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STORIA CONTEMPORANEA (Miletto).pdf

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Lezione 1 = Introduzione al Novecento Storia Contemporanea: Cos'è la storia contemporanea? Si tratta di un’associazione che, sul piano semantico potrebbe sembrare contraddittoria, poiché le due parole stridono, non sembrerebbero poter stare insieme Storia: è infatti...

Lezione 1 = Introduzione al Novecento Storia Contemporanea: Cos'è la storia contemporanea? Si tratta di un’associazione che, sul piano semantico potrebbe sembrare contraddittoria, poiché le due parole stridono, non sembrerebbero poter stare insieme Storia: è infatti un concetto che rimanda al passato in modo indefinito, tanto da permettere agli uomini del presente di avviare delle riflessioni o, addirittura trarne degli insegnamenti Contemporaneo: significa invece che accade nello stesso tempo Domanda da porsi: può quindi esistere una storia contemporanea? Per arrivare a dare una risposta occorre prima definire un inizio di quella che viene definita età contemporanea. Quindi, chiediamoci quando inizia la storia contemporanea Risposta Congresso di Vienna La storiografia, e cioè la disciplina scientifica che si occupa di studiare, o più letteralmente di descrivere (dal greco graphia che deriva da graphé e cioè descrizione) il passato e quindi la storia individua la data di inizio della storia contemporanea nel 1814. In quell’anno si svolse infatti il Congresso di Vienna, che terminò nel giugno 1815, poco prima della sconfitta di Napoleone a Waterloo (18 giugno 1815) e che ridefinì l’assetto dell’Europa. Vi parteciparono, lo ricordo, Austria, Russia, Prussia e Regno Unito e a guidare i lavori vi era il cancelliere austriaco Metternich. Anche la Francia prese parte al Congresso, poiché venne considerata vittima dell’azione di Napoleone. Lo scopo del congresso era quello di ripristinare l’Ancien régime, ossia le monarchie assolute che erano al potere in Europa prima della Rivoluzione francese. Per questo motivo, l’epoca compresa tra il 1815 e il 1830 è stata definita età della Restaurazione. Il Congresso di Vienna in sintesi per ripristinare la politica europea adottò due criteri: il principio di legittimità, secondo il quale i sovrani che erano al trono prima della Rivoluzione francese e che poi erano stati spodestati da Napoleone dovevano tornare sui loro troni il principio di equilibrio, in base la quale le potenze europee avrebbero costruito un assetto politico stabile, in cui nessuno Stato avrebbe potuto prevalere sugli altri Con il congresso di Vienna si consolida il processo di costituzione degli stati nazionali, che saranno destinati a diventare i protagonisti della politica del vecchio continente. Infatti, dopo il Congresso di Vienna, si assiste a: stati che iniziano a ripensare la propria organizzazione burocratica, a migliorare i propri sistemi finanziari e militari, a fornirsi di migliori codici e strumenti giuridici rivoluzione industriale che porta a una trasformazione in senso economico e sociale della società che vede svilupparsi le grandi aree urbane Miglioramento dei trasporti via terra e via mare Miglioramento delle tecniche agricole Trasformazione della vita privata che vede imporsi una cultura tendente a dare maggiore spazio al piano individuale anche nella dimensione quotidiana Il contemporaneo sviluppo di tali fenomeni – che avrebbero impiegato decenni per affermarsi – ma che nel loro insieme indicano un cambiamento che aveva coinvolto l’intera Europa, portano a indicare il congresso di Vienna come data convenzionale di inizio dell’età contemporanea. In proposito occorre però tenere presente un elemento e cioè come i fenomeni elencati abbiano come principale teatro l’Europa (e solo in parte gli Stati Uniti che in questo periodo videro il consolidamento del loro modello politico), proponendo così un modello eurocentrico, frutto di un mondo che all’inizio dell’Ottocento considerava l’Europa come solo centro politico, intellettuale ed economico. E questo rappresenta un aspetto importante. Proposte di periodizzazione: Periodizzazione: nel caso della storia contemporanea appare molto difficile attuare una periodizzazione. Perché? Perché se, come abbiamo visto, possiamo individuare un inizio, la stessa cosa non può dirsi per la sua conclusione, che è impossibile da individuare. Cosa possiamo fare? Possiamo tracciare una periodizzazione Periodizzazione unificante: e cioè una periodizzazione periodizzazione riferita a eventi collocabili nell’età contemporanea. Una periodizzazione che può essere scandita come segue: 1815-1870 congresso di Vienna, rivoluzione industriale ed emergere degli Stati nazione 1870-1914: imperialismo e nazionalismo 1914-1945: le due guerre mondiali 1945-1991: la guerra fredda Post 1991: tempi recenti Buona parte di quella che abbiamo definito storia contemporanea si snoda lungo il Novecento che verrà declinato in alcuni dei suoi temi principali. Il Novecento Punto di partenza: per introdurre il Novecento iniziamo anche in questo caso da una domanda e cioè che cos’è il Novecento? Risposta: è molto difficile – se non impossibile – trovare un’unica definizione che racchiuda la complessità che attraversa l’intero secolo. Definizioni = Età dei lumi, Rinascimento, secolo delle nazioni, sono delle definizioni coniate dagli storici per etichettare delle epoche ben precise. Anche per il Novecento sono fiorite delle definizioni, da quelle che vogliono mettere in evidenza il senso complessivo del secolo, a quelle che ne sottolineano un aspetto ritenuto preminente. Quindi noi possiamo definire il Novecento come un secolo breve (Hobsbawm), lungo o spezzato (storico inglese Charles Maier) o, ancora come il secolo degli estremi, il secolo più terribile della storia occidentale (l’espressione è del filosofo inglese Isaia Berlin), il secolo dei massacri e delle guerre (del francese René Dumont) o il secolo più violento della storia dell’umanità (scrittore inglese William Golding). Caratteristiche del Novecento = Sebbene differenti tra loro, queste definizioni racchiudono un denominatore comune, e cioè quello di presentare al Novecento come un secolo in continuo divenire, nel quale si intrecciano cambiamenti, trasformazioni e contraddizioni che portano a un taglio netto rispetto al passato. Dunque quello che definisce il Novecento è un tempo segnato da una pluralità di eventi e di date, che rendono estremamente complesso un tentativo di organizzare il secolo seguendo espliciti riferimenti temporali. Periodizzazione = Dunque nel Novecento appare molto difficile mettere ordine. Infatti, soprattutto dopo il 1945, la storia del secolo è segnata da date, eventi e personaggi che spesso sfuggono a ogni tentativo di organizzazione secondo il principio della periodizzazione che rappresenta il punto di partenza di ogni interpretazione storiografica. Se ci ponessimo lo stesso interrogativo per i secoli precedenti non sarebbe difficile fornire una risposta universalmente condivisa. E questo perché? Perché per i secoli precedenti c’è sempre stato un evento, una tendenza predominante, un carattere più appariscente che ci ha permesso di racchiudere un’epoca in un’espressione sintetica. Un processo che porta, ad esempio, a definire il Seicento come il secolo dell’assolutismo e dell’economia, il Settecento come quello dei lumi e delle rivoluzioni, l’Ottocento come quello delle nazioni e del capitalismo. E l’elenco potrebbe proseguire all’indietro con gli stessi risultati. Per il Novecento il discorso è diverso, poiché si tratta di un secolo che si muove lungo un asse che privilegia i temi rispetto al quadro temporale. Questo vuol dire che quando parliamo del Novecento dobbiamo tenere presente il suo carattere frammentato, il suo essere un secolo nel quale si intersecano trasformazioni demografiche, politiche, culturali, economiche e sociali che hanno avuto un impatto straordinario su molte società e, di conseguenza, sulla vita e l’identità di milioni di persone. Quindi il Novecento sfugge a una rigorosa periodizzazione. Questo non significa che una periodizzazione del Novecento non sia possibile. E’ solo più complicata perché alcuni dei passaggi che lo hanno caratterizzato sono ancora in pieno svolgimento. I temi del 900: Se una periodizzazione canonica del Novecento appare difficile, possiamo però tentare di mettere in luce quelli che sono i suoi passaggi cruciali, o almeno i più significativi. Un tentativo per far emergere alcuni "caratteri" del Novecento che lo distinguono da tutti i secoli precedenti e che consentono di ordinare e interpretare una notevole quantità di fatti e fenomeni che acquistano "senso" storico. Il Novecento è dunque: secolo delle guerre secolo delle ideologie secolo delle masse secolo dei totalitarismi secolo dei genocidi secolo dei razzismi secolo delle migrazioni secolo dei profughi secolo dei diritti secolo delle donne sviluppo/tecnologia secolo dei giovani 1) Secolo delle guerre: L’esperienza bellica attraversa l’intero Novecento che vede svolgersi tre guerre, due mondiali – quindi calde – e una fredda. Conflitti (e mi riferisco alle guerre mondiali) ai quali partecipa per mobilitazione o coinvolgimento forzato l’intera popolazione e che portano alla cancellazione della distinzione tra combattenti e civili. Conflitti differenti da quelli che li hanno preceduti per una serie di elementi come il potenziale e l’arsenale distruttivo a disposizione dei belligeranti, per il teatro planetario nel quale sono combattuti. Si tratta di guerre assolute che vedono scontrarsi diverse concezioni del mondo, diversi modelli di organizzazione sociale che ambiscono a imporre il proprio potere sull’intero pianeta attraverso la distruzione degli avversari. Si pensi, ad esempio alla prima guerra mondiale, in seguito alla quale scompaiono dalla carta geografica gli imperi che rappresentavano gli ultimi residui della vecchia Europa e si affermano gli stati nazione. Si pensi alla seconda guerra mondiale che si conclude con la scomparsa irreversibile del nazifascismo e con la cancellazione della Germania come stato unitario; infine si pensi alla Guerra fredda, che termina con la fine del “socialismo reale” comunemente indicato come comunismo e la disgregazione dell’Unione Sovietica. Le guerre che attraversano il Novecento sono caratterizzate da un elevato carico di violenza. Il XX secolo ha generato un bilancio complessivo di 110.000.000 di morti per guerra, dei quali circa 55.000.000 nella sola seconda guerra mondiale (stime più prudenti parlano di quaranta milioni, ma si tratta sempre di numeri considerevoli). A quelli delle due guerre mondiali, occorre aggiungere i milioni di morti dei 1.253 conflitti censiti tra il 1950 e il 1998. Il punto, al di là dei dati presentati, è che tre guerre mondiali (due calde e una fredda, con ques’ultima che ha inciso su centinaia di guerre locali), con i caratteri di distruttività e ferocia non hanno precedenti nella storia umana. Certo massacri e violenze hanno sempre segnato i conflitti, ma dobbiamo tenere presente come nessun secolo abbia pianificato la morte come il Novecento e che nessuna epoca, soprattutto, ha avuto a disposizione armi così distruttive per farlo. La guerra ideologica: Nel Novecento la guerra si combina e procede di pari passo con l’ideologia. La guerra è quindi una prosecuzione armata e violenta di uno scontro tra grandi sistemi ideologici che attraversano il secolo. Nel Novecento, la guerra è diventata uno scontro tra concezioni e 6 valori in cui la posta in gioco non è solo il predominio, ma l’imposizione di un sistema di pensiero su intere popolazioni. La guerra mondiale: Il teatro delle guerre del XX secolo è stato, per la prima volta nella storia, davvero mondiale. Inoltre alla guerra, per mobilitazione o per coinvolgimento forzato, ha partecipato tutta la popolazione. L’espressione fronte interno e fronte esterno è stata coniata durante la Grande guerra, quando iniziò in modo sistematico la cancellazione della distinzione tra combattenti e civili. Fu allora che venne formulato il nuovo paradigma della guerra totale, che ha registrato un’impressionante progressione. La definizione apparve per la prima volta in un’opera di Léon Daudet, La guerra totale, pubblicata a Parigi nel 1918. Durante la prima guerra mondiale il 15% dei caduti furono civili (secondo altre fonti il 5%), contro il 59% (o 45%) della seconda guerra mondiale, il 60% della guerra del Vietnam e l’80% circa registrato in Iraq e in altre guerre recenti. Si è trattato, lo ripeto, di “guerre assolute”, dove si scontravano diverse concezioni del mondo, diversi modelli di organizzazione sociale, che ambivano a dominare l’intero pianeta attraverso la distruzione degli avversari. In sostanza, la guerra è diventata la prosecuzione armata e violenta di uno scontro ideologico. 