 1915, di Charlie Chaplin) è ambientata in una sala di spettacolo e vede Chaplin nei panni di un elegantone alle prese con una maschera che non sa indicargli il posto assegnato, costringendolo a spostarsi continuamente da una fila all'altra e a dar vita a un buffo balletto in cui coinvolge i vicini di posto. Tutta la scena è risolta in un'unica inquadratura laterale che riprende i personaggi di profilo, concedendosi alcune brevi panoramiche di assestamento "a pendolo" da sinistra a destra e viceversa. Questa continuità spaziale e temporale rafforza l'effetto comico: la fissità della macchina in relazione ai movimenti di Chaplin e degli altri personaggi genera il ritmo della sequenza e crea quell'effetto di "giro a vuoto" che produce risata. Chaplin nel 1915 è avviato sulla strada che lo porterà alla fama mondiale; nei primi anni 10, tuttavia, a dominare il mercato sono le produzioni italiane, anche se interpretate da artisti francesi emigrati in cerca di fortuna. Andreé Deed, noto come Cretinetti, viene ingaggiato dalla Itala Film come protagonista di una serie di brevi film di scatenata comicità e dato il successo della formula, scatta l'emulazione. Ogni casa di produzione cerca di assumere artisti all'altezza e di forgiare soprannomi accattivanti: Ferdinand Guillaume Polidor, Marcel Fabre diviene Robinet. Quest'ultimo nel 1911 gira Robinet innamorato di una chanteuse. Robinet si reca a teatro, dove l'esibizione di una bella artista lo fa innamorare all'istante, spingendolo a inseguire la ragazza in ogni dove e portando ovunque con sé il caos. La prima parte del film ricorda il balletto delle sedie di A Night in the Show, al punto che è ovvia un'influenza diretta del film italiano su Chaplin. Anche il taglio dell'inquadratura è molto simile. Si tratta di un esempio di sequenza in cui lo spazio della scena risponde al modello italiano, anche se presenta una struttura della composizione ancora piuttosto semplice: l'azione si sviluppa su piani differenti, punti diversi del quadro sono attivati in momenti successivi, la scelta del punto di vista ha tenuto conto dello svolgersi dell'azione, optando per una sezione che valorizzasse al massimo il meccanismo comico. Chaplin, cineasta americano, inizialmente sceglie per la sua gag una costruzione dello spazio in profondità di campo. Questo esempio ci mette in guardia dall'applicare con troppa rigidità uno schema di appartenenza territoriale (montaggio = cinema americano, costruzione in profondità di campo senza stacchi = cinema italiano) che ha un valore di riferimento, ma non esaurisce la complessità delle reciproche influenze e della creatività personale. Sul palco del teatro di A Night in the Show, però, a un certo punto compare un'affascinante incantatrice di serpenti; il cesto della danzatrice viene rovesciato, i rettili si spargono per la platea e lo spazio del racconto si frammenta in sezioni diverse, che si susseguono a ritmo di montaggio sempre più veloce: la buca dell'orchestra in cui il trombonista litiga con la serpe caduta inavvertitamente nel suo strumento, Chaplin nel suo palco, la galleria da cui il pubblico popolare si gode lo spettacolo. Gli spettatori conoscono la relazione spaziale tra i punti diversi nel teatro e possono godersi i piani ravvicinati senza perdere l'orientamento. Questa sequenza rappresenta lo stile che caratterizza la produzione americana: trovare in Italia un esempio di frammentazione spaziale e montaggio veloce è quasi impossibile. Robinet, invece, portato lo scompiglio in platea si reca nel retropalco per incontrare la ragazza oggetto della sua ammirazione. La macchina da presa ce lo mostra in avanti a destra, gesticolare rivolto alla ballerina brandendo un grosso mazzo di fiori, mentre lei, in scena a fondo campo, manda baci al pubblico. Dietro le quinte gli attrezzisti seguono il numero per tirare il sipario al momento giusto; più avanti due artisti in pausa fumano e chiacchierano. In questo caso il quadro si divide in quattro livelli differenti, in ognuno dei quali è attivato un elemento di interesse che attira lo sguardo dello spettatore: Robinet in preda all'innamoramento in avanti a destra, la ragazza che balla in fondo a sinistra, gli attrezzisti e gli artisti in pausa nei due livelli intermedi. Le quinte e le assi del palcoscenico isolano le aree differenti, che sono messe in collegamento dagli sguardi e dai movimenti dei personaggi. In una stessa inquadratura il film vuole sintetizzare numerose informazioni relative al comportamento, alla psicologia e al contesto in cui si svolge la storia. 