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storia del diritto medioevale.pdf

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SIG - Studenti Indipendenti Giurisprudenza I TEMPI DEL DIRITTO PROF.CAVINA LE RADICI PROFONDE D’EUROPA 1-LA FINE DEL MONDO ANTICO La tradizionale partizione scolastica afferma che la fine dell’età antica e l’inizio del medioevo coincida con l’anno 476 d.C. anno i...

SIG - Studenti Indipendenti Giurisprudenza I TEMPI DEL DIRITTO PROF.CAVINA LE RADICI PROFONDE D’EUROPA 1-LA FINE DEL MONDO ANTICO La tradizionale partizione scolastica afferma che la fine dell’età antica e l’inizio del medioevo coincida con l’anno 476 d.C. anno in cui fu deposto l’ultimo imperatore (Flavio Romolo Augustolo) dell’impero romano d’Occidente dal generale “barbaro” Odoacre. L’impero romano d’Oriente invece sarà destinato a sopravvivere per altri mille anni. Di questo evento si deve ridimensionare la portata per due motivi: 1. Da più di un secolo il centro politico, militare ed economico si era spostato verso est così come aveva voluto l’imperatore cristiano Costantino. Egli a metà del IV secolo aveva articolato il comando dell’impero in due aree, quella occidentale e quella orientale. Aveva inoltre avviato la costruzione di una nuova capitale sita nella ex Bisanzio che verrà chiamata Costantinopoli. 2. La deposizione di un imperatore per mano di un generale germanico non era un fatto inedito infatti i contemporanei non lo percepirono come un evento di definitiva rottura. Odoacre stesso aveva inoltre mandato le insigne imperiali a Costantinopoli come segno di formale deferenza, e Zenone (imperatore d’Oriente) rispose conferendogli il titolo nobiliare di “patritius”. Il periodo di instabilità che si aprì in Occidente fece da contraltare all’ascesa politica di Costantinopoli. Essa raggiunse una primazia ancora maggiore con Giustiniano. Egli non si ricorda solo per il suo valore in ambito legislativo ma anche per la sua strategia di ricomporre l’unità dell’impero. Questa sua scelta culminò con la guerra gotica (535-553), quindi avremo i bizantini contro gli ostrogoti che si erano stanziati in Italia creando un regno autonomo. La vittoria del generale Belisario permise per un periodo di tempo di riunire le due aree dell’impero e in modo particolare l’Italia. Il territorio peninsulare fu suddiviso in aree amministrative facenti capo a Ravenna situata al centro dell’Esarcato. Ravenna era direttamente collegata a Costantinopoli, qui vi risiedeva il rappresentante dell’imperatore chiamato “Esarca”, capo militare, politico dotato di una propria burocrazia, inoltre deteneva l’ultima istanza della giustizia civile e penale. Il dominio bizantino italiano era suddiviso in varie circoscrizioni con a capo dei duchi, nominati dall’esarca. Essi replicavano nelle sedi locali i suoi poteri, con dei compiti particolari dediti all’Exercitus Italiae. Sempre alle dipendenze dell’Esarca vi era il prefetto d’Italia che aveva compiti fiscali e finanziari, a capo di due ampie circoscrizioni rette da due vicari Roma e Genova. Questa era un’organizzazione ben articolata ed efficiente ma doveva fare i conti con la complessità e la specificità italiana. Roma, era preda di aristocrazie locali costituite dalla classe senatoria e latifondista, era inoltre la sede di un vescovo che però non aveva un’autorità incontrastata (al contrario del vescovo di Ravenna) anche se cominciava ad avere un ruolo di coordinatore di un patrimonio fondiario nel centro e nel meridione della penisola. La Sicilia, era una postazione mediterranea di grande importanza, era organizzata nella forma del “thema” guidata da uno stratega dotato di poteri militari e politici in modo da costituire un legame diretto con Costantinopoli e libera dai vincoli di Ravenna. Venezia e il suo ducato, si erano costituiti come risposta e difese alle incursioni germaniche, vi era poi l’area del Capitanato d’Italia (puglia, Lucania, Calabria) dopo lo stanziamento del Longobardi, era organizzato anch’esso nella forma del thema, vi era Pentapoli (Romagna meridionale e Marche) era un’area importante a livello strategico e aveva una certa autonomia. Le autorità bizantine avevano la necessità di creare dei legami con i potentati familiari locali i quali molto spesso avevano dei ruoli di guida a metà strada tra l’ufficio pubblico e la supremazia privata di tipo clientelare. Infine avremo anche gli enti ecclesiastici che esercitavano forme di autorevolezza religiosa coniugata con la titolarità di porzioni ampie di territorio messo a coltura. L’Italia bizantina anche in seguito alla vittoria di Giustiniano sugli Ostrogoti, restava una realtà molto fragile, dopo il 568 in seguito all’invasione Longobarda nel territorio peninsulare si aprì un periodo di forte instabilità. Cosi aveva inizio il Medioevo. 2-LA COMPILAZIONE GIUSTINIANEA Durante l’impero di Giustiniano prenderà vita un grande progetto legislativo che sarà promulgato tra il 529-534. Le fonti giuridiche romane, nel contesto storico di cui stiamo parlando, erano di molto mutate infatti al tradizionale patrimonio delle consuetudini (mores), della dottrina dei giuristi più autorevole (responsa), le deliberazioni del senato (senatoconsulta) in seguito ad un’evoluzione politica che aveva visto concentrare il potere nelle mani del princeps e dei suoi funzionari, si erano affiancati ed infine sostituiti i rescripta (risposte dei funzionari a singole questioni che poi sarebbero diventate linee guida per i casi simili), le costitutiones (leggi generali scaturite dalla volontà dell’imperatore). Questo processo aveva portato l’idea di raggruppare il frutto dell’attività legislativa già prima del progetto Giustinianeo. Il più importante fu il codice Teodosiano, promulgato da Teodosio II nel 438, il quale nel raccogliere le costituzioni emanate da Costantino in poi si ispirava anche ad altre raccolte come il codice Ermogeniano e codice Gregoriano risalenti al III secolo. La codificazione teodosiana fu superata dall’opera giustinianea. A capo dei lavori vi era Triboniano, che aveva il compito di inserire in un’unica opera tutto il materiale normativo e giurisprudenziale che era in vigore. L’operazione si concentrò essenzialmente su due obiettivi: 1. Uno riguardava le costituzioni imperiali (leges) 2. L’altro l’elaborazione dottrinale dei giuristi romani dell’età classica (iura) Nel 529 avremo una prima versione del Codex, la versione definitiva si avrà nel 534. L’opera era formata da 12 libri i quali disciplinavano un’ampia varietà di materie: diritto ecclesiastico, privato, penale, pubblico amministrativo e fiscale. Nel 533 è la volta dei 50 libri dei Digesta in cui si selezionano 10.000 frammenti dei giuristi Romani tra i quali spiccano i nomi di Ulpiano, Papiniano, Gaio, Modestino e Paolo fioriti tra il II-III secolo. Qui manca il diritto pubblico ma si avrà una netta preponderanza del diritto privato e un ampio spazio sarà dedicato anche al diritto criminale (libri terribiles). Sempre nel 533 si pubblicarono le Institutiones che era una sintesi dello scibile giuridico formata da 4 libri, l’obiettivo era quello di fornire uno strumento utile per la formazione didi giovani giuristi nelle scuole dell’impero, basato su uno schema tripartito: res, personae e actiones. Giustiniano non fermò la sua attività legislativa infatti nel 534 aveva già accumulato altre costitutiones che però verranno pubblicate in seguito alla sua morte (565) in una collezione di Novellae costitutiones che completeranno la produzione normativa di Giustiniano che passerà alla storia con il nome di Corpus iuris civili. L’opera in un primo momento aveva trovato applicazione soltanto nell’impero d’Oriente, ma Giustiniano predispose subito l’estensione della vigenza anche alla parte occidentale dell’impero. Il provvedimento con il quale si predispone la vigenza in occidente è pragmatica sanctio del 14 agosto 554, dove l’imperatore bizantino affermava che aveva promulgato ciò per volere del vescovo il quale legittimava l’opera di Giustiniano e contemporaneamente lui riconoscerà la carica religiosa che diventerà estremamente potente nel corso dei secoli. La pragmatica non dava vigenza solo al corpus, ma aveva anche l’obiettivo di eliminare il diritto gotico pregresso, reintegrare i proprietari che erano stati usurpati dei propri beni... Nella primavera del 568 i Longobardi invaderanno l’Italia. 3- I DIRITTI GERMANICI I Longobardi era uno dei tanti popoli germanici che durante il VI secolo si insediarono stabilmente negli ex territori dell’impero romano. Seppur questi popoli avevano una propria identità era possibile rintracciare degli elementi comuni come: il nomadismo, la propensione militare e la conquista, l’assenza di una cultura scritta. Queste peculiarità andavano a sottolineare la netta distinzione con i romani specialmente nella dimensione giuridica: i popoli germanici si reggevano su una serie di consuetudini orali che si consideravano pari ad altri elementi come la lingua, le credenze e i riti fattori di identità etnica essenziali. Ciò spiega perché i germani considerassero innaturale individuare l’ambito di vigenza delle regole sulla base del territorio di stanziamento (principio di territorialità del diritto) poiché era l’appartenenza ad un determinato gruppo a delineare l’adesione alle proprie usanze, comprese quelle di vigenza giuridica (principio di personalità del diritto). Questo aspetto era coerente con la natura originariamente nomadica dei germani, poiché portavano con loro le loro credenze e le usanze identitaria tra trasmettere di generazione in generazione. Ogni etnia aveva determinate consuetudini e la convivenza tra diversi popoli non bastava per modificare quanto assunto di fondo, a ciò vi è un’unica eccezione data dal fenomeno spontaneo della reciproca contaminazione. Anche nei contenuti delle consuetudini di questi popoli si possono rintracciare degli elementi comuni infatti vi sono alcuni valori di fondo che caratterizzano verso un’omogenea direzione le regole tradizionali, vi sono dei valori e delle regole che appaiono nettamente in contrasto con la sensibilità giuridica romana. Il gruppo aveva una forte rilevanza giuridica rispetto al singolo, il gruppo non si definiva soltanto dal nucleo familiare allargato ma anche dalle affinità, le tutele e le amicizie che potevano porre le basi per creare un clan. Quando emerge il singolo come identità giuridica si allude all’uomo libero e atto al combattimento. Non esiste una dimensione pubblicistica dello Stato, vi è infatti una gestione collettiva delle decisioni importanti attraverso l’assemblea degli uomini in armi. L’assenza di istituti volti a legittimare la titolarità esclusiva di un bene, specialmente se tale bene è la terra: la titolarità si manifesta tramite l’uso e il godimento del gruppo. Il singolo non ha la possibilità di godere solo lui di un bene neppure al momento della morte tramite un atto simile al testamento dei romani, tuttavia era ammessa la successione legittima considerata come un meccanismo naturale di passaggio dei beni all’interno del nucleo familiare. Anche la sfera penale mostrava degli elementi di discontinuità con il mondo romano e bizantino, le offese legittimavano la reazione dell’offeso tramite la vendetta, la quale poteva assumere una valenza collettiva coinvolgendo il gruppo o la famiglia di appartenenza della vittima in una ritorsione contro la famiglia o il gruppo dell’offensore: la faida. Le forme rituali della vendetta erano quelle delle ordalie “il Giudizio di Dio” nella convinzione che la divinità avrebbe consentito l’individuazione del colpevole e dell’innocente: essa poteva consistere in prove di dolore o resistenza ma spesso assumeva la forma del duello. Gli inconvenienti che potevano scaturire da queste pratiche suggeriranno l’adozione di strumenti diversi per risolvere le controversie tra le quali il pagamento di una composizione patrimoniale cioè il pagamento di una cifra di denaro o beni a carico dell’offensore a favore dell’offeso o della sua famiglia. Con il passare degli anni le popolazioni germaniche si doteranno di testi giuridici scritti nei quali raccogliere le proprie consuetudini. Questo passaggio consente: di superare la fluidità orale del patrimonio consuetudinario al quale attribuire tramite la forma