Diritto Penale Capitolo 1 PDF
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Questo capitolo del diritto penale italiano esamina la legittimazione e i compiti del diritto penale, le diverse teorie della pena (retributiva, prevenzione generale e speciale), e la struttura del reato. Il documento considera come il legislatore può legittimamente ricorrere alla pena in uno Stato moderno, tenendo conto del principio di offensività e colpevolezza.
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Capitolo 1: LEGITTIMAZIONE E COMPITI DEL DIRITTO PENALE Teoria della pena e tipo di stato “La storia della pena è una continua abolizione”: questo detto è vero, se si considera che nel ‘700 dominavano pene efferate, come la pena di morte, le pene corporali, le pen...
Capitolo 1: LEGITTIMAZIONE E COMPITI DEL DIRITTO PENALE Teoria della pena e tipo di stato “La storia della pena è una continua abolizione”: questo detto è vero, se si considera che nel ‘700 dominavano pene efferate, come la pena di morte, le pene corporali, le pene infamanti, la confisca totale dei beni; nel corso dei due secoli successivi, poi, il sistema delle sanzioni penali ha progressivamente attenuato la sua durezza: invero, la pena detentiva ha eliminato le pene inumane, fino all’abolizione totale della pena di morte in molti Paesi. È, dunque, il carcere ad avere oggi un ruolo centrale nei sistemi penali. Ci si chiede cosa legittima il ricorso dello stato all’arma della pena: la risposta è offerta dalle teoria della pena, che pur nella loro complessità possono ricondursi a 3 filoni fondamentali: 1) teoria retributiva La pena statuale si legittima come un male inflitto dallo Stato per compensare il male che un uomo ha inflitto ad un altro uomo o alla società; nella sua forma più primitiva, questa teoria trova espressione nella legge del taglione (occhio per occhio, dente per dente). In quanto disinteressata agli effetti della pena, la teoria retributiva è designata come assoluta perché svincolata dalla considerazione di un qualsivoglia fine da raggiungere -> in altri termini, secondo questa logica, si punisce perché è giusto, non perché la pena sia utile in vista di una qualsivoglia finalità. Assegnano, invece, uno scopo alla pena le teorie preventive che proprio in considerazione di questa loro caratteristica vengono designate come relative cioè incentrate sugli effetti della pena. 2) teoria della prevenzione generale Facendo leva sugli effetti di intimidazione della pena, considera la stessa un mezzo per orientare le scelte di comportamento della generalità dei suoi destinatari. Si sottolinea che l’effetto di prevenzione generale è perseguito altresì attraverso l’azione pedagogica della norma penale, confidando cioè che col tempo si venga a creare nella collettività una spontanea adesione ai valori espressi dalla legge penale (= orientamento culturale). 3) teoria della prevenzione speciale o individuale Considera la pena uno strumento per prevenire che l’autore di un reato commetta in futuro altri reati -> funzione che può avvenire in 3 forme: * risocializzazione, cioè aiuto al condannato a reinserirsi nella società nel rispetto della legge * intimidazione, se il condannato non vuole o non può essere risocializzato * neutralizzazione, quando il condannato non è suscettibile né di risocializzazione né di intimidazione, sicché l’unico obiettivo che la pena può perseguire nei suoi confronti è di renderlo inoffensivo o di rendergli più difficile la commissione di nuovi reati. Queste teorie sono spesso presentate come in grado di fornire al problema della legittimazione della pena una risposta valida in assoluto; in realtà, non esiste una teoria della pena che si imponga come vincente, giacché la legittimazione della pena varia a seconda del tipo di stato in cui si pone il problema: ° in uno stato teocratico ogni comportamento immorale può essere represso come reato e la pena può legittimarsi come retribuzione del male (giustizia divina) ° in uno stato totalitario si reprime come reato qualsiasi sintomo di ribellione e si esige che il cittadino abbia una fedeltà incondizionata alla legge, e a questo scopo si commina la pena. Nel nostro ordinamento, occorre esaminare separatamente l’uso della pena da parte dei singoli poteri dello Stato, perché tutti concorrono all’esercizio della potestà punitiva: - il potere legislativo seleziona i comportamenti penalmente rilevanti, dettando comandi e divieti e minacciando le pene ai trasgressori - il potere giudiziario accerta la violazione delle norme legislative e infligge pene adeguate al caso concreto - il potere esecutivo cura l’esecuzione delle pene inflitte dal giudice Struttura del reato e tipo di stato Come la legittimazione della pena anche la struttura del reato è un’entità giuridica storicamente condizionata. La storia del diritto penale moderno è segnata da una svolta epocale: il passaggio dall’equazione reato = peccato, all’equazione reato = fatto dannoso per la società; cioè dalla repressione di comportamenti puniti in quanto contrastanti con la legge divina, alla repressione dei soli comportamenti che mettono in pericolo o ledono beni individuali o collettivi. È però con l’illuminismo che si consolida la separazione tra reato e peccato e il primato dell’oggettivo sul soggettivo -> in questo senso Cesare Beccaria rileva che, per affermare e graduare la responsabilità dell’agente, bisogna distinguere “il dolo dalla colpa grave, la grave dalla leggera, e questa dalla perfetta innocenza”, ma “la vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi gli commette”. La secolarizzazione del diritto penale si inserisce in un più vasto movimento ideale volto alla laicizzazione complessiva dello Stato: lo Stato teocratico cede progressivamente il passo ad uno Stato laico e liberale, portatore dei valori della tolleranza civile, della libertà religiosa e dell’inviolabilità della coscienza -> la secolarizzazione del diritto penale è un processo che non si realizza in modo uniforme in tutti i Paesi: in Italia, sulla scia non solo di Beccaria, ma anche di altri grandi illuministi, il modello liberale di diritto penale si afferma stabilmente nell’Ottocento, trovando compiuta teorizzazione nell’opera di Francesco Carrara. La concezione del reato che assume quale pietra angolare il fatto dannoso, e assegna a dolo e colpa il ruolo di meri limiti alla responsabilità dell’autore del fatto, domina nella dottrina penalistica italiana dell’Ottocento e del Novecento e viene fatta propria dal legislatore sia nella codificazione del 1889, sia in quella del 1930. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la scuola positiva traduce in schemi giuridici un nuovo indirizzo criminologico, per cui il fenomeno criminale avrebbe le proprie radici nell’uomo delinquente, cioè nelle caratteristiche biologico-somatiche di singoli individui, per lo più appartenenti alle classi sociali pericolose (ne deriva che la lotta alla criminalità dovrebbe rivolgersi non contro il reato, ma contro il reo) -> muovendo da tali premesse, si afferma che la pena debba essere utilizzata per difendere la società da persone pericolose e che la sua durata debba essere indeterminata, venendo meno solo col cessare della pericolosità. Nel diritto penale dovrebbero essere posti in primo piano i tipi di persone socialmente pericolose (es. delinquenti occasionali), non il catalogo dei reati, di cui si potrebbe fare a meno, tanto che il Codice potrebbe essere ridotto a un solo articolo: “ogni uomo socialmente pericoloso va reso innocuo nell’interesse della collettività”. I risvolti illiberali di questa concezione sintomatica del reato affidano al giudice poteri incontrollabili, consentendogli di applicare misure restrittive della libertà personale in presenza di dati incerti come la pericolosità sociale, ancorando a questi la durata della pena -> per tali ragioni, tale concezione viene attaccata da chi contesta la visione del diritto penale propugnata dal nuovo filone dottrinale della Scuola positiva. Legittimazione del ricorso alla pena da parte del legislatore In uno Stato come quello delineato dalla nostra costituzione -laico, pluralista, in cui tutti i poteri dello Stato derivano dal popolo- il legislatore non può fare ricorso alla pena per realizzare fini trascendenti o etici: la pena non può essere strumento di retribuzione (cioè non può essere finalizzata ad affermare un’idea superiore di giustizia), né può reprimere un comportamento solo perché ritenuto riprovevole da questo o quel codice etico. Inoltre, sebbene la Costituzione garantisca ai singoli un corredo di diritti in forza dei quali essi partecipano alla vita dello Stato, la pena non può essere utilizzata dal legislatore come indiscriminato deterrente, volto a reprimere ogni manifestazione di infedeltà allo Stato ovvero ogni sintomo di una personalità pericolosa. Il ricorso alla pena da parte del legislatore si legittima in chiave di prevenzione generale che però incontra un limite nella funzione di prevenzione speciale cioè di rieducazione che la Costituzione (art.27) assegna alla pena -> il tipo e la misura della pena minacciata dal legislatore devono essere tali da rendere possibile che successivamente si realizzi un’opera di rieducazione del condannato: ciò significa che l’effetto deterrente non potrà essere indiscriminato, dovendosi evitare pene che comportino la segregazione a vita del condannato o che siano così severe da non essere