2) Secolo delle ideologie: I grandi sistemi ideologici attraversano tutto il secolo, mobilitandosi, gli uni contro gli altri, anche nei periodi di pace. Abbiamo prima parlato del carattere ideologico delle guerre del Novecento, che si caratterizza come secolo delle ideologie. Esse infatti non sono, come nell'età moderna, una questione che riguarda solo le élites, gli uomini di cultura, ma coinvolgono le masse, mobilitano la società intera. Il Novecento è lo scontro di queste ideologie di massa che diventano costitutive degli stati, tanto che abbiamo stati costruiti attorno a determinate ideologie (ad esempio stati definiti comunisti, stati fascisti) e che mobilitano le loro risorse in funzione dell'ideologia. 3) Secolo delle masse: Abbiamo parlato di masse che nel Novecento irrompono sulla scena: il XX secolo è dunque il secolo delle masse, mentre tutti quelli che lo hanno preceduto sono stati i secoli delle élites. Una novità che segna una rottura profonda con il passato. Certo, il processo di massificazione era già cominciato nell’Ottocento: l’ingresso delle masse nella storia è infatti 7 figlio della rivoluzione industriale e dell’affermazione del capitalismo. Ma non bisogna nemmeno sottovalutare l’effetto del progresso sanitario generale e dell’esplosione demografica. Sta di fatto che questo fenomeno dell’irruzione delle masse nella storia (prima di allora, e non a caso, anche la storia scritta era solo storia di élites) ha rappresentato un tratto distintivo del Novecento. Teniamo però ben presente un elemento e cioè che le masse di cui parliamo non sono semplicemente una grande quantità di popolazione, ma sono il risultato dell’intreccio di almeno cinque fattori fondamentali: la crescita demografica l’urbanizzazione affermazione del fordismo e del taylorismo nell’economia e nella produzione la diffusione dei consumi e un indubbio, anche se conflittuale, aumento del tenore di vita l’alfabetizzazione di massa La crescita delle masse, inoltre, porterà alla creazione di nuovo tipo di società, e cioè la società di massa, ovvero una società che rimodella i comportamenti collettivi rispetto al passato e crea nuovi stili di vita. 4) Secolo dei totalitarismi: Fascismo, nazismo e stalinismo sovietico sono i tre grandi “totalitarismi” del secolo. Caratterizzati dalla presenza: a) di un apparato ideologico forte, teso a distinguere inesorabilmente tra “amico” e “nemico”, b) di un partito unico guidato da un capo carismatico detentore del potere pressoché assoluto, c) di un apparato propagandistico e repressivo inesorabile, in grado di azzerare ogni forma di dissenso e di assicurare quindi il pieno controllo sulle attività sociali, economiche, intellettuali e culturali. Dunque i regimi totalitari hanno segnato a fondo la storia del Novecento al punto da definirlo come il secolo dei totalitarismi. 5) Secolo dei genocidi: Lungo tutto il corso del Novecento si sono verificate deportazioni e stermini. Dagli armeni alla Shoah, passando per gli ucraini vittime del terrore stalinista, fino ad arrivare alla Cambogia e, in tempi più recenti, al Ruanda e alla Bosnia. Il Novecento ha visto milioni di persone restare vittime innocenti di programmi sistematici di eliminazione fisica. Due parole sul termine genocidio [chi sceglierà Bruneteau potrà approfondire questo passaggio], coniato nel 1944 dal giurista polacco di origine ebraica Robert Lemkin, che fu 8 applicato per la prima volta nel 1946 durante il Processo di Norimberga nell’atto di accusa contro alcuni grandi criminali di guerra processati nella città tedesca, accusati di aver compiuto un genocidio deliberato e sistematico e cioè lo sterminio di gruppi razziali e nazionali. La pubblica accusa del Tribunale di Norimberga usò questo termine nell’arringa conclusiva del processo. La parola indica un particolare crimine perpetrato a danno di una particolare etnia o di gruppi etnici e religiosi, mediante uccisione, dissociazione e dispersione di persone, e, ancora, mediante la distruzione di beni, monumenti e opere appartenenti a quel gruppo o a quell’etnia. Nel 1948 toccherà all’ONU, mediante un’apposita convenzione approvata all’assemblea generale delle Nazioni Unite, stabilire che il genocidio rappresentava un crimine secondo il diritto internazionale. E dunque coloro che si fossero macchiati di questo delitto, siano essi organi costituzionali di uno Stato, funzionari civili o militari, oppure semplici cittadini, debbano essere considerati “personalmente” e “singolarmente” responsabili del crimine stesso e pertanto sottoposti al giudizio del tribunale del luogo in cui è avvenuto il fatto oppure di un tribunale internazionale. 6) Secolo dei razzismi: Stabilire in modo arbitrario la presunta “inferiorità” biologica di una determinata etnia e operare, di conseguenza, in vista della sua discriminazione, anche in forma radicale e violenta, rappresenta la base del razzismo. Un fenomeno certamente non nuovo, ma che ha trovato nel Novecento modalità di espressione particolarmente cruente. 7) Secolo delle migrazioni: Il Novecento è il secolo delle migrazioni, che hanno avuto conseguenze enormi dal punto di vista della redistribuzione della ricchezza internazionale e della composizione demografica e culturale. Alla base delle migrazioni vi sono motivazioni di tipo economico o politico con caratteri di volontarietà, da non confondere con altri tipi di movimenti di popolazione come invasioni, conquiste, colonizzazioni e spostamenti forzati che hanno caratterizzato il secolo. Le migrazioni di tipo economico sono quelle più consistenti. E’ inevitabile partire dalle grandi migrazioni transoceaniche di fine/inizio secolo. Tra il 1890 e il 1914 si assiste a un massiccio flusso migratorio che coinvolge i Paesi dell’Europa mediterranea e orientale. Questa ondata migratoria deve essere compresa dentro il processo più ampio della rivoluzione industriale e della sua diffusione. 9 La crisi agraria europea che ebbe inizio negli anni Settanta dell’Ottocento svolge un ruolo scatenante, mentre la riduzione delle barriere legali, e la riduzione dei costi di trasporto facilitano la realizzazione del progetto di emigrare. Gli Stati Uniti (e in genere il continente americano) costituiscono il grande polo di attrazione per gli immigrati europei, date le enormi estensioni di terra disponibili, le leggi agrarie assai liberali, un’industria in rapida crescita e possibilità di impiego in continua espansione. Per completezza va detto che il fenomeno dell’emigrazione europea verso le Americhe non fu l’unico: dopo il 1870, 20 milioni di lavoratori cinesi ed indiani si trasferirono nei Paesi tropicali: Birmania, Sri Lanka, Africa orientale e meridionale, Asia meridionale; un milione di giapponesi si trasferì in Brasile; quasi otto milioni di russi si insediarono nella Russia asiatica, mentre vi fu un’altra direttrice dell’emigrazione europea verso l’Africa settentrionale e l’Oceania. Un flusso migratorio importante fu quello che riguardò gli ebrei dell’Europa orientale. Ne emigrarono un milione e mezzo tra il 1880 e il 1914 verso gli Stati Uniti, mentre mezzo milione raggiunse Sud America, Canada, Europa, Palestina. Alle cause economiche già note si aggiunse in questo caso l’atteggiamento persecutorio dello Stato russo verso questa comunità e i numerosi pogrom che la colpirono. Gli effetti della migrazione di inizio secolo sono stati importantissimi: essa ha favorito la crescita economica nelle zone di partenza (si pensi all’importanza, tra l’altro, delle rimesse degli emigranti nell’Italia giolittiana) allentando la pressione demografica e, nel contempo, anche quella sociale e politica (emigrazione di tanti anarchici e socialisti) e ha contribuito allo sviluppo e alla mescolanza etnico-culturale nei paesi d’arrivo. L’Italia ha offerto alle migrazioni di inizio secolo il flusso più consistente: tra il 1871 e il 1915 oltre 13,5 milioni di individui, prima dal Nord e poi soprattutto dal Sud, emigrarono nel resto d’Europa e oltremare. L’emigrazione italiana non si arresta nel primo decennio del Novecento, ma prosegue anche dopo. Sia verso l’Europa (Francia, Svizzera, Germania e Belgio) a partire dal primo dopoguerra, sia internamente (le grandi migrazioni dal sud verso il nord del paese che hanno il triangolo industriale Torino, Milano, Genova la principale meta delle parabole migratorie). 8) Secolo dei profughi: In fuga da guerre, conflitti e persecuzioni, espulsi dai paesi di origine o impossibilitati a rientrarvi per non restare vittime di discriminazioni e violenze, milioni di profughi, rifugiati, apolidi e richiedenti asilo sono stati protagonisti, soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, di migrazioni forzate e spostamenti coatti di popolazione. 10 Verificatisi in misura maggiore a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, tali fenomeni hanno propagato la loro eco fino alla fine del secolo, per poi esplodere in maniera fragorosa nei primi anni del nuovo millennio. Si parla di spostamenti forzati di popolazione ovvero di fenomeni che avvengono in Europa lungo una linea immaginaria tracciata dal Mar Baltico all’Adriatico. Iniziano in realtà con le guerre balcaniche del 1912-1913 e raggiungono il loro apice nel decennio il decennio 1939- 1949, caratterizzato dai più vasti spostamenti coatti di popolazione nella storia europea. Un quadro contrassegnato da espulsioni e scambi forzati, riguardanti slovacchi, ungheresi, serbi, croati, sloveni, polacchi e, soprattutto, intere comunità di tedeschi, strappate dai territori assegnati alla Polonia e alla Cecoslovacchia dopo il crollo del Reich tedesco. Fenomeni che interessano da vicino anche la storia del nostro paese, con l’esodo di gran parte della popolazione italiana dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, passate dopo la guerra sotto la sovranità della Jugoslavia di Tito. 9) Secolo dei diritti: La resistenza al totalitarismo, la lotta per la libertà e per la democrazia ha caratterizzato il Novecento portando, nel secondo dopoguerra, alla nascita di una cultura dei diritti umani, che trova il suo riconoscimento più alto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, contenuta nella carta di fondazione dell’ONU. Questo documento, tra i frutti più elevati del Novecento, rappresenta non solo il minimo comune denominatore della convivenza tra i popoli, ma costituisce l’unica scala di valori universalmente sottoscritta (almeno in massima parte) e, quindi, da rispettare. 10) Secolo delle donne: Il Novecento è il secolo delle donne, che irrompono sulla scena verso l’affermazione della propria emancipazione sociale e civile come soggetto autonomo, non più sottoposto all’autorità maschile. Un elemento che distingue il XX secolo da quelli precedenti, nei quali la donna raramente raggiungeva visibilità in una società gerarchicamente maschilizzata. Questo vuol dire che la storia del Novecento è una storia scritta da uomini e donne, nella quale le differenze di genere assumono il carattere di un elemento che distingue il secolo da quelli precedenti, nei quali la soggettività femminile restava segregata nei vincoli di società gerarchiche dominate dalla figura maschile. Si tratta – per quanto contraddittoria, stante la persistenza di radicate disuguaglianze sul piano socio-economico e culturale - di una rivoluzione nella distribuzione dei poteri, dei ruoli e delle gerarchie sociali. 