scritta la certezza e l’organicità, produce o accelera l’integrazione con le altre culture presenti sul territorio in particolar modo con la matrice latina, che tramite l’intervento ecclesiastico che è l’unico ente in grado di far veicolare contenuti di una certa complessità infine consolida un processo di gerarchizzazione del potere e di esaltazione della regalità la quale non perdendo il carattere di mera guida militare assume progressivamente il ruolo di garante dell’osservanza delle regole e dei suoi meccanismi di applicazione. Abbiamo 3 esempi di legislazione scritta adottata dai sovrani germanici tra il VI-VII secolo: 1. Lex romana wisogothorum: promulgata dal sovrano Alarico II nel 506. Egli segue una raccolta di norme precedentemente stesa dal padre il sovrano Eurico nella seconda metà del V secolo. Il testo emanato da Alarico non aveva come obiettivo la semplice trasposizione delle usanze del suo popolo, ma aveva lo scopo di dotare la nuova entità territoriale di norme più vicine a quelle dei latini con i quali erano entrati in contatto. La Lex romana wisigothorum era maggiormente composta da leges prese dal Codice Teodosiano e di iura estratti dalle opere dei giuristi romani Paolo e Gaio. Ma tuttavia non si riuscirà a superare l’attaccamento dei Visigoti alle loro usanze 2. Pactus Legis Salicae: redatta dal re Clodoveo (nei primi decenni del VI secolo). Egli era il sovrano dei Franchi Salii che si convertì al cattolicesimo e dotò il suo popolo si un ampio territorio a cavallo tra i Paesi Bassi, Francia settentrionale e la Germania centro-orientale. Il termine “legge” si deve interpretare tramite il modo consueto per i germani cioè norma di matrice consuetudinaria mentre il termine “patto” evoca l’accordo dell’assemblea popolare circa la corretta trasfusione nella lingua latina degli originari contenuti della legge salica, correttezza di cui Clodoveo si fa portatore. In quel testo troviamo i principali contenuti che trattano in generale le consuetudini germaniche: la successione legittima è l’unica forma conosciuta e sembrerebbe privilegiare la linea materna, si ricorre ampiamente alle composizioni pecuniarie per evitare le faide per i delitti gravi come l’omicidio, la lesione, lo stupro, il furto di bestiame… consegna del reo all’offeso o ai suoi familiari nel caso di mancato pagamento della composizione prevista. 3. Questa terza forma coinvolge direttamente la penisola italiana, che dal 568 era stata invasa dai longobardi capeggiati dal re Alboino (morto nel 572). In poco tempo i longobardi attuano una violenta opera di conquista e spoliazione dei possedimenti latini e di quelli ecclesiastici. Il successore di Alboino, Clefi (morto nel 574) si spingerà sino al sud della penisola, vi furono una serie di contrasti tra i capi militari longobardi, dove oltre a costare la vita al sovrano Clefi, diedero vita ad una fase di incertezza politica, caratterizzata dalla formazione di una trentina di ducati indipendenti tra loro. Il pericolo della disgregazione fu sventato dalla volontà di riconoscere nuovamente un’autorità unitaria: quest’obiettivo fu raggiunto nel 584 con l’incoronazione di Autari (morto nel 590) figlio di Clefi. Da questo momento è più facile delineare le coordinate del regno lombardo. Il carattere militare della guida regia era un carattere che durerà nel tempo (il re era un primus inter pares era una figura eminente ma aveva la stessa dignità dei capi militari che si sottoponevano a lui), essa si configurava come di matrice ereditaria dotata di un ampio patrimonio fondiario, il quale corrispondeva alla metà delle sostanze di cui i duchi si erano appropriati. Tuttavia, non è possibile vedere nell’organizzazione del regno longobardo i tratti statual-pubblicistici tipici dell’impero romano, il regno resta organizzato secondo modalità di coordinamento militare e di sfruttamento dei possedimenti controllati, anche se la presenza stabile di un palatium e di una curtis regia a Pavia consentono di individuare un proc esso di maturazione tale da mettere in secondo piano i tradizionali centri decisionali, quali l’assemblea (gairethinx) degli uomini liberi (arimanni) e i nuclei familiari allargati (farae) e di esaltare il ruolo dei fedeli del re (gasindi) e degli amministratori dei possedimenti regi (actores, gastaldi, iudices). Si avrà una svolta significativa con il Regno di Rotari (morto nel 652) il quale provvede ad una migliore amministrazione regia e ad una migliore efficacia del raccordo tra palatium e i centri periferici, ma mette per iscritto per iscritto le tradizionali consuetudini popolari. Il suo Edictum promulgato nel 643, è composto da 388 capitoli, probabilmente un’opera del genere era stata richiesta dall’aristocrazia longobarda, che coinvolta in un processo di integrazione con i latini, vuole preservare le sue leggi secondo il principio di personalità (che le vorrebbe applicabili soltanto al popolo di appartenenza). Rotari accogliendo questa richiesta (cioè quella di ricercare e ricordare le antiche leggi dei nostri padri che non erano scritte) si pone l’obiettivo di rinnovare, correggere ed emendare le consuetudini longobarde (cawarfide) aggiungendo quanto potesse mancare o sottraendo quanto di superfluo dovesse risultare. Oltre a quest’obiettivo Rotari ne persegue un altro cioè: il valore della regalità, la centralità del rex e del suo apparato di funzionari vengono rafforzati dal ruolo di garanzia che al sovrano viene riconosciuto in vista della corretta trascrizione e dell’applicazione delle cawarfidae ma si sottolineano inoltre le prerogative che amplificano il ruolo di guida militare e di eccellenza patrimoniale del re, soprattutto in vista del mantenimento della pace pubblica e della repressione dei reati più pericolosi. Nell’Editto redatto in un latino capace di dare traslitterazione fonetica a termini giuridici trasmessi in una lingua orale appaiono gli istituti consuetudinari tipici della tradizione longobarda: Il mundium: potestà maschile sulla donna, esercitata prima dal padre ed in seguito dal marito Gli scambi patrimoniali in occasione delle nozze: il faderfio dal padre alla figlia e il morgengabe dal marito alla sposa Il launegild: corrispettivo simbolico offerto dal beneficiario in occasione di una donazione La wadia: garanzia in forma di pegno offerta dal debitore sui propri beni Il gairethinx parte dall’essere l’originaria assemblea con valenza militare e politica per assumere la funzione di atto formale pubblico certificativo di importanti effetti giuridici quali manumissioni di servi, adozioni, donazioni universali mortis causa, ecc Processi giudiziari definiti per via di duello o di giuramento Meccanismi di successione per esclusiva via legittima, senza alcuna forma di disposizione testamentaria Pur prevedendosi la faida era data preferenza alla soluzione della composizione pecuniaria, detta guidrigildo (wergeld) di cui una quota spettava al re in quanto garante del corretto funzionamento del meccanismo Alcuni gravi delitti come: attentato al re, la congiura, il tradimento… capaci di minare la pace tutelata dal re venivano individuati come crimini di lesa maestà ed erano puniti con la morte Dopo qualche intervento del re Grimoaldo nel 668, l’intervento più significativo dopo quello di Rotari è rappresentato dalle 153 norme promulgate dal re Liutprando durante il suo regno (712-744). La svolta politica-religiosa di questo sovrano porterà ad abbandonare i residui dell’originario orientamento religioso del popolo (l’arianesimo), avvicinandosi alla fede cattolica eregendosi cosi a protettore della Chiesa e del vescovo di Roma. Nel prologo delle sue prime leggi del 713 si definisce un “principe cattolico” impegnato a tutelare il patrimonio giuridico tradizionale e l’editto di Rotari ma inoltre aggiunge che fu sollecitato da un’ispirazione divina ad operare seguendo la lex Dei cassando, modificando o creando nuove norme. Tra le novità che risentono della conversione cattolica abbiamo ad esempio la manumissione dello schiavo davanti all’altare (prevista da Costantino), il riconoscimento dell’asilo ecclesiastico, certi impedimenti matrimoniali di evidente derivazione canonica, un trattamento migliore della condizione successoria delle figlie, la valorizzazione del consenso della donna con l’accettazione dell’anello (subharratio cum anulo) in occasione della cerimonia matrimoniale, la donatio pro anima una sorta di lascito pio a favore di enti ecclesiastici che introduce nella cultura giuridica longobarda una prima forma di successione testamentaria. A documentare una fase di integrazione della tradizione giuridica tra longobardi e latini, si può comprendere tramite il valore che viene attribuito alle prove testimoniali e il riferimento a una indistinta consuetudo loci. Dobbiamo quindi analizzare in relazione a ciò il valore che viene attribuito a figure come il notaio in seguito ad una disposizione di Liutprando, la quale nel prevedere la redazione della cartula secondo le forme negoziali latine o longobarde consentiva ad una delle due parti di rinunciare alla propria legge. Soltanto in una situazione l’approdo ai nuovi valori condivisi nel segno della cattolicità e degli usi latini sembrava impossibile cioè la risoluzione delle controversie tramite l’applicazione delle ordalie. Il duello era una forma di giustizia irrinunciabile per gli ambienti dell’élite militare longobarda. Liutprando pur essendo ostile a ciò dovette prendere atto dell’impossibilità di vietare un istituto radicato nelle consuetudini del suo popolo, agli strumenti processuali dell’accusa e della difesa si preferiva la valentia delle armi a cospetto delle divinità. 4-CONSUETUDINI E MONDO SIGNORILE La civiltà altomedioevale è segnata dalle consuetudini. I rapporti intersoggettivi, quando non sfociano in violenza, soggiacciono a delle regole che si sono consolidate nella tradizione e vengono trasmesse da generazione in generazione. Anche quando la consuetudine viene scritta non perde la capacità di esprimere il dato costante dei comportamenti sociali, delle credenze, dei rapporti di forza definiti dai fatti umani e dalla realtà naturale. Quando la sopraffazione sembra mettere in crisi l’equilibrio dei ruoli e delle gerarchie, o irrompe la brutalità per la conquista delle risorse disponibili, la consuetudine non perde comunque la sua capacità inerziale ma si adatta metabolizzando i cambiamenti traumatici e ridisegna le strutture sociali. Ciò viene confermato da quanto abbiamo detto per le consuetudini nei popoli germanici, prima legate ai popoli nei loro movimenti nomadici e di conquista, a volte subalterne a quelle dei vincitori, altre volte dominanti; in seguito sottoposte ad un processo di verifica e di trascrizione scritta con l’assemblea e il re come garanti in seguito contaminate in un irreversibile processo di integrazione legato alla convivenza dei popoli nei medesimi territori. Questo fenomeno viene arricchito da altri incroci, che pongono in relazione e avvolte in conflitto regole tradizionali legate alle singole etnie o di appartenenza cetuale con altre legate al singolo territorio e ai rapporti socio economici definitisi localmente (consuetudini territoriali): il risultato molto spesso è un ulteriore miscelazione realizzatasi progressivamente per prassi anche tramite l’aiuto di notai e di giudici, chiamati a dar forma ai mutevoli conflitti ed interessi. Tra i vari nuclei consuetudinari che si affermano nell’alto medioevo abbiamo il feudo e delle norme che lo regolano. Il rapporto feudale si instaura all’interno delle comunità dei combattenti dei Franchi, con il fine di disciplinare e codificare le forme di supremazia e di obbedienza necessarie all’ordinato sforzo bellico. Davanti al capo di un gruppo di uomini in armi, primo fra tutti il re, si realizza un atto di fedeltà implicante la collaborazione militare e l’assistenza nelle atticità di comando e giustizia. Questa fedeltà giurata tramite l’atto dell’omaggio (homagium) implica per il signore che l’ha ricevuta il divere di provvedere al mantenimento di chi si è posto al suo servizio, una sorta di ricompensa (beneficium) che consisteva nella spartizione del bottino. Il bene più ambito era la terra, che il signore concedeva al vassallo per consentirgli di trarre le rendite relative necessarie per