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Questo documento analizza l'isolamento e la purificazione di farmaci biotecnologici, concentrandosi in particolare sulle ADC (antibody-drug conjugate). Viene descritto il loro meccanismo d'azione e le diverse generazioni di ADC, evidenziando i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna.
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Isolamento e purificazione di farmaci biotecnologici Le ADC (antibody-drug conjugate) sono una nuova strategia terapeutica usata molto nella targeted therapy. Sono dei bioconiugati (componente prodotta per via biotech) = l’anticorpo monoclonale è disegnato contro l’antigene (cellula malata), connes...
Isolamento e purificazione di farmaci biotecnologici Le ADC (antibody-drug conjugate) sono una nuova strategia terapeutica usata molto nella targeted therapy. Sono dei bioconiugati (componente prodotta per via biotech) = l’anticorpo monoclonale è disegnato contro l’antigene (cellula malata), connesso a un’entità chimica, responsabile effettivamente della citotossicità. Le principali componenti dell’ADC sono l’anticorpo monoclonale con la sua porzione variabile che è all’estremità della “V”, che sarà quella specifica per l’antigene; una warhead che è la molecola citotossica coniugata all’anticorpo monoclonale tramite linker (warhead + linker = payload). Il DAR è drug to antibody ratio = il livello di loading; quindi, quanto payload è veicolato dall’anticorpo monoclonale. L’anticorpo monoclonale ha 2 catene pesanti tenute insieme da due ponti disolfuro, di cui ciascuna è legata a una catena leggera, e la parte in grigio è la parte costante che include gran parte della pesante e parte della leggera, mentre quella in blu è specifica che legherà selettivamente l’antigene. La finestra terapeutica è uno dei vantaggi principali dell’uso degli anticorpi monoclonali nella targeted therapy. La finestra è quel parametro farmacologico che indica la sicurezza del farmaco, è quel range di concentrazione del farmaco al di sotto del quale il farmaco non è efficace e al di sopra del quale si ha tossicità (i bersagli sono stati saturati, e quindi il farmaco andrà a legarsi agli off targets o metterà in sovraccarico l’organismo e il suo metabolismo). La finestra terapeutica è in mezzo ai due. Tanto, quindi, più ampia è la finestra, tanto più il farmaco è sicuro (maneggevole in termini di dosaggio che può essere calibrato anche a seconda delle necessità del paziente senza rischiare di finire in condizioni di tossicità e inefficacia). I chemioterapici hanno una finestra molto ristretta perché non distinguono cellule malate dalle sane; gli ADC sono molto più selettivi quindi c’è meno tossicit à. Meccanismo di ADC: l’anticorpo è legato alla molecola attiva, lega l’antigene, che avvia un signaling intracellulare che porta alla formazione di invaginazioni della membrana portando all’endocitosi dell’anticorpo. L’endosoma lo porta al lisosoma dove, grazie alla digestione, si avrà il rilascio della molecola citotossica. Si devono quindi individuare l’antigene specificatamente presente solo sulla cellula malata. Il processo che regola l’endocitosi è il pathway di endocitosi clatrina-dipendente. La clatrina andrà a posizionarsi a livello intracellulare a ridosso del recettore e sarà responsabile del fenomeno endocitotico. Step: il legame del ligando (anticorpo) a specifici recettori di membrana, solitamente raggruppati in zone particolari che sono le fossette rivestite – sono delle piccole invaginazioni di membrana rivestita perché dall’estremità citoplasmica sono legati alle clatrine mediante le adattine e, appena il recettore lega la sostanza, si attiva la polimerizzazione della clatrina, responsabile della formazione della vescicola rivestita, che verrà indirizzata verso il lisosoma. Ci sarà un’ATPasi che staccherà tutta la clatrina che tornerà sulla membrana e nel lisosoma c’è una scissione della vescicola con , da un lato la molecola citotossica, e dall’altro l’anticorpo. NO slide 7. Prodotto l’anticorpo, come si fa il payload? Si sfruttano i gruppi funzionali esposti sull’anticorpo. L’aa/gruppo funzionale legato definisce anche la generazione dell’ADC. Inizialmente si usava la Lys (gruppo amminico primario sulla catena di ramificazione) – 1° generazione. Si sfruttano sempre catene laterali degli aa (Arg ha il gruppo funzionale bloccato e stessa cosa per His). La Lys è ubiquitaria sull’anticorpo, quindi restituiva un DAR troppo eterogeneo; quindi, nella 2° generazione si usavano altri gruppi funzionali nucleofili – Cys (presenti a ridosso dei ponti disolfuro che tengono legate le catene pesanti e leggere) -> in totale sono 8 cisteine. Lo svantaggio è che c’è il rischio che la struttura dell’anticorpo diventi instabile. Quindi nella 3° generazione la coniugazione avviene su aa ingegnerizzati (come SeCys), si va a modificare la struttura 1° dell’anticorpo monoclonale. ADC 1° generazione – vantaggio: facilità di legame (sfruttando linker con gruppi alchilanti specifici per le ammine). Svantaggi: ampia variabilità del n di farmaci per anticorpo (numero di residui non è molto controllabile, quindi nella 1 miscela di reazione si ha una popolazione di anticorpi coniugati in cui ci saranno alcuni coniugati con 1 payload, altri 3 altri 4 fino al totale di Lys esposti all’ambiente; alcuni possono addirittura non legare); possibilità di influenzare il punto isoelettrico dell’anticorpo (quindi la proteina potrebbe precipitare e formare aggregati in soluzione). 2° generazione – svantaggio: destabilizzazione. Vantaggi: si controlla il numero di payload legati per anticorpo (DAR, la popolazione è meno eterogenea), buona sito-specificità (le cisteine si trovano nella regione hinge, aka regione cerniera, detta così perché tagliando l’anticorpo, si avrà la frazione FC separata da FAB, e non si va a bloccare il legame all’antigene). 3° generazione – vantaggio: migliore specificità, bassa variabilità del numero di farmaci per anticorpo, stabilità dell’anticorpo, marginale influenza sul pI dell’anticorpo. Svantaggio: costo. Non si può controllare la resa di una reazione, quindi è possibile che nella stessa miscela ci sia una distribuzione a gaussiana. Se ci sono pochi siti di legame, è più controllato. La stabilità del linker: l’anticorpo viene endocitato, arriva al lisosoma dove c’è una digestione lisosomiale con rilascio della molecola citotossica. Ci possono essere linker che in certe condizioni si staccano e quindi la molecola citotossica esprime la sua attività prima di arrivare al lisosoma. I siti labili (moiety) possono essere o 1. strutture chimiche sensibili a reazioni di riduzioni (es ponti disolfuro sfruttando la condizione redox della cellula), 2. gruppi idrolizzabili per variazione di pH oppure 3. Nel linker può essere messa una sequenza peptidica idrolizzabile per via enzimatica (es catepsina che taglia sul citrullina-valina). I parametri di assicurazione della qualità, sicurezza ed efficacia sono 6: 1. DAR -> quantità di farmaco per anticorpo, serve per definire il dosaggio. Si misura il DAR medio per una fiala, in modo da calibrare il dosaggio di ADC da somministrare al paziente. Bisogna assicurarsi che la dose ricada nella finestra terapeutica. Nella 1° generazione, il valore DAR medio è fortemente influenzato dal picco della gaussiana, ma l’altro valore è la deviazione standard rispetto al valor medio, perché andrà a impattare sul posizionamento del dosaggio nella finestra terapeutica. Quindi, se nella prima generazione una popolazione di ADC avrà DAR sotto la finestra terapeutica e una sopra, non si può usare perché non è completamente dentro. La 3° generazione si posiziona molto meglio nella finestra, il DAR medio infatti tiene conto anche della deviazione standard. Le tecniche analitiche che si usano per DAR (si misura l’abbondanza relativa): cromatografia a interazione idrofobica (HIC) accoppiata a spettroscopia UV, size esclusion chromatography accoppiata al MS (in base al numero di payload, varia il PM), SDS-PAGE e successiva analisi MS (spettrometria di massa). NO slide 15, 16, 17 2. Distribuzione del farmaco legato (DOP): bisogna cercare di non interferire con il sito di riconoscimento dell’antigene. Quindi si va a definire dov’è andato a legarsi il payload, perché questo influenzerà l’omogeneità del prodotto. Una distribuzione eterogenea potrebbe portare problemi legati alla diversa farmacocinetica e tossicologia dei diversi coniugati -> se in una miscela c’è per assurdo solo 100 ADC con DAR=8, ma il DOP 2 è diverso, ci saranno 20 con un pattern di lisine legate che non interferiscono con il legame all’antigene, 40 parzialmente e 40 che hanno tutta la V bloccata perché hanno 3 payload legati nella V e non riescono a legare il target -> questi rimarranno in circolo e dovranno essere metabolizzati perché non riescono a legare il bersaglio. Se le fiale hanno DOP diverso, l’efficacia terapeutica non è la stessa, la farmacocinetica non è la stessa. Quindi, il DOP ha informazioni sull’efficacia e metabolismo del farmaco. Le tecniche analitiche per il DOP sono più complesse perché va individuato il sito specifico a cui è legato il payload: mappatura delle sequenze peptidiche per capire dove si è legato il payload (MS peptide mapping) -> servono studi di proteomica (scienza omica che consente di caratterizzare una miscela di proteine in termini quantitativi e qualitativi, fino alla definizione della sequenza aa). 3. Punto isoelettrico: il legame dei farmaci (del payload, soprattutto se il warhead è lipofilo, può alterare la carica dell’anticorpo e instaurare fenomeni di aggregazione e/o precipitazione). Le modifiche che influenzano la carica complessiva (coniugazione con il farmaco, deaminazione, glicosilazione) possono influenzare il binding, la stabilità e l’attività. Il punto isoelettrico è essenziale perché se variato di molto, influenza la stabilità della proteina con formazione di aggregati, per cui non c’è più la concentrazione desiderata in miscela. È tracciato mediante cromatografia a scambio ionico (IEX) o l’isoelettrofocusing (IEF) capillare o su membrana. 4. Quantità di farmaco libero: si rischia di portare del payload che non ha reagito con l’anticorpo. Se ci sono troppe molecole libere, possono dare tossicità e alterare la stabilità del prodotto. Questo può essere se nel tempo nel prodotto finito c’è del rilascio del farmaco libero (non è solo farmaco che non è stato coniugato, ma anche quello che è stato rilasciato). Nel momento in cui si disegna il farmaco, si verifica se i linker labili che sono stati introdotti non diventano uno svantaggio produttivo. La quantità di farmaco non coniugato va determinata con tecniche che si basano sulle caratteristiche del payload: tra cui solubilità idrofilia logP peso molecolare (solitamente 500 100 Da) e presenza di cromofori e/o gruppi carichi o ionizzabili (per determinare il rivelatore più adatto). Tecniche: HPLC e CE. 5. Sequenza amminoacidica (può seguire la stessa tecnica del DOP): la coniugazione avviene attraverso reazioni chimiche che non devono alterare la struttura dell’anticorpo, se non per la presenza di payloads. Sia il sequenziamento che la mappatura delle modifiche sono importanti. 