11) Sviluppo/tecnologia: Il Novecento è il secolo del possibile, e cioè l’età dei grandi sviluppi tecnologici. Pensiamo ad esempio alla produzione in serie, alle catene di montaggio, introdotte nell’industria dell’automobile alla vigilia della prima guerra mondiale, alle acciaierie a flusso continuo degli anni Cinquanta, fino ad arrivare al modello fordista che assoggetta il maggior numero di operai a un processo produttivo controllato dall’alto mirante a fornire grandi quantità di prodotti standardizzati. Le linee di navigazione incrementano il traffico economico, le linee aeree costituiscono un’innovazione fondamentale nel superamento dello spazio dopo la prima guerra mondiale e, ancor di più, dopo la seconda. Nel Novecento, quindi, la tecnologia ha reso possibile ciò che prima era confinato nella sfera dell’immaginazione e del mito, come volare o rendere artificiale gran parte della vita quotidiana o come l’avvento delle tecnologie digitali e biologiche. C’è chi ha denominato per questo il Ventesimo secolo come Il secolo del possibile, ossia della fantasia diventata realtà. 12) Secolo dei giovani: Il Novecento è il secolo dei giovani. Resistenze, rifiuti, tensioni e ribellioni delineano il comportamento della gioventù. A partire dagli anni Cinquanta i giovani diventano un soggetto sociale, irrompono nello spazio pubblico contribuendo all’affermazione, in tutto il mondo occidentale, di comportamenti collettivi, culture, mode e dinamiche sociali radicalmente differenti rispetto al passato. Essere giovani da questo momento diventa un valore e i giovani dimostrano di voler abbandonare il ruolo di comparse per assumere quello di protagonisti. E il Novecento consente loro di ritagliarsi a pieno questo ruolo. Lezione 2 = Seconda Rivoluzione Industriale Seconda rivoluzione industriale A partire dall’ultimo trentennio dell’Ottocento, assistiamo a una stagione di forte crescita produttiva basata su nuove risorse energetiche e tecnologiche, in un quadro che vede completarsi la spartizione coloniale del globo e l'Inghilterra cedere progressivamente il suo primato, – fino ad allora indiscusso – a favore di nuove potenze economiche in Europa (Germania) e fuori dall’Europa (Stati Uniti) Sviluppo industriale: Dunque fra gli anni Settanta del XIX secolo e la Prima guerra mondiale, l’industrializzazione si trasforma profondamente: si instaura uno stretto rapporto tra scienza, tecnologia e industria si rivoluziona la tecnologia produttiva, delle comunicazioni e dei trasporti; cambiano i settori trainanti lo sviluppo; si utilizzano nuove fonti energetiche crescono le dimensioni delle aziende mutano i rapporti tra l'industria e gli istituti bancari e finanziari Per riferirsi a questi processi di trasformazione, si utilizza la definizione di “seconda rivoluzione industriale”. Una definizione giustificata dall'eccezionale numero di innovazioni tecnologiche e dall'utilizzo di nuove forme e fonti di energia. Alla base della seconda rivoluzione industriale sta dunque l’applicazione all’industria delle conquiste della scienza che rendono ancora più forte il legame tra scienza e tecnologia e tra tecnologia e mondo della produzione. Rinnovamento e industria: Nessun settore produttivo resta estraneo all’ondata di rinnovamento tecnologico che interessa però maggiormente tre settori nuovi che svolgono nella seconda rivoluzione industriale quel ruolo trainante che cento anni prima era stato svolto in Inghilterra dall’industria del cotone e da quella meccanica. 1) Acciaio; 2) Chimica; 3) Elettrico. 1) Acciaio: Il suo impiego su vasta scala fu uno dei tratti distintivi della nuova epoca. Era molto resistente ma i suoi elevati costi ne avevano limitato l’utilizzo. Grazie a nuove tecniche di fabbricazione – ad esempio il forno Martin- Siemens – fu possibile produrne in grandi quantità a costi abbordabili. La sua produzione cresce a ritmi elevatissimi [tra il 1870 e il 1913 il consumo mondiale aumenta di ottanta volte] e viene usato per le rotaie delle ferrovie (che sostituiscono quelle in ferro), per corazzare le navi da guerra, per utensili domestici, macchine industriali che diventano più precise dando una spinta decisiva alla meccanizzazione. L’acciaio fornisce anche le strutture che rendono possibile la costruzione di ponti ed edifici ben prima che fosse introdotto, nel 1892 l’uso del cemento armato nell’ingegneria civile. Il primo palazzo con strutture in acciaio il Twin Tower di New York alto dieci piani è del 1889. Nello stesso anno, in occasione dell’esposizione universale, l’ingegnere francese Alexandre Eiffel, costruisce la Tour Eiffel (300 metri di altezza e 8000 tonnellate di peso), che è il simbolo più celebre dell’età dell’acciaio Eiffel Tower Construction 1887-1889 https://www.youtube.com/watch?v=oOKyJrFRrNo - Esposizioni: Si è detto delle esposizioni universali, che sono un’invenzione dell’Ottocento per celebrare le conquiste della modernità. La prima in Europa è organizzata a Londra nel 1851. L’altra –appena evocata – è quella di Parigi del 1889, organizzata per celebrare il centenario della rivoluzione francese Paris, 1889 https://www.youtube.com/watch?v=RkEpGBpuiC8 Il suo simbolo è la Tour Eiffel, costruita per celebrare l’era del ferro e dell’acciaio. La Tour Eiffel divenne fin da subito il simbolo di Parigi. Uscendo dallo scenario europeo, un’altra 3 importante esposizione universale fu quella di Chicago nel 1892, che celebrava il quarto centenario della scoperta dell’America. Il tratto comune delle esposizioni è quindi la celebrazione del nuovo: Colombo ha scoperto un nuovo mondo, la rivoluzione francese ha iniziato un nuovo mondo. Torniamo alla seconda rivoluzione industriale e ai suoi simboli. Dopo l’acciaio abbiamo la chimica che ebbe sviluppi molto importanti. 2) Chimica: Quella chimica è un’industria versatile che abbraccia una grande quantità di prodotti: concimi, saponi, medicinali, esplosivi, gomma. Fu ad esempio un processo chimico che nel 1886 permette di ricavare l’alluminio dalla bauxite trasformando quello che fino ad allora era stato un metallo prezioso in un metallo utile al pari del ferro e dell’acciaio. Tra le applicazioni della chimica si vedano l’acido solforico, che entra nella preparazione di concimi, esplosivi e coloranti. E, ancora, nel 1870 in Inghilterra, ma soprattutto in Germania, è sperimentata per la prima volta la lavorazione di coloranti artificiali. Nel 1875 il chimico svedese Alfred Nobel deposita il brevetto della dinamite. Nel 1888 lo scozzese Robert Dunlop inventa gli pneumatici aprendo nuovi orizzonti all’industria della gomma. Tra il 1889 e il 1892 in Francia e in Inghilterra sono realizzate le prime fibre tessili artificiali derivate dalla cellulosa. Ai processi chimici si lega anche l’industria alimentare che adotta nuovi metodi di conservazione, sterilizzazione e inscatolamento dei cibi. 3) Elettricità: All’esposizione universale di Parigi del 1889, una delle nuove scoperte a essere maggiormente celebrate è l’elettricità. Non a caso, il principale palazzo dell’esposizione è il Palazzo dell’elettricità. L’elettricità rappresenta un’importante novità anche nella quotidianità. Immaginiamo, ad esempio, l’entusiasmo della popolazione a vedere illuminate le vie e le piazze delle città. Quindi anche l’elettricità si inserisce lungo la scia dell’avanzata del progresso e della tecnica. L’elettricità soppianta il primato del carbone e della macchina a vapore nella produzione di energia. Poi ci fu la possibilità di trasmetterla e distribuirla a grandi distanze, di utilizzarla per l’illuminazione e il riscaldamento o di ritrasformarla in movimento (motori elettrici). L’invenzione decisiva per lo sviluppo dell’industria elettrica fu la lampadina, nel 1879 ideata da Edison. Per la prima volta l’elettricità fornisce così qualcosa di utile non solo all’industria o al commercio, ma a ogni famiglia. Di fronte alla richiesta crescente di energia elettrica si faceva strada l’idea di ricorrere per la produzione di corrente, anziché alle macchine a vapore, all’energia idrica. Furono così costruite centrali idroelettriche, soprattutto in quei paesi, come l’Italia del nord, che erano poveri di carbone ma ricchi di bacini idrici. Sempre legate all’elettricità furono altre novità non meno rilevanti anche se destinate ad avere, almeno nell’immediato, un minore impatto sulla vita delle masse: il telefono 1871 inventato dal fiorentino Antonio Meucci e perfezionato qualche anno più tardi negli Stati Uniti dallo scozzese Alexander Bell; il grammofono ideato da Edison nel 1876 e, infine il cinematografo, sperimentato in Francia per la prima volta nel 1895 dai fratelli Lumiere. Il trionfo dell’elettricità https://www.youtube.com/watch?v=nJx1LZa4OcM Il petrolio e il motore a scoppio: Poi ci sono le nuove fonti energetiche, una su tutte, il petrolio e i suoi derivati, che producono il doppio di energia del carbone e occupano molto meno spazio. A dare impulso all’estrazione del petrolio, che inizialmente aveva costi di produzione assai elevati, sono gli esordi dell'automobile e, in generale, dei nuovi mezzi di trasporto. Quindi lentamente ma inesorabilmente nel corso del Novecento il petrolio soppianterà il carbone, che fu il combustibile della prima industrializzazione. La tendenza alla concentrazione: Siderurgia, chimica, elettromeccanica sono industrie ad alta intensità di tecnologia e di capitale. Questo vuol dire che la costruzione di una fabbrica chimica o di un'acciaieria ha costi elevati e richiede investimenti enormi, difficilmente affrontabili da parte di imprese familiari. Si rendono quindi indispensabili nuove forme di proprietà delle imprese (la società per azioni si diffonde negli ultimi decenni dell'Ottocento fino a divenire prevalente) e nuove forme di raccolta del capitale attraverso un mercato finanziario sempre più controllato dalle banche, che canalizzano i capitali raccolti dai depositi dei loro clienti verso gli investimenti produttivi. Fra industria e banche si crea quindi uno stretto rapporto e il ruolo delle banche diventa strategico. Le esigenze di ridurre i rischi di investimenti, limitare la concorrenza e stabilire un controllo sul mercato rafforzano anche la tendenza alla concentrazione delle imprese (fusioni, legami 5 tra imprese o tra imprese e banche, trusts, cartelli, holdings). Con la concentrazione crescono le dimensioni delle imprese. Razionalizzazione della produzione: Anche l'organizzazione della produzione industriale è investita da importanti innovazioni volte a facilitare il flusso della produzione. Tra i processi di riorganizzazione produttiva, il più importante riguarda, nella grande fabbrica, l'utilizzo più razionale e scientifico dei lavoratori, teso ad abbassare i costi del lavoro e ad accrescere la produttività. Le novità in questo campo arrivano dagli Stati Uniti, dallo studio e dalle prime applicazioni della “organizzazione scientifica” del lavoro. Il suo più importante teorico, l'ingegnere Fredrick Taylor, pubblica nel 1911 The principles of scientific management i cui principi sono destinati a un enorme successo. Secondo tali principi, la one best way, e cioè il metodo migliore, più economico ed efficiente per ottenere un prodotto, si basa sulla scomposizione delle varie fasi del ciclo produttivo in operazioni il più possibile elementari, scientificamente misurate e programmate e sull'attribuzione a ogni operaio di semplici, meccaniche e ripetitive operazioni. Nasce così il taylorismo, ovvero un sistema basato sulla divisione delle mansioni e su un controllo dei tempi di lavoro, che si intreccia con le innovazioni organizzative introdotte nel 1913 da Henry Ford nella sua industria automobilistica di Detroit. Ford riorganizza l'intero stabilimento attorno alla catena di montaggio, che unisce le diverse fasi del lavoro di assemblaggio dell'automobile portando i pezzi ai lavoratori, ciascuno dei quali, fermo al suo posto e sottoposto a un rigoroso controllo, si limita a eseguire una delle semplici operazioni che costituiscono il processo di produzione. La catena di montaggio riduce drasticamente i tempi e i costi