sentite come giuste dal loro destinatario, il quale potrebbe quindi rifiutare qualsiasi forma di aiuto per essere reinserito nella società. Da questo punto di vista, appare problematica nel nostro ordinamento la pena dell’ergastolo che, come pena detentiva a vita, preclude il ritorno del condannato nella società -> il contrasto di questa tipologia sanzionatoria con il principio costituzionale della rieducazione è stato attenuato da una serie di istituti, tra cui quello della liberazione condizionale, che aprono al condannato prospettive di reinserimento nella società; tale temperamento, del resto, è stato considerato sufficiente dalla Corte costituzionale per salvare l’ergastolo dalle censure di incostituzionalità. Ci si chiede quali siano i comportamenti da cui i consociati possono essere dissuasi attraverso il deterrente della pena -> i criteri guida per selezionare fatti penalmente rilevanti sono: a) principio di offensività Non vi può essere reato senza offesa a un bene giuridico, cioè a una situazione di fatto o giuridica, carica di valore, modificabile e offendibile per effetto di un comportamento dell’uomo -> il legislatore non può punire nessuno “per quello che è” o “per quello che vuole”, ma può punire solo fatti che ledano o pongano in pericolo l’integrità di un bene giuridico. Il catalogo dei beni varia col variare degli assetti sociali: ai beni individuali (vita, integrità fisica, libertà personale, patrimonio, etc.) e collettivi (fede pubblica, amministrazione della giustizia, imparzialità e correttezza della P.A., etc.) si affiancano oggi nuovi beni, emersi per effetto delle innovazioni tecnologiche e dello sviluppo economico (ambiente, sicurezza del lavoro, trasparenza dei mercati finanziari). Anche la Corte costituzionale afferma che il legislatore possa reprimere con la pena solo fatti offensivi di beni giuridici attribuendo al principio di offensività rango costituzionale come vincolo: - per il legislatore: il quale deve limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni ritenuti meritevoli di protezione (-> offensività in astratto). - per il giudice: il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (-> offensività in concreto). La Corte ha sottolineato che il principio di offensività riguarda non solo gli elementi costitutivi del fatto, ma anche le circostanze aggravanti. Anche la Cassazione a Sezioni Unite ha riconosciuto la duplice valenza del principio di offensività, come vincolo sia per il legislatore sia per l’interprete. b) principio di colpevolezza Come ha riconosciuto la corte costituzionale, il ricorso alla pena da parte del legislatore si legittima in relazione non ad ogni offesa a un bene giuridico, ma solo in relazione ad offese recate colpevolmente: ad offese, cioè, che siano personalmente rimproverabili al loro autore. Tra i criteri che orientano e limitano le scelte di incriminazione del legislatore rientra così il principio di colpevolezza, dotato di rango costituzionale (attraverso il principio di personalità della responsabilità penale, art.27 cost.) e strettamente correlato alle funzioni della pena. In particolare, è correlato alle funzioni della pena: * generalpreventiva: essendo il fine della comminatoria legale delle pene quello di orientare le scelte di comportamento dei consociati, l’effetto motivante potrà essere raggiunto solo se il fatto vietato è frutto di una libera scelta dell’autore, o può essere da lui evitato con la dovuta diligenza (non avrebbe senso minacciare la pena per distogliere il destinatario da comportamenti posti al di fuori della sua sfera di controllo). * specialpreventiva: perché la rieducazione del condannato postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica -> in altri termini, chi non ha colpa non ha bisogno di essere rieducato. c) principi di proporzione e di sussidiarietà Il rispetto dei principi di offensività e di colpevolezza rappresenta una condizione necessaria, ma non sufficiente perché risulti legittimo il ricorso alla pena da parte del legislatore: le scelte legislative di incriminazione devono, infatti, sottostare ad ulteriori vincoli, espressi dai principi di proporzione e di sussidiarietà. Il principio di proporzione esprime, nella logica costi-benefici, l’esigenza che i vantaggi per la società che si possono attendere da una comminatoria di pena (prevenzione) siano confrontati con i costi immanenti alla sua previsione (privazione della libertà, costi economici) -> i costi della pena devono essere controbilanciati dalla dannosità sociale di quella classe di fatti; dunque, perché un fatto sia legittimato come reato è necessario che quel fatto si collochi al di sopra di una soglia di gravità, giacché solo offese sufficientemente gravi (colpevolmente) arrecate ad un bene giuridico sufficientemente importante meritano il ricorso alla pena (quale sinonimo di principio di proporzione si parla anche di principio di meritevolezza di pena). Si precisa, però, che non tutte le offese si equivalgono: l’offesa può assumere la forma del danno o del pericolo e delle due forme la prima è più grave della seconda; a loro volta, sia il danno, sia il pericolo possono essere più o meno gravi (ad es una strage può essere commessa mediante la posizione di una bomba in una piazza, destinata ad esplodere di notte, quando nella piazza sarà presente solo qualche nottambulo, o in pieno giorno, magari durante una manifestazione pubblica: il pericolo per la pubblica incolumità riguarderà nel primo caso poche persone, nel secondo caso una folla). Non tutti i beni giuridici si equivalgono: l’incolumità pubblica, l’assetto costituzionale dello stato, la vita umana valgono di più del patrimonio individuale o del sentimento di pietà verso i defunti -> inoltre, occorre che la pena, in relazione a una determinata classe di fatti, sia in grado di produrre un reale effetto di prevenzione generale; il legislatore deve astenersi dal sottoporre a pena classi di fatti per le quali la pena non è in grado di produrre alcun effetto generalpreventivo o, addirittura, produce l’effetto opposto, risultando criminogena e incentivando la commissione del reato. È ciò che è accaduto per l’aborto: in italia e all’estero, dove l’interruzione volontaria della gravidanza era penalizzata indiscriminatamente, gli aborti erano frequentissimi (l’effetto di prevenzione generale era nullo) e per di più venivano praticati nella clandestinità, con altissimi rischi per la salute e per la stessa vita della donna. Il principio di sussidiarietà postula che la pena venga utilizzata solo quando nessun altro strumento sia in grado di assicurare al bene giuridico offeso una tutela altrettanto efficace -> oltre che meritata, cioè proporzionata alla gravità del fatto, la pena deve essere necessaria, facendosi ad essa ricorso solo come ultima ratio. Ne deriva che possono essere esenti da pena anche fatti di notevole gravità -che dunque meriterebbero la pena- quando l’effetto di dissuadere i consociati dal commetterli possa essere raggiunto attraverso interventi di politica sociale o con sanzioni meno invasive della sanzione penale. Il legislatore si è ispirato ai principi di proporzionalità e sussidiarietà in una serie di interventi di depenalizzazione, che hanno trasferito molti reati tra gli illeciti amministrativi, perché non sufficientemente gravi da far apparire proporzionata la sanzione penale (es. violazioni in materia di circolazione stradale); oppure, perché, pur di notevole gravità, potevano essere fronteggiati attraverso strumenti extrapenali di prevenzione con efficacia pari/superiore a quella della pena (es. abusi in assegno) Sia il principio di proporzione, sia il principio di sussidiarietà sono ancorati alla Costituzione; invero, il principio di proporzionalità è prius del principio di rieducazione del condannato, enunciato nell’art.27cost: pene già in astratto sproporzionate rispetto alla gravità del fatto risulterebbero incomprensibili ai destinatari e non sortirebbero alcun effetto rieducativo. Il principio di proporzione è riconosciuto anche nel diritto dell’Unione europea, secondo cui le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato. Il principio di sussidiarietà è ricollegabile all’art.13cost dove si riconosce carattere inviolabile alla libertà personale -> tuttavia, si precisa che le sanzioni penali oggi contemplate nel nostro ordinamento incidono tutte, direttamente o indirettamente, sulla libertà personale; ciò vale anche per le pene pecuniarie, che, attraverso i meccanismi della conversione in caso di insolvibilità del condannato, possono tramutarsi in pene limitative della libertà personale (libertà controllata o lavoro sostitutivo) o in pene detentive. Dall’affermazione dell’inviolabilità della libertà personale, ne deriva che la Costituzione impone al legislatore di fare della pena un uso il più possibile limitato: solo cioè quale strumento residuale, in assenza di altri strumenti idonei ad assicurare una pari tutela al bene giuridico. In definitiva, il ricorso alla pena da parte del legislatore si legittima: ° per finalità di prevenzione generale ° entro i limiti imposti dal principio della rieducazione del condannato ° a tutela proporzionata e sussidiaria di beni giuridici ° contro offese inferte colpevolmente Legittimazione dell’inflizione della pena da parte del giudice Una volta ricostruito il modello legale del reato in questione e avendo successivamente accertato che il fatto concreto