6. Peso molecolare: tecniche sono le stesse che per la definizione del DAR. Il legame di farmaci, specialmente se lipofili, può indurre la formazione di macro aggregati anche se non modifica il punto isoelettrico. È importante per stabilire l’identità del prodotto e l’assenza di aggregati ad alto peso molecolare (la presenza di sostituzioni annulla le cariche e favorisce l’aggregazione). Ci sono 3 vie nelle tecniche analitiche – si può decidere se lavorare in approccio top-down (proteina intatta, il campione non viene processato – vedi la determinazione dei pesi molecolari e quindi il DAR medio), middle-down (parziale processamento delle proteine, per esempio tagliando sull’hinge in FC e FAB con enzimi specifici, es IdeS, per iniziare a capire in quale posizione nell’anticorpo è legato il farmaco). Per definire il sito aa, si fa l’approccio bottom-up (processamento proteolitico completo della miscela di proteine, con riduzione delle proteine in peptidi, per fare peptide mapping, permette di definire il DOP, sequenza aa) -> per capire esattamente dove l’anticorpo è andato a legarsi (per 1° gen), mentre nella 3° è solo una conferma che gli aa modificati sono stati reclutati per il legame del payload. La modifica strutturale di anticorpi (non è tra i 6 parametri ma anche questo va valutato!) può scatenare comportamenti anomali come instabilità o insolubilità. Sono state testate anche tecniche di calorimetria o dicroismo circolare per l’analisi dell’integrità conformazionale (non trattate in questo corso perché non di utilizzo routinario). Le tecniche che faremo sono: spettroscopia, spettrometria di massa, cromatografia, elettroforesi. No slide 44. Tecniche cromatografiche 3 Il termine cromatografia indica un insieme di tecniche (ci sono tanti metodi per una tecnica) che hanno lo scopo di separare una miscela nei suoi componenti, per permetterne il riconoscimento (analisi qualitativa) e/o il dosaggio (analisi quantitativa). La separazione cromatografica può essere «conservativa» (il campione non viene distrutto) o può diventare «distruttiva» per metodi strumentali in cui il rivelatore a cui è collegata distrugge gli analiti durante l'acquisizione dei dati (ad esempio spettrometria di massa), anche se esistono rivelatori per metodi strumentali non distruttivi (ad esempio le tecniche spettroscopiche). Può avere scopo analitico (il campione è conservato) e preparativo (il campione viene distrutto e non è recuperabile nella recuperazione dei dati). Possono essere usate per fini separativi (purificazione, frazionamento) o per fini analitici; le analisi sono (quasi) sempre distruttive in quanto gli analiti vengono solitamente (ma non sempre) distrutti dal detector. – Le tecniche cromatografiche sono quindi usate su scala preparativa per fini separativi o preparativi recuperando tutte le frazioni (frazionamento) o solo alcune frazioni di interesse (purificazione) del campione separato. In questi casi si lavora spesso su media-larga scala, prelevando tutto (o quasi tutto) il campione di cui poi sono recuperate tutte le frazioni di interesse. Es nella produzione di farmaci biotecnologici – Su scala analitica si preleva invece una piccola quantità di campione (aliquota) che può essere sacrificata, per separarne le componenti in miscela e rilevarle separatamente per poterle identificare e/o quantificare (in genere con metodi strumentali che usano rivelatori). Con i moderni strumenti il consumo di campione è minimo. Sono sufficienti da 1 ml a 1 μl di soluzione, corrispondenti (talvolta) a meno di 1 mg di campione solido. Questo grazie alla maggiore sensibilità degli strumenti, che è il valore minimo rilevabile dallo strumento Queste tecniche sono basate sulla differente ripartizione o diffusione o interazione (in base al tipo di cromatografia si sfruttano differenti principi chimico fisici) di molecole con diverse proprietà chimico-fisiche (dette analiti) fra due fasi, una chiamata fase stazionaria e l’altra chiamata fase mobile o eluente, che fluisce/eluisce in continuo attraverso (o a contatto con) la fase stazionaria (fissa). La fase mobile eluisce attraverso/a contatto con la fase stazionaria, e all’interno della colonna cromatografica ci sarà una separazione che dipenderà dall’affinità delle singole specie per la fase stazionaria (la cui corsa è quindi “rallentata”) o alla fase mobile. Questo può essere un meccanismo di: ripartizione, diffusione, interazione di cui ciascuno può essere accoppiato con un tipo di cromatografia specifico. Le tecniche cromatografiche operano esclusivamente su campioni in soluzione o in fase vapore: i campioni solidi vanno quindi disciolti in un opportuno solvente, mentre quelli liquidi e/o in fase vapore vanno diluiti. Non è possibile l’analisi senza prelievo di campione né tanto meno l’analisi in situ. Basi del procedimento: La fase mobile (o eluente in forma di gas, liquido o fluido supercritico) viene fatta eluire in continuo attraverso (o a contatto con) la fase stazionaria, che si trova all’interno di una colonn a oppure è supportata su una superficie piana ed è immiscibile nell’eluente. Il campione è introdotto (disciolto o diluito) nella fase mobile e da essa trasportato attraverso (o a contatto con) la fase stazionaria I componenti più affini alla fase stazionaria passeranno più tempo a contatto con questa fase; quindi, si sposteranno più lentamente attraverso il sistema (maggior ritenzione) I componenti più affini alla fase mobile si sposteranno invece più velocemente (minor ritenzione) Origini: Inventata dal botanico Michail Semenovich Cvet (russo di origine italiana) agli inizi del XX secolo come tecnica per la separazione di pigmenti fogliari. Egli intendeva separare i pigmenti presenti nella clorofilla; fece un estratto di 4 foglie verdi in etere di petrolio, lo depositò in testa ad una colonna di vetro impaccata con carbonato di calcio ed eluì, (cioè versò in continuo) con solfuro di carbonio: i vari pigmenti si separano in bande colorate, in particolare clorofilla A e B, carotene e xantofilla. Da questo esperimento cominciano a definirsi alcuni degli elementi comuni e dei termini caratteristici delle tecniche cromatografiche: La presenza di due fasi immiscibili a contatto, una chiamata fase stazionaria e l’altra chiamata fase mobile o eluente, che fluisce in continuo attraverso o a contatto con la fase stazionaria e che è in grado di trascinare gli analiti attraverso la fase stazionaria fino a farli eluire; La presenza di un meccanismo chimico-fisico che consente agli analiti di interagire in modo diverso con le due fasi determinando una differente ritenzione (rallentamento dovuto all'interazione con la fase stazionaria) se si tratta di molecole con diverse proprietà chimico-fisiche; Il concetto di colonna cromatografica che rappresenta una delle forme possibili di supporto della fase stazionaria; Il concetto di impaccamento che rappresenta uno dei modi di fissare la fase stazionaria al supporto costituito da una colonna Il concetto di testa della colonna (estremità in cui viene introdotto il campione) e coda della colonna (estremità da cui eluisce il campione) Classificazione: Le diverse tecniche cromatografiche in uso ad oggi possono essere classificate principalmente sulla base di: - Stato fisico della fase mobile: Cromatografia Liquida (LC): eluente allo stato liquido Campione introdotto in forma di soluzione diluita direttamente nella fase mobile La più diffusa, applicata in tutti i campi compreso l’analisi di proteine, peptidi e prodotti biotecnologici Gascromatografia (GC): eluente allo stato gassoso Campione introdotto in forma di gas o soluzione diluita che viene vaporizzata prima di entrare nel flusso dell’eluente Molto diffusa per analisi di molecole volatili, scarse applicazioni per l’analisi di prodotti termolabili tra cui proteine, peptidi e prodotti biotecnologici Cromatografia fluida supercritica (SFC): eluente allo stato fluido supercritico. Tecnica emergente per l’analisi di piccole molecole, scarse applicazioni per l’analisi di proteine, peptidi e prodotti biotecnologici Fluido supercritico: sostanza quando si trova in condizioni di temperatura superiore alla temperatura critica e pressione superiore alla pressione critica. In tali condizioni, le proprietà della sostanza sono in parte analoghe a quelle di un liquido (ad esempio la densità) e in parte simili a quelle di un gas (ad esempio la viscosità). Le sostanze nello stato supercritico trovano applicazione come solventi industriali, in sostituzione di quelli organici. In particolare, l'anidride carbonica supercritica è largamente utilizzata. - In base al principio su cui si basa la separazione (interazioni reversibili) Adsorbimento Differente capacità degli analiti di instaurare interazioni deboli (dipolo-dipolo, legami idrogeno, interazione idrofobiche) con la fase stazionaria (solida). Fase eluente liquida, fase stazionaria solida. la fase stazionaria è un solido in granuli (es. gel di silice, allumina, etc.) e la fase mobile può essere un gas o un liquido. La fase stazionaria è in genere un composto (insieme di beads, biglie) inorganico o un polimero organico. Sulla superficie dei granuli si trovano dei siti attivi che possono stabilire legami deboli (interazioni dipolo dipolo, legami idrogeno) con gli analiti. Questo tipo di interazioni è il risultato di un complesso fenomeno competitivo tra le molecole della fase mobile e del soluto per i siti attivi della fase stazionaria. Es: sull’allumina una lisina può formare diversi legami di coordinazione, mentre la cisteina non potrebbe formarne nessuno – quindi la cisteina ha minor tempo di ritenzione ed eluirà prima. 