il suo armamento e per un decoroso tenore di vita. Quello feudale è un istituto complesso e multiforme, avrà una vita secolare pur nell’inevitabile adattamento e travisamento che il tempo impone ai fenomeni di lunga durata. Un altro ambiente fortemente produttivo usi, destinato a recepire molti degli schemi giuridici affermatasi nel mondo feudale, cioè la signoria feudale. Tramite questa espressione si intende il fascio di poteri che si radica su un soggetto a partire dalle esigenze e dalla strutturazione di un sistema produttivo che era l’azienda curtense, la quale si affermerà nei secoli dell’alto medioevo. La curtis era l’unità abitativa principale del titolare (signore o dominus) al quale era ricollegato un territorio coltivabile. La curtis era definita pars dominica poiché sotto il controllo del signore che vi risiedeva, era resa produttiva attraverso l’opera dei servi che erano dei soggetti privi di piena personalità giuridica. A questa porzione di territorio si aggiunge il massaricium chiamato anche pars massaricia che prende il nome dalla circostanza di essere divisa in varie unità, erano affidate alla cura dei coltivatori, liberi o semi-liberi, che si appropriavano di una parte del prodotto, mentre il resto andava al dominus. Era libero l’uso dei pascoli e dei boschi all’interno della riserva domenicale. I coltivatori del massaricium oltre a dare una parte del prodotto del mansus dovevano anche prestare una quantità di lavoro presso la curtis e la pars massaricia come sostegno al lavoro dei servi, in questo caso l’intero prodotto spettava al signore. In questo contesto economico e produttivo assume una figura di rilievo quella del signore, quale definitore di conflitti: il signore ha il compito di difendere la pace all’interno del territorio curtense tramite l’applicazione delle leggi in loco e quelle tipiche dei gruppi appartenenti alle diverse etnie. Oltre queste regole ve ne erano altre come quelle derivati dai rapporti specifici intercorrenti tra il dominus e i residenti impegnati in prestazioni economiche a suo vantaggio (si parla di iustitia dominica). I soggetti che aiutano il signore nell’amministrazione delle terre sono anche coloro che lo aiuteranno a regolare una controversia. Oltre a queste forme di amministrazione della giustizia (iurisdictio) sorte in modo spontaneo in quel contesto di vita economica, senza quindi l’incarico da parte di un’autorità competente, si aggiunge la potestà dei domini di esprimere “atti di comando” (districtio) rivolti ai residenti: ingiunzioni di prestazioni straordinarie, definizione di tributi connessi all’uso di specifiche attrezzature o aree di pertinenza signorile (mulini, fiumi), chiamata alle armi. Queste innumerevoli prerogative che il dominus possedeva nelle mani, in un certo senso erano necessarie affinché riuscisse a garantire la pace e la protezione della curtis. La durezza delle condizioni di vita e le innumerevoli difficoltà nel procacciarsi materie prime esalteranno i poteri direttivi del signore, e i fattori di soggezione dei residenti: anche i residenti nel massaricium (nati liberi) verranno paragonati e assoggettati al signore come gli schiavi operanti nella curtis signorile, in seguito a delle limitazioni definite “in facto”. Sono quindi degli uomini dipendenti i quali nonostante possano vantare uno status di libero sono sottoposti ad una restrizione di movimento e di un’autonoma capacità di scelta, quindi in seguito ad esse vengono certamente paragonati ai servi. Possiamo affermare quindi di trovarci di fronte ad una dinamica di “schiacciamento” delle qualificazioni personali che esalta il rapporto verticale tra il dominus e i soggetti a lui sottomessi. La società rurale altomedioevale viene sottoposta ad un processo di stratificazione giuridica, con l’intento di ridurre i soggetti liberi e aumentare il numero dei soggetti subordinati. Le gerarchie si strutturano in una rete complessa di rapporti giuridici dove appare decisivo il ruolo di assicurare la pace (contro la violenza altrui) e la protezione (per soddisfare i bisogni primari della vita). In quest’ottica possiamo comprendere come la gerarchizzazione delle relazioni giuridiche si articoli verticalmente non solo all’interno delle unità produttive ma anche nel rapporto che si costituisce tra queste unita cioè i titolari dei territori resi produttivi dai residenti/dipendenti tendono a replicare nelle loro relazioni lo schema del superiore capace di assicurare tutela e dell’inferiore. Tra i signori più ricchi e potenti ve ne è qualcuno in grado di esercitare forme concrete, legata alla vastità del patrimonio, alla numerosità dei residenti al suo servizio, tali da estendere il suo predominio su un’area abbastanza ampia di territorio: in questo caso si parlerà di signoria territoriale. Per signore territoriale si intende il titolare di vari di vasti possedimenti fondiari, su cui esercita iurisdictio e districtio, è inoltre conosciuto come colui che è in grado di assicurare pace e protezione anche ai signori più piccoli. Furono dei signori territoriali i Canossa, era una famiglia dotata di un grosso patrimonio fondiario in Toscana e in Emilia-Romagna, a loro veniva riconosciuto il potere di giudicare o emettere direttive su tutti i soggetti che avevano una minore entità e potenza che insistevano sulla stessa area. Furono signori territoriali anche gli uomini di chiesa o gli enti ecclesiastici: ad esempio l’abbazia di Nonantola, vantava vasti possedimenti in area padana sui quali esercitava poteri signorili e veniva riconosciuto come signore territoriale anche dagli altri soggetti. Il signore territoriale è signore fondiario solo nella parte di influenza, mentre nel resto del territorio non partecipa al processo produttivo ma esercita e coordina la difesa, la protezione e la giustizia garantendo insieme agli altri signori laici o ecclesiastici e le comunità libere la pace. Queste relazioni si ergevano sulla base delle consuetudini, le quali nascevano e si consolidavano sulla base delle modalità produttive assestatesi in un preciso momento e in un determinato luogo e tra una certa categoria di soggetti, queste consuetudini ben presto si integrarono a quelle di matrice feudale. Queste nacquero in degli ambienti e con finalità militari, si prestarono bene a dare configurazione giuridica a rapporti fattuali nati dal mondo produttivo delle signorie fondiarie, dove gli status si andavano polarizzando tra la figura del dominus e quella dei subordinati semi-liberi o servi. Il termine vassalli indica una subordinazione dei residenti/contadini che erano soggetti alla fedeltà feudale, a volte emergenti tramite atti giurati di soggezione personale. Questo processo è stato incoraggiato dalla circostanza che alcuni dei signori fondiari di maggior peso avevano ottenuto o avrebbero ottenuto in seguito il titolo feudale di conte o duca. La primazia del signore esercitante alcuni poteri sui suoi residenti, trovava piena copertura giuridica nel complesso delle consuetudini feudali che si stavano assestando grazie anche agli interventi sovrani. 5-CHIESA E IMPERO A) LA CHIESA COME ISTITUZIONE GIURIDICA Dopo una fase di persecuzione e di vita clandestina, il cristianesimo ottiene dalle autorità romane un primo riconoscimento a metà del III secolo sino ad essere dichiarata religione di Stato. Anticipato da alcuni provvedimenti di Gallieno del 260, Costantino emanava nel 331 l’editto di Milano, concedendo ai cristiani la libertà di culto. Teodosio I con l’editto di Tessalonica del 380 insieme agli altri due augusti Graziano e Valentiniano II insieme ad una serie di decreti emanati tra il 390 e il 391 vietavano i riti pagani ed elevavano il cristianesimo a religione ufficiale. Era l’inizio di una stagione di alleanza e contemporaneamente di compenetrazione tra potere e religione. Questo riconoscimento andava ad esaltare la potenzialità organizzative che le prime comunità cristiane avevano espresso come elemento di coesione e di disciplina. Gli atti degli apostoli documento l’importanza dell’assemblea in vista della definizione dei ruoli guida e di raccordo sul territorio (elezione dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi) ma anche come strumento di gestione dei beni in comune e per l’esercizio dei doveri di solidarietà. Queste iniziali strutture organizzative assunsero caratteri gerarchici tali da prefigurare la manifestazione di vere e proprie istituzioni. I vescovi emersero come autorità locale dotate do una rappresentanza sui fedeli-residenti dei territori di competenza, capaci di fungere da interlocutori credibili e rispettabili quando alcune zone dell’impero dovranno affrontare la pressione conquistatrice delle invasioni germaniche. La religiosità cristiana rappresentò un elemento conflittuale con la cultura giuridica romana e in generale con quella europea. Certi contenuti ricollegati ai valori evangelici come l’indissolubilità del matrimonio, la gratuità del prestito, il rifiuto della vendetta erano in conflitto con le convinzioni che si erano consolidate in consuetudini popolari e norme sovrane. La legislazione imperiale da Teodosio II a Giustiniano acquisirono progressivamente una parte di quei valori, declinandoli opportunamente all’interno di una differenziata scala di principi e gerarchie che non scardinassero gli assi portanti dell’autorità imperiale. Tuttavia questo assorbimento ebbe anche una battuta d’arresto e ciò si può notare riferendosi al divorzio il quale era un istituto in contrasto con l’essenza sacramentale del matrimonio cristiano, ma Giustiniano volle conservarlo all’interno delle sue leggi, riducendone i requisiti legittimanti. Sia il codice Teodosiano che quello Giustinianeo avevano codificato una normativa specifica per gli uomini e le istituzioni della chiesa poiché erano considerati entrambi tasselli di “governo imperiale” ed erano quindi meritevoli di godere di alcuni privilegi. Agli ecclesiastici veniva concesso il privilegium fori i quali in deroga al processo ordinario, potevano essere giudicati direttamente dai vescovi. Un altro istituto era l’episcopalis audentia era una sorta di conciliazione che il vescovo concedeva in forma privata, veniva utilizzata per specifiche questioni o a tutela di soggetti che meritavano la tutela come le vedove, i minori o i poveri. Ciò nell’impero d’Oriente aveva un significato di supplenza mentre nelle città disastrate d’Occidente molto spesso non munite di appositi collegamenti con le istituzioni centrali assumeva il ruolo di un potere giurisdizionale effettivo riconosciuto e sollecitato dalla popolazione. Il ruolo dei vescovi in Occidente assume un ruolo fondamentale, erano chiamati a fungere da guide spirituali ma anche ad autorità di riferimento per le città e le zone rurali, i vescovi appartenevano alle famiglie più influenti in quanto otevano essere investiti anche di poteri civili. Le prerogative samzionate dalle norme di Teodosio e di Giustiniano assumono il valore di una legittimazione implicita di più ampie ed estese funzioni. E’ un profilo dai contorni complessi che deve contestualizzarsi zona per zona, ad esempio vi è la tradizione italiana di identificare come protettore di una città un vescovo (es: Bologna San Petronio) che tra la tarda antichità e la prima età medioevale aveva assunto il ruolo di difensore e rappresentante dei cittadini. Il ruolo dei vescovi nell’europa Occidentale ha favorito l’invadenza del potere laico su aspetti ed esponenti del mondo religioso. L’intervento imperiale nella vita della Chiesa d’Oriente e dove possibile anche i quella d’Occidente era compatibile e quasi richiesto dal ruolo riconosciuto all’imperatore bizantino di capo dell’organizzazione ecclesiastica e di guida religiosa (è il cesaropapismo). Il culmine di questa invadenza fu la campagna con il quale l’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico, nel VIII secolo avversò l’uso delle immagini religiose: contrasto tra la chiesa d’Oriente e d’Occidente porterà nel 1054 al “grande scisma” tra cattolici ortodossi e cattolici romani. L’ingerenza del potere politico laico muterà natura, con l’avvento del regno e poi dell’impero franco, che rivendicando per sé la veste di defensor Ecclesiae si riterrà legittimato a ricorrere a un ampio spettro di poteri relativi alla nomina dei vescovi