integra quel modello astratto, il giudice pronuncia la condanna e infligge la pena, scegliendola all’interno dei tipi di pena e dei limiti minimi e massimi previsti dal legislatore -> è la costituzione che individua il fondamento e la legittimazione della pena: invero, l’art.27cost impone al giudice di orientare le sue scelte in funzione della rieducazione del condannato. In altri termini, il giudice, tra più tipi di pena comminati in via alternativa per una certa figura di reato, dovrà scegliere la più idonea a prevenire il rischio che egli delinqua nuovamente, promuovendone il reinserimento nella società -> secondo la stessa logica il giudice dovrà poi scegliere il quantum di pena, entro i limiti minimo e massimo fissati dalla norma. Del resto, qualsiasi prospettiva di rieducazione risulterebbe vanificata se al condannato venisse applicata una pena sproporzionata per eccesso rispetto alla colpevolezza individuale -> ciò è vietato dal principio costituzionale di colpevolezza che vincola non solo il legislatore nella costruzione dei tipi di reato, ma anche il giudice nella commisurazione della pena; ne deriva che la pena dovrà essere prescelta dal giudice al di sotto del “tetto” segnato dalla misura della colpevolezza per il singolo fatto (-> limite invalicabile). L’inflizione della pena da parte del giudice trova giustificazione nell’esigenza di prevenzione generale dei reati: infatti, far seguire alla previsione legale della pena la sua applicazione in concreto (con la pronuncia della sentenza di condanna) significa confermare la serietà della minaccia contenuta nella norma incriminatrice, mostrando ai potenziali trasgressori della norma che non potranno violarla impunemente. Inoltre, la traduzione in concreto delle pene minacciate dalla legge assolve anche la funzione di orientamento culturale -> tuttavia, si precisa che la prevenzione generale non svolge alcun ruolo nella commisurazione della pena, nel senso che il giudice non può quantificare la pena allo scopo di statuire un esempio nei confronti dei terzi. Pene esemplari si porrebbero, infatti, in contrasto con 2 principi costituzionali: i) in primo luogo, con il principio di personalità della responsabilità penale (art.27cost), perché una parte della pena applicata al singolo si fonderebbe non su ciò che lui ha fatto, ma su ciò che potranno fare in futuro altre persone ii) in secondo luogo, con il principio della dignità dell’uomo (art.3cost) in base a cui l’uomo non può essere degradato a mezzo per il conseguimento di scopi estranei alla sua persona. Commisurata la pena, può aprirsi una fase in cui il giudice dispone che la pena non venga eseguita o può sostituirla con pene diverse e meno gravose di quella inflitta -> tale possibilità riguarda una limitata fascia di reati, di gravità medio-bassa, i cui autori possono essere ammessi alla sospensione condizionale della pena (entro il limite di 2 anni di pena detentiva) o alla sostituzione della pena detentiva breve (cioè non eccedente 2 anni). In questa fase domina la prevenzione speciale: il giudice, dinanzi ad un occasionale autore di un reato non grave, può decidere di evitargli il carcere, sospendendo l’esecuzione della pena, qualora ritenga che quel soggetto non commetterà in futuro nuovi reati; oppure può sostituire la pena detentiva breve con una pena non privativa (pena pecuniaria o libertà controllata) o solo parzialmente privativa della libertà personale (semidetenzione). Inoltre, tra i diversi tipi di pena sostitutiva, il giudice dovrà scegliere quella più idonea al reinserimento sociale del condannato o quella che comporti minori rischi di desocializzazione. Legittimazione dell’esecuzione della pena da parte del potere esecutivo La pena inflitta dal giudice deve essere eseguita -> questo compito è affidato a diversi organi del potere esecutivo (la polizia penitenziaria, organi del ministero della giustizia, etc.); che le pene minacciate dal legislatore e inflitte dal giudice debbano trovare esecuzione è imposto da un’esigenza di prevenzione generale, giacché mancherebbe di credibilità un sistema in cui il legislatore minacci le pene, il giudice le applichi, ma nessuno si curi di eseguirle. In particolare, l’esecuzione della pena detentiva deve essere orientata verso finalità di prevenzione speciale, nel senso che deve tendere alla rieducazione del condannato, aumentandone le chances di reinserimento nella società. Si tratta di una logica che emerge nella legge sull’ordinamento penitenziario, che cerca di realizzare l’obiettivo: eliminando alcuni fattori di mortificazione della personalità del condannato (es. con la previsione di dotazione di abiti propri e con la garanzia di igiene e di riservatezza); potenziando strumenti di aiuto al condannato per colmarne deficit di socialità (es. con istruzione e lavoro); aprendo il carcere all’esterno durante l’esecuzione della pena (es. con colloqui telefonici con parenti, accesso ai giornali). Nella fase dell’esecuzione la rieducazione del condannato incontra, però, una serie di limiti: - l’opera di rieducazione non può essere condotta coattivamente: perché sia fatta salva la dignità dell’uomo e perché la pena sia rispettosa del principio di umanità, la rieducazione deve avere la forma dell’offerta di aiuto, non della trasformazione coattiva della personalità - se il condannato non è suscettibile di reinserimento nella società, né appaia sensibile agli effetti di intimidazione-ammonimento della pena, lo scopo non è più quello della rieducazione, ma della neutralizzazione -> emblematico il caso di molti esponenti di spicco della criminalità organizzata, dove l’esecuzione della pena si legittimerà allo scopo di difendere la società dal rischio che il detenuto, mantenendo dal carcere contatti con le organizzazioni criminali di appartenenza, continui a delinquere. questa logica trova espressione nell’art.41bis, che disegna un regime speciale di esecuzione della pena detentiva per gli autori di taluni gravissimi reati, per lo più commessi nel quadro di organizzazioni criminali. Rapporti tra diritto penale e altri rami dell’ordinamento È possibile che una classe di fatti sanzionati penalmente attiri anche altre sanzioni, e che sia perciò illecita a diversi titoli (penale, civile, amministrativo, disciplinare) -> tuttavia, ci si chiede se l’inflizione della sanzione penale vincoli o meno gli organi preposti all’applicazione delle sanzioni extrapenali. La disciplina prevista nel nostro ordinamento è nel senso di una un’articolata e differenziata efficacia del giudicato penale di condanna nei giudizi civili, amministrativi e disciplinari: ° nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno è riconosciuta efficacia di giudicato alle sole sentenze irrevocabili di condanna emanate in esito al dibattimento, anche nella forma del giudizio abbreviato -> in tal modo, si sottraggono dall’area dell’efficacia del giudicato le sentenze di applicazione della pena su richiesta dell’imputato e del P.M.: tale esclusione deriva dal fatto che si tratterebbe di un procedimento speciale caratterizzato da una limitazione delle garanzie della difesa, tale da impedire il dispiegarsi nei procedimenti extrapenali degli effetti della sentenza penale. ° negli altri giudizi civili e amministrativi la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quando si controverte intorno a un diritto/interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali oggetto del giudizio penale, purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa. Anche tal caso, giacciono fuori le sentenze di condanna non pronunciate in esito a un dibattimento ° nei giudizi per responsabilità disciplinare la sentenza irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. La stessa efficacia è attribuita anche alla sentenza di patteggiamento. Vi sono norme incriminatrici in rapporto di accessorietà con gli altri rami dell’ordinamento, le quali disciplinano materie in parte già giuridicamente preformate dal diritto civile o amministrativo e alle cui regole il giudice penale dovrà necessariamente fare riferimento -> in altri termini, il giudice penale non dovrà solo constatare dei fatti, ma anche applicare quelle regole giuridiche extrapenali. Si tratta degli elementi normativi della fattispecie legale, che compaiono in molti titoli della parte speciale -> esempio: nei delitti contro il patrimonio l’altruità della cosa nel furto nell’appropriazione indebita, nel danneggiamento denota che la cosa non è di proprietà dell’autore di quei vari delitti; pertanto, il relativo accertamento comporta l’applicazione al caso concreto delle regole civilistiche sui modi di acquisto del diritto di proprietà. Altre norme incriminatrici sono invece caratterizzate da autonomia rispetto agli altri rami dell’ordinamento. Talvolta, è la stessa legge a stabilire cosa significhi, in campo penale, questo o quel termine : ciò accade, ad es, per i “prossimi congiunti”, per il “rapporto di parentela” etc. Altre volte è in via di interpretazione che si desume il significato di un dato termine: ad es, la nozione di “possesso” di una cosa mobile all’interno dell’appropriazione indebita è ricostruita abbracciando rapporti con la cosa (come la custodia) più ampi di quelli ricompresi dal diritto civile. L’autonomia del diritto penale rispetto agli altri rami dell’ordinamento si manifesta anche sotto altri profili: per soddisfare le esigenze di tutela espresse dalle norme incriminatrici, se