5 Ripartizione Differente diffusione degli analiti tra fase mobile e stazionaria (liquida). Fase eluente liquida, fase stazionaria liquida. Es olio e acqua. la fase stazionaria è un liquido (supportato da un solido granulare inerte). La fase mobile può essere un gas o un liquido e comunque deve essere immiscibile con la fase liquida. Durante l’eluizione gli analiti si ripartiscono (diffusione) nelle due fasi sulla base delle caratteristiche fisico chimiche (logP, pKa). Il volume della fase stazionaria non cambia. A seconda della natura della fase stazionaria e mobile la cromatografia di ripartizione si definisce: In fase normale se la fase stazionaria è più polare (acqua) della fase mobile In fase inversa se la fase stazionaria è meno polare (olio) della fase mobile La cromatografia in fase inversa è più comune visti i bassi costi e la bassa tossicità legata all’impiego di solventi polari come FM (acqua, alcoli, acetonitrile sono i solventi più comuni). La ripartizione degli analiti dipende anche dalle loro costanti di dissociazione acida (sarebbe più corretto parlare di distribuzione tra le fasi, D). P è la concentrazione della molecola nella fase stazionaria e nella fase liquida. D tiene conto ANCHE della forma dissociata dell’acido (più idrofila, quindi andrà a impattare sulla ripartizione). Con pKa = 3 e pH = 6, 10(6-3) = 103, quindi prevalenza della forma indissociata (A-) -> è più polare, quindi la distribuzione dipende dal pH. Nella corsa cromatografica, la fase mobile a un certo punto, cambiando il pH della fase mobile, andrà a rompere continuamente gli equilibri di diffusione separando le molecole nella corsa cromatografica. La cromatografia per ripartizione separa le molecole su base di caratteristiche della polarità, che è fortemente influenzata anche dalla pKa della molecola perché a seconda del pH a cui si lavora, la molecola può trovarsi in forma dissociata o meno. Il rapporto tra forma dissociata e non dipende dal pH in cui si lavora, e conoscere questo rapporto serve perché la polarità è diversa a seconda dell’acido dissociato o no. Si imposta un metodo in cui la composizione della fase mobile varia. Una molecola fortemente acida, a pH acido, è talmente indissociata che spostarla dalla fase stazionaria non è semplice. IMP. Un altro parametro che può influenzare la ripartizione è l’ingombro sterico – nel caso della silice, il benzene non è trattenuto perché apolare, ma i fenoli sì. La differenza tra i fenoli è che uno ha un ingombro sterico che impedisce un’interazione più forte con silice. Scambio ionico Differente capacità degli analiti di instaurare interazioni ioniche deboli (legame ionico) con la fase stazionaria (solida e/o liquida) La fase stazionaria è costituita da macromolecole con gruppi ionici, cationici o anionici (es. R-NH3+, R-SO3- ) in grado di trattenere analiti carichi (con carica di segno opposto) che possono essere poi eluiti per spiazzamento (scambio) con ioni della stessa carica presenti nella fase mobile. La ritenzione dipende dalla forza delle interazioni ioniche che si instaurano tra gli analiti e la fase stazionaria. La fase stazionaria ha uno 6 strato di cariche (es negativa) – le molecole cariche negativamente non interagiranno ed eluiranno mentre le positive interagiscono. Il legame però è reversibile, quindi l’analita va staccato. Con le proteine ci sono 2 metodi: si cambia la composizione della fase mobile aggiungendo dei controioni di carica positiva che competono con le molecole legate, che si staccano ed eluiscono; l’altro metodo è sempre con variazioni del pH, secondo sempre l’equazione di Andersson Hasselbach. Quando la fase stazionaria è +, si parla di scambiatore di anioni; altrimenti si parla di cromatografia a scambio cationico. A scambio anionico dipende dalla molecola che si trattiene (quindi fase cationica trattiene i cationi). Ci si deve sempre spostare dal punto isoelettrico perché non si potrebbe altrimenti separarle. Affinità Interazioni deboli specifiche (tipo farmaco-recettore) della fase stazionaria (solida o liquida) con analiti o classi di analiti specifiche. La fase stazionaria è complessata con un ligando che interagirà selettivamente con l’analita sulla base sulla loro specificità di legame. Si utilizzano interazioni deboli simili a reazioni di tipo biochimico reversibili e molto specifiche (es. antigene-anticorpo, farmaco-recettore), in modo che le molecole da separare interagiscano selettivamente con la fase stazionaria e si ottenga così l’eluizione selettiva di alcuni componenti della miscela. Viene usata poco a scopo analitico, tanto a scopo preparativo o di purificazione (es proteine). Migliore tecnica in risoluzione a scopo preparativo. Esclusione Nessuna interazione degli analiti con la fase stazionaria ma diversa "accessibilità" alla fase stazionaria dovuta ad ingombro sterico. La fase stazionaria ha una struttura 3D che ha pori di dimensione differente che separa le molecole per dimensione. È una tecnica per la separazione di molecole in base alle dimensioni (raggio idrodinamico es proteina globulare e fibrosa, NO per PM). La fase stazionaria è un solido poroso o, più comunemente, un gel con pori di dimensioni variabili. Analiti con raggio idrodinamico inferiore al diametro dei pori penetrano nei pori stessi, seguendo un percorso più lungo rispetto a molecole troppo grandi che vengono "escluse" (da qui il nome cromatografia di esclusione) dai pori e perciò escono dalla colonna in tempi inferiori (tragitto più breve). Può avvenire la gel filtrazione per separazione di sostanze insolubili in acqua (nei pori le molecole più piccole entrano ed escono, rallentando rispetto alle molecole più ingombranti) o gel permeazione per la separazione di sostanze solubili in acqua. Risoluzione = è la capacità di una tecnica analitica di separare due molecole molto simili tra di loro. Questa tecnica ha la capacità di separare molecole che hanno una differenza di peso molecolare nell’ordine dei 10 Kda (non ha risoluzione molto alta). La separazione non si basa su interazioni della fase stazionaria con gli analiti che deve, anzi, essere evitata modificando la fase mobile (es. pH, forza ionica) per impedire interazioni ioniche o apolari. - In base alla forma del letto cromatografico: Cromatografia planare (su carta, su strato sottile) la fase stazionaria è distribuita su una superficie piana, che può essere un supporto cartaceo (cromatografia su carta, PC) o una lastrina in vetro o altri materiali (cromatografia su strato sottile, TLC) Manuale, usata per analisi semplici e veloci Il parametro non è il tempo di ritenzione, ma il fattore di ritenzione = distanza di analitca / distanza dell’eluente tra l’inizio e la fronte del solvente. Si può fare anche in UV spruzzando con la ninidrina. 7 Cromatografia su colonna (impaccata, monolitica o capillare) la fase stazionaria è contenuta all’interno di un tubo cilindrico (colonna), che può essere riempito con materiale sferoidale di fase stazionaria (colonna impaccata), essere rivestito (colonna capillare) oppure contenere un unico blocco di materiale poroso (colonna monolitica) Manuale o strumentale, usata per fini sia analitici, sia preparative La fase stazionaria: Il supporto più comune alla fase stazionaria è costituito da particelle sferiche microporose di silice (beads). La silice NON può essere usata con fasi mobili basiche (pH>8-10) o eccessivamente acide (pH 3 si dissociano a gruppi Si- O- e possono interagire con composti basici - Silanoli geminali (2 OH sullo stesso Si) e vicinali (2 OH su 2 Si vicini): non sono acidi, possono interagire con composti idrofili (ripartizione in fase normale) e non possono essere derivatizzati (aggiungere un punto di attacco per determinare la separazione degli analiti, es il grado di polarità con cui si vuole lavorare si attacca al silanolo libero una componente alchilica) - Silanoli derivatizzati: consentono di cambiare le modalità di interazione (scambio ionico, ripartizione ecc…) o la selettività verso particolari analiti (es. scambio ionico acido/basico). alcuni processi di derivatizzazione consentono di realizzare fasi stazionarie che sfruttano diversi principi con interazioni miste o mixed mode – interazioni multimodali (es. ripartizione in fase inversa + scambio ionico). NO slide 39 Cromatografia liquida su colonna La fase stazionaria è solida e la tecnica è detta SPE, usata per frazionare o purificare il campione prima di analizzarlo. In SPE, la risoluzione (capacità di separare analiti con caratteristiche chimico-fisiche diverse ma simili) non è molto alta, le frazioni non contengono analiti puri, ma solo miscele meno complesse del campione originale. La risoluzione aumenta con l’aumentare della fase stazionaria impaccata – questo può essere fatto usando una granulometria sempre più fine (a parità di volume ci sono beads con volume interno più inferiore) oppure aumentando il volume di resina. Nell’esperimento di Cvet, era sfruttata la gravità. Per vincere la resistenza della fase stazionaria e ridurre i tempi di frazionamento, è possibile collegarci un dispositivo aspirante che lavori sottovuoto e che consenta di avere depressione che consenta l’eluizione. C’è un orifizio con pompa da vuoto, camera a tenuta (con provette per raccolta di frazioni) e colonna con campione. Si lavora quindi sempre su gravità ma si aggiunge una forza per vincere la resistenza. Aumentando l’impaccamento, aumentano i tempi. C’è un’equazione che mette in relazione l’impaccamento con i tempi di eluizione. Mantenendo costante la lunghezza di una colonna cromatografica e il suo raggio, al diminuire del diametro delle particelle (quindi granulometria più fine), diminuisce anche il flusso (velocità con cui la fase mobile fluirà). I tempi di eluizione aumentano con l'impaccamento perché, a parità di lunghezza 𝑳 e di raggio della colonna 𝒓, 8 col diminuire del diametro 𝒅 delle particelle di fase stazionaria (con una sua permeabilità intrinseca 𝑲𝟎 ), la gravità determina una pressione 𝑷 data dalla forza peso dell'eluente (a viscosità 𝜼) per permeare la fase stazionaria, con conseguente riduzione del flusso 𝑭 (e dilatazione dei tempi) Questo ha portato alla necessità di tecniche ad alta pressione in modo da poter aumentare anche il flusso di lavoro e per permettere di usare la granulometria sempre più fine (per aumentare la risoluzione). La prima tecnica strumentale realizzata per lavorare ad alte pressioni è la gascromatografia. Il campione allo stato gassoso viene vaporizzato e trasportato alla colonna da un gas (carrier), si lavora a temperature sotto i 300° e questo richiede che gli analiti non siano termolabili (no proteine). Il vantaggio di lavorare in gascromatografia è nel lavorare a viscosità bassa, e si possono quindi usare anche colonne più lunghe a parità di pressione, che comporteranno un aumento di fase stazionaria caricata migliorando la risoluzione. La gascromatografia è stata la prima a essere sviluppata perché non è semplice produrre sistemi strumentali che dessero buone prestazioni a pressioni elevate per prestazioni cromatografiche con fasi mobili allo stato liquido. Poi si sviluppò la cromatografia liquida ad elevata prestazione (HPLC) – è la versione strumentale della cromatografia liquida su colonna. È nata per l’esigenza di migliorare le prestazioni osservando che: - Con granulometria più fine si carica molta più fase stazionaria (colonna più impaccata) ottenendo una migliore separazione degli analiti - Colonne molto impaccate hanno una permeabilità alla fase mobile ridotta e la gravità non è in grado di permettere l’eluizione del solvente se non con tempi lunghi - L’utilizzo di pompe permette di eluire i componenti con tempi ridotti e riproducibili anche con colonne molto impaccate - L’introduzione del campione può essere automatizzata utilizzando valvole collegate tra la pompa e la colonna Fase stazionaria - per colonne rivestite: il raggio interno del supporto della fase stazionaria è molto fine. La colonna capillare arriva a diametri di mm. Anche per il rivestimento si può usare silice o materiali polimerici. A parità di lunghezza, una colonna capillare ha meno fase stazionaria impaccata, ma consente di avere meno contropressione e quindi colonne più lunghe. - Colonne monolitiche: hanno una struttura interna diversa, non sono costituite da beads ma sono dei blocchi porosi (dall’aspetto spugnoso) detti monoliti a base di materiali polimerici. Questi sono fatti per polimerizzazione indotta direttamente nel supporto. Queste colonne hanno dei macropori (circa 50nm o poco più) o mesopori (diametro interno 2-50nm). Questi pori sono di dimensioni maggiori rispetto agli interstizi che si ottengono se si fanno una fase stazionaria di beads. Il vantaggio è che aumenta la permeabilità intrinseca, si riduce la pressione necessaria per vincere la forza eluente. Questo è un vantaggio nell’analisi di proteine di grandi dimensioni (come MAB). Inoltre, a parità di lunghezza, hanno minore superficie di contatto della fase stazionaria a granuli con la fase mobile e quindi prestazioni inferiori. Questo può essere compensato dall'uso di colonne più lunghe viste le basse contropressioni. Aumentando la superficie di contatto, infatti si aumenta la risoluzione. 