4.4. Il dramma storico Il giovane cinema italiano esalta l’amore di patria e nazionale attingendo alle glorie del passato. Inizialmente, il genere storico viaggia liberamente, mettendo in scena drammi in costume più attenti all'immutabilità delle passioni umane che ai mutamenti nel corso della Storia. Il sentimento tra due innamorati in questi film ha un ruolo più importante dei grandi eventi, o ne è addirittura la causa nascosta. Fino al 1911 i film sono one-reels e devono raccontare una storia comprensibile e capace di smuovere l'emozione del pubblico in un tempo molto breve quindi i cineasti dell'epoca puntano su temi universali come l'amore, la gelosia, la vendetta, ricombinandoli in nuove storie e in nuovi contesti storici. La felicità di due amanti è spesso ostacolata da un pretendente geloso e insistente, un marito tradito si vendica; una giovane è messa in condizione di dover scegliere tra l'amore e il dovere: storie senza tempo e non importa se la cornice è medioevale, rinascimentale, risorgimentale o altro. Il ripetersi dei temi narrativi non fa di questi film una produzione banale e il loro valore, non deve essere ricercato nell'originalità, ma nella capacità di trovare nuove variazioni su un tema conosciuto. C'è un altro modo per raccontare una storia appassionante in un solo quarto d'ora senza che lo spettatore si distragga: mettere in scena vicende che già conosce in modo da poter dare per scontati i passaggi logici, concentrandosi sulle scene madri. La piccola borghesia italiana fin dall'inizio non disdegna lo spettacolo cinematografico, anche per le caratteristiche di rispettabilità e moralità che la stessa industria cerca di trasmettere. Pochi tra gli spettatori del primo 900 hanno letto Shakespeare, tuttavia la maggior parte sa che Romeo e Giulietta sono amanti avversati dalle famiglie e che Amleto incontra il fantasma del padre ucciso. Se sullo schermo la fedeltà al racconto viene forzata, non è poi tanto grave: in Romeo e Giulietta (1908, di Mario Caserini), Giulietta combatte in armatura a fianco del padre e viene ferita erroneamente da Romeo in battaglia, per poi finire avvelenata dal suocero. Il film non vuole raccontare la storia degli amanti di Verona; Il vero fine è quello di illustrare le immagini-icona che l'immaginario comune si aspettava dal dramma: la scena del balcone e quella del doppio suicidio. Il riferimento alla letteratura e alla storia ha il vantaggio di offrire al cinema una parente di cultura alta, che attira in sala un pubblico borghese e perbene. Il cinema si propone di diventare, secondo Gian Piero Brunetta, «la cineteca dell'italiano», assolvendo nei confronti del proprio pubblico la funzione di acculturamento svolto dalle biblioteche. La brevità e la piacevolezza dello spettacolo avrebbero attirato il popolo verso la nuova forma di insegnamento, storico e letterario. Il cinema italiano mette in scena molto classici: Ariosto, Omero, Shakespeare, Victor Hugo, Goethe ma anche Garibaldi, Raffaello, Giotto. Nessuna opera e biografia sfuggono agli adattamenti dello schermo. Questi "riassunti" riducono le vite più avventurose e i più famosi capolavori letterari alle storie di amore, gelosia e vendetta. 