ne amplia in via interpretativa il raggio d’azione, reprimendo fatti che non troverebbero tutela in altri rami dell’ordinamento, come nella truffa commessa nel quadro di un contratto illecito. I rapporti fra il diritto penale e gli altri rami del diritto vanno osservati anche dal punto di vista dell’unità dell’ordinamento giuridico -> si tratta di una unità che richiede coerenza, giacché è inammissibile che uno stesso fatto venga considerato favorevolmente da una branca e negativamente da un’altra: che sia cioè considerato, al contempo, lecito e illecito. Invero, in seno ad un ordinamento estremamente complesso, è naturale che possano manifestarsi antinomie, ma è il sistema che deve fornire gli strumenti per eliminarle. Sono le cause di giustificazione gli istituti che fanno emergere la connessione fra i vari settori dell’ordinamento e l’unità profonda del sistema: si tratta delle facoltà e dei doveri, derivanti da norme situate in ogni settore dell’ordinamento, che autorizzano o impongono la commissione di un fatto, rendendolo lecito nell’intero ordinamento e così precludendo l’inflizione di ogni tipo di sanzione prevista per quel fatto dai diversi settori dell’ordinamento (penale, civile, amministrativo, disciplinare, costituzionale). Diritto penale e problemi probatori art.27cost -> l’onere di provare gli elementi costitutivi di un reato incombe sull’accusa = si tratta del principio della presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva, che accolla alla sola accusa l’onere di vincere quella presunzione, così da consentire la pronuncia della sentenza di condanna. In armonia con tale principio, il codice di procedura penale fissa le regole sulla cui base va pronunciata la sentenza di assoluzione: non solo quando vi è la prova che “il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato o il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per altra ragione” (art.530 cpp), ma anche in situazioni di dubbio, quando cioè “manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona non imputabile”. il codice di procedura penale ha, inoltre, statuito che l’in dubio pro reo vale, come regola probatoria, per tutti gli elementi dalla cui assenza o presenza dipende l’affermazione della responsabilità, comprese le cause di giustificazione e le cause di non punibilità. Per contro, in base all’art.533cpp una sentenza di condanna può essere pronunciata solo quando l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio -> tale formula impone di pronunciare condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, si ponga al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana il quadro appena delineato è, però, esplicitamente contraddetto dal legislatore quando conia le norme incriminatrici che delineano i reati di sospetto = reati che presentano un’anomala regola probatoria, giacché alleviano alla pubblica accusa il peso di provare la presenza di un elemento costitutivo del reato, trasferendo sull’imputato l’onere di provare l’assenza di quell’elemento. Una tale violazione della presunzione di non colpevolezza, imposta dall’art.27cost ha comportato l’illegittimità costituzionale di alcune norme incriminatrici. Talvolta, è la giurisprudenza a modificare la struttura del reato, sempre per alleviare l’onere probatorio dell’accusa -> tra gli elementi del reato che rischiano di subire questo illegittimo stravolgimento strutturale primeggia il dolo, che in base alla legge risulta composto dalla rappresentazione e dalla volizione di un fatto di reato e può dirsi, perciò, presente e provato solo se si accerta, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, che l’agente ha avuto l’effettiva rappresentazione e volizione di quel fatto. Una rappresentazione solo potenziale (il poter sapere e prevedere, quando è accompagnato dal dovere di sapere e di prevedere) può invece fondare solo un rimprovero di colpa. Tuttavia, quando l’accusa non riesce a provare l’effettiva rappresentazione del fatto di reato, spesso il giudice interviene in suo soccorso, stravolgendo la struttura del dolo: il giudice, invero, ritiene sufficiente accertare che l’agente potesse e dovesse prevedere la realizzazione del fatto, trasformando così la prova del dolo in prova della colpa. Con questa prassi, la giurisprudenza modifica, dunque, il dettato della legge e sostituisce con proprie scelte politico-criminali le scelte compiute dal legislatore. in alcuni casi, la giurisprudenza stravolge anche il rapporto di causalità = rapporto tra 2 elementi del fatto di reato: ° l’azione (o l’omissione) ° l’evento concreto, che, in base alla legge deve essere conseguenza dell’azione od omissione Anche qui, a volte è impossibile provare la sussistenza di un rapporto di derivazione causale tra una data azione e un singolo evento concreto; sicché, per aggirare l’ostacolo probatorio, talora la giurisprudenza stravolge la fisionomia del rapporto di causalità, ritenendo che lo stesso non debba intercorrere più tra azione ed evento, ma fra l’azione e il pericolo dell’evento -> in tal modo, i reati di evento vedrebbero modificata la propria struttura, che è imperniata dalla legge su un rapporto di causalità tra una data azione e un singolo evento concreto, e non sul pericolo del verificarsi di quell’evento. Le ragioni politico-criminali di tale stravolgimento da parte della giurisprudenza risiedono nella volontà di soddisfare i bisogni di punizione, alimentati dai frequenti fenomeni suscettibili di creare seri pericoli per l’incolumità -> tuttavia, fronteggiare tali pericoli è compito del legislatore, attraverso norme incriminatrici di nuovo conio, e non della giurisprudenza che, contra legem, modifica la fisionomia del rapporto di causalità. Capitolo 2: LE FONTI Funzione di garanzia del principio di legalità Da sempre il diritto penale si caratterizza per la durezza delle sue sanzioni; all’atrocità del sistema sanzionatorio penale ‘700 il pensiero illuministico reagì in 2 direzioni: - chiedendo pene più miti - invocando l’apposizione di limiti alla potestà punitiva dello stato, a cominciare dal principio di legalità, cioè dalla riserva alla legge del compito di individuare i reati e le pene, così da mettere il cittadino al sicuro dagli arbitri del potere esecutivo e del potere giudiziario. Le esigenze di garanzia sottese al principio di legalità sono tuttora irrinunciabili nel nostro ordinamento: la pena di morte era, infatti, consentita dalla Costituzione nei casi previsti dalle leggi militari di guerra e solo con la legge n.1/2007 è stata soppressa l’eccezione relativa alle leggi militari di guerra -> d’altra parte, il legislatore non ha mai rinunciato a porre al centro del sistema sanzionatorio la pena detentiva, temporanea (arresto o reclusione, prevista, quest’ultima, anche nella misura di 30 anni) o perpetua (ergastolo). Il principio di legalità o riserva di legge in materia penale -cioè il monopolio del potere legislativo nella scelta dei fatti da punire e delle relative sanzioni- è frutto del pensiero illuministico -> in particolare, si deve a montesquieu l’enunciazione del principio della separazione dei poteri, a garanzia del cittadino non solo dagli arbitri del potere esecutivo, ma anche da quelli dei giudici; Beccaria evidenzia, inoltre, il principio di precisione della legge penale, cioè l’esigenza di leggi chiare e precise. È Feuerbach che conia la formula nullum crimen, nulla poena sine lege, individuando 2 ulteriori corollari della riserva di legge: * il divieto di analogia = divieto di applicare la legge penale a casi che il legislatore non ha espressamente previsto * il principio di determinatezza = in base a cui il legislatore può reprimere con la pena solo ciò che può essere provato nel processo Le conquiste del pensiero illuministico vengono dapprima recepite in Francia nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) e nelle Costituzioni del 1791 e del 1793; successivamente entrano nelle codificazioni ottocentesche e, infine, nel codice penale del 1889 e del 1930. Nel codice penale del 1930, la legalità dei reati e delle pene è sancita: ° nell’art.1cp = “ nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite” ° nell’art.199cp = “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti” ° nell’art.14 delle preleggi, viene nuovamente enunciato il divieto di analogia per le leggi penali La costituzione recepisce il principio di legalità in tutti i suoi significati: - l’art.25 = stabilisce che nessuno può essere punito se non in forza di una legge - l’art.25 cm3 = con una disposizione espressamente dedicata alle misure di sicurezza, stabilisce che nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge. Dato il carattere rigido della Costituzione, il principio di legalità acquista forza vincolante anche nei confronti del legislatore: * il quale non può spogliarsi del monopolio della produzione delle norme penali (riserva tendenzialmente assoluta di legge formale) * è tenuto a formulare le leggi penali in modo chiaro (=principio di precisione) * non deve incriminare fatti insuscettibili di essere provati nel processo (=principio di determinatezza) * deve imporre al giudice il divieto di estensione analogica delle norme incriminatrici * deve a sua volta formulare le norme incriminatrici in modo rispettoso del divieto di analogia (= principio di tassatività) Per comprendere e la portata del principio di legalità, è sempre necessario risalire alla sua matrice politico-istituzionale: l’originaria matrice scaturisce dai principi dello stato liberale di diritto, in particolare dall’idea che, nel quadro della separazione dei poteri, il monopolio della potestà punitiva compete al parlamento, essendo il potere esecutivo espressione della sola maggioranza parlamentare e il potere giudiziario privo di qualsiasi investitura da parte dei cittadini. Con l’affermarsi dello stato democratico, e con l’introduzione del suffragio universale, il parlamento diventa espressione della volontà dell’intero popolo: ne segue che attribuirgli il monopolio della produzione delle norme penali significa assicurare una più forte legittimazione politica alle scelte punitive dello stato, e una ancora più accentuata preclusione agli interventi del potere esecutivo e del potere giudiziario. Riserva di legge come riserva di legge formale dello stato Il fondamento politico della riserva di legge in materia penale impone di interpretare la formula “legge” nell’art.25cost come legge formale, escludendo decreti legislativi e decreti legge dalla fonti del diritto penale -> solo il parlamento, come espressione dell’intero popolo, è in grado di compiere le scelte punitive nel rispetto della dialettica tra maggioranza e minoranza. Opposto è però l’orientamento della prassi parlamentare e governativa: il governo, infatti, ha fatto ampio ricorso al decreto-legge in materia penale, introducendo con tale strumento: ° nel 2009, il delitto di atti persecutori (stalking) ° nel 2011, il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ° nel 2013, il delitto di combustione illecita di rifiuti e l’aggravante del fatto commesso in presenza o in danno di un minore o di una donna incinta ° nel 2020, nel contesto degli interventi normativi tesi a contrastare il diffondersi del covid alcune contravvenzioni, due delle quali relative all’inosservanza della quarantena da parte del soggetto positivo al virus -> si è poi proceduto ad incriminare altre condotte, quali l’indebita percezione di contributi erogati dallo Stato per sostenere il lavoro, l’economia e l’impresa, nonché le falsificazione del green pass ° nel 2021, con il decreto-legge si è modificata la disciplina del delitto di incendio-boschivo Della delega legislativa d’altra parte, il Parlamento fa un uso sempre più ampio, soprattutto per dare attuazione a direttive comunitarie. Gran parte della dottrina approva gli orientamenti della prassi, interpretando la riserva di legge come riserva di legge in senso materiale, comprensiva anche degli atti normativi del potere esecutivo che hanno forza di legge -> altra parte, invece, ritiene che il decreto-legge non possa essere fonte di norme penali, in quanto, in caso di mancata conversione, risultano non più reversibili gli effetti sulla libertà personale (o nella forma delle misure cautelari o nella forma di una pena conseguente a una condanna definitiva) prodotti da un decreto-legge che preveda nuove incriminazioni o inasprisca un preesistente trattamento sanzionatorio. Caso limite di ricorso al decreto-legge è rappresentato dai recenti provvedimenti adottati dal Governo per fronteggiare l’epidemia da covid. Parimenti, anche il decreto legislativo non può essere incluso tra le fonti del diritto penale, perché la prassi appare lontanissima dagli standard di rigore, analiticità e chiarezza auspicati dalla dottrina come condizioni per la legittimità della delega. La Corte costituzionale ha affermato che l’attribuzione al potere esecutivo di scelte politiche è un dato immanente alla tecnica della delega legislativa: la determinazione di principi e criteri direttivi può circoscrivere, ma non eliminare la discrezionalità politica del potere esecutivo nell’esercizio della delega -> né si comprende perché la creazione di norme incriminatrici, preclusa agli atti normativi emanati da un singolo ministro dovrebbe essere invece consentita agli atti emanati dall’intero Governo, come i decreti legislativi: gli uni e gli altri, infatti, sono opera del potere esecutivo, al quale devono essere precluse le scelte punitive, di competenza del solo Parlamento. Secondo la Corte costituzionale, il principio di riserva di legge rimette al Parlamento, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare ed è violato qualora quella scelta sia invece effettuata dal Governo in assenza o fuori dai limiti di una valida delega legislativa. La verifica sull’esercizio da parte del Governo della funzione legislativa delegata diviene, allora, strumento di garanzia del rispetto del principio della riserva di legge in materia penale, sancito dall’art.25 -> ciò vale sia nei casi in cui con lo strumento del decreto legislativo venga introdotta una nuova figura di reato, sia se venga abrogata una norma incriminatrice. L’unica deroga alla riserva di legge formale è rappresentata dai decreti governativi in tempo di guerra, che, possono essere fonte di norme penali su delega espressa del parlamento, in base all’art.78 cost: le camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al governo i poteri necessari (attenzione: guerra da intendersi solo come guerra con altri stati, e non, quindi, ad esempio, guerra civile) -> l’art.78 consente alle Camere di delegare la potestà punitiva in tempo di guerra al solo governo, e non anche all’autorità militare, che, quindi, non potrà legiferare attraverso lo strumento dei bandi militari. La legge regionale non può essere fonte di norme incriminatrici -> l’art.117cost stabilisce infatti che lo stato ha legislazione esclusiva in materia di ordinamento penale; questa preclusione, in realtà, discendeva già dalla ratio del principio di riserva di legge giacché solo il Parlamento nazionale riflette la volontà dell’intero popolo, mentre l’Assemblea regionale è rappresentativa dei soli cittadini della Regione: eventuali norme penali di fonte regionale avrebbero come destinatari anche i cittadini di altre Regioni, che si vedrebbero applicare norme incriminatrici emanate da un organo privo nei loro confronti di qualsiasi rappresentatività. Ne segue, come si ricava dalla Corte costituzionale, che sono illegittime leggi regionali che: - creino un nuovo tipo di reato o abroghino una norma incriminatrice preesistente - ne modifichino la disciplina sanzionatoria - sostituiscano la sanzione penale con una sanzione amministrativa - configurino una nuova causa di estinzione della punibilità o amplino la portata di una causa di estinzione preesistente. Un’eccezione all’incompetenza penale delle regioni parrebbe stabilita dallo statuto della regione trentino-alto adige per le leggi della regione e delle province di trento e di bolzano: l’art.23 statuto regionale (che ha rango di legge costituzionale, e quindi potrebbe derogare al principio sancito dagli artt.117) recita che “la regione e le province utilizzano -a presidio delle norme contenute nelle rispettive leggi- le sanzioni penali che le leggi dello stato stabiliscono per le stesse fattispecie” -> il punto nodale è rappresentato dalla formula stesse fattispecie: ° se tale formula viene riferita a fattispecie identiche (previste sia nella legge regionale, sia nella legge statale), l’art.23 si rivela disposizione inutile ° diversamente, secondo una parte della dottrina dovrebbero intendersi fattispecie analoghe, ma non identiche, relative cioè alle stesse materie, ma non eguali in tutti gli elementi costitutivi. L’incompetenza delle regioni a dettare norme penali riguarda solo le norme incriminatrici, e non le norme scriminanti, che non sono norme penali, giacché in tal caso sussiste un altro limite: dal momento che la potestà legislativa regionale, nelle materie di legislazione concorrente, è tenuta al rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, la legge regionale non può modificare la disciplina di quelle cause di giustificazione (legittima difesa, consenso dell’avente diritto, etc.) che sono espressione di principi generali dell’ordinamento. Nel rispetto del principio di riserva di legge in materia penale, la legge regionale può presidiare i propri precetti soltanto con sanzioni amministrative e nel caso in cui uno stesso fatto sia represso sia da una norma penale, sia da una norma sanzionatoria amministrativa di fonte regionale, si applicherà la sola norma penale. Circa i rapporti tra diritto dell’ue e diritto penale occorre tener conto delle innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona sebbene preliminarmente necessiti di essere illustrata la situazione antecedente a tale Trattato, che ha provveduto a sistematizzare le competenze dell’ue in materia penale -> pertanto, fino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, non vi era alcun dubbio che nessuno dei trattati istitutivi delle Comunità europee attribuisse in forma espressa a istituzioni comunitarie la potestà di creare norme incriminatrici: era pacifico, quindi, che gli organi dell’UE potessero tutelare direttamente gli interessi comunitari soltanto con sanzioni amministrative. L’UE poteva imporre al legislatore degli Stati membri l’obbligo di emanare norme penali a tutela di determinati interessi -> al riguardo, occorreva distinguere tra procedure e strumenti normativi che afferivano al primo pilastro dell’Ue (TCE = trattato sulla Comunità europea) e procedure e strumenti di terzo pilastro (GAI = Giustizia e Affari interni): i) relativamente al 1°pilastro, il diritto comunitario sino al 2008 aveva evitato di imporre agli Stati obblighi di criminalizzazione