unitari di produzione: il prezzo del modello T di Ford, “l'auto per tutti” come recita uno slogan pubblicitario, passa dai 950 dollari del 1908, quando è immessa sul mercato, ai 360 del 1917 e ai 290 del 1927, quando cessa la sua produzione. Ford Model A Assembly https://www.youtube.com/watch?v=PZnGWJ_6BwU Applicate progressivamente a tutti i settori produttivi, le innovazioni portano allo sviluppo di un modello produttivo cosiddetto fordista che trionferà nel trentennio che segue la Seconda guerra mondiale. Un modello fondato: sulla grande fabbrica che impiega migliaia di lavoratori e dove vengono interconnesse e sincronizzate le diverse fasi della produzione; sulla totale e gerarchica divisione del lavoro tra chi dirige, progetta, controlla l'efficienza produttiva (ingegneri, tecnici e impiegati) e chi esegue (operai ai quali non è richiesta alcuna qualifica) sulla parcellizzazione del lavoro, sulla catena di montaggio, sulla produzione in serie La razionalizzazione produttiva e il mercato: La produzione in serie immette sul mercato una gran quantità di beni a basso costo e permette, nel corso del Novecento, il progressivo affermarsi di un nuovo immenso mercato di massa, non più limitato al cibo e al vestiario, ma esteso a beni durevoli (biciclette, automobili, macchine per scrivere e per cucire, elettrodomestici...). L'innovativo circuito fra produzione (di massa), mercato (di massa), consumo (di massa) avviene in stretta relazione con la crescita dei ceti medi, con l'aumento dei salari e degli stipendi (ovvero con la crescita delle capacità di acquisto di milioni di lavoratori e lavoratrici in precedenza esclusi dal consumo) e con l'ampliamento dei mercati interni connesso al fenomeno del crescente urbanesimo. Urbanesimo: Ritorniamo agli effetti della seconda rivoluzione industriale. Questo processo di accelerazione industriale comporta anche lo sviluppo delle città, dando avvio a un fenomeno meglio noto come urbanesimo che avrebbe portato, gradatamente, la gran parte della popolazione dei paesi industriali a trasferirsi dalle campagne alle città, che crescono e si popolano a ritmi vertiginosi, segno di come il fenomeno dell’urbanizzazione diventi espressione di un cambiamento della percezione e delle possibilità di vita per uomini e donne, che ora iniziano a vivere in città, nelle città delle industrie, dei trasporti rapidi e delle rapide comunicazioni. E questo rappresenta un cambiamento radicale. Wonderful old London around 1900 in colour! https://www.youtube.com/watch?v=MJJBAd2wuBs Berlin 1900 https://www.youtube.com/watch?v=C1IGNLg-RSU Una città che – estremizzando un po’ il discorso – si presenterà divisa in due parti: il centro borghese e la periferia operaia. Borghesia e proletariato urbano sono i due principali attori sociali che calcano la scena a partire dall’ultimo trentennio dell’Ottocento. Borghesia: La borghesia conosce una fase di crescita ed espansione, presentandosi come portatrice degli elementi di novità e trasformazione (sviluppo economico e progresso scientifico) riuscendo a consolidare la propria influenza e a trasmettere le sue linee guida e cioè: merito individuale libera iniziativa concorrenza innovazione tecnica Alla borghesia appartiene una vasta gamma di figure sociali: magnati dell’industria, della finanza e proprietari terrieri. Tra questi estremi si collocano altre figure come i ceti emergenti (imprenditori, dirigenti d’azienda, banchieri, commercianti). Accanto a loro la borghesia più tradizionale e cioè quella delle professioni (avvocati, ingegneri, medici) e la burocrazia statale. Un gradino più in basso impiegati, insegnanti e piccoli professionisti. E cioè il ceto medio e piccola borghesia. Cultura e società borghese: La borghesia europea esprime una propria cultura e un proprio stile di vita: i valori tradizionali sono austerità, moderazione, propensione al risparmio. La struttura familiare, molto patriarcale, è basata sull’autorità del capofamiglia e sulla subordinazione della donna. Altro elemento caratterizzante l’ideale borghese è la fede nel progresso. Una concezione che poggia su due pilastri: lo sviluppo economico e le conquiste della scienza. Su questi ultimi si fonda una nuova corrente intellettuale, il positivismo, che inizia ad affermarsi a metà del secolo per poi espandere la sua influenza. Tra i maggiori esponenti del positivismo vi fu Charles Darwin al quale si deve la teoria dell’evoluzione e della selezione naturale. Corti e aristocrazia perdono progressivamente il loro potere a vantaggio di un ceto borghese che appare sempre più in crescita. Proletariato urbano: Lo sviluppo di inizio secolo si dimostrò però squilibrato e non consentì a larghi strati di popolazione di accedere a nuovi consumi e migliori situazioni di lavoro e, nel contempo, non riuscì nemmeno ad assicurare a tutti un significativo miglioramento delle condizioni materiali. Ampi settori di popolazione non solo rimasero ai margini dello sviluppo, ma videro aumentare il divario dalle classi più benestanti. Benessere, istruzione, diritti e progresso, e cioè i valori perseguiti dalle élite al potere nell’Europa liberale, rappresentano parametri spesso estranei alla vita di migliaia di proletari costretti, tanto nelle città quanto nelle campagne, a vivere in condizioni di degrado. Il proletariato urbano, impiegato nelle grandi fabbriche, popolava in buona parte le periferie cittadine. Ma lavorare in fabbrica non equivale a raggiungere una migliore esistenza in termini di qualità della vita. Gli operai sopportano turni di lavoro massacranti (12 ore giornaliere), lavorano chiusi in edifici dove le condizioni igieniche e di sicurezza praticamente non esistono, svolgono mansioni ripetitive e faticose, sottoposti a una rigida disciplina. Vivono in abitazioni malsane, sovraffollate, prive dei più elementari servizi, situate in quartieri bui e inquinati. Sono privi di ogni tutela assistenziale ed è loro precluso, in linea di massima, l’accesso ai nuovi consumi. 1901 - Victorian/Edwardian workers caught on film https://www.youtube.com/watch?v=jfN60ZlZhpY Movimento operaio, marxista e socialismo: Tanto nelle città quanto nelle campagne i ceti più deboli rivendicavano maggiori diritti e tutele. Rivendicazioni guidate da movimenti politici e sindacali, primi tra tutti anarchismo e socialismo, che si stavano diffondendo su vasta scala sul territorio europeo. Chiave vincente di questi movimenti era la loro capacità di organizzazione: è il caso dei partiti socialisti che riescono attraverso una fitta opera di proselitismo a guadagnarsi consenso e fiducia di milioni di proletari esclusi all’inizio del Novecento dalla partecipazione alla vita pubblica. Erano i partiti socialisti, ad esempio, a farsi carico e a guidare le lotte di emancipazione che vedono impegnati migliaia di lavoratori. Erano loro - insieme ai primi sindacati - a mediare col padronato sui salari, sugli orari di lavoro, sulla disciplina e la produzione in fabbrica (e nei campi) e sui contratti. Una rappresentanza che arriva anche in Parlamento dove proprio attraverso i partiti socialisti il proletariato trovava la sua voce. Infatti i partiti socialisti ottennero ampio consenso elettorale, giovandosi soprattutto dell’allargamento del suffragio che consentiva anche alle classi popolari di esprimere il proprio voto. Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale, ad esempio, il Partito socialdemocratico tedesco raggiunse il 34,8% alle elezioni del 1912, il Partito socialista italiano il 21,3% (elezioni 1904), quello francese il 16,8% (1914 elezioni). Anche in Austria, Belgio, Danimarca, Norvegia, e Svezia i socialisti raggiunsero ottimi risultati. Nel processo di consolidamento dei partiti socialisti europei, un ruolo di primo piano fu assunto dal marxismo, la cui diffusione consegna una forte identità a milioni di proletari in lotta contro lo sfruttamento del sistema capitalistico, contribuendo a trasmettere un senso di appartenenza alla classe operaia e alla formazione di una cultura proletaria in cui si riconoscevano i lavoratori socialisti. Alla sua diffusione contribuiscono canzoni, drammi teatrali, testi letterari, biblioteche circolanti, istituzioni educative, cooperative e mutualistiche, come ad esempio le società di mutuo soccorso. Diritto e legislazione sociale: Oltre ai socialisti fecero la loro comparsa anche alcune organizzazioni ispirate al cattolicesimo sociale che operavano nella rete delle parrocchie, convertite da luoghi di predicazione religiosa a centri di aggregazione dove ai fedeli veniva offerto, insieme al conforto spirituale, anche sostegno concreto nella vita lavorativa e quotidiana. La presenza sulla scena di queste organizzazioni, unitamente a quella del movimento operaio e socialista, la cui ascesa generava più di un timore nelle élites borghesi, influirono in maniera assai rilevante sulle scelte dei governi liberali, sempre più propensi a concedere nuovi diritti e introdurre nuove garanzie e tutele. Furono introdotti per gli operai dell’industria sistemi assicurativi contro la malattia, la vecchiaia, gli infortuni sul lavoro e la disoccupazione e cioè i pilastri di quello che sarebbe poi diventato lo stato sociale. Misure alle quali si affiancarono quelle relative alla riduzione dell’orario di lavoro (nei paesi più industrializzati del centro e del nord Europa fu approvata la giornata lavorativa di dieci ore, mentre in Inghilterra furono fissate le 54 ore settimanali con sabato pomeriggio e domenica libera). A ciò si aggiungono i diritti concessi in materia di libertà di stampa, di associazione e di sciopero (nel senso che molti governi assunsero un atteggiamento di formale neutralità nei confronti di conflitti sociali che non avessero l’obiettivo di rovesciare l’ordine costituito superando la consuetudine, sino ad allora adottata, di reprimere con la forza le lotte e limitare lo spazio di azione delle organizzazioni operaie). Al riconoscimento di diritti sociali e all’attuazione di politiche assistenziali si affiancarono strategie di inclusione e integrazione volte ad allargare le basi sociali dello stato. In tal senso l’elemento più rilevante fu l’estensione del suffragio universale maschile, in conseguenza del quale entrò in crisi il sistema di rappresentanza liberale che, fino ad allora, selezionava gli elettori sulla base del censo e dell’istruzione. Indicatori che escludevano quindi le classi meno abbienti che invece, nel ventennio precedente la Grande guerra, si videro assegnare, in quasi tutti i paesi europei, il diritto di voto, concesso però soltanto agli uomini. L’estensione del suffragio universale fu importante poiché diede la possibilità a segmenti posti fino ad allora ai margini della vita pubblica di acquisire il diritto di essere rappresentati. Restavano escluse le donne: prima dello scoppio della Grande guerra, solo Finlandia e Norvegia seguirono l’esempio di Nuova Zelanda e Australia che avevano concesso il voto alle donne rispettivamente nel 1893 e nel 1903. Da sottolineare, infine, come le riforme strappate ai governi liberali aumentarono il prestigio di sindacati e partiti che raccolsero i voti della classe operaia, alla cui azione il proletariato attribuiva ogni successo ottenuto. I figli della terra - popolazione rurale nelle campagne europee: Dopo le città, guardiamo ora alle campagne, dove i contadini dovevano fare i conti con disoccupazione, sottoccupazione e con sistemi di lavoro molto duri, mitigati solo in parte dall’impiego di macchinari e di aggiornate tecniche agronomiche. Inoltre i rapporti con i datori di lavoro e i proprietari terrieri erano caratterizzati da autoritarismo e paternalismo, mentre i redditi risultavano stagnanti o, laddove crescevano, aumentavano in maniera decisamente più limitata rispetto a quelli dei lavoratori dell’industria. Nel 1873 le campagne europee conoscono un periodo di crisi che si protrae per circa un ventennio dovuto all’ingresso massiccio di prodotti provenienti dagli Stati Uniti che provoca una caduta di prezzi. Le annate agricole negative acuiscono la crisi e hanno come primo effetto il massiccio afflusso