e dei prelati, al funzionamento delle istituzioni ecclesiastiche, all’amministrazione dei beni relativi. Il vescovo di Roma fu impegnato nel fissare i confini tra potere laico e religioso. Gelasio I, pontefice romano dell’ultimo decennio del V secolo, ndirizzò all’imperatore d’Oriente Anastasio I un testo in cui l’auctoritas della chiesa veniva affiancata a quella dell’impero definendo gli ambiti di rispettiva autonomia riconoscendo alla chiesa un primato poggiato sul rapporto con Dio. Essa è la prima affermazione di separazione dei poteri politico e religioso che caratterizzerà la civiltà europea. Basandosi su ciò si darà vita ad un edificio che farà della Chiesa una plurisecolare istituzione produttiva di diritto. Un primo presupposto di tale vocazione appare comune con le altre religioni monoteiste come quella ebraica e musulmana segnate dal Libro come mezzo di rivelazione divina, da esso si traggono i principi teologici della fede e le norme comportamentali ai quali i fedeli devono uniformarsi. Il libro è il mezzo di comunicazione tra Dio e il suo popolo, esso va letto e usato mediante una coerente e cauta tecnica di lettura che risolva dubbi e contraddizioni, che come gli errori sono apparenti. Per la tradizione cristiana è fondamentale l’apporto dato dai padri della chiesa come Sant’Agostino oppure San Girolamo i quali hanno trasmesso alle generazioni duture un’autorevole interpretazione della parola di Dio. Un altro fattore rilevante è quello relativo ai concili ecumenici cioè le assemblee plenarie di tutti i vescovi della cristianità o ai sinodi locali cioè le assemblee di area regionale, le quali tramite le loro delibere (i canoni) dovevano risolvere problemi di natura teologica e organizzativa: i canones divennero una fonte primaria della Chiesa e le relative violazioni implicarono la messa al bando dei disobbedienti attraverso le scomuniche (excommunicationes). Il fenomeno monastico fu differente in Occidente rispetto a quello Oriente, l’Occidentale promosse la produzione e la codificazione di regulae di convivenza dal marcato valore normativo all’interno della comunità. Ne è un esempio la regula risalente al 534 adottata da Benedetto da Norcia redatta per disciplinare il funzionamento dell’abbazia di Cassino, da lui fondata nel 529. La “regola benedettina” divenne il corpo di norme alle quali altre abbazie si ispirarono e aiutò i vari istituti monastici a dotarsi di un profilo organizzativo gerarchico finalizzato alla sussistenza dei medesimi monaci e all’assistenza dei bisognosi. Nell’ambiente monastico benedettino prese vita un’ulteriore fonte cioè quella dei “libri penitenziali” (libri poenitentialis) i quali si occupavano di affiancare ai peccati le penitenze da irrogare come espiazione, con una logica tariffaria che legava l’onerosità del castigo non soltanto all’oggettiva gravità della trasgressione, ma anche alla soggettiva intenzionalità di colui che se ne era reso responsabile. Degno di nota è il penitenziale di San Colombano il monaco irlandese che enl secondo decennio del VII secolo fondò l’abbazia di Bobbio, destinata a diventare insieme a quelle di Nonantola e San Giulia una delle più potenti nell’area padana. Alle interpretazioni della Bibbia ad opera dei padri della chiesa, ai canoni conciliari e sinodali, alle regole monastiche e ai libri penitenziali, last but non least, vanno aggiunte le epistule (missive, lettere) dei pontefici. Il vescovo di Roma comunica con le zone periferiche utilizzando gli ecclesiastici-funzionari, i quali dotati di competenze teologiche e giuridiche sono in grado di dare delle risposte a qualsiasi quesito gli venga posto da un qualsiasi soggetto ecclesiastico. Il lavoro della cancelleria apostolica compie un salto di qualità con Gregorio I, il monaco benedettino che divenne papa tra il 590 e il 604, provvide a formalizzare in un registrum le 800 epistulae che costituiscono un primo corpus di testi pontifici dotati di un implicito valore normativo: le missive gregoriane dettavano la condotta richiesta dal postulante sulla base si uno o più passi delle Sacre Scritture estrapolati e trattati come norme vincolanti, e vi erano inoltre dei riferimenti al diritto romano. Successivamente a Gregorio, la produzione normativa dei pontefici si estese infatti oltre alla forma epistolare assunse altre forme più o meno codificate come le costitutiones, edicta e decreta. Insieme alle fonti del diritto divino che costituiscono il materiale proprio della chiesa, si moltiplicarono per quantità e qualità le fonti del diritto umano della chiesa come istituzione; siam o di fronte al primo deposito di diritto canonico destinato ad un’illustre ed interrotta storia B) LA RINASCITA DELL’IMPERO L’incoronazione di Carlo Magno avvenuta la notte di Natale dell’ottocento a Roma da papa Leone III, viene ricordata come una degli eventi costitutivi la civiltà europea. Carlo (742-814) è il discendete di Carlo “Martello” che aveva posto fine alla dinastia dei Merovingi (dei quali faceva parte Clodoveo il primo sovrano dei Franchi Salii) per dar vita ad una nuova dinastia, quella dei Carolingi. Essa si caratterizzò non soltanto per la sua notevole espansione territoriale poiché possedevano la Francia settentrionale, la Germania e l’Italia ma anche per aver interpretato il tradizionale ruolo di comando tipico dei popoli germanici a forte vocazione militare secondo nuove modalità direttamente derivate dalla struttura feudale del regno carolingio ed altre mutuate dal modello romano. Questo aspetto è stato valorizzato al tal punto da teorizzare la rinascita dell’impero d’Occidente, qualificato dalla fede cattolica tipica dei Franchi sin dal VI secolo e da un impianto organizzativo e politico-amministrativo che utilizzava i legami vassallatici per fare dei capi militari (comites) i titolari di poteri delegati dal sovrano in sede decentrata. La rinascita dell’impero seppur coincidente con l’evento storico dell’incoronazione di Carlo Magno, deve vedersi come un’interpretazione forzata compiuta dalla Chiesa, la quale tramite i suoi strumenti (cultura, scrittura e autorevolezza religiosa) era interessata ad assumere il ruolo di continuatrice dell’impero d’Occidente e di suprema rappresentante della volontà di Dio in terra. Lo stesso Carlo Magno era stato da essa incoraggiato ad intraprendere l’invasione dell’Italia e di sconfiggere una volta per tutte i Longobardi poiché in essi la Chiesa vedeva i defensores capaci di porsi al servizio dell’autorevolezza del pontefice nell’Europa occidentale. Il regno di Carlo Magno non abbandonò mai i tratti caratterizzanti i regni militari di tradizione germanica. I comites esercitavano sui territori ricevuti in feudo poteri ampi di comando e giustizia, manifestavano inoltre un’autonomia difficilmente compatibile con un’idea gerarchica del potere statuale e informavano i loro rapporti col sovrano sulla base delle convenienze e dei concreti rapporti di forza. Questo lo si può dimostrare non solo dall’autonomia che dichiaravano di avere ma anche dall’uso che il sovrano faceva dei missi dominici i quali erano incaricati di specifiche mansioni ed erano inviati nei territori decentrati per attuare le direttive del re, non sempre recepite dai conti locali e per questo dovevano essere confermate o imposte grazie al ruolo dei missi. Il regno di Carlo Magno giunse alla massima espansione territoriale negli anni dell’incoronazione imperiale (comprendeva i territori della Francia, i Paesi Bassi, parte della Germania e l’Italia del centro-nord) mostrava elementi di adattamento alla nuova realtà territoriale e alle vaste mire politico-militari soprattutto sul piano della legislazione. I re carolingi si fecero promotori di un imponente produzione legislativa, organizzata e raccolta sulla base dell’ambito di applicazione o dell’oggetto regolato. Le norme regie nonostante producessero già degli effetti basandosi sull’oralità venivano raccolte per iscritto in “capitolari” chiamati in questo modo poiché erano suddivisi in capitoli. I capitolari venivano distinti in base al territorio d’incidenza, sulla base delle materie trattate (si distinguevano i capitularia ecclesiastica che riguardavano materie di interesse ecclesiastico, la vita della chiesa e le sue istituzioni dai capitularia mundana aventi per oggetto materie o soggetti laici). Questa normativa non toglieva validità alle consuetudini e alle altre norme vigenti, in ragione dei gruppi etnici di appartenenza, dei territori, dei soggetti inquadrati in singole categorie, la legislazione franca si inseriva quindi in un quadro pluralistico di fonti normative dove la maggior parte erano di natura consuetudinaria. Tuttavia si registra solo una novità per quanto riguarda l’applicazione di tali norme, ai tempi del re-imperatore Carlo Magno si costituì la figura dello scabino, esso era un giudice semi-professionale incaricato di affiancare il signore o il notabile locale nell’amministrazione della giustizia. I Franchi non assunsero mai toni perentori nei confronti degli imperatori bizantini. La pace di Aquisgrana stipulata tra Franchi e Bizantini nel 812 riconosceva al monarca di Costantinopoli il titolo di imperatore dei Romani: cosi Carlo venne identificato come imperatore dei Franchi. L’impero franco non durò molto nell’843 il trattato di Verdun pose fine alla lotta nata tra i figli di Ludovico il Pio successore di Carlo Magno, andando a suddividere i territori: Carlo il Calvo ebbe il regno franco, Ludovico II ebbe il regno di Germania mentre Lotario I ebbe la parte di mezzo dell’impero che si estendeva dai Paesi Bassi, alla Borgogna e alla Provenza sino all’Italia. Nella seconda metà del X secolo l’idea imperiale troverà nuova linfa in una nuova dinastia, il duca di Sassonia Ottone dopo essere divenuto sovrano di Germania nel 936, in seguito ad un’aspra lotta di successione per la supremazia in Italia che lo vide prevalere su Berengario d’Ivrea fu incoronato imperatore nel 962 a Roma da papa Giovanni XII. Con questa data si segna la lunga permanenza dello scettro imperiale in Germania. Lo stesso rapporto con la Chiesa risentì del radicamento imperiale in Germania e del tentativo di sottoporre a stabile soggezione la penisola italica. C) EGEMONIA SIGNORILE E RIFORMA DELLA CHIESA Seppur i ruoli furono differenziati tramite la rivendicazione effettuata dalla Chiesa, si confermarono anche con i Carolingi gli ambigui aspetti do contiguità, tra potere laico e religioso. Il regno carolingio vantava il ruolo di defensor Ecclesiae, tutela che i re francesi esercitarono con la forza delle armi insieme alla pervasività della legislazione. I capitularia ecclesiastica rappresentano un fattore di ingerenza del potere laico nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche, le quali in molte aree d’Europea sottoposte ai Franchi vennero attratte entro la sfera di controllo sovrano. I vescovi vennero spesso scelti tra gli esponenti delle famiglie legate al potere regio e talvolta assumevano il ruolo di rappresentanti del medesimo sovrano: parliamo dei vescovi-conti, erano uomini di Chiesa i cui compiti politici si univano a quelli pastorali sino a sopravanzarli. Questo fenomeno non riguardò solo i vertici dei rispettivi poteri, in generale i rapporti feudali segnarono profondamente la Chiesa e le sue istituzioni, nei loro legami col mondo signorile ma anche con la platea dei fedeli. Gli ecclesiastici in grado di rivestire determinati ruoli come quello di vescovo cittadino, abate a capo di un monastero ecc venivano selezionati direttamente o indirettamente dalle famiglie aristocratiche quando non erano essi stessi a ricoprire questi ruoli infatti capitava spesso che i figli non primogeniti fossero avviati alla carriera ecclesiastica. Ciò a cui si ambiva erano le ricchezze e i poteri conseguenti ai terreni dati in dotazione alla singola istituzione ecclesiastica (vescovato, abbazia, diaconia, parrocchia, cappella) tutti produttivi sia di profitti ma anche di prerogative di comando e di giustizia sui residenti. In questo contesto saranno frequenti i casi di simonia cioè l’acquisto di cariche religiose mediante esborso di denaro e la degenerazione dei costumi alludendo al concubinaggio. A ciò la Chiesa rispose con le sue armi cioè la cultura e la dimensione religiosa connessa con le finalità