espliciti ma l’esistenza di tali obblighi era comunque stata affermata più volte dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee nel quadro di procedimenti per infrazione avviati contro gli Stati membri per violazione del diritto comunitario. Invero, accadeva spesso che la Comunità rivolgesse agli Stati membri, attraverso lo strumento della direttiva, la richiesta di apprestare una tutela adeguata, efficace o proporzionata a determinati interessi di rilievo comunitario -> allo stesso risultato giungevano le direttive che imponevano agli Stati membri di assimilare la tutela offerta a un determinato interesse comunitario a quella già assicurata ad un interesse nazionale corrispondente. ii) obblighi di criminalizzazione espliciti erano presenti negli strumenti normativi di 3°pilastro in particolare, convenzioni e decisioni-quadro -> tali strumenti miravano, all’armonizzazione delle legislazioni penali degli Stati membri, allo scopo di promuovere la cooperazione giudiziaria e di polizia nel contrasto alle forme più gravi di criminalità transnazionale. Il trattato di Lisbona ha abolito la distinzione in pilastri, pur conservando il dualismo fra TUE TFUE: nell’ambito di quest’ultimo, emergono gli art.82-89 (norme relative alla cooperazione giudiziaria in materia penale e alla cooperazione di polizia): a) art.83tfue -> segna le coordinate dell’intervento dell’ue in materia penale: ° il 1°paragrafo prevede che il Parlamento e il Consiglio possano stabilire, mediante direttive, norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale -> sfere di criminalità individuate in un elenco tassativo, comprendente 9 materie (terrorismo, tratta di esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata). Si tratta di quelle materie che, prima del Trattato di Lisbona, erano le competenze penali di 3° pilastro. ° il 2°paragrafo stabilisce che, attraverso direttive, il Parlamento e il Consiglio possano introdurre norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni laddove il ravvicinamento delle disposizioni nazionali si riveli indispensabile per garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione, e dunque in materie già oggetto delle competenze di 1° pilastro. Dunque, anche dopo le modifiche introdotte dal Trattato la competenza dell’ue in materia penale rimane una competenza solo indiretta, volta a richiedere agli Stati membri l’adozione di norme incriminatrici laddove siano necessarie a tutelare gli interessi dell’Unione stessa (ex primo pilastro) o a realizzare lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia oggetto dell’ex terzo pilastro. b) art.86tfue -> prefigura l’istituzione di una procura europea competente per individuare, perseguire e rinviare a giudizio gli autori dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. In base al tenore letterale, si potrebbe pensare che le competenti istituzioni dell’UE siano state investite di una competenza penale diretta, volta a introdurre direttamente le norme incriminatrici necessarie a tutelare efficacemente gli interessi finanziari dell’Unione medesima ->in realtà, la dottrina è giunta a conclusioni di segno opposto, rilevando che un così rilevante cambiamento di rotta avrebbe richiesto una netta presa di posizione da parte del legislatore comunitario; inoltre, si è osservato come non tutte le versioni linguistiche dell’art.86 siano idonee a suffragare la tesi della competenza penale diretta. In definitiva, non esiste una potestà sanzionatoria penale dell’Ue, giacché nessuna delle norme dei Trattati attribuisce alle istituzioni europee la competenza ad emanare norme incriminatrici. In ogni caso, le norme penali eventualmente emanate dalle fonti comunitarie non potrebbero avere ingresso nel nostro ordinamento, perché il principio costituzionale della riserva di legge in materia penale attribuisce al solo Parlamento nazionale la competenza ad emanare norme incriminatrici. Comunque l’incidenza del diritto dell’Unione sulla discrezionalità del legislatore italiano è notevole -> dagli atti dell’Ue discendono non solo obblighi di criminalizzazione di determinate condotte, ma anche vincoli dettagliati sulla concreta conformazione dei precetti, nonché sulla natura e misura delle sanzioni penali che lo Stato è tenuto ad adottare. Da questi strumenti non deriva alcun effetto diretto per il cittadino, che potrà essere assoggettato ad una sanzione penale solo ove una legge nazionale preveda come reato il fatto da lui commesso -> tuttavia, si segnala che gli Stati membri tendono a conformarsi spontaneamente agli obblighi derivanti dal diritto dell’UE, nonché ad adempiere agli obblighi di penalizzazione, anche per evitare le specifiche sanzioni apprestate dall’ordinamento comunitario per il caso di inadempimento. Dal diritto dell’Unione discendono anche taluni vincoli per il giudice penale degli stati membri: 1) in primo luogo, norme di fonte UE dotate di efficacia diretta, contrastanti con norme penali statali, possono paralizzarne, in tutto o in parte, l’applicabilità, in forza del principio della prevalenza del diritto dell’Unione sul diritto nazionale -> questo punto merita alcune precisazioni: è opportuno ricordare che le norme che possono rendere inapplicabile la normativa statale trovano la loro fonte nei trattati, nei regolamenti, nonché nelle direttive, purché queste ultime siano dettagliate e sempre che sia decorso il termine per l’attuazione della direttiva da parte dello Stato membro. In secondo luogo, l’incompatibilità della norma penale nazionale rispetto alla norma dell’UE può essere: - totale -> quando l’incompatibilità tra norma di fonte UE e norma penale è totale, la norma di fonte UE rende inapplicabile la norma penale in tutta la sua estensione. Una ipotesi di incompatibilità totale con il diritto comunitario è stata ravvisata dalla Corte di Giustizia dell’UE in relazione al delitto di inottemperanza all’ordine di allontanamento intimato dal questore: tale disposizione prevedeva la pena della reclusione per lo straniero che non cooperasse al buon esito della procedura espulsiva -> la Corte di Giustizia ha rilevato il contrasto di tale norma con la direttiva rimpatri, in quanto l’inflizione di una pena detentiva per una violazione correlata alla procedura di espulsione può compromettere l’obiettivo della direttiva, ritardando il rimpatrio dello straniero (di qui, la Corte ha disapplicato la norma del T.u. immigrazione, che è stata modificata con la previsione della sola pena della multa). Con la sentenza Taricco del 2015, la Corte di Giustizia ha ritenuto contrastante con il diritto dell’Ue la disciplina della prescrizione del reato: il contrasto è stato ravvisato nella previsione di un limite max di durata del termine di prescrizione, in presenza di atti interruttivi, tale da comportare un rischio di prescrizione del reato anche quando l’autorità giudiziaria non sia inerte, ma stia procedendo all’accertamento di fatti e responsabilità. Secondo la Corte, tale normativa sarebbe idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri impedendo di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Ue -> in forza del principio della prevalenza del diritto dell’UE sul diritto nazionale, la Corte ha affermato che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dal tfue. - parziale -> quando l’incompatibilità tra norma di fonte UE e norma penale è solo parziale verranno estromesse solo le ipotesi regolate in modo diverso dalla norma UE. Si discute se l’obbligo per il giudice di disapplicare la disciplina nazionale incompatibile con una norma UE dotata di efficacia diretta sussista anche qualora essa si ponga in contrasto con un principio cardine dell’ordinamento interno: se cioè lo stato membro possa azionare come contro- limiti i principi che appartengono alla struttura fondamentale dello stato -> in questa materia criterio-guida è il caso taricco, in cui la Corte costituzionale è stata chiamata per la 1° volta a decidere se azionare il principio di legalità ex art.25 come contro-limite rispetto all’obbligo di disapplicare la disciplina della prescrizione del reato contenuta negli art.160+161cp, nella misura in cui quella disciplina è stata ritenuta dalla Corte di Giustizia UE confliggente con l’art.325tfue. In un primo tempo, la corte si è espressa solo con una pronuncia interlocutoria, investendo in via pregiudiziale della questione la corte di giustizia ue, la quale ha riconosciuto che il primato del diritto dell’ue incontra un limite nei principi di legalità e irretroattività in materia penale che appartengono alle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri: verificare caso per caso la compatibilità tra gli obblighi derivanti dal diritto dell’ue e quei principi costituzionali è compito che deve essere assolto dal giudice nazionale -> in definitiva, l’obbligo di disapplicazione della disciplina penale contrastante con il diritto ue viene meno quando la disapplicazione comporterebbe una violazione di principi cardine dell’ordinamento interno. In tutti i casi di incompatibilità tra norma penale e diritto dell’ue, se vi è stata sentenza definitiva di condanna per un fatto preveduto dalla norma penale inapplicabile, cessa l’esecuzione della condanna e ne vengono meno gli effetti penali -> in tal senso si è più volte pronunciata la Corte di cassazione, affermando che trova applicazione in via analogica l’art.673cp nel quale si prevede la revoca della sentenza in caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice. 2)un 2° ordine di vincoli discendente dal diritto dell’ue riguarda l’obbligo di interpretazione conforme alla normativa ue: tra più possibili significati della legge nazionale, il giudice deve scegliere quello più conforme alle pretese del diritto dell’Ue. In materia penale, il limite invalicabile dei poteri interpretativi del giudice sarà sempre costituito dal divieto di analogia, giacché il giudice non potrà mai attribuire alla norma penale nazionale un significato che vada oltre il suo tenore letterale -> laddove, poi, il giudice nazionale sia in dubbio sul significato da attribuire ad una norma di fonte UE, egli potrà (o dovrà, nel caso si tratti di un giudice di ultima istanza) investire in via pregiudiziale della questione interpretativa la corte di giustizia ue, ai sensi art.267tfue. In caso di incertezza sul significato da attribuire al diritto UE, il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE rappresenta una via percorribile non solo dal giudice ordinario, ma anche dalla Corte costituzionale. Il diritto dell’Unione esercita sul diritto penale nazionale tanto effetti riduttivi che espansivi del penalmente rilevante o dell’afflittività della sanzione penale: basti pensare alle frequenti richieste di penalizzazione di determinate condotte, o di inasprimento di determinate sanzioni, che il legislatore europeo rivolge al legislatore nazionale perché gli interessi dell’Unione siano efficacemente tutelati. Circa il rapporto tra diritto internazionale pattizio, nel cui ambito si colloca la cedu, e diritto penale, va premesso che da nessuna fonte internazionale può discendere direttamente una responsabilità penale a carico di un individuo. Il principio di legalità dei reati e delle pene, ex art.25cost. e il suo corollario della riserva di legge in materia penale, impone infatti che sia solo la legge statale a disciplinare i presupposti cui è subordinata l’inflizione di una pena da parte dei giudici italiani e a stabilire specie ed entità della pena stessa. Su di un piano diverso si colloca il diritto penale internazionale = branca del diritto internazionale che prevede una responsabilità penale individuale per i crimini internazionali (genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimini di aggressione), così come disciplinati dallo statuto della corte penale internazionale sottoscritto a roma nel 1998 -> non avendo l’Italia provveduto a trasfondere le norme incriminatrici previste dallo Statuto in leggi penali interne, la giurisdizione per tali crimini appartiene esclusivamente alla Corte penale internazionale e ai suoi organi inquirenti con sede all’Aja, rispetto a cui l’Italia si è assunta (ratificando lo Statuto di Roma) meri obblighi di cooperazione. Tuttavia, da numerose fonti internazionali discendono obblighi per il legislatore e per il giudice italiano: - per il legislatore, art.117cost dispone che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto (oltre che della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario) degli obblighi internazionali -> ne deriva che il legislatore italiano, anche nella materia penale, dovrà conformarsi agli obblighi internazionali; sicché una legge emanata in violazione di tali obblighi sarà di regola costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art.117. - il giudice ha il dovere di interpretare le leggi nazionali, anche nella materia penale, in maniera conforme alla lettera e alla ratio degli obblighi internazionali che vincolano lo Stato italiano. Il giudice sarà dunque tenuto ad optare per un’interpretazione delle leggi interne che armonizzi con le fonti internazionali, piuttosto che con interpretazioni che contrastino con gli obblighi da esse scaturenti, anche al fine di evitare di esporre con la propria decisione lo Stato italiano ad una possibile responsabilità sul piano internazionale. Laddove poi il contrasto tra la legge interna e gli obblighi internazionali non sia superabile in via interpretativa, il giudice dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale della legge interna, invocando come norma-parametro art.117 e come norma interposta la disposizione internazionale che si assume violata. Questi principi si applicano anche alla cedu -> in proposito, la Corte costituzionale ha chiarito la posizione della cedu nel sistema delle fonti nell’ordinamento italiano, affermando che le sue norme fondano altrettanti obblighi internazionali ex art.117 L’eventuale contrasto tra una legge interna e la cedu non potrà essere rimosso direttamente dal giudice ordinario attraverso la disapplicazione della legge interna ma dovrà essere da questi sottoposto alla corte costituzionale, a cui spetterà la sua risoluzione attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge medesima, sempre che la disposizione convenzionale non contrasti essa stessa con la costituzione -> prima di sottoporre la questione alla Corte costituzionale, il giudice ordinario sarà tenuto a verificare se il contrasto possa essere risolto in via interpretativa, attraverso una interpretazione conforme alla cedu della legge in questione. Tanto la Corte costituzionale quanto il giudice ordinario, infine, saranno tenuti a confrontarsi non con il mero dato testuale delle disposizioni della CEDU, bensì con la lettura che di quelle disposizioni ha fornito la Corte europea dei diritti dell’uomo, alla cui ormai copiosa giurisprudenza occorrerà fare riferimento per individuare il significato delle disposizioni convenzionali. Con sentenza del 2011, la corte costituzionale ha aggiunto un nuovo caso di revisione (= revisione europea) a quelli già previsti dall’art.630cpp proprio per le ipotesi in cui, dopo l’intervento di una sentenza irrevocabile di condanna a livello nazionale, la corte edu abbia riscontrato la violazione di una disposizione convenzionale. È, dunque, oggi pacifica l’esistenza di un rimedio processuale idoneo a rimuovere gli effetti della violazione di diritti fondamentali, sofferta da chi abbia presentato con successo un ricorso alla Corte di Strasburgo -> tuttavia, è discusso se i principi espressi dalle sentenze della Corte EDU possano produrre effetti nei confronti di soggetti diversi dal ricorrente, anche qualora siano destinatari di una sentenza di condanna già passata in giudicato. Secondo quanto previsto da una recente sentenza delle sezioni unite, sul caso contrada, deve sussistere almeno una delle 3 condizioni: i) si sia in presenza di una sentenza-pilota = sentenza che oltre a rilevare la violazione, fissa un termine allo Stato autore della violazione perché adotti adeguati rimedi strutturali ii) la Corte europea abbia espressamente ravvisato una violazione di carattere strutturale o sistematico imputabile allo Stato italiano, la cui rimozione imponga l’adozione di misure adeguate iii) la sentenza deve essere espressione di una giurisprudenza europea consolidata In assenza di tale presupposto, lo stato italiano non è vincolato a conformarsi alla condanna europea oltre lo specifico caso oggetto di giudizio davanti alla Corte di Strasburgo. Anche con riferimento ai vincoli che discendono dagli obblighi internazionali in materia penale può utilizzarsi la dicotomia effetti riduttivi/effetti espansivi del penalmente rilevante o dell’afflittività della sanzione, impiegata per il diritto dell’Unione: 1) gli effetti riduttivi -che possono essere l’esito di un’operazione di interpretazione conforme alle norme internazionali o di una dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma nazionale per contrasto con art.117- possono avere ad oggetto sia il precetto penale, sia la sanzione ad esso correlata. Come es. di effetto riduttivo che esplica la propria efficacia sul precetto penale, si può far riferimento alla violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, punita dal codice antimafia -> fra le prescrizioni in questione figurano quelle di vivere onestamente e di rispettare le leggi, delle quali la Corte EDU ha sottolineato il carattere estremamente vago e indeterminato, e come tale incompatibile con il principio di legalità. Così, la Corte di cassazione ha proceduto a un’interpretazione della disposizione incriminatrice conforme alla CEDU, circoscrivendone l’ambito di applicazione alla violazione delle sole prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico. Come es. di effetto riduttivo che esplica la propria efficacia sulla sanzione penale si può fare riferimento alla proibizione della tortura di cui all’art.3CEDU, da cui discende il divieto di procedere all’espulsione di cittadini extracomunitari nel caso in cui gli stessi corrano il rischio di essere sottoposti nel Paese di destinazione a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. 