di contadini nelle città, favorendo l’urbanesimo. Ma, altro elemento, è l’aumento dell’immigrazione contadina oltreoceano. Espatriano milioni di italiani - poi su questo ci torniamo - ma anche 800.000 contadini inglesi dove nei primi anni del Novecento l’agricoltura occupa solo il 10% della popolazione attiva. Emigranti inglesi che trovano asilo nelle colonie del Regno Unito e negli Stati Uniti. Anche l’impero asburgico tra il 1900 e il 1919 perde 3,5 milioni di contadini diretti verso le Americhe. Nazione, Nazionalità, Nazionalismo Il patchwork europeo: Sviluppo economico, riforme sociali, nuove cure mediche, maggiore attenzione alla salute, migliore alimentazione e anni di relativa pace, contribuiscono alla crescita della popolazione europea. L’Europa si presenta come un patchwork (termine che, in gergo tessile e sartoriale sta a indicare l’unione, tramite cucitura, di diverse parti di tessuto) di etnie differenti, ciascuna con una propria lingua, una propria tradizione e un credo religioso, trasversalmente diffuse nel continente. Alle divisioni linguistiche si unisce quella delle fedi religiose: abbiamo infatti protestanti, cattolici, ebrei, ortodossi e, naturalmente, musulmani. In questo quadro, il concetto di nazione diventa una delle parole chiavi caratterizzanti lo scenario europeo di inizio Novecento, che vede le classi dirigenti cercare il sostegno delle masse facendo appello all’unità della nazione nella quale, a vario titolo, l’intera popolazione doveva sentirsi coinvolta. Creare la nazione: In tal senso occorre sottolineare come già dalla fine dell’Ottocento con l’obiettivo di cementare l’identità collettiva e il senso di appartenenza dei singoli cittadini i governi ricorsero a differenti strumenti quali, ad esempio, l’istruzione pubblica il cui compito era quello di insegnare da un lato la lingua, la storia e la letteratura intorno alle quali avrebbe dovuto identificarsi culturalmente la nazione, dall’altro la geografia che definiva i confini del proprio stato e la separazione dagli altri. Altri strumenti furono l’esercito, inteso sia come strumento di difesa, sia, per mezzo della leva obbligatoria, come terreno di incontro tra i giovani provenienti dalle diverse aree dei paesi, la stampa e, ancora, gli inni, le cerimonie pubbliche, i monumenti e la topografia delle città, pronte a costruire miti, riti e simboli che celebrassero la grandezza della nazione, la sua unità e le sue conquiste. Tale situazione portò gli stati europei a definire un progetto volto a nazionalizzare le masse, ovvero a far si che una molteplicità di persone, differenti tra loro per genere, censo e appartenenza sociale, si riconoscessero in un passato, un presente e un futuro comune, del quale lo stato era il garante. Nazionalismo: Parallelamente al nazionalismo di stato generato dalle politiche governative per alimentare nella popolazione sentimenti patriottici e l’unità nazionale, si svilupparono a cavallo tra i due secoli movimenti nazionalisti che in alcuni casi sostenevano i governi in carica, in altri si ponevano come radicali antagonisti dell’ordine costituito. Movimenti permeati da una visione aggressiva e fanatica della nazione, dal rifiuto verso la matrice democratica e che sostenevano progetti espansionistici o coloniali, cui legavano la visione di uno stato basato su un forte autoritarismo. I movimenti nazionalisti di inizio Novecento, il più delle volte collocati nell’area della destra anti-liberale, costituirono in molti casi un importante canale di comunicazione di idee razziste fondate sul darwinismo sociale, che trovarono piena applicazione nel colonialismo. Razzismo: La concezione di una nazione forte e omogenea, legittimava le teorie, in realtà già emerse a partire dalla metà dell’Ottocento, volte a stabilire la preminenza di una “razza superiore” nei confronti di una “razza inferiore”, sostenendo così la sottomissione di quest’ultima alla prima. I bersagli, ovvero le popolazioni considerate inferiori e quindi da colpire e discriminare, erano quelle differenti dai bianchi europei che popolavano le colonie africane e asiatiche. Ma il razzismo divideva anche le stesse popolazioni europee: veri e propri teorici della razza ideavano teorie che sostenevano l’inferiorità delle popolazioni dell’Europa orientale, oggetto di un antislavismo che iniziava a diffondersi in maniera sempre più consistente nel resto del continente. A fare le spese delle teorie razziste furono anche gli ebrei, vittime di pregiudizi diffusi nelle diverse classi sociali, applicati soprattutto nell’Europa orientale, dove erano numerosi e non sempre integrati nel contesto sociale. Essi divennero vittime di discriminazioni e aggressioni, soprattutto nell’Impero russo, dove l’antisemitismo, appoggiato dalle autorità politiche, sfociò in episodi di violenza che portarono tra il 1903 e il 1905 a centinaia di uccisioni. Politiche di violenza tali da trasformarsi in un vero e proprio genocidio, colpirono anche la popolazione armena. Impero ottomano: E qui ci spostiamo nell’impero ottomano, che aveva oramai perduto buona parte dei propri possedimenti occidentali, molti dei quali passati sotto l’impero asburgico e quello russo. Dopo la rivoluzione del 1908 che vede l’ascesa al potere del movimento dei Giovani Turchi di Mohamed Talat Pasa, i turchi, deposto il sovrano Abdul Hamid, investono sulla modernità nella convinzione che solo essa avrebbe potuto salvare dalla rovina l’intero paese. Modernità voleva dire stato autoritario ed economia capitalista. Un passo che doveva però essere legittimato dal popolo e quindi dalla nazione turca, in contrapposizione alle altre nazionalità presenti nell’impero e cioè arabi, greci, macedoni, albanesi, bulgari e, soprattutto, armeni, tutti decisi a rivendicare la propria nazionalità. La tolleranza religiosa che fino al XIX aveva permesso una pacifica convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani, lasciava dunque spazio alle stragi. Genocidio Armeno: Durante la prima guerra mondiale, si compì in Turchia il genocidio del popolo armeno, il primo del XX secolo. Preso il potere nel 1908, il governo dei Giovani Turchi, attuò l’eliminazione dell’etnia armena che fin dal VII secolo a. C. risiedeva nell’area anatolica. Lo sterminio e la deportazione del 1915 ebbero dei prodromi, con i pogrom attuati dal sultano Abdul Hamid II tra il 1894 e il 1896 e con quelli del 1909, dei quali furono responsabili i Giovani Turchi e che portarono all’eliminazione di oltre 4.000 persone. A ideare e attuare il progetto genocidario fu l’ala più intransigente del Comitato centrale dei Giovani Turchi che si avvalse per la sua esecuzione di un apparato paramilitare, denominato Organizzazione Speciale, direttamente dipendente dal ministero della Guerra, primo responsabile del genocidio, condotto con la supervisione e la collaborazione dei ministeri dell’Interno e della Giustizia. Contro gli armeni, per la prima volta nella storia, fu applicata la deportazione sistematica, regolata e ordinata da un’apposita «legge di deportazione». Inoltre, per mettere in atto la pratica genocidaria, si fece ampio utilizzo dei moderni sistemi di trasmissione delle informazioni (telegrafo) e di trasporto (ferrovie). L’obiettivo del governo turco era dunque quello di risolvere alla radice la questione degli armeni, popolazione di religione cristiana accusata di guardare troppo a Occidente. Si trattava di una grave colpa per il governo dei Giovani Turchi che erano determinati a riformare lo Stato su base nazionalista e sull’omogeneità etnica e religiosa. E in questo quadro la popolazione armena, di religione cristiana vicina agli ideali dello stato di diritto occidentale e pronta a richiedere una propria autonomia, rappresentava un pericoloso ostacolo per la realizzazione del progetto governativo. L’obiettivo dei Giovani Turchi era quindi la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e politico. Un altro aspetto non secondario nella programmazione dell’eliminazione degli armeni fu anche la volontà di impossessarsi dei loro beni e delle loro terre. Il primo atto del genocidio (il cosiddetto Medz Yeghern, ovvero il grande male come viene definito dagli armeni) fu l’arresto, il 24 aprile 1915, a Istanbul dell’élite armena della città, composta, nella gran parte, da notabili e intellettuali. L’operazione continuò anche nei giorni successivi: il risultato fu che in circa un mese più di un migliaio di intellettuali armeni, tra cui giornalisti, scrittori e poeti furono arrestati e deportati verso l’interno dell’Anatolia. L’accusa era quella di alto tradimento, concetto piuttosto ampio che consentiva alle autorità turche di allargare le maglie della repressione. Dunque per i nazionalisti turchi si trattava di attuare una difesa preventiva volta a individuare negli armeni un perfetto capro espiatorio. In aprile iniziarono le eliminazioni. Gli armeni arruolati nell'esercito furono sommariamente passati per le armi: in alcune province del paese non si procedette nemmeno alla loro deportazione, ma essi vennero direttamente eliminati sul posto. Chi non veniva ucciso sul luogo moriva nelle marce forzate, per le privazioni e le malattie. Alla fine dell'estate del 1915 in Anatolia non c'erano più armeni. Circa 300.000 di loro si erano rifugiati in Russia, dove nel 1920 nacque l'Armenia sovietica e nel 1991 l'attuale Repubblica Armena. Almeno un milione morirono nelle «marce della morte» e in seguito alle privazioni. Aleppo, oggi in Siria, divenne il teatro della seconda fase del genocidio: i campi di concentramento. Ancora oggi, gli archivi turchi della Direzione generale dei deportati sono inaccessibili: per fare luce su ciò che accadde in quei campi bisogna affidarsi alle testimonianze dei sopravvissuti, dei diplomatici e dei tecnici stranieri (soprattutto tedeschi) che lavoravano alla costruzione delle ferrovie dell'Impero ottomano. Emerge così il vero scopo dei campi: non quello di trasferire gli armeni fuori da quello che i Giovani Turchi definivano il «sacro suolo» turco, bensì di affrettarne l'eliminazione. In tutto vi erano 870.000 persone distribuite in parecchie decine di campi improvvisati lungo il corso dell'Eufrate, per circa 200 chilometri. La strategia adottata dai turchi consisteva innanzi tutto nell’abbandonare per settimane alla fame e alla sete i deportati nei campi di transito alla periferia di Aleppo, per poi spostarli da un campo di concentramento all'altro lungo l'Eufrate, fino alla fine di un processo di selezione naturale. Ammassati all'aperto, senza cibo né cure, morivano a migliaia. La Masseria delle Allodole, di Paolo e Vittorio Taviani, 2007 (Tratto dal romanzo di Antonia Arslan, 2004) https://www.youtube.com/watch?v=vXYKWyZ-lDw Riassumendo, possiamo dunque individuare tre fasi del genocidio armeno: Eliminazione del cervello della nazione: Si tratta del passaggio iniziale, ovvero degli arresti perpetrati a partire dal 24 aprile 1915. Furono colpiti gli esponenti dell’élite culturale armena: intellettuali, deputati, prelati, commercianti e professionisti. Fu un colpo di estrema durezza, poiché furono necessari cinquant’anni agli armeni per poter ricostruire una classe dirigente e intellettuale. Eliminazione della forza: Gli Armeni dai diciotto ai sessant’anni furono chiamati alle armi a causa della guerra in atto. Dopo essersi arruolati, essi furono disarmati e inseriti in battaglioni di lavoro e, successivamente, isolati e uccisi. Di 350.000 soldati armeni nessuno si salverà. Deportazioni: In primo luogo a essere eliminati furono i pochi uomini validi rimasti. La prassi era la seguente: nei diversi villaggi, il capo della gendarmeria locale ordinava ai maschi armeni di presentarsi al palazzo comunale dove, appena arrivati, venivano arrestati e successivamente condotti fuori dal villaggio per essere eliminati. Per gli altri, donne e bambini compresi, iniziava la deportazione e le marce, ufficialmente definite come spostamento di popolazione dalle zone di operazioni belliche. L’espulsione era annunciata mediante un editto di trasferimento che sul piano formale avrebbe dovuto essere comunicato