perseguite. Sul primo versante, la Chiesa si attrezzò con decisione sin dai primi anni della supremazia carolingia, soprattutto nei primi anni della campagna italiana di Carlo Magno, quando il successore di Pietro sentì con urgenza il bisogno di accreditare l’istituzione universale da lui guidata sulla base di un patrimonio normativo di solida tradizione. Possiamo ricordare la Collectio Dyonisiana una delle più antiche raccolte di diritto canonico, dove il nucleo più antico viene attribuito al monaco bizantino chiamato Dionigi o Dioniso, la versione aggiornata di ciò fu predisposta dal papa Adriano I nel 774 e donata a Carlo come testimonianza del prestigio e dell’inattaccabilità della Chiesa e delle sue prerogative. In Italia circolarono altre raccolte di rilievo: la Collectio canonum Anselmi dicata opera anonima composta negli ultimi decenni del secolo IX e dedicata al vescovo di Milano Anselmo, la materia base di ciò è costituita dai canoni conciliari che furono legati ai testi normativi romani di natura imperiale, adattati ai bisogni della chiesa e alle sue funzioni, l’esigenza di ribadire la tutela offerta dal diritto romano è alla base anche della Lex romana canonicae compta una selezione di 300 frammenti di argomento o interesse ecclesiastico risalente alla metà del IX secolo merita inoltre di essere menzionato la Collatio legum mosaicarum et romanorum di autore e datazione incerti, dove si confrontano i testi biblici con le norme romane con lo scopo di rappresentare la loro compatibilità. Un discorso a parte meritano le decretali cosiddette Pseudoisidorianae, essi erano una raccolta di canoni conciliari e di lettere pontificie per la maggior parte apocrife, la cui compilazione viene attribuita a Isidoro Mercator. Anche questo testo risale al IX secolo cioè l’epoca della Renovatio Imperii. Possiamo giungere ad alcune conclusioni per ciò che riguarda l’ambiente ecclesiastico, esso oltre alla produzione di raccolte normative, di varia natura accreditate sia dalla tradizione risalente e dal supporto del diritto romano, provvede anche alla raccolta di testi manipolati spesso falsi accostanti a testi autentici. Vi era un obiettivo molto chiaro: le decretali Pseudoisidorianae composte probabilmente in Francia, accreditano il primato pontificio al vertice della gerarchia quindi vi era la centralità di Roma sulle cariche ecclesiastiche minori diffuse sul territorio europeo. Al suo interno era conservata la famosa “donazione di Costantino”, cioè il falso (poiché mai avvenuto) trasferimento dell’autorità imperiale al vescovo di Roma avente efficacia sul territorio italiano e sul resto dell’Europa Occidentale. Sulla base di ciò fu possibile legittimare l’incoronazione a vantaggio dei sovrani franchi e perpetuare nei secoli l’idea di una preminenza politica oltre che religiosa della Chiesa di Roma fin quando l’umanista Lorenzo Valla nel XV secolo dimostrerà la natura apocrifa del documento. Il fiorire di queste raccolte certamente costituirà il serbatoio dal quale attingere materiale essenziale per la confezione di altre raccolte di testi canonici: alludiamo alle opere di Burcardo vescovo di Worms, autore nei primi anni del XI secolo di un celebre Decretum suddiviso in 20 libri, e di Ivo di Chartres autore tra la seconda metà dell’XI secolo e i primi anni del XII secolo di tre raccolte il Decretum, la Panormia e la Tripartita. La Chiesa certamente non avrebbe potuto fronteggiare l’offensiva costituita dal dilagare del mondo signorile se non fosse stata sostenuta oltre che dalla raccolta di testi canonici anche dal patrimonio fondiario che trovava la sua massima concentrazione nel centro della penisola italiana ( Lazio, Toscana meridionale, Umbria, Marche e Romagna): parliamo del patrimonio di San Pietro frutto delle concessioni dei sovrani longobardi prima e franchi in seguito, ma anche del radicamento di attività produttive ecclesiastiche operanti anche nella dimensione signorile. La creazione e la manipolazione di testi normativi capaci di suffragare la legittimità di tali possedimenti sostennero le pretese territoriali della Chiesa, ma tuttavia non fu possibile arginare le difficoltà che vennero a galla con le lotte dinastiche del X secolo, sino a giungere ad una vera e propria crisi con il sorgere dell’impero di Ottone I (962-973) e di Ottone II (973-983) di Sassonia. Gli ecclesiastici, provenienti dalle famiglie feudali che avevano poca vocazione religiosa o addirittura era totalmente assente, gestivano le loro diocesi nello stesso modo in cui i signori gestivano i loro fondi, i discutibili comportamenti dei singoli contribuiscono al discredito della missione pastorale, l’affidamento delle cariche più importanti vengono decise dalle autorità laiche, la sede apostolica romana non è in grado di esercitare nessuna azione di governo o di coordinamento sulle altre sedi e lo stesso vescovo di Roma è selezionato tra gli esponenti del mondo aristocratico più sensibili agli interessi dell’impero tedesco. In questo contesto a Cluny in Francia si affermava il prestigio di un’abbazia benedettina e di un folto gruppo di monaci e intellettuali convinti della necessità di seguire un percorso che permettesse alla Chiesa di rifondarsi, capace di opporsi all’asservimento al potere laico e alla secolarizzazione della missione pastorale. Si ebbe così un percorso di consapevolezza religiosa e politica capace di porre le promesse per un rapporto paritario col mondo signorile e con l’autorità imperiale. Il vescovo di Firenze Niccolò II fu influenzato dalla riforma cluniacense, infatti dopo essersi elevato al suolo pontificio nel 1058, si adoperò a reprimere i fenomeni di simonia e concubinato, a modificare le modalità di elezione del papa affidandola ad un collegio di vescovi-cardinali, al fine di limitare l’influenza dell’aristocrazia romana e dell’imperatore tedesco. La svolta si ebbe con il monaco Ildebrando da Sovana divenuto papa nel 1073 sotto il nome di Gregorio VII, egli si era formato sia in Germania che a Cluny, e nel 1075 emanò un testo normativo noto come: Dictatus Papae, si tratta di 27 proposizioni con valore di principi fondamentali tramite i quali si affermavano i principi cardini della “riforma gregoriana”, tutti questi erano volti ad affermare il primato della Chiesa in particolare del pontefice romano. Questo veniva definito “universale” assumeva infatti i tratti di un monarca, i cui attributi poggiavano sulla rappresentanza di Dio sulla terra. Veniva affermata in questo modo il potere esclusivo di nominare, trasferire e deporre i vescovi, nonché di creare e riunire le istituzioni ecclesiastiche (abbazie, canoniche, congregazioni) si ribadiva la sua indiscussa autorità sui concili anche quando mediato da un legato, al pontefice veniva riconosciuto un potere illimitato, egli rappresentava l’apice dell’ordinamento giudiziario della Chiesa infatti le cause maggiori venivano portate al suo cospetto e le sentenze che lui emetteva non potevano essere modificate da nessuno, inoltre il papa non poteva essere posto sotto giudizio da nessuno (si allude all’imperatore), a lui veniva riconosciuto il carattere di infallibilità che era coessenziale alla Chiesa medesima, al pontefice era inoltre permesso escludere dalla comunità ecclesiale tutti coloro che gli disobbedissero tramite la scomunica infine il pontefice poteva deporre lo stesso imperatore e sciogliere i suoi sudditi dal vincolo di soggezione e fedeltà. Gregorio VII scomunicò e depose nel 1076 l’imperatore Enrico IV di Franconia, il quale si recò a Canossa poiché il pontefice risiedeva nel palazzo di Matilde Canossa per ottenere la revoca e il perdono. La riconciliazione tra i due non durò molto a lungo, si ruppe nel 1080 in seguito alla pronuncia di Gregorio VII di un atto di decadenza, al quale seguirà la nomina di un antipapa da parte di Enrico e nel 1084 vi sarà la presa militare di Roma e papa Gregorio scapperà a Salerno dove morirà l’anno seguente. Ciò fu uno dei versanti più drammatici della lotta per le investiture, che mise in opposizione il papato e l’impero per il controllo delle nomine e dei benefici ecclesiastici. Questo scontro trovò uno sfogo con il trattato di Worms concluso nel 1122 tra l’imperatore Enrico V e papa Callisto II. In esso si stabiliva il principio della doppia investitura, importante quando si dovevano dotare di benefici feudali i vescovi: l’investitura ecclesiastica dei poteri pastorali sarebbe spettata esclusivamente alla Chiesa mentre le prerogative feudali connesse potevano continuare ad essere concesse dall’imperatore, ma egli non avrebbe più potuto usare l’anello e il pastorale poiché erano riservati soltanto al pontefice. La Chiesa grazie al processo messo in moto dalla riforma gregoriana apparirà come un’autorità posta nel medesimo livello dell’impero. Sulla base della riforma gregoriana si iniziano ad affermare elaborazioni teoretiche di tipo religioso e giuridico che propugnano una decisa preminenza della Chiesa rispetto all’impero anche sul piano politico e secolare. Negli ambienti ecclesiastici si affermerà la linea politica nota come “ierocratia=sacro potere” che afferma il prevalere del potere religioso su quello laico. 6-LA CULTURA GIURIDICA ALTOMEDIEVALE A) LA SOPRAVVIVENZA DEI TESTI GIUSTINIANEI La compilazione giustinianea composta a Bisanzio e vigente nell’impero d’Oriente, fu estesa all’Italia e all’impero d’Occidente con la pragmattica sanctio del 554. Poterono beneficiare dell’applicazione di queste norme solo la parte di Italia bizantina, in seguito i Longobardi ne restrinsero l’ambito di applicazione sino a renderla ininfluente e dimenticata. Sia in Italia che in Europa occidentale ebbero la meglio le consuetudini sia in forma orale che in forma scritta. I riferimenti al diritto romano erano rari, frammentari e indiretti, restava abbastanza vitale la tradizione giuridica latina operante nelle consuetudini dei popoli latini e nelle forme spontanee dell’oralità, della prassi negoziale e giudiziaria. Un discorso diverso si deve fare per i testi del diritto giustinianeo, di cui la documentazione del tempo restituisce solo qualche traccia. Quando i documenti alludono alla lex romana non si deve pensare ad un rinvio alla compilazione giustinianea ma con questo termine si alludeva alle consuetudini, la tradizione giuridica di un popolo, in questo caso il popolo latino prima sottomesso ai Longobardi e in seguito ai Franchi manteneva comunque la sua tradizione giuridica che era differente da quella usata dai loro dominatori. Questa tradizione emerge dagli atti notarili e da quelli processuali. Più rare sono le citazioni di passi tratti integralmente sporadicamente contenute in testi di provenienza ecclesiastica. La Chiesa rimane nei secoli dell’alto medioevo la depositaria predominante della scrittura e dei prodotti culturali, l’interesse che la Chiesa ha sempre avuto di tener memoria delle prerogative e dei privilegi riconosciuti da Giustiniano nelle sue norme, a partire dalla Renovatio Imperii la Chiesa ha coltivato e diffuso una tradizione culturale, religiosa e politica a un tempo, in cui essa si accreditava come autentica depositaria dei valori universali dell’Impero romano. Delle norme promulgate da Giustiniano a Bisanzio e applicate in seguito nell’impero d’Occidente nel 554 sono rintracciabili pochissimi passi testualmente integri. Le risultanze cambiano in base alla parte di compilazione che si analizza, per ciò che riguarda i Digesta (50 libri contenenti la selezione della scienza giuridica dell’età classica soprattutto del I e II secolo) si può affermare che i brani superstiti hanno poca consistenza e non sono sempre riportati in modo corretti o perfettamente compresi. Un fenomeno comprensibile poiché l’età altomedievale è caratterizzata dall’uso della forza, del prevalere delle consuetudini e da un’economia non molto sviluppata, una società del genere non aveva bisogno di testi giuridici. Le due raccolte di constitutiones imperiali (Codex e Novellae) ebbero una diffusione tramite più versioni compendiate. Si conoscono diverse epitomi di entrambi le raccolte: Epitome Codicis (risale al VIII) composta per riassumere il contenuto dei primi nove libri del codex giustinianeo oppure la Summa Perusina anche questa una sintesi di una parte del codex o ancora Epitome Iuliani un