9 Al diminuire della granulometria, aumenta la risoluzione, ma serve un sistema a pressione elevata. La cromatografia liquida ad elevata prestazione è usata a scopo analitico ed è quindi distruttiva. I campioni sono posti in contenitori chiusi ermeticamente con tappo forabile. Il campione è prelevato con una siringa che fora il tappo e preleva la quantità di campione da iniettare. Il campione deve avere delle caratteristiche per poter essere analizzato: deve essere esente da presenza di particolato perché può andare a ostruire i tubi e la colonna (interporsi o tra gli interstizi o dentro i pori), e non deve contenere analiti o componenti della matrice incompatibili con le fasi mobili e stazionaria (nessuna reazione, precipitazione). Per rimuovere il particolato, i campioni vanno filtrati su filtri a seconda del particolato che ci si aspetta per evitarlo. Si pu ò fare un prefrazionamento del campione prima di iniettarlo sfruttando la SPE (per facilitare l’analisi in cromatografia ad alte pressioni). I campioni possono anche essere pre purificati per precipitazione (per esempio nelle proteine). I campioni di proteine possono anche essere diafiltrate o dializzate (quindi anziché separarle per caratteristiche chimico- fisiche, si può fare per scambiare i buffer -> scambiare il buffer serve perché una condizione per il campione è che questo deve essere ridisciolto nella stessa composizione della fase mobile che si usa per eluire il campione attraverso la colonna; se si è nella fase inversa e si parte da fase mobile acquosa, si deve fare in modo che il campione sia ridisciolto in quella fase mobile -> questo si fa tramite scambio di buffer). La stessa composizione serve per garantire la separazione del campione senza interferire nella separazione, quindi bisogna trovarsi nelle stesse condizioni. Si carica infatti il campione, sulle pareti laterali del dispositivo interno ci sono dei pori che consentono la fuoriuscita solo di solventi e sali (gli anticorpi per es sono rimasti sopra). Si carica con acqua e si fanno lavaggi per eliminare tutti i sali. Si avrà quindi il campione. I sali vanno eliminati perché per es nello scambio ionico interagiscono loro e inibiscono che sia il campione a legarsi. Le pompe devono garantire riproducibilità (flusso costante), e i solventi devono essere privi di bolle (il solvente della fase mobile non deve avere bollicine che possano interferire con il flusso, per cui prima di arrivare nella valvola di iniezione deve attraversare il degassatore che elimina le bollicine). I requisiti della fase mobile: bassa viscosità (aumenta il flusso o si può lavorare con pressione più bassa), immiscibilità con la fase stazionaria, capacità di solubilizzare il campione, compatibilità con il rivelatore, bassa corrosività, bassa volatilità, basso costo, elevata purezza, assenza di particolato che possa ostruire tubi, colonna o danneggiare le pompe. La scelta della fase mobile dipende dalla fase stazionaria e dal principio di interazione sfruttato. 10 Interpretazione dei risultati Il risultato di una cromatografia liquida è il cromatogramma, tracciato del rivelatore in funzione del tempo, a partire dall’istante in cui il campione viene iniettato. Cioè, su x c’è il tempo di analisi e sull’y l’intensità del segnale registrato dal rivelatore (per UV sarà l’assorbanza). È quindi l’unione di tutti i punti di cui ognuno è l’intensità registrata dal rilevatore al tempo x. Più analita arriva, maggiore sarà l’intensità. Il rivelatore deve essere in grado di misurare una grandezza proporzionale alla concentrazione degli analiti in uscita dalla colonna (assorbanza, fluorescenza, spettrometria di massa). LOD = limit of detection -> quantità minima rilevabile da un dato rivelatore e questo parametro descrive la sensibilità di un rivelatore. Cioè, più basso è il LOD, più sensibile è il metodo. Un cromatogramma ha: - un picco con una certa altezza (data dall’intensità massima registrata nell’eluizione di quell’analita) che non è un valore quantitativo (è solo indicativo). Il picco ha anche l’area sotto la curva (è il valore quantitativo) che si calcola con software che consentono di integrare in maniera automatizzata il picco. Un picco è associato a un solo composto della miscela, a meno di avere la co-eluizione. - Tempo di ritenzione: punto massimo di picco sulla y è il tempo di ritenzione caratteristico dell’analita. È un parametro qualitativo (quindi definisce la qualità) molto importante. Se si è in grado di usare un sistema cromatografico totalmente riproducibile, lo stesso analita eluirà sempre allo stesso tempo di ritenzione. - Tempo morto: Volume totale di tutto il sistema cromatografico (pompe, colonna, volume del passaggio attraverso il rivelatore, ecc) diviso il flusso della fase mobile. Il tempo morto definisce il tempo che impiegherebbe un analita immaginario che non interagisce per nulla con la fase stazionaria (per cui non viene minimamente rallentato da nessun componente nello strumento). Per identificare gli analiti, si usa il tempo di ritenzione che dipende da T, da volumi di parti strumentali (volumi morti). Il tempo di ritenzione corretto sottrae il tempo morto, oppure il fattore di ritenzione (tempo di ritenzione – t morto diviso t morto), che è il più preciso. L'area del picco è calcolata dai programmi di gestione dello strumento approssimando i picchi a gaussiane. I programmi di analisi dei dati, individuando il punto di inizio e di fine dei picchi, sono in grado di integrare separatamente le aree anche per picchi parzialmente o completamente sovrapposti (non 11 risolti). La risoluzione tiene conto di: selettività e efficienza. La selettività è la capacità di una colonna cromatografica di produrre picchi distanziati al punto di separarli bene. La selettività si definisce sulla base del fattore di separazione α = tempo di ritenzione del 2° picco / tempo di ritenzione del 1°. L’efficienza invece è la capacità di un sistema cromatografico di mantenere compatta la banda di eluizione (picco alto e stretto). L’efficienza di una colonna si definisce col parametro numero di piatti teorici N = 16 (t R / w = altezza di un picco)2. Se si fraziona la colonna cromatografica in tante piccole fette, un piatto teorico è la più piccola fetta della colonna in cui due molecole che abbiano un diverso coefficiente di ripartizione K hanno la capacità di dimostrare diverse velocità di migrazione. Significa che: nella corsa, si creano equilibri continui; quindi, un piatto è la più piccola zona all’interno della colonna in cui una molecola raggiunge il suo equilibrio tra fase mobile e stazionaria. Più piccola è questa zona, più le molecole potranno separarsi. Ogni molecola fluisce in base alle sue caratteristiche, ma l’eluizione è data da un percorso. Se si è più affini alla fase stazionaria, l’equilibrio permetterà di rimanere più adesi alla fase stazionaria e di eluire più lentamente, ma è un equilibrio tra la fase stazionaria e l’energia cinetica della fase mobile. Se l’equilibrio è raggiunto in uno spazio minore, un altro analita meno affine alla fase stazionaria si separerà prima della 1° molecola. Più piccoli sono i piatti teorici, più un analita è facilitato rispetto ad altro di separarsi. Più alto è quindi il numero di piatti, migliore è la risoluzione. Allo stesso tempo di ritenzione, si ha una maggiore efficienza per picchi lati e stretti. A parità di ampiezza, più in là è il tempo di ritenzione, maggiore sarà l’efficienza. Più stretto è il picco, maggiore è il numero di piatti teorici e maggiore sarà la risoluzione. Per migliorare la risoluzione, si può sia intervenire sia sulla selettività che sull’efficienza. La risoluzione è la capacità di ottenere due picchi alti e stretti e ben distanziati – tiene conto sia della selettività e di efficienza, ed è il grado di separazione di due analiti. Sapere la formula. Nella realtà è difficile ottenere picchi simmetrici (dove il tempo di ritenzione è a metà dell’ampiezza del picco), quindi la risoluzione si calcola mettendo sotto la differenza delle due semibasi del picco. Il valore minimo di risoluzione da considerare come due picchi separati è Rs = 1 (con sovrapposizione di 4%). Per valori superiori o uguali a Rs = 1.5 (sovrapposizione dello 0.3%), la separazione è considerata completa. Per la simmetria: si calcola il fattore di simmetria a/b (se è maggiore di 1, è asimmetrico sulla scodadura del picco, effetto di tailing; se minore, si fa un fronting dell’analita). Questi effetti di asimmetria dipendono da: Iniezione del campione lenta (fenomeni di diffusione) Adsorbimento «irreversibile» della sostanza sulla fase stazionaria Sovraccarico di campione (saturazione della fase stazionaria) Ridotta solubilità del campione nella fase mobile Diffusione post colonna per presenza di volumi morti Il modello del non-equilibrio di Gidding tiene conto di fattori cinetici e termodinamici che contribuiscono a determinare la separazione degli analiti e la loro eluizione dalla colonna cromatografica. La colonna è immaginabile come una successione di spazi immaginari (piatti teorici) in cui gli analiti raggiungono un equilibrio componente 12 termodinamica di distribuzione (o di affinità, o di legame ionico ecc) tra le due fasi, mentre il flusso spinge gli analiti nella fase mobile verso l’uscita della colonna (componente cinetica). Questa