con cinque giorni di anticipo, ma che in realtà venne reso effettivo con decorrenza immediata in modo tale da non dare alle vittime la possibilità di prepararsi. Da sottolineare, inoltre, come i beni delle persone deportate fossero dichiarati abbandonati e quindi soggetti a confisca e riallocazione. Secondo le stime più puntuali il genocidio armeno portò alla morte di circa 1.500.000 persone e cioè, a grandi linee, dei due terzi dell’intera popolazione armena. La Turchia, tanto nei suoi apparati istituzionali, quanto nella voce della gran parte degli storici turchi, non ha mai accettato la definizione di genocidio, sostenendo che le uccisioni compiute dall’impero Ottomano fossero una risposta all’insurrezione degli armeni e alla necessità di difendere le frontiere del paese, e sottolineando che anche migliaia di turchi erano morti nel conflitto. D’altronde parlare di genocidio è piuttosto rischioso, poiché l’articolo 301 del codice penale turco (approvato nel 2005) punisce con il reato di offesa allo stato turco quanti volessero inserire la questione armena nel novero di una vera e propria pratica genocidaria. Che secondo lo stato turco per il quale morirono 300.000 persone, non vi fu. La Turchia non ammettendo il genocidio evidenzia la sua difficoltà a fare i conti con il proprio passato, perché quel crimine fu commesso dai «padri della patria» e ricostruire questo drammatico passaggio storico significherebbe mettere in discussione non solo l'ideologia nazionale turca, ma anche l'identità stessa della nazione. Colonialismo Con lo scoccare del nuovo secolo assistiamo al fenomeno del colonialismo e cioè a una crescente espansione coloniale degli stati europei, appoggiata da larghi strati della popolazione, primi tra tutti i ceti borghesi, e da un sistema di stampa e propaganda, pronto a supportare un processo che, muovendo dai principi darwinisti della selezione naturale, giustificava la prevaricazione del più forte sul più debole. Fino al 1870 i Paesi europei controllavano appena un decimo del territorio africano: l’Algeria e il Senegal (Francia), l’Angola e il Mozambico (Portogallo), la Colonia del Capo, all’incirca l’attuale Sudafrica, (Gran Bretagna); ma appena quarant’anni più tardi i possedimenti comprendevano più dei nove decimi del continente. La colonizzazione divenne così un processo al quale non si poteva rimanere estranei. All’inizio del secolo, infatti, non vi era potenza europea che non fosse impegnata in guerre di conquista. A distinguersi furono soprattutto l’Inghilterra e la Francia, che divennero i due maggiori imperi coloniali. La prima, tra il 1876 e il 1914, estende il suo dominio su 32 milioni di chilometri quadrati (pari a 100 volte la superficie del Regno Unito) la seconda, nello stesso periodo, passò da 1 milione a più di 10 milioni di chilometri quadrati. Gli inglesi puntarono e in parte riuscirono ad appropriarsi di tutte quelle terre che univano l’Egitto all’attuale Repubblica Sudafricana. I francesi crearono un vasto impero comprendente gran parte della sezione nordoccidentale del continente. Gli altri Stati europei si impadronirono di quanto rimase fuori dai possedimenti inglesi e francesi. Il Belgio ottenne la vasta regione del Congo, la Germania arrivò ad esercitare il controllo sul Togo e sul Camerun, mentre l’Italia assoggettò la Libia, la Somalia. Solo l’impero austro-ungarico non ebbe colonie. Ad acquisire possedimenti territoriali furono anche due paesi extraeuropei e cioè il Giappone (dominio su Formosa, attuale Taiwan e su altre isole precedentemente cinesi) e gli Stati Uniti (Cuba, Porto Rico, Filippine). Conferenza di Berlino: Un passaggio fondamentale del colonialismo europeo è costituito dalla Conferenza di Berlino che si apre il 14 novembre 1884. L’obiettivo è regolarizzare la corsa alla colonizzazione, riducendo così i pericoli di conflitto fra le potenze coloniali impegnate a disputarsi il dominio dell’Africa. Fortemente voluta dal cancelliere tedesco Otto von Bismark che aspirava a trasformare il governo tedesco nell’arbitro delle rivalità internazionali dovute alle colonie, dalla Francia e dal Portogallo per regolare le iniziative europee nell’area del bacino del fiume Congo e deciderne la spartizione, essa consentì in realtà alle potenze europee di proclamare possedimenti all’interno delle zone occupate, portandole così a intraprendere la cosiddetta “corsa per l’Africa”. Alla conferenza partecipano quattordici stati europei (Germania, Austria-Ungheria, Belgio, Danimarca, Impero Ottomano, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Portogallo, Russia, Svezia) e nessuna delegazione africana. Alla fine dei lavori, il 23 febbraio 1885, vengono approvati i punti seguenti: ogni potenza europea presente sulla costa può estendere il suo dominio verso l’interno fino a dove incontra un’altra «sfera d’influenza» (nozione che compare per la prima volta in un trattato internazionale) non vi può essere annessione se non per mezzo dell’occupazione effettiva del territorio. Viene quindi escluso il principio dell’hinterland, e cioè un concetto tedesco secondo il quale una potenza con possedimenti sulla costa aveva diritto automatico all’entroterra adiacente. libertà di navigazione sui fiumi Niger e Congo e libertà di commercio nel bacino del Congo una risoluzione contro la schiavitù, che divenne illegale, ma restò ampiamente applicata in tutta l'Africa presa d’atto dell’esistenza dello Stato indipendente del Congo, che diventa territorio di proprietà personale del re Leopoldo II del Belgio (che diventerà colonia belga nel 1908) riconoscimento alla Francia dell’autorità sulla riva destra del Fiume Congo La conferenza poneva in tal modo fine agli effetti destabilizzanti che l’espansione coloniale in Africa minacciava di avere sulle relazioni internazionali. Con due importanti conseguenze: spostare le tensioni e i conflitti di interessi europei fuori dell’Europa, stabilendo gli equilibri di potenza attraverso una frenetica “corsa” dei diversi paesi alla colonizzazione militare ed economica del mondo trasformare il concetto di colonialismo, che da sistema di egemonia prettamente commerciale passa a indicare il controllo politico diretto sulle colonie e lo sfruttamento massiccio delle loro risorse Le regioni sottoposte al controllo europeo diventano colonie, oppure protettorati, con locali governi-fantoccio sostenuti dal paese dominante, la “madrepatria”, che impone i propri modelli culturali e politico-istituzionali, guidando la politica economica e la vita interna dei paesi dominati. Il colonialismo, inoltre, viene giustificato sulla base di una presunta “missione civilizzatrice” dei bianchi, che attraverso la pratica coloniale avrebbero dovuto portare la civiltà alle popolazioni indigene, ritenute ben lontane dal raggiungerla. Colonialismo - giustificazione morale e intellettuale: Un valido contributo alla corsa per la spartizione dell'Africa arrivò dal mondo intellettuale, che fornì, grazie al razzismo pseudoscientifico suffragato dai contemporanei studi di biologia, genetica, antropologia etc., il pretesto di fornire civilizzazione e conoscenze alle popolazioni africane, che in quanto meno evolute, non erano in grado di accedere autonomamente alla civiltà. Il colonialismo rappresentò anche un rilevante fattore di coinvolgimento e mobilitazione dell’opinione pubblica. Soprattutto di quella parte più sensibile al messaggio nazionalista e ai richiami dello spirito patriottico. Allo stesso tempo, come precedentemente accennato, fu anche un veicolo per il consolidamento di un sentimento di superiorità dell’Occidente nei confronti del resto del mondo, che la propaganda coloniale, la letteratura e la stampa popolare tendevano a rappresentare come una realtà “altra” e profondamente differente rispetto alla civiltà europea. L’Africa rappresentò dunque l’area che maggiormente fece le spese di questa competizione tra le nuove potenze industriali europee. La Conferenza di Berlino, si svolse sotto l’ideologia che assegnava solo alle potenze europee e ai popoli bianchi d’oltreoceano il diritto alla sovranità: le altre aree erano considerate territori vuoti, liberamente occupabili e spartibili. La divisione del continente africano fu fatta su basi geografiche e ideologiche, seguendo cioè le coordinate geografiche o il corso dei fiumi, ma non tenendo conto delle caratteristiche storiche, culturali, antropologiche dei popoli che vi abitavano. Intere formazioni nazionali vennero così smembrate, mentre altre, da sempre rivali, vennero costrette a convivere, scatenando contrasti sanguinosi. Infatti la mancata coincidenza fra confini politici, etnie e identità culturali, conseguenza diretta dell’artificiosità con la quale furono tracciate le linee di frontiera che tagliarono il territorio africano, costituisce una delle molte questioni lasciate in eredità all’Africa dal lungo periodo della colonizzazione. Discriminazioni, repressione e violenza: L’organizzazione coloniale rappresentò una negazione di quei processi di estensione di diritti, alfabetizzazione e miglioramento dello stato sociale che stava investendo l’Europa. Infatti alle popolazione colonizzate (asiatiche e africane) gli stessi colonizzatori europei non concedevano i più elementari diritti di cittadinanza, applicavano un sistema giuridico volto a negare l’uguaglianza legislativa all’interno di un sistema che distingueva, favorendoli, i bianchi dagli altri. Nelle colonie, inoltre, si sperimentano pratiche di controllo, repressione e violenza: ne sono un esempio, tra i molti casi che si possono citare, l’utilizzo dei primi campi di concentramento da parte degli spagnoli a Cuba dopo il 1896 e dagli inglesi in Transvaal e in Orange (province del Sud Africa) durante la guerra anglo-boera (1899-1902) nei quali morirono almeno 40.000 persone. Altri esempi sono, ancora, il sistema di assoluto e totale sfruttamento del Congo da parte di Leopoldo II sovrano del Belgio, la repressione tedesca della rivolta degli herrero nell’Africa tedesca del Sud – Ovest (attuale Namibia) con l’obiettivo di eliminare le popolazioni indigene ribelli e, non per ultimo le stragi commesse dall’esercito italiano in Tripolitania e Cirenaica dopo il 1911 per soffocare le resistenze locali. Gli stati europei repressero e assoggettarono le popolazioni indigene utilizzando tecnologie militari e armi dal forte potenziale distruttivo, combinandole con ferocia ed efferatezza che aveva alla base pregiudizi razzisti. Colonialismo italiano: Anche l’Italia ebbe il suo colonialismo che si trascinò dietro il falso mito, a dir poco discutibile, della sua diversità e della sua bontà. Si tratta di un topos frequentemente evocato, promosso sin dall’inizio della nostra espansione d’oltremare, che veniva associata alle imprese romane, colonizzatrici ma portatrici di civiltà. Insomma, pareva ovvio considerare inferiori le popolazioni e la loro cultura che vivevano in terre appartenute, un tempo, all’impero romano. E, in questa ovvietà, il compito della razza superiore, quale si riteneva essere quella italiana, era quello di educare e incivilire gli altri. Dunque, più che un’aggressione imperialistica, quella italiana diventava così un’impresa mossa da spinte civilizzatrici e demografiche. Ma così non fu. Indubbiamente quello italiano fu un colonialismo peculiare: iniziò in ritardo, appena dopo l’Unità, e si snodò in un arco di tempo ristretto. I possedimenti italiani erano più piccoli ed economicamente meno vantaggiosi rispetto a quelli delle altre potenze europee. Inoltre occorre anche sottolineare come lo stesso governo incitasse molti connazionali a trasferirsi nelle colonie, utilizzando così la carta del trasferimento per contrastare l’enorme flusso di emigrazione verso i più disparati angoli del mondo. Tutto questo però non è sufficiente a sostenere il mito del «buon colonialismo» italiano che, in linea generale, seguì gli stessi meccanismi di esportazione del modello di civiltà europea mediante l’uso di imposizione, come dimostra quanto avvenuto in Etiopia, Eritrea, Libia, Somalia, dove la presenza italiana si caratterizzò con