compendio delle Novellae attribuite al giurista bizantino Giuliano. In alcuni manoscritti che riportano la sintesi è possibile trovare i segni di un’elementare attività interpretativa attraverso l’apposizione di glosse. I libri delle Institutiones non ebbero bisogno di essere compendiate, fu quindi conservato nella sua versione originale con l’apposizione di glosse esplicative. B) LE ARTI LIBERALI Per ciò che riguarda la cultura giuridica altomedievale si è parlato di “un’età senza giuristi”, vi era la totale assenza di centri di formazione, di insegnamento e di apprendimento specializzato del diritto. Se pensiamo al disfacimento dell’impero d’Occidente, all’egemonia dei regni germanici e all’affermazione della consuetudine, non ci possiamo stupire se nell’Europa dei secoli VII-X al contrario che nell’Impero d’Oriente, non si sentisse il bisogno di competenze specifiche e sofisticate per la conoscenza e l’applicazione delle regole vigenti. Tuttavia ciò non significa che non esistessero soggetti che noi potremmo chiamare “operatori del diritto” come giudici e notai. Il percorso formativo era nettamente differente, legate al luogo di residenza o al centro del potere con cui entravano in contatto o al servizio del quale erano chiamati ad operare. Quasi impossibile identificare maestri impegnati a fornire una preparazione esclusivamente giuridica. La conoscenza durante l’alto medioevo era di tipo “enciclopedico”, essa aderiva alla visione integrale della realtà visibile e invisibile, concepita come ordine della creazione divina. Questa concezione della conoscenza possiamo trovarla espressa nel programma delle artes liberales (le arti liberali) denominate cosi perché al contrario delle artes mechanicae (le arti meccaniche) non comportavano lavori manuali di natura servile ma anzi attività di conoscenza tipicamente adatta e riservata all’uomo libero. Le arti liberali hanno origine antica, e trovano nei primi secoli dell’alto medioevo una sistemazione con Isidoro da Siviglia e le sue Etymologiae (primi decenni del VII secolo) i cui 20 libri affrontano tutta la conoscenza disponibile del tempo secondo l’utilizzo dell’ottica enciclopedica. Tramite le nozioni di Isidoro che si diffusero grazie alla sua opera, l’insegnamento nei secoli a venire fu impartito entro le griglie disciplinari delle arti liberali. Le arti liberali erano 7, 3 erano chiamate sermocinales (riguardano l’organizzazione e l’esposizione del pensiero) ed erano la grammatica, la retorica e la dialettica, mentre le altre 4 erano chiamate reales (riguarda le discipline che indagano la realtà delle cose, della natura del creato) l’aritmetica, la geometria, l’astronomia e la musica. La grammatica può definirsi come l’arte di esporre in modo corretto e comprensibile il discorso, la retorica come l’arte di esporre efficacemente e convincentemente il discorso, la dialettica come l’arte di ragionare, organizzare il pensiero, fissarne i passaggi secondo modalità argomentative valide e coerenti. L’insegnamento impartito secondo le griglie contenitrici delle arti liberali sermocinali forniva l’occasione per trasmettere alcuni generici elementi cultura giuridica. Le Etymologiae di Isidoro era il testo fondamentale nelle scuole di arti liberali, vi sono 27 paragrafi del capitolo V che sono dedicati al diritto, ma quei contenuti non erano sufficienti a costituire un sapere solido anche se si considerava sufficiente per gli allievi della scuola. Il diritto era concepito come un sapere radicato nella morale religiosa che la consuetudine era posta al medesimo piano della legge e che la terminologia romanistica appariva generica e mai circostanziata. Da questo materiale limitato si traevano le poche nozioni giuridiche trasmesse con la grammatica, la retorica e la dialettica. Le scuole non erano caratterizzate dalla specializzazione, non esistevano scuole dedicate esclusivamente al diritto. La cultura e la sua trasmissione erano affidate alla Chiesa infatti erano luoghi di apprendimento i monasteri nelle aree rurali e le cattedrali in città. Il sapere veniva incanalato nel prisma delle sette arti liberali le quali fatta eccezione per l’indottrinamento religioso restavano la base per la formazione di qualsiasi uomo di cultura, laico o ecclesiastico. La Chiesa era la depositaria dei centri di formazione e della cultura, ma si deve notare che vi erano delle scuole che operavano all’interno delle corti sovrane o delle corporazioni professionali. C) GIUDICI E NOTAI La circostanza che nell’alto medioevo non si possa parlare di giuristi in senso stretto non può interpretarsi come l’assenza di operatori del diritto. Le controversie oltre ad essere risolte con la forza potevano essere anche risolte tramite l’applicazione delle norme vigenti inoltre si poneva il problema di certificare gli atti con cui il singolo o le parti intendevano porre in essere determinate volontà. Le consuetudini potevano assumere a volte la forma scritta grazie alla sanzione dei sovrani, approvata dall’assemblea popolare degli uomini liberi, ma tuttavia il tratto la forma orale di queste era preponderante. Il problema dell’accertamento del contenuto specifico della singola consuetudine, della sua vigenza in quel determinato territorio o gruppo etnico, aveva dei contorni che non garantivano una soluzione facile. Si poteva ricorrere alla memoria degli antichi del luogo chiamati gli antiquiores loci oppure si avviava un’indagine attraverso il ricorso a testimoni affidabili cioè la inquisitio per testes. Il giudice doveva essere al corrente delle consuetudini vigenti e delle modalità tradizionali per il loro accertamento. Chi giudicava doveva avere la iurisdictio cioè doveva essere titolare del potere di amministrare la giustizia, risolvere le controversie applicando le regole vigenti, questo potere veniva tendenzialmente riconosciuto al papa, l’imperatore, ai re, ai vescovi, ai conti, ai signori fondiari, territoriali e feudali. Tuttavia non si può affermare che essi esercitassero sempre questo potere in prima persona, infatti spesso si avvalevano della perizia di soggetti esperti e fidati, ai quali si chiedeva una consulenza quando si giudicava attraverso un organo collegiale presieduto dal titolare della iurisdictio oppure si delegava il potere di emettere sentenza a soggetti abilitati, in queswto caso possiamo parlare degli scabini oppure di iudices. La pronuncia giudiziaria non aveva il valore dell’applicazione di una norma imperativa capace di costituire, modificare o interrompere effetti giuridici, ma piuttosto si limitava a dichiarare operativa una determinata regola consuetudinaria vigente, dalla quale discendevano certe conseguenze tra le parti in causa: quindi possiamo affermare che si trattava di una sentenza dichiarativa. Tuttavia, non si parlava di una sentenza: l’atto che documentava le fasi del processo individuava la regola vigente e dichiarava valide le prove e si chiamava placitum (oppure notitia iudicati). Anche se ci troviamo in ambiente germanico possiamo notare come la giustizia non sia vista come un’attività autoritativa ma anzi come l’affermazione di un ordine di regole e di situazioni soggettive iscritte nella tradizionale convivenza e se queste fossero state disattese o violate dovevano essere ripristinate tramite un riconoscimento giudiziale prodotto dal titolare della iurisdictio. In ambiente italiano il processo e il pronunciamento tendevano a valorizzare glie elementi probatori com ela testimonianza, il giuramento, la confessione e il documento negoziale, questi erano poco utilizzati in ambienet germanico poiché preferivano affidarsi agli strumenti tradizionali della loro cultura, cioè l’ordalia e in particolar modo utilizzavano spesso il duello. Un’altra figura molto rilevante in ambiente giuridico è il notaio, nell’alto medioevo questo poteva provenire da un ambiente ecclesiastico oppure poteva essere un componente di corti giudicanti o l’appartenente di uno specifico collegio professionale. La loro capacità di dar vita ad atti espressivi della volontà dei privati era dovuta al riconosciuto valore della loro perizia nel redigere documenti, perizia su cui era fondato il prestigio professionale di tali operatori. Un discorso diverso deve farsi per l’élite che era al servizio di autorità signorili o ecclesiastiche, erano capaci di fornire al documento una sanzione ufficiale promanante dal potere che rappresentavano. La publica fides cioè l’affidabilità che si richiedeva al documento non era un elemento scontato e solo in alcuni casi rari poteva fondarsi su un’autorità di cui il notaio incarnava la sanzione ufficiale. Negli altri casi il notaio basandosi sulla sua personale professionalità o sul prestigio della corporazione al quale appartiene doveva essere in grado di confezionare un atto dotato di firmitas cioè la stabilità nel tempo che poteva tradursi concretamente come: 1. Nella sua irrevocabilità le parti non possono rinnegare quanto hanno concordato nell’atto 2. Nella sua inattaccabilità l’atto può essere prodotto in giudizio in caso di controversia La firmitas poggiava sulla sottoscrizione dei contraenti e dei testimoni, che conferivano forza all’accordo documentato nell’atto. Il contenuto dell’instrumentum (documento) se contestato poteva essere messo in discussione dal giuramento e dalle testimonianze, che in sede processuale potevano avere la stessa forza della carta notarile. Cosi si spiegano le modalità di corroboramento dell’atto che la prassi aveva messo in atto nel tempo, la prima era quella di ricorrere all’autorità del signore territoriale o a quella regia o a quella imperiale o pontificia per ottenere la sanzione ufficiale dell’instrumentum. L’alternativa era data dalla possibilità di ricorrere alla pronuncia giudiziale: si ricorreva al giudice per trasformare il contenuto negoziale in una sentenza, in modo da esaltare il valore vincolante del contratto. Il giudice intervenendo rendeva più salda la firmitas che il notaio non poteva assicurare specialmente durante una contestazione. Negli ambienti di cultura germanica il valore dell’instrumentum era molto più esile, infatti preferivano affidarsi ad altri strumenti tradizionali per corroborare gli atti. Ad esempio, la traditio chartae mediante il quale l’atto in sede processuale costituiva una mera prova che le parti potevano utilizzare in concomitanza con le altre tradizionalmente ammesse. In territorio latino l’evoluzione dell’instrumentum fu diverso, infatti esso anche quando non era corroborato da una insuperabile publica fides poteva vantare comunque in sede processuale una firmitas difficilmente scalfibile da altri strumenti. Al notaio non bastava la scrittura e la perizia cosi come per i giudici non bastava la perizia e la conoscenza delle regole vigenti: ma era necessaria anche la legittimazione dell’autorità. Il cap.243 dell’editto del re di Rotari, puniva con il taglio della mano colui che era responsabile di aver redatto una cartola falsa cioè una carta notarile falsa. I Franchi diedero al notaio grande importanza, infatti ne nominavano uno ufficiale per ogni località in cui operasse un missus dominicus, ciò evitava lòa possibilità che gli ecclesiastici potessero confezionare atti pubblici. Con l’affermazione dell’autorità imperiale vi fu la necessità di avere un corpo di notai ufficiali delegati dall’autorità pubblica a fornire publica fides, insuperabile anche dagli atti rogati. Notai del genere possiamo ritrovarli nel Palatium di Pavia, sino alla sua distruzione avvenuta nel 1024 epoca in cui la prerogativa di nominare notai pubblici passò in mano alla potente famiglia Lomello. A partire dal X secolo emersero contesti nuovi di relazioni giuridiche ed economiche, ciò avvenne nelle città, i notai locali seppero produrre testi di supporto alla loro professione il cosiddetto formularium erano delle raccolte di moduli finalizzati al raggiungimento di effetti giuridici desiderati dal disponente o dai contraenti (donazione, compravendita, testamento, affrancazione, affitto) sui quali intervenire in seguito con i dati specifici dell’atto da rogare. Sui formulari si formarono varie generazioni di notai, i quali ebbero il bisogno di elaborare formule notarili in grado di aderire ai bisogni dei disponenti e di dotare i propri strumenti di firmitas. Nel X secolo si trovò una forma di stabilità nella tipicità negoziale ereditata dalla tradizione giuridica del diritto romano. Il notaio ebbe l’abilità di porsi al servizio della vita economica dei territori, tramite la prassi possiamo notare quanto sia importante ciò nelle città mercantili ad esempio a Genova si elaborano atti notarili con promesse di pagamento o confessioni di debito in grado di essere riconosciuti come immediatamente eseguibili, senza bisogno della sentenza del giudice: si parla in questo caso di instrumenta guarentigiata cioè titoli di credito. La prassi delle imbreviaturae i notai insieme all’atto richiesto compilavano una sorta di sintesi dell’atto medesimo da raccogliere in un apposito registro di funzione di pubblica certificazione. Il notaio era dotato di una cultura autonoma e parallela a quella ecclesiastica, a questa figura si deve riconoscere il contributo nel recupero delle fonti giustinianee che nell’alto medioevo circolavano in modo frammentario. 