teoria considera 4 fattori che influenzano la larghezza del piatto teorico: 1. presenza di percorsi multipli nella colonna 2. Distribuzione di flusso 3. Diffusione molecolare longitudinale 4. Trasferimento di massa tra le fasi. 1. La fase stazionaria nella colonna sono beads che possono essere più o meno funzionalizzate a seconda della tecnica che si sta usando, ovvero a seconda del meccanismo di separazione che si va a sfruttare. La resina è costituita da particelle che non hanno un’uniformità molto controllata (anche se ora sì). L’uniformità di particelle impatta sulla risoluzione perché minore è l’uniformità della fase stazionaria, maggiore è la possibilità di avere percorsi delle molecole attraverso la fase stazionaria di lunghezza eterogenea. Quindi, molecole dello stesso analita possono percorrere percorsi differenti portando a T ritenzione diverso e arriveranno al detector in tempi diversi, ottenendo uno slargamento del picco nel grafico. È un fenomeno intrinseco della colonna e indipendente dalla velocità della fase mobile, dalla temperatura o da altre variabili strumentali. Dipende solo dall’impaccamento della fase stazionaria. Le soluzioni sono: o usare particelle molto piccole anche se non perfettamente uniformi perché così i cammini varieranno di poco, oppure usare particelle con granulometria costante 2. Si fa riferimento alla viscosità della fase mobile. Per un fluido reale viscoso, il flusso è più veloce nella zona luminale (sia in flusso laminare o turbolento). La riduzione degli spazi luminali (riduzione diametro delle particelle), l’uso di fasi mobili meno viscose o una diminuzione della viscosità per riscaldamento possono limitare il problema. Questo fenomeno aumenta con l’aumentare del flusso. Questa disuguaglianza può portare più molecole dello stesso analita ad arrivare al detector in momenti diversi. 3. Più un analita permane nella colonna, più le molecole tenderanno a diffondere in ogni direzione (verso l’uscita e verso l’ingresso della colonna) per effetto del gradiente di concentrazione. Un flusso più alto (riduzione della permanenza dell’analita nella colonna) possono limitare questo fenomeno. Riducendo il flusso, l’analita rimane all’interno della fase stazionaria per un tempo maggiore. Il fattore che impatta sull’efficienza è termodinamico. Se il flusso è lento, la molecola, quando ha instaurato il suo equilibrio, per effetto di differenza di concentrazione nei piatti teorici adiacenti, quasi per osmosi tende a diffondersi. Se il flusso è maggiore, spinge l’analita in avanti non consentendo di farlo. 4. Nel piatto teorico si instaura un equilibrio tra la concentrazione di analita nella fase stazionaria e mobile. Quando il flusso trascina l’analita, si instaurano nuovi equilibri tra le fasi fino ad arrivare ad un nuovo equilibrio con bande allargate. La situazione peggiora per equilibri lenti (es diffusività lenta per alta viscosità delle fasi) o se il flusso è troppo elevato e continua a trascinare l’analita senza consentire l’instaurarsi del nuovo equilibrio. Non si sta dando il tempo necessario alla molecola di interagire con la fase stazionaria in base alla sua affinità per essa, per cui eluendo con le altre molecole comporta un allargamento del picco, dando l’effetto di fronting. Soprattutto per 3 e 4, non c’è una regola fissa sul flusso che deve essere impostato per un metodo cromatografico. Flusso e efficienza non hanno una relazione lineare, ma ogni colonna con la sua fase stazionaria ha un suo flusso ottimale perché flussi troppo alti o troppo bassi comportano una perdita di efficienza (aumentando il n di piatti teorici aumenta la risoluzione = serve trovare un flusso adeguato). C’è l’equazione di van Deemter data da somma di 3 funzioni: y = a, y = cx; y = b/x, caratteristica per ciascuna colonna. Su x c’è la velocità di flusso, mentre y l’altezza dei piatti teorici. Bisogna fare in modo che h si riduca per aumentare la risoluzione. H = a + b/x + cx. A è associato alla presenza di percorsi multipli e ai fenomeni di diffusione di flusso. Si può ridurre la granulometria, minimizzare le variazioni nella granulometria, migliorare l’impaccamento: migliorare la forma e l’uniformità y della fase stazionaria. Si può migliorare i picchi riducendoli ma aumentando la pressione esercitata. Al ridurre del diametro di particelle, si riduce l’altezza del picco minima garantita che migliora la risoluzione. È richiesta una maggiore pressione da parte delle pompe, e ci sono sistemi ultra-HPLC. Per ridurre H, bisogna aumentare il flusso oppure diminuire la temperatura per aumentare la viscosità e sfavorire la diffusione. Sul flusso però va tenuto contro anche del terzo elemento dell’equazione (C), perché il secondo termine (B) ci sta aumentarlo (è associato ai fenomeni di diffusione molecolare longitudinale che è inversamente proporzionale al flusso), ma il terzo è associato all’efficienza di trasferimento di massa (bisogna dar tempo agli analiti di interagire con fase stazionaria). Più è bassa la velocità di flusso dell’eluente, più velocemente il trasferimento di massa raggiungerà l’equilibrio e minore sarà l’allargamento del picco. Aumentare la viscosità significa diminuire il fenomeno di diffusione, ma così aumenta la distribuzione di flusso peggiorando il trasferimento di massa. Miglior compromesso: ridurre la viscosità aumentando la 13 temperatura (riduce la pressione ma così si impatta sulla distribuzione del flusso). Bisogna ricordare che bisogna scegliere il flusso e la temperatura adeguata. Si fanno ripetute iniezioni dello stesso campione in condizioni diverse mantenendosi nel range detto dalla ditta, perché va trovato il flusso ottimale (trasferimento di massa e distribuzione longitudinale). La granulometria è implicata in potenziali percorsi multipli. I problemi di miscele multicomponenti: picchi non completamente risolti, picchi allargati e tempi lunghi. Si può lavorare sul flusso, temperatura o cambiare la fase mobile che però è tecnica cromatografica-dipendente. In generale, in cromatografia si può fare l’eluizione isocratica (nessun cambiamento della composizione della fase mobile durante la corsa); per le altre tecniche, si varia la composizione della fase mobile ma non decisa perché la composizione della fase mobile può essere anche data dalla miscela di 2 fasi. Si riducono i tempi di analisi ma anche la risoluzione è minore. L’eluizione con cambiamenti graduali di condizioni è detta a gradiente. Il gradiente più usato è fatto cambiando la composizione della fase mobile durante la corsa per favorire la migliore separazione degli analiti. Si deve trovare flusso, t e condizioni di fase mobile ottimali per ridurre i tempi di analisi senza perdere di risoluzione. Si possono usare miscele di fasi mobili, es partendo da 30% di uno si deve arrivare gradualmente a 95% in 30min. Deve poi rimanere a 95% per un po', e poi si toglie. Si vuole capire quanto deve essere pendente il gradien te, perché se si riduce il tempo, i picchi si avvicinano tutti perché le molecole tenderanno a coeluire. Se non si usa questo oppure si rimane a 30% metanolo, i tempi di analisi si dilungano e si ha anche uno slargamento dei picchi (il n di piatti teorici si riduce col tempo di ritenzione). Di solito si parte da un’isocratica nel caricamento del campione, poi un gradiente analitico (per separare le componenti), poi un gradiente 2 con la specie 2 per fare un lavaggio (per garantire che si stacchino tutti gli analiti) e poi con un’isocratica 3 c’è il riequilibrio. In cromatografia ad esclusione molecolare non si lavora a gradiente non ci deve essere interazione con la fase stazionaria. Per evitare tale inconveniente si possono aggiungere solventi organici (es acetonitrile) e sali (es NaCl) per rompere le interazioni ioniche e idrofobiche. Si lavora quindi in isocratica. Nella fase stazionaria idrofobica e una fase mobile molto salina, le proteine preferiscono stare con le porzioni idrofobiche a contatto con la fase stazionaria (ritenzione). Proteine più idrofobiche lo faranno anche a basse concentrazioni di sali. È anche possibile avere metodi cromatografici 2D, ci sono sistemi che consentono di fare 2 separazioni in modo sequenziale perché magari non si riesce a separare alcuni picchi. Nella prima si fraziona il campione e ciascuna si separa su una 2° colonna. 14 Spettroscopia UV-VIS Le oscillazioni del campo elettromagnetico si propagano generando onde. Queste oscillazioni in mezzo omogeneo si propagano in modo lineare con velocità costante (nel vuoto v luce), possono essere splittate in campo elettrico e magnetico in sistema di riferimento cartesiano dove sono ortogonali tra di essi rispetto alla direzione di propagazione. L’onda è una struttura che si ripete in maniera periodica nello spazio e nel tempo. Ha: velocità, λ, e frequenza v (quantità di oscillazioni per unità di tempo = periodicità). v = c/λ. L’energia di un’onda: E =hv. Il valore della frequenza non cambia se cambia il mezzo di propagazione, ma cambierà la λ a seconda del mezzo che viene attraversato. Un flusso di onde è un insieme di radiazioni elettromagnetiche che si propagano nella stessa direzione, e possono essere monocromatiche (= λ) oppure policromatiche. L’intensità è l’energia totale fornita al secondo su una superficie, di solito si usa lo steradiante (considerando un punto di emissione di luce, si può disegnare una sfera all’interno della quale si propaga). Il vertice della sfera che sottende a una calotta che ha un’area uguale a un quadrato che ha per lato il raggio della sfera. Steradiante (Sr): Unità di misura dell'angolo solido (simbolo sr), pari a quello con il vertice nel centro sfera che sottende una calotta di area uguale a quella del quadrato che ha per lato il raggio della sfera -> per un fascio policromatico, è la somma delle energie delle singole radiazioni, mentre per un fascio monocromatico è legata all’ampiezza dell’oscillazione che corrisponde alla massima perturbazione dell’onda rispetto alla situazione di equilibrio. Orbitale molecolare: orbitale atomico è la funzione d’onda definita con ψ che descrive le orbite che l’elettrone percorre in un atomo. Il molecolare invece è esteso a due o più atomi uniti da un legame covalente, ed è la sovrapposizione come prodotto di fusione per sovrapposizione di due orbitali atomici. Orbitale di legame = contenuto energetico minore, ma regione nello spazio dalla massima probabilità di ritrovare gli elettroni; antilegame = contenuto energetico maggiore ma minima probabilità di trovare elettroni. Quelli di legame e antilegame possono essere: semplici (σ), dove la sovrapposizione è lungo l’asse internucleare; multipli: la sovrapposizione è perpendicolare rispetto all’asse internucleare – gli orbitali atomici in questo caso sono bilobati e ortogonali rispetto all’asse internucleare. Orbitali di non legame: orbitali del