massacri, deportazioni, e violenza generalizzata dei colonizzatori sui colonizzati. In proposito vorrei riflettere su un elemento e cioè su come in Italia, oggi, non vi sia piena consapevolezza, nel discorso pubblico, di cosa sia stato e abbia realmente rappresentato il colonialismo. Perché? Per due motivi: il primo è che viene ritenuto una storia minore rispetto all’esperienza coloniale di altri paesi. Il secondo è che si tende invece a voler dare ancora adito al falso mito del buon italiano, o dell’italiano brava gente, che porta a una visione distorta e riduttiva del fenomeno che è quella di descrivere il colonialismo italiano come un dominio che si è comportato in maniera equa e giusta verso le popolazioni colonizzate. Un’argomentazione che, come da tempo hanno già dimostrato gli studi storici, appare assolutamente priva di fondamento. Le fasi del Colonialismo: Le motivazioni che portarono allo sviluppo del colonialismo italiano furono a ben vedere piuttosto simili a quelle del resto del colonialismo europeo e sono riassumibili in una serie di fattori: conquistare nuove terre da sfruttare economicamente volontà di competere con le altre nazioni europee missione civilizzatrice (ripeto e cioè missione di civilizzare altre popolazioni ritenute razzialmente e antropologicamente inferiori) Prima Fase: La prima fase della storia coloniale italiana iniziò verso la fine dell’Ottocento e si lega al primo periodo dell’esperienza governativa di Francesco Crispi, che vide l’acquisizione dell’Eritrea e della Somalia, ma anche la cocente sconfitta militare di Adua (1896). Un punto di svolta si ebbe nel 1884, quando, dopo il ritiro britannico dal Corno d’Africa, la diplomazia italiana si accordò con la Gran Bretagna per l’occupazione del porto di Massaua. Successivamente, nel 1889, Crispi firmò con Menelik, ras dell’Etiopia, il Trattato di Uccialli che avrebbe dovuto garantire, secondo le intenzioni del governo di Roma, il protettorato italiano sull’Etiopia. Nel gennaio 1890 nacque così la colonia Eritrea, prima colonia italiana. Convinto che la conquista di nuove terre potesse frenare e risolvere i problemi dell’emigrazione, lo stato italiano attuò una politica coloniale aggressiva ed espansiva, segnata anche da un consistente incremento delle spese militari. L’obiettivo di Crispi era però più ambizioso. Infatti secondo il suo progetto, il controllo sull’Eritrea sarebbe stato funzionale alla creazione di un ampio dominio in Africa Orientale, dove però, oltre alla resistenza dei governi e delle popolazioni locali, l’Italia doveva anche affrontare l’opposizione di due potenze coloniali come Francia e Gran Bretagna. Nel 1888 Crispi era riuscito a ottenere il protettorato italiano sulla Somalia che nel 1908 divenne una colonia a tutti gli effetti. Eritrea, Somalia ma, soprattutto, Etiopia. Infatti l’ambizione di Crispi era arrivare a controllare la vicina Etiopia. E per farlo occorreva un’azione militare. Nel 1895 l’esercito italiano intraprese così una campagna militare, la guerra di Abissinia, che ebbe però risultati disastrosi. Nel 1896 le forze del ras etiope Menelik sconfissero duramente gli italiani nella battaglia di Adua costringendoli alla resa. Combattuta il 1° marzo, la battaglia di Adua rappresentò il momento culminante della guerra di Abissinia. Il corpo di spedizione italiano, forte di 17.000 uomini, contò oltre 6.000 morti e circa 2.000 prigionieri. La sconfitta di Adua, vissuta come un’onta dalla popolazione, segnò una battuta d’arresto per l’espansione coloniale italiana e l’uscita dalla scena politica italiana di Francesco Crispi. Seconda Fase: Dopo Crispi, l’altro nome al quale si lega la politica coloniale italiana è quello di Giovanni Giolitti, salito alla presidenza del consiglio potere nel 1903 dopo essere stato ministro degli Interni nel governo Zanardalli, nato nel 1901. Fermo oppositore della politica coloniale, per l’ingente sforzo economico richiesto, Giolitti decise invece, nel 1911, di riprendere l’espansione coloniale, avallando così le richieste degli ambienti politici e imprenditoriali favorevoli a una ripresa del progetto coloniale. Le mire italiane si spostano sulla Libia, territorio appartenente all’Impero ottomano e che Giolitti spera di occupare anche per evitare un’espansione nell’area da parte di Francia e Gran Bretagna. Giovanni Pascoli, che all’inizio del secolo lamentava il destino degli emigranti costretti a lasciare l’Italia per trovare lavoro all’estero accolse con favore la decisione di intraprendere l’impresa coloniale e lo fece pronunciando il suo famoso discorso, poi pubblicato, pronunciato il 26 novembre 1911 al teatro di Barga, nel lucchese. La grande proletaria si è mossa, affermava il poeta, permettendo così ai suoi figli di partire, ma per una colonia e quindi, in fondo, di restare a casa. A settembre l’Italia dichiarò così guerra alla Turchia per il possesso della Libia, iniziando a occupare, oltre che le regioni libiche della Cirenaica e della Tripolitania, anche diversi avamposti nel Mare Egeo (il Dodecaneso, isole greche, Rodi e Stampalia sono le più note poste di fronte alla costa turca che da questo momento divennero italiane). La guerra italo turca, sostenuta da ampi strati dell’opinione pubblica, si concluse nell’autunno del 1912 con la firma della Pace di Losanna (18 ottobre), che riconobbe l’assegnazione della Tripolitania e della Cirenaica all’Italia, insieme a Rodi e al Dodecaneso, occupate dall’esercito italiano nel corso del conflitto. Nella guerra di Libia morirono 3.431 soldati italiani (di cui 1.948 a causa delle malattie contratte) e si contarono 4.220 feriti. Le perdite piuttosto limitate contribuirono in larghi strati della popolazione, in buona parte della quale aveva iniziato a radicarsi la mentalità coloniale, alla costruzione di un’immagine accettabile del conflitto. La guerra di Libia fu quindi, nell’immaginario collettivo, l’occasione per riscattare Adua, l’esercito italiano sembrava più forte e maturo. La vittoria fu celebrata anche dagli intellettuali: ad esempio Matilde Serao scrisse Primavera italica, D’annunzio celebrava l’impresa libica con la sua Canzone delle gesta d’oltremare. Per lui, così come Pascoli, l’Africa non era un qualcosa che si aggiungeva all’Italia, ma era la quarta sponda del mare nostrum, che poi ricorse più avanti nella propaganda fascista. Terza Fase: Alla fine della Prima guerra mondiale, l’Italia aveva mantenuto i suoi possedimenti in Libia e Africa, riuscendo anche ad accrescere la sua influenza sui Balcani dal momento che durante la guerra, per prevenire un intervento nell’area nell’Impero austro-ungarico, alcuni contingenti dell’esercito italiano avevano occupato l’Albania, instaurando nel paese un protettorato che sarebbe durato dal 1917 al 1920. L’avvento del fascismo mutò la storia del colonialismo italiano dal momento che il regime mostrò fin da subito la propria vocazione imperialista ed espansionista, basata sul mito ideologico di ricreare l’egemonia dell’Impero romano, estendendo le sue rivendicazioni territoriali all’intero mediterraneo. A supporto del suo progetto, il regime mise in campo una capillare macchina propagandistica che poneva la politica colonialista del fascismo in continuità con il periodo liberale, esasperandolo però dell’ideologia razzista e militarista, vere e proprie impronte del fascismo mussoliniano. Le prime mosse del regime riguardarono la colonia libica, dove l’Italia continuava ad avere grandi difficoltà a controllare l’entroterra. Il fascismo proseguirà quindi la conquista del territorio libico fino al 1932. Da sottolineare come per piegare la resistenza libica, gli italiani crearono campi di concentramento e usarono in quantità gas come l’iprite e il fosgene, all’epoca già vietati dalla Convenzione di Ginevra. Un’altra tappa importante del colonialismo nazionale è l’esperienza in Somalia ed Etiopia, dove però la colonizzazione non si realizzò mai del tutto e anche qui furono usati i gas. L’epilogo coloniale italiano iniziò con lo scoppio della Seconda guerra mondiale: la volontà di espansione territoriale del regime si scontrava però con il disastroso e fallimentare andamento della guerra. L’Africa orientale italiana, difficile da difendere data la lontananza geografica, fu persa già nel 1941 e occupata dalla Gran Bretagna, mentre la colonia libica cesserà la sua esistenza nella primavera del 1943 in concomitanza con l’avanzata angloamericana nel Nord Africa. L’avventura imperialista italiana era così giunta al tramonto. La sua fine fu sancita definitivamente con il Trattato di Parigi del febbraio 1947 che privava per sempre l’Italia delle colonie. Infatti Libia ed Eritrea passavano sotto il controllo britannico, l’Etiopia tornò a essere uno stato indipendente e la Somalia sarebbe tornata al controllo britannico, prima di essere amministrata dalle Nazioni Uniti e diventare stato indipendente nel 1960. Lezione 3 = L’Italia liberale e la grande emigrazione Giovanni Giolitti Abbiamo parlato relativamente al colonialismo italiano di Giovanni Giolitti, la cui figura assume un rilievo fondamentale sulla scena politica dell’Italia liberale del primo Novecento, al punto da dare luogo a quella che viene comunemente definita età giolittiana. Esponente della sinistra storica, l’ala più progressista dello schieramento liberale, esordisce nella politica italiana nel 1901, quando divenne ministro dell’Interno nel governo presieduto da Giuseppe Zanardelli, chiamato a formare un nuovo esecutivo dal re Vittorio Emanuele III. La sua esperienza come ministro dell’Interno durò fino al 1903 quando fu nominato presidente del Consiglio, mantenendo tale ruolo, quasi ininterrottamente fino al 1914. Età giolittiana: Fu una stagione ricca di riforme politiche e sociali, tra le quali le più importanti furono: Neutralità dello stato nei conflitti di lavoro e diritto di sciopero (1903): La legge garantiva il diritto di sciopero e poneva lo stato in una posizione neutrale nei conflitti di lavoro. L’uso dello sciopero come strumento di lotta riguardava solo le parti coinvolte. Lo stato, rappresentante di tutti i cittadini e non solo di una parte di essi, non doveva quindi schierarsi. Si trattava di una nuova impostazione, che dava ai prefetti la disposizione di non far intervenire la forza pubblica nei conflitti di lavoro. Soltanto in caso di minaccia diretta alle istituzioni il governo avrebbe avallato l’utilizzo repressivo. Legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli (1902): Fu il primo provvedimento a intervenire sul lavoro femminile e minorile. Donne: Vietava alle donne di ogni età lo svolgimento, per ragioni sociali e morali, di lavori sotterranei. Proibisce l’impiego di quelle minorenni nei lavori notturni (cioè nei turni di notte) e in quelli giudicati pericolosi e insalubri. Sempre, relativamente alle minorenni, la legge stabilisce che debbano possedere al momento dell’assunzione un certificato medico che ne attestasse le buone condizioni di salute. Fissa a dodici il limite massimo di ore giornaliere di lavoro, prescrivendo un intervallo di due ore per le donne di ogni età. Maternità: Vi è poi attenzione alla maternità. Infatti la legge stabilisce come nelle fabbriche con più di cinquanta operaie sia obbligatoria l’istituzione di una camera di allattamento oppure che venga consentito alle donne di uscire dal luogo di lavoro, nei modi e nei tempi stabiliti dalla direzione, per allattare i figli. La legge fu anche la prima a introdurre il congedo di maternità per la durata di quattro settimane dal parto. Durante il periodo di riposo post parto, però, alla lavoratrice non era garantita né retribuzione, né tanto meno il mantenimento del posto di lavoro. Lavoro minorile: La legge fu però anche il primo provvedimento che affrontò in maniera organica il tema del lavoro minorile introducendo una serie di normative e cioè elevava a dodici anni l’età minima per essere ammessi al lavoro (nell’industria come nelle botteghe), vieta il lavoro notturno ai maschi minori di quindici anni e alle donne minorenni e fissa un limite di undici ore di lavoro giornaliero per fanciulli e