7-VERSO UN DIRITTO UNIVERSALE La suggestione di quello che fu l’impero romano, le sue radici culturali e giuridiche non si sono mai spente nell’alto medioevo. Ne abbiamo visto traccia nel progetto di rinascita imperiale perseguito dalla Chiesa e di cui fu investito il regno franco di Carlo Magno. Le vestigia della romanità sono presenti anche in ambito ecclesiastico, cosi come nella consuetudini di matrice latina, nella cultura dei notai e nella sopravvivenza lacunosa dei testi giustinianei. Questa suggestione intorno all’XI secolo iniziò ad avere dei contorni più definiti. Si avverte una coscienza della limitatezza dei tradizionali meccanismi di accertamento, applicazione e covigenza delle consuetudini. La consuetudine è una fonte molto apprezzata ma adesso in seguito al mutamento della società verso una maggiore complessità risulta difficile applicarle. I poteri territoriali forti hanno bisogno di un diritto meno frammentato e contradditorio, in grado di superare la molteplicità irriducibile dei patrimoni consuetudinari di matrice personale e locale. Si manifesta quindi la necessità di avere un diritto che sappia qualificarsi come superiore ed unitario. Questa esigenza è maggiormente avvertita nei centri del potere, presso le istituzioni ecclesiastiche, all’interno degli ambienti notarili e nelle aree urbane di rinnovata ascesa. Sembra che nessuna autorità politica sia in grado di garantire un diritto superiore e unitario, tuttavia non sarà necessario creare un nuovo diritto in quanto la suggestione dell’Impero romano non era mai realmente svanita e nemmeno l’operato di Giustiniano. Ciò che si vuole dire è che probabilmente l’attività iniziata da Irnerio cioè la riscoperta dei testi giustinianei e la successiva nascita di una scuola giuridica a Bologna non si devono intendere come un fenomeno a sé ma anzi sono il frutto di un processo articolato e complesso iniziato negli ultimi decenni dell’alto medioevo. La storiografia ha superato la visione miracolistica dell’attività intrapresa da Irnerio mettendo in relazione una serie di momenti della storia giuridica dell’XI secolo che sembrano preludere la svolta bolognese. In primo luogo si deve segnalare la presenza nella Pavia dell’XI secolo di una scuola giuridica, Pavia era stata la capitale del Regno Italico prima con i Longobardi, in seguito con i Franchi ed infine negli anni burrascosi seguiti dalla divisione dell’Impero (l’epoca dell’anarchia feudale). In questo momento il Regno si reggeva su una pluralità di fonti consuetudinarie e per facilitarne la conoscenza si erano create delle raccolte dove le più importanti sono: 1. Liber papiensis: conteneva tutti gli editti Longobardi da Rotari ad Astolfo quindi dal 643 al 755, aveva inoltre i capitoli franchi e le costituzioni imperiali contenuti nel Capitolare Italicum (da Carlo Magno a Enrico II quindi dal 779 al 1014) ed il materiale era organizzato seguendo il criterio cronologico. 2. Lombarda: vi appartenevano le stesse norme sopraelencate ma si era utilizzato un criterio sistematico e l’utilizzo di questo criterio rispondeva ai bisogni della pratica e dello studio, ciò ne decreterà il suo successo infatti rimpiazzerà il Liber Papiensis Al Liber Papiensis si associa un testo di natura esegetica cioè l’Expositio ad Librum papiensem, si tratta di una serie di annotazioni al testo normativo contenuto nel Liber le quali provengono probabilmente da una scuola di giuristi attivi a Pavia intorno al 1070, i giuristi che le hanno prodotte sono diversi, la maggior parte sono sconosciuti o addirittura anonimi, essi produssero queste annotazioni per rendere più facile la comprensione delle norme e risolvere i problemi di coordinamento e coerenza fra esse. I maestri che hanno costituito queste annotazioni si distinguono in base alle scuole di appartenenza, infatti parliamo di maestri antiqui e moderni intendendo così non solo la distanza generazionale ma anche le diverse sensibilità dottrinali. La Expositio viene citata nei manuali di storia del diritto perché è la testimonianza di una scuola giuridica di diritto germanico in Italia e perché i maestri citati nell’opera mostrano di avere un’ottima conoscenza delle norme romane come le istituzioni, il codex, le novelle e in minor numero del digesto. La storiografia è rimasta colpita del ricorso alle norme romane per colmare lacune, risolvere antinomie, l’utilizzo della legge romana in funzione della comprensione e dell’integrazione del diritto longobardo, franco e imperiale rappresenta la prima intuizione di quella che sarà la missione storica del diritto romano e della scuola che su quel diritto fonderà una scienza di respiro comune cioè il diritto comune che rappresenterà un patrimonio giuridico condiviso e di indiscussa autorità. Una seconda testimonianza del ricorso alle fonti giustinianee sono rappresentate da alcune contese giudiziarie registrate nella seconda metà dell’XI secolo, la più nota è quella risalente al Placito di Marturi del 1076. Davanti al missus della marchesa Beatrice di Canossa, la cui famiglia controlla un vasto territorio dalla Toscana alla pianura padana, si svolge un processo che oppone il monastero di San Michele in Castello al fiorentino Sigizone. Gli oggetto della disputa sono dei beni e la chiesa di Sant’Andrea presso il castello di Papaiano, questi beni erano stati concessi ottant’anni prima al monastero dal marchese Ugo di Toscana ma in seguito erano stati usurpati illecitamente dal marchese Bonifacio. Il sopruso era stato spesso denunciato dal monastero presso i giudici che operavano per i Canossa, senza che però questi svolgessero degli accertamenti sul caso. Questi ricorsi furono allegati per contrastare la difesa di Sigizone, il quale riteneva di essere protetto dall’usucapione. L’avvocato Giovanni che è il difensore del monastero sa di poter contare sull’interruzione della prescrizione quarantennale grazie a delle prove documentali e testimoniali rafforzati dal giuramento, che attestano gli avvenuti e che dovrebbero prevalere sul possesso in buona fede di Sigizone. Nel proc esso germanico, il giudice decide in base alle prove ammesse e dedotte in giudizio e ne dichiara la validità ai fini della prevalenza delle ragioni dell’una o dell’altra parte ma in questo caso succede qualcosa di diverso, in quanto il giudice Nordilo passa oltre le prove addotte dell’avvocato Giovanni e cita un frammento di Ulpiano che si trova nel Digesto dove si tratta la restitutio ad integrum concessa dal pretore anche dopo i termini consentiti nel caso in cui il ritardo sia dovuto all’assenza di giudici o alla loro inazione. Il giudice preferisce quindi fondare la sua sentenza a favore del monastero sulla restitutio ad integrum. I giudici dei Canossa prima avevano sempre riconfermato le norme della tradizione germanica come possiamo notare nel placito di Garfagnolo (1098) che affidò gli esiti di una rivendicazione patrimoniale tra il moanstero di San Prospero e una comunità della valle del Secchia. Nordilo, sceglierà il passo del Digesto per affermare una regola generale cioè non è possibile essere privato dei propri diritti in caso di dinegata giustizia: il rimedio della restitutio ad integrum, del ripristino della situazione giuridica precedente al sopruso in oggetto, prevale sopra ogni considerazione, e si afferma come principio di ampia portata rispetto alle prove messe al tavolo dal reclamante. All’interno del Placito di Marturi troveremo una figura chiave per la scuola giuridica di bologna (anche se non si ha la certezza sia lo stesso soggetto) Pepo legis doctor. IL MEDIOEVO DEI DIRITTI 1-UN DIRITTO ANTICO PER IL NUOVO MILLENNIO: LA STAGIONE PREIRNERIANA Con il XII secolo Italia ed Europa si schiudono a quello che la storiografia ha definito il «rinascimento giuridico medievale». Rinascimento = una rinascita che segue alla pacificazione politica e militare e alla correlata ripresa economica, entrambe germogliate nel secolo precedente. Una nuova dinastia, quella di Franconia, reggeva l'Impero e ne garantiva gli assetti. Sul versante dell'esperienza giuridica le acquisizioni della cosiddetta Scuola di Pavia e l'uso abile e spregiudicato nel circuito giudiziario della dinastia feuda le dei da Canossa di norme giustinianee da secoli cadute nell'oblio, costituiscono ben più di un segnale della avvertita necessità di affiancare al diritto longo bardo-franco, un complesso normativo meglio confacente a una società che si avviava a divenire più strutturata e articolata. Una società che vedeva affiancarsi all'economia agricola di base curtense una dimensione mercantile e artigiana che necessitava di strumenti giuridici adatti a certificare e tutelare una gamma ampliata di figure negoziali. Nella seconda metà dell’XI secolo tale necessità si era convertita nella consapevolezza che la lex generalis omnium la lex romana: ne erano consci gli operatori del diritto del tribunale pavese quanto i giudici, i causidici (avvocati) e i notai che in area tosco emiliana nei medesimi decenni operavano nell'ambito della giustizia feudale canossiana. Un ambito al quale appartiene anche il notaio aretino Petrus, il firmatario di una quindicina di rogiti (=atto pubblico) nei quali ricorrono formule di stile e trasparenti richiami al testo del Codice e delle Istituzioni di Giustiniano. Entro i larghi confini della giurisdizione dei da Canossa, dall'Appennino alla Padania continentale, alcuni 'addetti ai lavori’ uniscono l'uso del Digesto al manipolo di fonti giustinianee che l'Alto Medioevo aveva cautamente maneggiato in forma riassunta e scarnita: i primi nove libri del Codice, le Istituzioni, le Novelle nella redazione della Epitome di Giuliano. Un uso del Digesto, che presumeva una conoscenza, limitata ai primi quattro dei cinquanta libri che compongono la monumentale raccolta di iura. Fra questi addetti ai lavori, il Pepo legis doctor esce dall'ombra per divenire il simbolo della stagione preirneriana. Che un quidam dominus Pepo aveva per primo cominciato a legere in legibus a Bologna, cioè a tenere lezioni sulle leggi giustinianee. Ciò viene affermato dal giurista duecentesco Denari che volle vedere il legis doctor presente nel placito marturense. Egli depone una summa (=sintesi) del Codex nota come Iustiniani est in hoc opere: è un'opera di origine provenzale attribuita alla seconda metà del 1100. Il fatto che a più di un secolo di distanza e in terra di Francia si conserva il ricordo dell'antico giurista contraddice la sua scarsa fama. Qui un magister Pepo invoca davanti l'imperatore Enrico IV, l'irrogazione della pena di morte per l'uccisore di un servo, imponendo così il primato della legge romana, di cui si fa paladino, di contro a quella longobardo-franca, che prevede, nel caso di specie, la semplice composizione pecuniaria. Un Pepo che Rodolfo il Nero definisce «Co- S et Institutionum baiulus»,(=difensore del Codice e delle Istituzioni di Giustiniano e buon conoscitore di entrambi). Un Pepo che si immagina vestito di abiti talari. Il che non contrasterebbe con una ulteriore testimonianza valorizzata da Pietro Fiorelli, che narra di un Petrus «clarum bo- noniensium lumen» («chiara luce tra i bolognesi») assiso tra vescovi e dotti in un importante disputa teologica. Che la fonte sia da riferire a un Petrus vescovo 'scismatico' di Bologna tra il 1085 e 1096; si pensa che il vescovo Petrus e il magister Pepo siano una sola persona. La figura di questo o di questi precursori continuerà a mancare. 