guscio esterno in cui si hanno doppietti elettronici che non partecipano alla formazione di legami (perciò detti orbitali di non legame). Transizioni elettroniche: è possibile fornire opportuni quanti di energia eccitando le molecole promuovendo elettroni ad orbitali di antilegame. Questi quanti energetici sono definiti dalla distanza energetica tra gli orbitali di legame e antilegame. Quando però si fornisce energia, non è possibile che la molecola ne prende una parte e la restante venga dispersa. La molecola immagazzina un tot di quanti per il trasferimento, ma altri possono essere trasferiti per altri stati della molecola come moti rotazionali e vibrazionali. Una volta che le molecole sono eccitate, tenderanno a cedere l’energia in eccesso per tornare allo stato fondamentale -> questo processo è detto rilassamento. L’elettrone dissiperà l’energia acquisita o sottoforma di calore o di radiazione elettromagnetica. In caso di rilassamento per emissione di altre onde elettromagnetiche, queste avranno un’energia minore -> frequenza minore -> λ è maggiore rispetto alla radiazione che era stata fornita. Questo perché parte dell’energia sarà dispersa come calore. Le radiazioni elettromagnetiche nel campo dell’ultravioletto e della luce visibile hanno frequenze ν corrispondenti a quanti energetici E adatti a favorire transizioni elettroniche. L’energia dell’infrarosso favorisce solo i salti da stati vibrazionali e rotazionali (no energia per coprire la distanza per i salti). Spettroscopia: si fa riferimento a tecniche usate per mettere a punto metodi analitici, qualitativi e quantitativi, che si basano sulla misura del segnale proveniente da un campione irradiato con flusso di radiazioni EM. La spettroscopia UV-vis è detta spettrofotometria. Utilizza radiazioni monocromatiche (ad una singola λ selezionata) in grado di provocare transizioni elettroniche degli elettroni di legame. In questo modo si studia quindi la materia sulla base dei legami chimici presenti nelle molecole. Questo perché il quanto energetico necessario è dato dalla natura dei legami 15 chimici. In spettroscopia UV Vis ci si riferisce alla lunghezza d’onda invece che alla frequenza (200-400 nm per le radiazioni ultraviolette, 400-800 nm per la luce visibile). Meccanismo: fascio EM fornito da una sorgente -> campione è irradiato da fascio monocromatico e questa avrà una sua intensità -> il campione può acquisire una quota della radiazione incidente ed emettere con un’intensità diversa; il campione emette una radiazione. Si misura l’intensità della radiazione elettromagnetica emergente dal campione che può essere la quota della radiazione incidente non assorbita tecniche in assorbimento, oppure l’intensità di una nuova radiazione emessa dal campione durante il rilassamento tecniche in emissione. Tecniche in assorbimento: Si misura l’intensità della quota di radiazione elettromagnetica non assorbita dal campione (banda passante). La misura è espressa come trasmittanza o, più comunemente, come assorbanza. La radiazione emergente avrà la stessa lunghezza d’onda della radiazione incidente, ma minore intensità. Solo alcune molecole con specifici legami chimici verranno eccitate, quindi solo alcune possono assorbire la radiazione incidente. Il campione assorbirà solo se contiene analiti con una differenza di energia tra i livelli energetici di un orbitale di antilegame e un orbitale di legame (o di non legame) uguale all’energia della radiazione. L’assorbanza di un campione è proporzionale al numero di molecole (che assorbono) attraversate dalla radiazione monocromatica. Siccome le radiazioni si propagano su una retta, se si attraversa una soluzione il numero di molecole attraversate dipenderà dalla concentrazione (c) e dalla profondità del contenitore cammino ottico (b) che di solito si cerca di mantenere costante. A parità di concentrazione e cammino ottico, analiti diversi danno una assorbanza (sperimentale) diversa. La stessa soluzione di un analita ha un’assorbanza diversa a diverse lunghezze d’onda λ. Questa proprietà intrinseca di ogni molecola viene detta coefficiente di estinzione molare ε ed è l’assorbanza ad una lunghezza d’onda λ di una soluzione 1 M in un sistema con un cammino ottico di 1 cm -> diversi analiti avranno diversi valori di assorbanza a un certo cammino ottico costante. A diverse λ lo stesso analita avrà A diverse. Questa proprietà intrinseca è detta ε. Si può usare per ricavare la concentrazione incognita di un analita tramite costruzione di una retta di calibrazione che metta in relazione A e c. Quindi, per trovare la concentrazione incognita: A/ε. Se si ha uno standard (es proteina) preparato a diverse concentrazioni (diluizioni seriali) e si appuntano i valori di A registrati per ciascuno -> rapporto lineare fino al limite di detection per fare l’interpolazione. L’utile della legge di Lamber-Beer è proprio in questo rapporto di linearità. Strumento: sorgente genera onde EM con una sufficiente intensità – per λ vis si usano lampade di incandescenza con filamento a tungsteno (con λ 930-330nm) oppure a deuterio per UV ( gli strumenti sono in grado di fare più letture a diverse λ facendo una scansione = dà Assorbanza a tutte λ e restituisce uno spettro di scansione. La curva avrà valori di massimo (λ a cui la molecola ha acquisito energia per promuovere la transizione elettronica), e sulla base di questi si può risalire alla struttura chimica della molecola. A quel punto, si può ripetere l’analisi a λ fissa dove la molecola assorbe tanto, e ripetere l’analisi a diverse concentrazioni per costruire la curva. Definisce la natura chimica dei legami nella molecola. Gli spettrofotometri a singolo raggio: prima si mette la cuvetta con il solvente per I 0 e poi si mette il campione. Su uno spettrofotometro a doppio raggio i valori di I 0 e I sono misurati con una sola lettura del solvente (per determinare I 0) e campione (per determinare I) grazie ad un doppio compartimento e un sistema di sdoppiamento del cammino ottico. Rivelatori a fototubi sfruttano l’effetto fotoelettrico (emissioni di elettroni dalla superficie di alcuni materiali qualora colpiti da una radiazione luminosa). I fotomoltiplicatori hanno dinodi che servono da acceleratori: gli elettroni emessi dal catodo fotosensibile (punto di partenza del rilevatore) sono accelerati da una differenza di potenziale fino al 2° conduttore che libera maggiori elettroni e così via a cascata, migliorando la sensibilità dello strumento. Il problema è che possono andare incontro all’affaticamento (deteriomento della superficie dei dinodi). Si può aumenta il potenziale elettrico per accelerare di più gli elettroni, ma può essere compensato in parte (diverse slide saltate fino a 60 che non sono da fare). Siccome la lunghezza d’onda di assorbimento di campioni incogniti non è predeterminabile, di solito si procede ad una scansione, cioè si irradia il campione con lunghezze d’onda crescenti, registrando lo spettro di assorbimento. Siccome all’interno di uno stato elettronico (eccitato o rilassato) gli elettroni hanno energie simili ma non identiche perché il livello vibrazionale e rotazionale può essere diverso. Gli spettri sono costituiti da una serie di righe ravvicinate dando lo spettro di assorbimento (diagramma dell’assorbimento in funzione di λ). Da 54 a 59 no slide. E poi fino alla 64. Transizioni e regole di selezione - perché avvenga una transizione elettronica devono essere soddisfatti due requisiti: 1. Bisogna fornire un quanto energetico pari all’energia necessaria a promuovere un elettrone dal livello rilassato a quello eccitato energia di transizione 2. La transizione deve rispettare le limitazioni imposte dalle leggi della meccanica quantistica (regole di selezione). Le transizioni con una probabilità maggiore di avvenire daranno un assorbimento maggiore (massimo di assorbimento) Ci sono 3 regole di selezione: Laporte (spostare elettroni equivale a spostare cariche, ci sono limitazioni dovute al momento dipolare elettrico), di spin (non sono ammesse transizioni in cui cambia il numero quantico di spin), e di simmetria (transizioni in cui viene rotta la simmetria (es. sistemi aromatici) sono sfavorite). Questo è il motivo per cui alcune entità chimiche hanno assorbimenti maggiori rispetto ad altri. Quando si fa un legame singolo, l’energia richiesta per una transizione elettronica di un legame singolo è elevata e si può ottenere solo con radiazioni EM dell’UV lontano ( pi greco antilegame. Le transizioni dovute al doppio legame sono dette bande E. A minore λ corrisponde una maggiore intensità a meno di qualche eccezione a causa di regole di selezione. Quindi, molecole con solo singoli legami o un solo doppio legame non sono essere utilizzabili perché coperti dal solvente. Fenomeni di coniugazione = molecole con sistemi di doppi/tripli legami separati da un legame singolo. Il vantaggio del sistema coniugato è che quando si ha questo, la distanza tra HOMO (antilegame) e LUMO (legame) decresce con l’aumentare della coniugazione. Minore distanza -> minore energia richiesta -> minore frequenza -> maggiore λ. All’aumentare della coniugazione, ci si sposta dalla regione di UV dove assorbono i solventi per cui si può distinguerlo dal segnale di assorbimento dei solventi in modo che non copra quello del soluto. Ci sono 2 tipi di transizione dei sistemi coniugati pi greco – pi greco antilegame: banda K o di coniugazione (molto intensa e λ > 220nm variabile in base al grado di coniugazione), la B benzenoide (tipica del benzene con λ circa 250- 270nm = l’eccitazione di un sistema aromatico puro è fortemente sfavorita a causa di restrizione di simmetria secondo le regole perché sfavorisce la delocalizzazione degli elettroni). La coniugazione non è solo associata ad aumento di λ (spostamento batocromico) ma anche a quello di intensità in maniera additiva (effetto ipercromico). L’effetto contrario allo spostamento batocromico è detto spostamento ipsocromico o blue shift (a λ minori), e l’effetto della diminuzione dell’intensità è detto effetto ipocromico. I doppi legami isolati rispondono come molecole indipendenti, non aumenterà λ ma l’intensità perché lambert beer è additiva -> effetto ipercromico). Se aumenta il n di doppi legami coniugati, aumenta il batocromico di 30nm uno e aumenta anche l’intensità in maniera maggiore rispetto agli isolati. Le molecole con doppi legami coniugati possono essere analizzate in spettroscopia UV. L’analisi non è qualitativa, perché non si può caratterizzare le molecole. Il benzene ha un anello aromatico, 3 doppi legami coniugati) ma un assorbimento molto basso se confrontato ad un triene (composto con 3 doppi legami) coniugato, perché secondo le regole di selezione l’aromaticità ha un alto grado di simmetria che rende le transizioni sfavorite. Il benzene risponde poco in termini di intensità. LOD è il limit