4.5. Verso il lungometraggio Alla foga dell'adattamento nel primo cinema italiano non sfugge il poeta più amato e studiato, Dante Alighieri. I 15 minuti di un solo rullo, tuttavia, sono davvero troppo pochi per contenere La Divina Commedia. Nel 1911 diventa chiaro che le grandi ambizioni didattiche e spettacolari del cinema italiano possono trovare nei film a lungometraggio una forma più adatta alle proprie esigenze anche se alcuni rifiutavano il passaggio (la cines). L'Inferno (1911, di Giuseppe De Liguoro, Francesco Bercolini e Adolfo Padovan) prodotto dalla Milano Films, dura più di un'ora. Non è stato il primo film a lungometraggio, ma insieme a La caduta di Troia (1911, di Giovanni Pastrone e Romano Luigi Borgnetto) e L'Odissea (1911, di Francesco Bertolini e Adolfo Padovan), è considerato uno dei titoli che con il loro successo hanno contribuito all'affermarsi della nuova formula. Non è un caso che gli altri due film citati siano tratti da Omero infatti per giustificare il ricorso al lungometraggio si è preferito rivolgersi a vicende universalmente conosciute, degne tanti metri di pellicola e tanto tempo dello spettatore. Attitudine illustrativa, intenti didattici, alta cultura e vocazione spettacolare: ne L'Inferno convergono e trovano massima espressione i principi ispiratori del primo cinema italiano. È anche dimostrazione di abilità tecnica e di uso virtuoso degli effetti speciali, tanto efficaci da riuscire a coinvolgere anche lo spettatore contemporaneo: l'elica che rotea sulla testa di Beatrice e il procedere a scatti dei lussuriosi sospesi nel vuoto possono farci sorridere, ma alcune scene meravigliano. Il film è un susseguirsi di sontuosi quadri viventi ispirati alle incisioni con cui nell'Ottocento Gustave Doré aveva raffigurato il divino poema dantesco. Il riferimento alle illustrazioni è talmente evidente e dichiarato da offrirsi come chiave di lettura dell'intero film. La messa in scena si compone di quadri ripresi per lo più in campo medio e in campo lungo, composti e volutamente piuttosto statici. Un'opera di questo tipo non potrebbe essere concepita con piani ravvicinati, campi o controcampi. L'equilibrio dell'immagine totale, con grande dispendio di energie, denari, comparse, fanno il fascino di questo film e non sarebbe valorizzato se la composizione perdesse di unità attraverso un montaggio frammentato. Per un pubblico non abituato, mantenere l'attenzione sullo schermo per più di un'ora risultava difficile e ci si chiedeva come mantenere l’interesse. L'Inferno riempie le proprie immagini di elementi interessanti e meravigliosi alla vista, in un astuto crescendo che culmina nella terrificante immagine di Lucifero conficcato nel ghiaccio del più profondo girone infernale. Questo comporta un investimento economico elevato rispetto ai limitati costi di un normale film da una o due bobine. Inizia la strada verso gli ambiziosi kolossal storici di elevatissimo budget, espressione fortunata del talento visionario del cinema muto italiano. 4.6. I kolossal storici Il 1913 viene considerato uno degli anni più importanti dell'intera storia del cinema. Escono una serie di film destinati a fare scuola: Germinal, Der Student von Prag (Lo studente di Praga, di Stellan Rye e Paul Wegener), Ingeborg Holm (Id., di Victor Sjöström). Altri, come The Birth of a Nation, sono in cantiere. Per nessuna cinematografia, tuttavia, quell'anno è proficuo come per quella italiana. Proprio nel 1913 vengono distribuiti i due film capofila dei generi che caratterizzeranno i suoi anni d'oro: l'accoglienza delirante riservata a Ma l'amor mio non muore! inaugura le fortune del cinema delle grandi dive e l'uscita di Quo vadis? segna l'avvio del cinema storico a grande spettacolo, che stupirà il mondo. Come sempre accade, i film che cambiano la storia del cinema non nascono dal nulla, ma raccolgono e rielaborano ciò che si è prodotto fino a quel momento. A parte le comiche, in Italia il genere dominante fino al 1911 è il dramma storico. Tra il 1911 e il 1914 davanti agli occhi del pubblico il metraggio dei film si allunga, i set si fanno più ricchi, le comparse si moltiplicano. Già la prima versione de Gli ultimi giorni di Pompei (1908, di Luigi Maggi) aveva fatto sensazione per le scene di massa, L