le donne dai dodici ai quindici anni, rendendo obbligatoria una pausa di un’ora ogni sei ore. Nonostante i buoni propositi, i limiti della legge furono però evidenti ed emersero soprattutto dopo la sua approvazione. I principali erano l’esclusione dal provvedimento di molte categorie lavorative, il mancato controllo sulla sua applicazione e, per quanto concerne la maternità, l’assenza di un congedo retribuito prima e dopo il parto. Sistema scolastico: Un ultimo aspetto che riguarda i minori nell’Italia liberale è quello dell’istruzione che fino a quel momento era regolata dalla Legge Coppino, approvata nel 1877, che portava a cinque anni la scuola elementare, la rendeva gratuita ed elevava a tre anni (quindi fino alla terza) l’obbligo scolastico, introducendo sanzioni alle famiglie che disattendevano l’obbligo scolastico. Nel 1904, il governo Giolitti approvò la legge Orlando, dal nome del ministro proponente, che innalzò a dodici anni l’obbligo scolastico, rendendo obbligatorie anche la quarta e la quinta elementare. Aziende municipalizzate, telefono e ferrovie (1903-1905): Nel 1903 furono istituite le aziende municipalizzate che consentirono ai cittadini di usufruire, a condizioni migliori, dei servizi pubblici essenziali. Nello stesso anno vi fu la 3 statalizzazione del servizio telefonico (in realtà ancora poco diffuso) cui seguì, nel 1905, la statalizzazione del servizio ferroviario. Leggi per il Mezzogiorno (1904-1909): Nel tentativo di risanare la situazione nelle aree del sud, il governo avvia la politica delle leggi speciali attraverso un piano di interventi pubblici in favore del Mezzogiorno. Si trattava delle cosiddette Leggi speciali per il Mezzogiorno, e cioè provvedimenti specifici per singole aree i cui effetti furono però piuttosto blandi, poiché disorganici e quindi incapaci di agire come reali motori di sviluppo. Nel 1904 furono promulgate la legge per la Basilicata e per Napoli volte, rispettivamente, a incoraggiare la modernizzazione agricola e lo sviluppo industriale (nel 1905 fu infatti creato a Napoli un polo siderurgico) seguite, da quella per la Calabria (1906) e la Sardegna (1909) promulgate, come le prime, con l’obiettivo di migliorare le condizioni igieniche, economiche e sociali di aree che presentavano un forte squilibrio rispetto alla parte settentrionale del paese. Suffragio universale maschile (1912): Approvazione, nel 1912, della riforma elettorale con l’introduzione del suffragio universale maschile: il diritto di voto venne così esteso a tutti i cittadini maschi (anche analfabeti) che avessero svolto il servizio militare e compiuto il trentesimo anno di età. Decollo industriale: L’età giolittiana coincide anche con il periodo del decollo dell’industria italiana che tra il 1896 e il 1915 conobbe una fase di grande espansione. Si sviluppano soprattutto particolari settori come il siderurgico (grazie alle commesse governative per le ferrovie, la cantieristica e gli armamenti), il meccanico (in questo periodo nacquero, ad esempio, le principali imprese automobilistiche che ebbero Torino come centro principale), il chimico e l’elettrico. Il divario economico-sociale tra nord e sud resta elevato, poiché lo sviluppo industriale tocca quasi esclusivamente i territori centro-settentrionali e, in particolare, l’area del triangolo industriale e cioè Genova, Milano e Torino. Il sud era isolato e molti abitanti decisero di intraprendere la strada dell’emigrazione. Agricoltura: Lo stesso divario tra aree settentrionali e meridionali si avverte anche nel campo agricolo che vede i contadini attraversare, nel periodo compreso tra l’unità d’Italia e la prima guerra mondiale, condizioni molto difficili. Si trattava di un numero molto elevato di lavoratori: nel 1861 erano il 70% della popolazione attiva, nel 1901 il 62%. Erano impiegati in un’agricoltura diversificata sia sul piano degli investimenti, sia su quello contrattuale. L’area settentrionale, in particolare quella della Pianura padana, conobbe, grazie all’introduzione di nuove conoscenze scientifiche, processi di riorganizzazione. La stessa cosa non avvenne nelle regioni meridionali, ancora caratterizzate, così come le aree montane, da condizioni di arretratezza. Altri due elementi che incidevano sulla difficile condizione della vita contadina erano poi la tipologia contrattuale che regolava i rapporti di lavoro, differente nelle diverse aree del paese e l’abbondanza di manodopera, che contribuiva a tenere bassi i salari. Elementi che, incrociati tra loro, alimentavano i flussi migratori che ebbero tra i loro principali protagonisti proprio un’ingente massa di contadini. Emigrazione italiana Che cos’è l’emigrazione? Si tratta di un’azione collettiva che cambia il paesaggio sociale, politico, demografico, economico e culturale di un paese, sia di partenza, sia quello di arrivo. Un processo capace di rimodellare territori, città, nazioni e continenti e che, naturalmente, è in atto ancora oggi. Infatti negli ultimi decenni, un numero sempre più ampio di paesi con alle spalle una lunga esperienza migratoria, in primis l’Italia, si stanno confrontando con un processo inverso, diventando da luoghi di partenza a territori di arrivo. L’emigrazione diventa fenomeno di massa verso la fine del XIX secolo. A partire da questo periodo si assiste infatti a un vero e proprio esodo di massa che in tempi e ondate differenti, coinvolge anche l’Italia. Da questo momento in poi l’emigrazione diventa una soluzione ai diversi problemi economici e sociali. Storie collettive: L’emigrazione racconta storie collettive che però sono, allo stesso tempo, storie private. Storie di partenza e di arrivo. Sono storie che raccontano la difficoltà di vivere, di fronte alle quali l'alternativa era partire Italia: Gli italiani erano migranti economici. Non fuggivano da una guerra, ma scappavano in realtà da una guerra che non finiva mai e che ancora oggi fa molti morti, e cioè la fame. Però, partire, nell’Italia di fine Ottocento, voleva dire andare in un altro mondo, sconosciuto. Viaggi lunghissimi, innumerevoli difficoltà, ma c’era la speranza. Quella di una vita migliore. Alla fatica del viaggio si sommava anche quella dell’arrivo: una lingua nuova per chi, nella maggior parte dei casi, conosceva solo il dialetto. A ridosso degli anni Ottanta dell’Ottocento, l’emigrazione divenne un fenomeno di massa: tra il 1876 e il 1880 emigrano 544.000 persone. Un numero destinato ad aumentare se è vero che tra il 1875 e il periodo precedente alla Grande guerra gli immigrati italiani all’estero furono circa 10 milioni. Ragionando sul lungo periodo, possiamo affermare che furono 26 milioni gli italiani che lasciarono il paese tra il 1876 e il 1976. Flussi: Un flusso al quale contribuirono settentrionali e meridionali con il 40% ciascuno, sottolineando così come l’emigrazione dalle aree del sud non fermò ma anzi accompagnò quella proveniente dall’Italia settentrionale. A ciò si aggiunse anche circa un 20% di uomini e donne provenienti dalle regioni dell’Italia centrale. La regione nella quale si registrò il maggior numero di partenze fu il Veneto, seguito da Sicilia e Campania. Emblematici appaiono in proposito alcuni dati relativi agli emigrati stabilitisi definitivamente sul territorio americano: nel 1906, ad esempio, 127.600 provenivano dalla Sicilia, mentre 104.900 arrivarono dal Veneto. Cinque anni più tardi i siciliani erano 96.700 mentre i veneti raggiunsero le 92.600 unità. Numeri dietro ai quali si può così scorgere il primato, per numero di partenze, di queste due regioni durante l’intero periodo della grande emigrazione verso le Americhe. Relativamente alla Sicilia, è interessante notare quanto scrive Booker Taliaferro Washington, nato in Virginia nel 1856 da una schiava e da un uomo bianco. Affrancato dalla schiavitù grazie alla legge del presidente Abramo Lincoln, studiò fino a diventare rettore della Tuskegee University, e cioè la prima università per afroamericani dell’Alabama. Nel 1909 decise di compiere un viaggio in Europa per documentarsi soprattutto sulle condizioni di lavoro di contadini e operai. Arrivò in Sicilia, a proposito della quale scrisse: «la condizione del contadino di colore nelle parti più arretrate degli Stati Uniti, è incomparabilmente la migliore delle condizioni e delle opportunità offerte alla popolazione agricola della Sicilia». A colpirlo durante il suo soggiorno sull’isola furono non solo l’iniquo sistema della divisione dei raccolti (a vantaggio del padrone e a discapito del contadino), ma anche le condizioni in cui vivevano i bambini che lavoravano nelle miniere di zolfo (gli zolfatari) per dodici ore al giorno. Scrisse nelle sue note di viaggio di non aver mai visto un luogo così tanto pervaso dalla fatica fisica di masse di poveri e, soprattutto di bambini. E si diede così una spiegazione della massiccia emigrazione siciliana: ovvero – queste le sue parole – «qualsiasi inferno sarebbe stato meglio di quello in cui vivevano». Tempi: Oltre metà del flusso totale dell’emigrazione italiana si concentrò nel periodo compreso tra il 1876 e il 1924, con alcune code che arrivarono fino al 1930. Il resto, la cosiddetta seconda fase, ebbe invece luogo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale per esaurirsi quasi del tutto nella prima metà degli anni Settanta del Novecento. Le partenze assunsero, nel corso del primo quindicennio del Novecento, dimensioni sempre più consistenti. Infatti tra il 1875 e gli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, furono circa 10 milioni gli italiani che emigrarono. Tra il 1901 e il 1910, in piena età giolittiana, la media annua degli espatri raggiunse le 600.000 unità. A partire dal secondo decennio del Novecento, gli arrivi iniziarono gradatamente ad attenuarsi come dimostrano le circa 375.000 partenze annue. Lo scoppio della Grande guerra provocò infatti una frenata ma, seppure con carattere di intermittenza, i flussi continuarono e con il termine del conflitto ripresero su vasta scala, per poi rallentare, fino a esaurirsi quasi del tutto, nella seconda metà degli anni Venti, segnati dalla chiusura degli sbocchi migratori. Altri elementi che contribuirono al blocco delle partenze, furono da un lato l’avvento del fascismo e dall’altro i riflessi della grande crisi del 1929, che comportarono, soprattutto negli Stati Uniti, ondate di licenziamenti, diminuzioni di opportunità di lavoro e una riorganizzazione del mercato del lavoro che penalizzò le comunità italiane. Direzioni: Le destinazioni più comuni erano l’Europa (52%) e le Americhe (44%) con 6 milioni di persone giunte nell’America settentrionale e altrettante in Sud America. Il resto si indirizzò verso l’Africa e l’ Australia. Dalla Pianura Padana l’emigrazione privilegiava la Francia, il Belgio e, in percentuale minore, la Germania e la Svizzera. Liguri e piemontesi si dirigevano soprattutto verso le mete continentali, pur tessendo legami con l’America Latina, meta prediletta dei contadini provenienti dal Veneto, dal Trentino, dall’Alto Adige e dal Friuli attratti dalla possibilità di acquistare e coltivare grandi appezzamenti terrieri (le fazendas). Se per la gran parte degli immigrati provenienti dalla Pianura Padana l’emigrazione appariva inizialmente come una scelta temporanea volta a realizzare i guadagni necessari ad acquistare terre nelle regioni di origine, per quelli provenienti dal nord-est assunse invece un carattere definitivo, dal momento che il ritorno non costituiva l’obiettivo principale della strategia migratoria. I movimenti migratori coinvolsero anche, come detto, i territori del meridione italiano, da dove partirono contadini e proprietari terrieri tagliati fuori dal mercato del lavoro. Anche per loro, principalmente diretti verso gli Stati Uniti, l’obiettivo era quello del ritorno a casa. Da sottolineare inoltre la presenza di un’emigrazione politica che vide come principali protagonisti anarchici e socialisti. Quindi l’emigrazione richiamava migliaia di persone che fuggivano la disperazione, la fame, le ingiustizie e le persec

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