of detection e minore è, maggiore è la sensibilità dello strumento. Per il benzene, anche se ha un λ che si discosta, secondo la simmetria, comporta una sensibilità scarsissima, tanto che si può essere sotto il LOD. Il benzene risponde poco e, come tale, si può analizzare ma con una sensibilità scarsa (risposta strumentale poco intensa). LOD = concentrazione a cui c’è uno spostamento rilevabile dallo zero della tecnica. Auxocromi: Alcuni sostituenti non contenenti doppi legami (non cromofori) provocano un aumento della ε (del benzene tali gruppi sono detti auxocromi cioè gruppi chimici che non assorbono ma sono in grado di influenzare la ε e la λmax (shift batocromico effetto ipercromico) di cromofori base. Anche la coniugazione ha un effetto batocromico e ipercromico sul benzene. Da sole quindi non assorbirebbero, ma aggiunte al benzene, ne modificano la ε dan do uno shift batocromico e ipercromico, perché aumentano la delocalizzazione rompendo la simmetria. Oppure si possono aggiungere dei cromofori (con entrambi shift). L’effetto di auxocromi è riconducibile all’effetto coniugazione che 18 rende più asimmetrico il sistema aromatico. Nel caso del fenolo, oltre all’effetto di risonanza che aumentano gli shift, se si mette a pKa secondo Andersson Hasselbach, lo si avrà nella forma deprotonata (fenato) e la delocalizzazione sarà ancora maggiore con un aumento sia λ che di intensità. La lunghezza di assorbimento dipende anche quindi dal pH. Il legame peptidico/ammidico ricade tra 210-220nm per n-> pi greco stare oppure può dare transizioni pi greco – pigreco antilegame dove verrebbe coperta dai solventi anche lì. Quindi si possono rilevare gli aa aromatici (Phe, Tyr, Trp) che assorbono a 260-280nm. Questo grazie ai loro sostituenti. Anche le basi puriniche e pimidiniche assorbono bene grazie a sistmi di delocalizzazione di anlelli aromatici a 260nm e in alcuni casi si possono sovrapporre a quello di proteine dando un dato quantitativo sbagliato. Quindi ci si deve assicurare di aver rimosso gli acidi nucleici. Finite le tecniche in assorbimento, ora quelle in emissione. Si misura l’intensità della radiazione EM emessa dal campione in seguito ad eccitazione. La molecola per rilassamento emetterà una emissione con λ maggiore ed energia minore e così si legge la radiazione emessa per rilassamento. In assorbimento si leggono alla stessa λ (si calcola A = lo strumento rileva prima dell’elaborazione l’intensità della radiazione emergente, ovvero quella residua), mentre nelle tenciche in emissione lo strumento legge a una λ differente perché le molecole eccitate si rilassano, dissipando dell’energia sottoforma di calore ed emettono nuova radiazione con una frequenza inferiore e quindi λ maggiore. Queste tecniche irradiano a una λ e leggono a una λ diversa. L’intensità viene letta in maniera ortogonale rispetto alla radiazione incidente. Allo strumento vanno messi λ di eccitazione e di emissione, per cui servono 2 monocromatori: uno per selezionare la radiazione incidente e uno per quella emessa che verrà capita dal rivelatore. Le tecniche in emissione entrano nell’ambito di luminescenza (fenomeni che portano all’emissione di luce visibile) e l’eccitazione può derivate da: reazioni chimiche (chemiluinescenza), bioch imiche (bioluminescenza), irradiamento (fotoluminescenza). Fotoluminescenza: quando la materia è irradiata, gli elettroni vengono eccitati e promossi a un livello en ergetico superiore di antilegame. L’energia accumulata può essere dispersa sotto forma di calore per rilassamenti vibrazionali o conversione interna rilassamento non radiativo. In alcuni casi il rilassamento è radiativo: parte dell’energia è dissipata tramite l’emissione di una radiazione elettromagnetica e può avvenire per Fluorescenza e Fosforescenza. Fluorescenza: La radiazione viene emessa circa 10 -10 -10 -7 secondi dopo l’irradiamento (il fenomeno si estingue praticamente subito dopo l’irradiamento). L’emissione avviene a partire da un livello energetico più basso di quello raggiunto in seguito all’eccitazione; perciò, la radiazione emessa ha minor energia di quella eccitante lunghezza d’onda maggiore, frequenza minore. Nella fosforescenza: - per due elettroni su orbitali diversi si definisce stato di singoletto una condizione in cui il guscio esterno contiene un numero pari di elettroni con spin antiparallelo (s=0), singoletto rilassato quando entrambi gli elettroni sono sull’orbitale di legame, eccitato se un elettrone è sull’antilegame e uno su quello di legame. - Stato di tripletto c’è quando l’elettrone sull’orbitale di antilegame ha spin parallelo a quello su quello di legame. Questa condizione è sfavorita dalle regole di selezione ma può verificarsi. La fosforescenza è l’emissione di radiazione per rilassamento da uno stato di tripletto allo stato di singoletto rilassato (con inversione di spin). La fosforescenza differisce dalla fluorescenza perché durante il rilassamento si ha anche un’inversione di spin. La fosforescenza avviene in seguito ad una conversione intersistema ad uno stato di tripletto (che ha comunque un livello energetico più basso di quello raggiunto in seguito all’eccitazione, perciò la radiazione emessa ha minor energia di quella eccitante (lunghezza d’onda maggiore, frequenza minore). La fosforescenza: la radiazione viene emessa circa 10 -6-10 secondi dopo l’irradiamento (il fenomeno può persistere anche quando l’irradiamento è terminato). La radiazione ha lunghezze d’onda maggiori anche rispetto alla fluorescenza perché la conversione intersistema comporta dispendio di energia. L’utilità analitica è marginale, essendo richiesti tempi lunghi per l’instaurarsi del fenomeno. La fluorescenza è un fenomeno più raro dell’assorbimento, non tutte le molecole che assorbono possono dare fluorescenza. L’assorbimento è essenziale ma non sufficiente per dare fluorescenza - una molecola deve avere ridotte possibilità di dissipare l’energia in eccesso per via non radiativa. La flessibilità molecolare favorisce la trasformazione dell’energia elettronica in energia vibrazionale e/o rotazionale (aumenta la possibilità di collisione fra le molecole) e 19 quindi rende il ritorno allo stato fondamentale più probabile mediante conversione interna a scapito dell’emissione. La maggior parte delle molecole che danno fluorescenza infatti sono molecole planari con elevata rigidità. Analogamente alla spettroscopia in assorbimento, il gruppo responsabile della fluorescenza è detto fluoroforo. L’HPLC si usa solo in assorbimento. 20 Spettrometria di massa Un tubo posto sottovuoto al cui è applicata una differenza di potenziale -> formazione di elettroni e radiazioni positive all’interno di tubi. Il fascio di elettroni poteva essere deviato attraversando una coppia di elettrodi a cui poteva essere applicato un campo elettrico o magnetico. Thompson così dimostro che il fascio costituito da corpuscoli di massa m e carica z poteva viaggiare con una v definita all’interno del tubo, ma il fascio aveva un angolo di deviazione direttamente proporzionale alla lunghezza degli elettrodi (misura fissa costante) e proporzionale al campo E o M se applicati al tubo. Andò a variare il campo E e M finchè non raggiungeva lo stesso angolo di deviazione (valore di campo tale da ottenere lo stesso angolo di deviazione), quindi potendo uguali i due angoli di deviazione, si determina il rapporto massa su carica dei singoli corpuscoli (corpuscoli a massa differente avevano angolo di deviazione diverso). I corpuscoli erano elettroni. Ha costituito lo strumento (parabola spettrografica) che permetteva di misurare il rapporto m/z anche per ioni. La parabola poteva essere usata per analizzare sostanze in quanto costituite da atomi diversi e quindi con un loro PM, e le sostanze potevano essere misurate tramite rapporto m/z. Per uno spettrometro di massa, serve: ➔ sistema di iniezione del campione (che ha il compito di portare gli analiti in stato di ioni gassosi) e per farlo serve la sorgente di ionizzazione (interfaccia tra sist di iniezione e l’analizzatore). ➔ L’analizzatore è la 2° componente, consente di separare gli ioni su base di m/z ognuno di quali ha un particolare angolo di deviazione, ➔ Serve un rilevatore che risponda in modo proporzionale al n di ioni gassosi selezionati. La sorgente porta il campione in stato gassoso e gli dà carica netta (ionizza) -> analizzatore (misura m/z) -> detector. 1° sorgente è a impatto elettronico – il campione può essere già gassoso oppure liquido vaporizzato per desorbimento termico (aka grazie all’applicazione del vuoto e fornendo calore, è vaporizzato). Quando il campione è introdotto vaporizzato, attraversa la sorgente, gli analiti attraversano la sorgente e attraversano il fascio di elettroni realizzato tramite riscaldamento di un filamento di tungsteno. Gli elettroni colpiranno l’analita che potrà subire o l’eiezione di elettrone o la cattura diventano un radicale carico. Se subisce eiezione di elettroni l’analita avrà una carica positiva, se 21 invece lo cattura, porterà una carica negativa. Il vantaggio è che qualsiasi analita risponde bene alla ionizzazione elettronica, ma è hard e il problema è che se le molecole, colpite da fascio di elettroni, possono frammentare – legami deboli in una molecola frammentano perché la ionizzazione è hard e questo non va bene per le macromolecole di origine biologica perchp non si potrebbe più determinare PM della molecola iniziale ma solo di suoi frammenti. Va quindi bene solo per molecole piccole, volatili o gassose, e termicamente stabili (no proteine). Usata ancora oggi come GC-MS. 1° analizzatore: tra la sorgente e l’analizzatore ci sono lenti di focalizzazione che hanno voltaggi specifici e che consentono di accelerare gli ioni che arrivano dalla sorgente, li accelerano e li focalizzeranno affinché entrino nel settore magnetico, elemento che va a separare le molecole su base m/z perché, applicando un diverso campo E, quali ioni riusciranno ad arrivare al detector? Solo quelli che avranno una curva di deviazione che consentirà di usare la fenditura in uscita. Il settore magnetico ha una sua curvatura, a seconda del campo E applicato, ci sarà una combinazione di campi E e M tale da garantire l’angolo di curvatura che permetterà agli ioni di attraversare la fenditura fino al detector. Le forze in gioco: ciascun ione avrà una sua intrinseca K (energia cinetica), no sapere equazione. Ciascun ione attraverserà l’analizzatore a una data velocità, che dipenderà dall’impulso iniziale del campo E applicato che avrà un suo voltaggio. Per attraversare il magnete che avrà un suo raggio, a una data v, è necessario che la forza centrifuga dell’elettrone (proporzionale alla massa dello ione) sia bilanciata dalla centripeta (data dall’azione di campo M applicato e che fornirà un n di cariche z allo ione). Quindi, per avere il corretto angolo di