2-LA RIVOLUZIONE DI IRNERIO Alla percezione da parte di Pepo e dei suoi seguaci dell'adeguatezza della compilazione di Giustiniano a rispondere alle istanze del presente, si accompagna e fungeva da forza motrice un fenomeno importante: la progressiva emersione dei manoscritti riproducenti il testo integrale se non integro delle leggi imperiali. Una riemersione che nel caso del Digesto interrompe un silenzio, racchiuso fra un dies a quo (una epistola del Pontefice Gregorio Magno del 604) e un dies ad quem (il testo del placito marturense del 1076). Non si ha la certezza di quali siano stati gli itinerari della ricomparsa delle singole parti della compilazione: fra la seconda metà dell'XI e la prima metà del XII secolo, il moto politico della Riforma Gregoriana. Lo scontro fra le due supreme autorità dell'Occidente cristiano, l'Impero e la Chiesa, celava il nodo intricato della convivenza delle due istituzioni universali. La giurisdizione (iurisdictio) di entrambe operava nei confronti dei medesimi soggetti: i sudditi dell'Impero erano un tempo anche i fedeli di Cristo, ne conseguiva la covigenza sullo stesso territorio dell'Impero di due complessi normativi, distinti ratione materiae, ma coincidenti nei destina tari. Un nodo insolubile, che fra tentativi di composizione e più frequenti tensioni avrebbe attraversato tutto il medioevo sino alle soglie dell'età moderna. La Riforma coinvolse i migliori intelletti e i vertici dell'Occidente - i pontefici e gli imperatori nel tentativo di supportare con argomenti teologici e giuridici il primato del pontefice e delle gerarchie della Chiesa su imperatori e Impero o viceversa. Un modus operandi che si basava sull'assunto, che l'autorità/autorevolezza dell'argomentazione utilizzata nonché la sua antichità legittimassero la tesi da dimostrare. Per la causa dei riformisti vennero rivoltati gli scaffali dei giacimenti di cultura libraria dell'epoca. Le prime citazioni non in forma riassunta di Codice e di Istituzioni compaiono nella Collectio canonum (Raccolta di canoni) del vescovo di Lucca e nel Decretum del vescovo di Worms: le Novelle di Giustiniano sono citate nella redazione dell'Authenticum. Entrambe raccolte di canoni conciliari al servizio della Riforma, esse appartengono alla seconda metà del secolo XI, al quale appartiene anche l'anonima Collectio Britannica, che in anni vicini a quelli del Placito di Marturi mostra una conoscenza più che buona del Digesto, inanellando ben 98 citazioni tratte da esso. E’ difficile non ipotizzare che proprio dalle grandi biblioteche monastiche siano riemersi i manoscritti delle singole parti della compilazione giustinianea: manoscritti disertati nei secoli precedenti che si avviavano a divenire preziosi. Il fenomeno del «rinascimento giuridico medievale» prende l'avvio proprio dal fortunato incontro fra i libri legales, i libri della risalente legge di Giustiniano, e uomini 'istruiti' e lungimiranti in grado di coglierne il potenziale per le istanze di disciplinamento del loro tempo. L'incontro era già avvenuto nella seconda metà del secolo XI: le testimonianze dell'ambiente giudiziario pavese, il Placito di Marturi, il lumen del misterioso Pepo, i rogiti dei notai aretini, le collezioni riformiste di canoni ecclesiastici ce lo dichiarano, ma un solco profondo separa questa stagione prodromica e, in una parola, preirneriana, da quella destinata a prendere quota a Bologna dal secondo decennio del 1100 grazie all’attività di Irnerio. La differenza riposa nell’attitudine con la quale la lucerna iuris (=luce del diritto) si accostò ai libri della legge. Un’attitudine 'scientifica' e sistematica a fronte della spontanea, strumenta: le utilizzazione che i suoi immediati predecessori fecero delle medesime fonti. Irnerio dal suo ruolo di esegeta, di divulgatore dello ius civile, Il mito del «primus illuminator scientiae nostrae». Suggestive informazioni ci giungono tramite le praelectiones (lezioni scolastiche) di Odofredo. Il noto passo odofrediano contiene due notizie: 1) il transito da Bologna dei libri legales, aggiuntivi dopo il collasso delle fantomatiche sedi scolastiche altomedievali di Roma e di Ravenna, la cui esistenza è destituita di credibilità; 2) L'incontro del dominus Irnerio con i libri dell'antica sapienza giuridica mana, ai quali si accostò con l'armamentario culturale di un maestro di arti liberali e li studiò e cominciò a farne oggetto di insegnamento, regalando a Bologna per almeno un secolo il primato di culla degli studi giuridici. Il nome con cui lui stesso si sottoscrive è Wernerius, mentre la variante Yrne rius è attestata dai manoscritti solo nei decenni successivi alla morte. Le uniche date della sua vita da ritenere sicure sono legate a 14 documenti che lo vedono partecipare a rilevanti vicende giudiziarie e diplomatiche della seconda decade del 1100: due placiti fra il 1112 e il 1113 in veste di causidicus (procuratore legale); ben 11 fra il 1116 e il 1118 in qualità di iudex Bononiensis (giudice bolognese); la notizia della sua presenza a Roma all'elezione dell'antipapa Gregorio VIII nel marzo 1118; la scomunica fulminata contro di lui nel 1119 dal Concilio di Reims per avere insieme ad altri giuristi argomentato la legittimità dell'elezione dell'antipapa. Un placito del 1125 che lo vedeva avvocato del Monastero di San Benedetto di Polirone è stato di recentemente sospettato di dubbia autenticità. La nascita di Irnerio può essere presunta nell'ultimo quarto del secolo XI e la scomparsa intorno alla fine degli anni 10 del 1100. Di recente è riemersa tradizione documentale deponente per l'origine teutonica di Irnerio: tradizione che contrasta con la ricorrente qualifica di bononiensis e de Bononia che si accompagna al suo nome nei placiti, ma che spiegherebbe la fiducia riposta in lui dall'Imperatore Enrico V. La cittadinanza e il radicamento di Irnerio nel capoluogo emiliano sono indiscutibili. I placiti e le altre testimonianze documentarie appurano un legame del giurista con i territori appartenuti o governati dalla contessa Matilde di Canossa. Inoltre, Irnerio accompagna l'Imperatore Enrico V nella sua discesa in Italia fra il 1116 e il 1118. In quell'occasione Enrico mirava a riprendere possesso dell'eredità matildica come superiore feudale e parente più prossimo in mancanza di eredi diretti. Una vicinanza politica, questa di Irnerio con l'imperatore nel decennio caldo della Riforma Gregoriana che precedette il Concordato di Worms confermata da una delle più celebri glosse irneriane. Nella breve nota a margine di una parola contenuta in una costituzione del Codice di Giustiniano, glossa, si dicono passati dal popolo al sovrano tramite la lex regia de maiestatei i poteri di governo. Proprio le molte glosse recanti la sigla di Irnerio, spesso rielaborate. Deposto è la paternità irneriana di una serie di opere a lui attribuite ma appartenenti al mezzo secolo successivo: la Summa Codicis, le Quaestiones de iuris subtilitatibus, il Formularium tabellionum. Il profilo intellettuale di Irnerio è quello di un uomo di buona cultura del suo tempo, formatosi nelle arti liberali: una formazione che includeva anche un’introduzione ai processi argomentativi (dialettica) ed espositivi (retorica) del ragionamento giuridico. Con questo essenziale strumentario la lucerna iuris accostò i manoscritti della compilazione giustinianea, che a Bologna erano giunti e circolavano separatim (separatamente), in un disordine di contenuti. Imprescindibile su questo punto nodale un notissimo passo dello storico/cronista Burcardo di Biberach, secondo il quale Irnerio “rinnovò", su richiesta della contessa Matilde di Canossa, i libri delle leggi, che fino ad allora erano stati abbandonati. Li ripartì sistematicamente l'imperatore Giustiniano di “divina memoria", solo aggiungendovi a tratti qualche parola laddove necessario. Emergono dalla cronaca le innovative finalità dell'attenzione e dell'applicazione dedicate da Irnerio ai libri giuridici, rispetto a quelle dei suoi predecessori: 1) ricostruzione del testo delle antiche norme; 2) riordino sistematico delle singole parti della compilazione. Una specie di edizione critica del complesso giustinianeo cui Irnerio si accinse su esortazione della contessa Matilde, in conformità e sfruttando la sua formazione in artibus e la sua vocazione filologica. Formazione e vocazione che vennero messe al servizio della iuris civilis sapientia, nei secoli altomedievali ancella di dialettica e di retorica e da ora grazie a Irnerio branca autonoma del sapere, divulgata nelle scuole che spontaneamente e 'privatamente' sorsero in Bologna. 3-LA FORZA DELL’INTERPRETAZIONE LETTERALE La rivoluzione Irneriana e il primato di Bologna fra le sedi universitarie dell'Occidente escono dalla leggenda ed entrano da protagonisti nella storia degli uomini e delle idee in quanto segnano l'autonomizzazione dello studio e dell'insegnamento in legibus rispetto alle arti sermocinali del trivio. Arti nelle quali Irnerio era un magister e dalle quali trasse le competenze per legere in legibus, mettendo la tradizione al servizio del rinnovamento. Di rinnovamento conviene parlare poiché nella formula didattica varata da Irnerio di originale c'era poco: la radice comune dei termini legere, lectura, lectio evoca l'oralità di un magistero che si dipanava attraverso la lettura del testo oggetto della lezione, come già avveniva nelle scuole di artes altomedievali e nell'esegesi del Vecchio e del Nuovo Testamento nei centri didattici monastici e vescovili vocati alla formazione del clero. Altrettanto risalente e collaudato era il metodo di spiegazione/interpretazione, che si avvaleva di glossae, note esplicative raccordate a singole parole (litterae) del testo oggetto della lezione. Il rinnovamento varato da Irnerio nei primi due decenni del 1100, che faceva del diritto un’autonoma branca del sapere riposava essenzialmente: 1)nell'oggetto; vale a dire il complesso della normativa giustinianea contestualmente sottoposta a un processo di revisione filologica e a un riordino strutturale: 2)nell'obiettivo, quello di ammodernare e rivitalizzare, attraverso un potente sforzo esegetico che trovava principalmente nella glossa il proprio veicolo, l'antico ma nuovamente valido corpo di leggi romane. Un obiettivo cui erano totalmente estranee pulsioni erudite, ma che mirava a uniformare le marcate specificità originarie di Codice, Digesto, Istituzioni, Novelle, nell'identità di genere di uno ius commune dotato di universale vigenza per legittimazione imperiale (ratione Imperii). Dotato di universale e coincidente giurisdizione per legittimazione pontificia sarà il parallelo corpo del diritto canonico. Percependo la compilazione giustinianea come unitaria, furono proprio i legum doctores della prima stagione bolognese a rinominarla Corpus Iuris Civilis e imporvi una nuova architettura, destinata a perpetuarsi per tutto il medioevo e l'età moderna. Il complesso del diritto civile si articola materialmente in cinque volumi, i primi tre occupati dalla partizione dei cinquanta libri del Digesto in 1) Digestum vetus (libri 1-24); 2) Infortiatum (libri 25-38); 3) Digestum novum (libri 39-50). Seguivano al quarto posto il Codex Iustinianus, comprendente peraltro solo i primi nove libri e, al quinto, il Volumen, miscellanea nel quale vennero fatti confluire i libri dal 9 al 12 del Codex, i quattro libri delle Institutiones, le Novellae di Giustiniano nella redazione dell'Authenticum, secondo la tradizione individuata dallo stesso Irnerio come la versione integrale e più attendibile della legislazione novellare dell'imperatore bizantino. Tale redistribuzione, risponde più probabilmente a concrete esigenze dell’attività didattica su di essi avviata nella stagione irneriana, una didattica che aveva individuato nel Digesto Vecchio e nel Codice i primi strumenti per la formazione degli aspiranti giuristi. Essi costituirono i libri legales, ai quali dalla fine del 1100 i dottori bolognesi aggiunsero anche il testo delle consuetudini feudali raccolte nei Libri Feudorum, in quanto settoriale espressione legislativa dell'Impero medievale. Il

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