deviazione, ciascuno ione deve avere una determinata forza centrifuga (che dipende dalla massa) e centripeta (che dipende dallo stato di carica che dipende dal campo M), mentre E cinetica dipende dal campo elettrico. Il rapporto m/z quindi dipende dal campo M ed è inversamente proporzionale al campo E = accelera gli ioni con un campo elettrico applicato, solo alcuni ioni con un determinato rapporto m/z sono in grado di attraversare il magnete fino al detector. Variando il campo M, si può selezionare uno ione con un m/z. Bisogna variare M perché se no arriverebbero al detector solo una parte di ioni e si fa quindi scansione di tutti i possibili m/z. Rivelatore: elettromoltiplicatore Il fascio di ioni colpisce un catodo sensibile che, colpito da fascio di ioni che attraversa la fenditura, emetterà elettroni. Gli ioni emessi dal primo elemento sono accelerati da un campo elettrico prima di impattare con un secondo elemento sensibile (dinodo). Gli elettroni che impattano col secondo dinodo liberano maggiori elettroni rispetto al primo elemento, e avendo acquistato maggiore energia cinetica, la presenza di una serie di dinodi consente di amplificare 22 molto il segnale elettrico registrato e aumentare la sensibilità. Il problema è l’usura, tanto che ogni 5-6 anni va cambiato perché i dinodi si usurano per affaticamento. L’usura richiede una maggiore differenza di potenziale per favorire sempre la stessa quantità di elettroni quindi si inietta una soluzione di calibrazione e si va ad aumentare ΔV. Si ottiene lo spettro di massa, diagramma in cui in relazione al rapporto m/z si ha un segnale con una sua specifica intensità (dipende dal n di ioni che arriva al catodo sensibile). Sulla y = abbondanza relativa = si dà il 100% al segnale più abbondante, e gli altre % sono relative. Si può anche chiedere su y di avere l’intensità assoluta (numero puro proporzionale all’intensità della corrente registrata per scansione o numero di conteggi aka quante scansioni sono state fatte per un dato m/z). Vantaggio: sorgente che si presta a ionizzare qualsiasi tipo di molecola. Ma, la frammentazione prodotta dall’impatto elettronico consente di avere info strutturali solo se il campione è puro, perché altrimenti le impurezze sono difficilmente identificabili. Problema quindi per matrici biologiche. Altro problema è che l’analizzatore necessita di un magnete potente, ingombrante e costoso, e pericolo di esposizione dell’operatore. L’analisi in MS di molecole biologiche è stata possibile grazie a sorgenti di ionizzazione soft – ESI e MALDI. MALDI richiede il deposito sulle piastre di acciaio inox (target), costituite da tante fenditure su cui viene depositato il campione (miscelato già con una matrice). Solo una goccia della miscela è depositata all’interno di fenditure sul target. Si lascia evaporare il solvente, quindi si avrà un secco sul target. Il campione e matrice verrà colpito da un raggio laser e questo calore fornito farà sublimare analiti e matrice dal target. Quando sublimano, sarà la matrice a trasferire o catturare protoni (forniti o catturati protoni non elettroni) e gli analiti passeranno in fase gassosa. Quando il campione analita a massa m catturerà un protone, la molecola è stata protonata. Le matrici che protonano = molecola carica +, deprotonano ha carica -. Si può lavorare o a polarità positiva o negativa ed è per questo che serve questa precisazione. I vantaggi della sorgente MALDI è che molecole labili come aa non frammentano (va bene anche per PM alti), la matrice può essere opportunatamente modificata – composti solubili devono assorbire a 337nm. Il vantaggio è anche che non c’è interferenza da sali inorganici tamponi. MALDI dà stato di carica +1, il che è una differenza con ESI. La matrice ha il compito di: 1. Assorbire l' energia del laser 2. Convertire l' energia assorbita in calore da cedere all'ambiente circostante 3. Sublimare per effetto del calore ceduto desorbendo (cioè trascinando via) dalla superficie solida gli analiti dispersi nella matrice 4. Ionizzare gli analiti nella fase di aerosol create durante il processo di sublimazione/desorbimento. Svantaggio: MALDI non può essere accoppiata a nessun metodo separativo perchè il campione è depositato sul target. Ma un grosso vantaggio è la precisione del raggio laser nell’ordine di 2.94 μm permettendo l’analisi di tessuti. Si può quindi partire da una slice di tessuto depositata sul target e si può colpire sulla slice porzioni vicinali per quantificare una molecola target all’interno del tessuto che deriva dalla slice dell’organo. ESI: Il campione in soluzione acquosa (o in altro solvente dove si creano soluzioni elettrolitiche in grado di condurre elettricità) viene fatto flussare all’interno di un capillare metallico a cui è applicata una differenza di potenziale rispetto all’analizzatore (inlet analizzatore). La soluzione all’uscita del capillare è nebulizzata utilizzando gas inerte che può essere a temperatura ambiente o riscaldato. L’aerosol è diretto verso l’ingresso dell’analizzatore e risucchiato dal vuoto. La soluzione viene spinta tramite una pompa o una siringa all'interno di un capillare metallico carico per effetto di una differenza di potenziale applicata tra il capillare e l'ingresso dell'analizzatore. La soluzione viene 23 nebulizzata in goccioline mediante un gas inerte che flussa in un capillare esterno rispetto al capillare concentrico carico. Durante il passaggio nel capillare il voltaggio favorisce la protonazione o deprotonazione di molecole con gruppi acidi o basici (anche deboli), in base al pH della soluzione ad alle caratteristiche dei gruppi chimici posseduti. In presenza di sali le molecole possono cationizzare (associarsi a cationi invece che a protoni). Si creano goccioline in cui la carica netta non è più neutra ma prevalgono cariche positive (capillare carico positivamente) o negative (capillare carico negativamente). La polarità dipende dallo stato di carica del capillare. Se il capillare è positivo, favorisce la protonazione degli analiti. Gli analiti con carica opposta al capillare saranno trattenuti - le goccioline nebulizzate conterranno quindi un eccesso di ioni della stessa carica del capillare. Sotto il pI, c’è una carica +. Quelle con carica negativa sono rallentati e anche quando arrivano nella zona di nebulizzazione, per repulsione sono allontanati e non entrano proprio nel nebulizzatore. Le cariche in eccesso nelle goccioline sono attratte dall'analizzatore che ha carica opposta mentre tra di loro creano fenomeni di repulsione che rendono instabili le goccioline. Le cariche in eccesso per repulsione tenderanno a rompersi per cui si avrà una rottura delle goccioline per repulsione. Il gas attraversa l’intercapedine del probe per favorire la nebulizzazione. Le goccioline di liquido contenenti un eccesso di cariche sono infatti stabili finché la tensione superficiale vince la repulsione delle cariche. Siccome il gas nebulizzante tende ad evaporare il solvente le goccioline si rimpiccioliscono fino al punto di instabilità, raggiunto quando la tensione superficiale non riesce più a vincere la repulsione tra le cariche. La goccia ha n cariche – il solvente evapora e la tensione superficiale non può più vincere la repulsione delle cariche – esplosione con analiti totalmente vaporizzati. Come avviene la nebulizzazione? Avviene in uscita grazie al gas inerte, al calore fornito evapora il solvente -> si riduce la tensione superficiale -> vince la repulsione delle cariche fino ad avere i singoli analiti carichi. I gasi servono soprattutto a flussi alti. I peptidi e le proteine sono molecole che rispondono molto bene alla ionizzazione ESI. Sono infatti molecole dotate di gruppi acidi e basici ed esistono in soluzione in forma carica come zwitterioni. Per queste molecole si riescono ad ottenere spettri di massa senza indurre frammentazione. La ESI come la MALDI è definita ionizzazione soft. La carica netta di peptidi e le proteine è facilmente modulabile variando il pH. Generalmente si lavora a pH acidi analizzando ioni positivi M+zH z+ dati dalla protonazione delle molecole con un numero variabile z di protoni H. La ionizzazione ESI di proteine prevede quindi che il campione venga solubilizzato in soluzione prevalentemente acquosa, eliminato dal particolato per filtrazione per non ostruire il capillare, diluito in un tampone volatile acquoso 24 (ad esempio ammonio acetato) se si vuole analizzare la proteina in condizioni non denaturanti (soluzione meno comune usata per studi strutturali avanzati che riguardano la conformazione delle proteine). La ionizzazione ESI può essere però favorita aggiungendo acidi organici volatili (acido formico e acido acetico) per creare ioni positivi oppure basi organiche volatili (per creare ioni negativi). Si può lavorare anche con tamponi volatili deboli (sali di ammonio con acidi organici volatili, carbonati e bicarbonati). L'aggiunta di acidi se non causa precipitazione, favorisce la denaturazione delle proteine e aumenta l'area di contatto proteina-solvente Questo fenomeno, insieme all'abbassamento del pH, favorisce la formazione di ioni multicarica con z maggiori che in ambiente solo acquoso. Avere più cariche serve perché si lavora in un range di rapporto m/z e così si aumenta la superficie di contatto tra proteina e solvente perché è quello che fornirà maggiori cariche. Imp!. Ioni multicarica = nella soluzione, n moli di determinata proteina -> non è detto che tutte le moli avranno lo stato di carica es 80 per dare segnale a tot, ma ci sarà una distribuzione a gaussiana che rispecchierà la predisposizione della prot eina ad assumere una certa carica. L'aggiunta di solventi organici volatili (etanolo, acetonitrile) favorisce l'evaporazione del solvente abbassando la tensione superficiale quindi aumenta la risposta strumentale (la soluzione nebulizza); l'aggiunta di solventi organici volatili (etanolo, acetonitrile) favorisce l'evaporazione del solvente abbassando la tensione superficiale; quindi, aumenta la risposta strumentale (la soluzione nebulizza meglio e porta più analiti all'analizzatore), e si portano più analiti all'analizzatore. I peptidi e le proteine, visti i numerosi siti acidi e basici, generano tipicamente diversi segnali tutti dati da ioni multicarica in cui z> 1. Lo stato di carica di peptidi e proteine è associato alle condizioni sperimentali ed alla conformazione che influenza la superficie proteica esposta protonabile. Modalità di ionizzazione che prevedono la formazione di ioni multicarica (come la ESI) hanno due svantaggi: 1. tipicamente ogni analita produce molti segnali multicarica e quindi a n segnali nello spettro di massa saranno assegnabili un numero non precisato di analiti. 2. Per ogni analita il valore di m/z determinato in spettrometria di massa non coincide con la massa dello ione (se z> 1 allora m/z