2) gli effetti espansivi del penalmente rilevante possono discendere dagli obblighi di incriminazione di determinate condotte contenuti in norme di diritto internazionale pattizio ricavati in via interpretativa dalle Corti dei diritti; più spesso, tuttavia, gli effetti espansivi sono il portato dell’interpretazione conforme alle norme sovranazionali. Ad es. la Corte EDU ha più volte condannato alcuni Stati per l’eccessiva ampiezza di cause di giustificazione che, di fatto, rendevano non punibili condotte lesive del diritto alla vita e del diritto a non essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani o degradanti, sanciti rispettivamente dagli art.2+3 CEDU. L’incidenza di tali vincoli sull’ordinamento penale interno è diversa a seconda del loro specifico oggetto -> in virtù dell’obbligo di interpretazione conforme, il giudice penale, per evitare di esporre lo Stato italiano alla responsabilità per la violazione degli obblighi pattizi, dovrà interpretare restrittivamente le norme esimenti che sottraggono classi di fatti alla sanzione penale. Così, ad es. la causa di giustificazione della legittima difesa dovrà essere letta in senso restrittivo dal giudice ordinario, così da non consentire l’uccisione o il ferimento grave di chi attenti esclusivamente a beni patrimoniali -> ciò in omaggio alle esigenze di tutela del diritto alla vita art.2CEDU, che consente l’uccisione dell’aggressore solo quando la condotta risulti assolutamente necessaria per respingere una violenza illegittima (espressione quest’ultima che evoca necessariamente un attacco alla persona, e che non comprende le mere aggressioni al patrimonio). Inoltre, è frequente che la Corte di Strasburgo interpreti le norme CEDU riconoscendo all’individuo una protezione più ampia rispetto a quella riconosciuta dalla nostra giurisprudenza -> ne deriva un innalzamento degli standard di tutela dei diritti fondamentali di volta in volta interessati: innalzamento che dovrà ritenersi vincolante sia per il legislatore italiano nella previsione di norme incriminatrici e delle relative sanzioni penali, sia per il giudice costituzionale nel vaglio di legittimità costituzionale delle leggi penali, sia, infine, per il giudice ordinario nella loro applicazione al caso concreto. Ad es. art.8cedu riconosce all’individuo il diritto al rispetto della vita privata e familiare -> la giurisprudenza di Strasburgo deduce da tale diritto una serie di limiti alla possibilità per lo Stato di disporre l’espulsione dello straniero che abbia forti legami familiari o affettivi nello Stato dal quale dovrebbe essere espulso. Tali limiti dovranno essere rispettati dal giudice penale italiano, se del caso attraverso l’enucleazione di cause ostative all’espulsione ulteriori a quelle previste dall’art.19 t.u immigrazione. Quanto all’incidenza nell’ordinamento penale interno degli obblighi di incriminazione derivanti da fonti internazionali pattizie, va osservato che il principio di legalità dei reati e delle pene osta a che la Corte costituzionale possa ovviare alla mancanza di un’incriminazione conforme agli obblighi internazionali, estendendo la portata di altre norme incriminatrici o introducendo una nuova figura di reato -> ad es. né la Corte costituzionale né il giudice ordinario sono stati in grado, per anni, di porre rimedio alla violazione, da parte del legislatore italiano, dell’obbligo internazionale di prevedere un’autonoma incriminazione della tortura con una cornice edittale adeguata alla gravità del fatto, secondo quanto richiesto dall’art.4 convenzione ONU contro la tortura e le punizioni crudeli, inumane e degradanti. Invero, in assenza di un intervento legislativo in tal senso, il giudice italiano, fino a un recente passato, si limitava ad utilizzare le norme incriminatrici delle percosse e/o lesioni personali, dell’abuso d’autorità contro detenuti, le cui modeste pene edittali comportavano una reazione sanzionatoria troppo blanda rispetto agli standard di tutela pretesi in sede internazionale. Dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte EDU, per la mancanza nell’ordinamento italiano di una norma incriminatrice della tortura, è stato introdotto art.613biscp (“Chiunque, con violenze o minacce gravi, o agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, o che si trovi in situazione di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da 4 a 10 anni, se il fatto è commesso mediante più condotte o comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”). La Corte può dichiarare l’illegittimità costituzionale di norme penali di favore che, in violazione di obblighi internazionali di incriminazione, sottraggano determinate classi di fatti alla sanzione penale prevista in via generale da un’altra legge statale, in particolare attraverso l’indebita previsione di cause di giustificazione, di scusanti o di cause di non punibilità -> in tali ipotesi, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma penale di favore contrastante con gli obblighi internazionali avrà come effetto quello di consentire l’automatica riespansione della norma incriminatrice generale, già prevista dal legislatore italiano in conformità ai propri obblighi internazionali. Il principio di riserva di legge ex art.25cost: - preclude la creazione di norme incriminatrici da parte della consuetudine (=consuetudine incriminatrice) - né vi è spazio per la consuetudine integratrice (cioè per il rinvio della legge alla consuetudine per l’individuazione di un elemento del reato). Il principio di gerarchia delle fonti impedisce impedisce, inoltre, alla consuetudine di produrre l’abrogazione di norme legislative incriminatrici (= consuetudine abrogatrice): le leggi, infatti, possono essere abrogate, in modo espresso o tacito, solo da leggi posteriori. Nessun rilievo si può, dunque, riconoscere alla prolungata disapplicazione di una norma incriminatrice. Le norme consuetudinarie possono, invece, essere fonte di cause di giustificazione (= consuetudine scriminante) in quanto oggetto della riserva di legge sono solo le norme incriminatrici: d’altra parte, in base al principio di gerarchia delle fonti, la consuetudine può assumere rilievo scriminante solo a condizione che sia richiamata da una norma di legge -> è il caso, ad es. art.896cc che consente l’ingresso nel fondo altrui quando sia finalizzato a raccogliere frutti caduti dei quali l’agente sia proprietario secondo gli usi locali. La riserva di legge non preclude il controllo di costituzionalità delle norme incriminatrici quando ne derivi un effetto in bonam partem = quello cioè di eliminare una figura di reato, di ridurne il campo di applicazione o di mitigare le sanzioni previste dalla legge -> né preclude il controllo di una legge di depenalizzazione che abbia irragionevolmente mantenuto in vita, come ipotesi di reato, fatti omogenei a quelli trasformati in illeciti amministrativi. La riserva di legge esclude invece, che, attraverso il sindacato sulle norme incriminatrici, la Corte costituzionale possa produrre un effetto in malam partem = possa cioè ampliare la gamma dei comportamenti penalmente rilevanti o inasprire il trattamento sanzionatorio di un reato -> esclude altresì che la Corte, sindacando la legittimità di norme che aboliscono un reato o lo trasformano in illecito amministrativo, faccia rivivere la figura di reato abolita o depenalizzata. Una ipotesi in cui la Corte può sindacare una norma che abbia abolito un reato, facendo rivivere la norma incriminatrice abrogata dal legislatore, è quella in cui tale norma rappresenti l’attuazione di un obbligo costituzionale espresso di incriminazione -> si pensi, ad es ad una norma che abolisse l’incriminazione contenuta nell’art.608cp (“abuso di autorità contro arrestati o detenuti”), attuativa dell’obbligo espresso di incriminazione art.13cost (“è punita ogni violenza fisica o morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”): in caso di accoglimento di una siffatta questione di illegittimità, la disposizione incriminatrice fatta rivivere dalla Corte costituzionale si applicherebbe a tutti i fatti commessi successivamente alla pronuncia della Corte, mentre per i fatti anteriori la sua applicazione sarebbe preclusa dal principio di irretroattività. La Corte costituzionale ritiene di poter sindacare la legittimità delle norme penali di favore, dichiarandone l’incostituzionalità (norme penali di favore = norme speciali introdotte nell’ordinamento in deroga a preesistenti norme generali, apprestando un trattamento più favorevole con tecniche disparate come ad es norme posteriori che introducono figure autonome di reato, attenuanti, cause di non punibilità, cause di giustificazione, etc.) -> tuttavia, si sottolinea che il sindacato di legittimità costituzionale su norme di favore non può essere il veicolo attraverso cui la Corte sostituisca proprie valutazioni politico-criminali a quelle espresse dal legislatore. Riserva di legge e atti del potere esecutivo Si pone il problema di stabilire se la riserva di legge ex art.25 debba intendersi come: - r.assoluta = nel senso che sarebbe riservata alla legge l’individuazione di tutti gli elementi del reato e del relativo trattamento sanzionatorio - r.relativa = nel senso che la legge potrebbe rinviare a una fonte di rango inferiore per l’individuazione del precetto e delle sanzioni - r.tendenzialmente assoluta = la legge potrebbe rinviare alla fonte sublegislativa solo per la specificazione sul piano tecnico di singoli elementi del reato già individuati dalla legge. Il problema si pone in termini diversi a seconda che si tratti: ° dei rapporti tra legge e atti normativi generali e astratti del potere esecutivo ° dei rapporti tra legge e provvedimenti individuali e concreti dell’esecutivo Quanto ai rapporti tra legge e atti normativi generali e astratti del potere esecutivo ((regolamenti, decreti ministeriali, etc.),: a) un primo orientamento -che si dichiara favorevole alla riserva assoluta, ma in realtà patrocina una lettura della riserva come relativa- ritiene legittima ogni forma di rinvio da parte della legge a una fonte subordinata: considera legittima, ad es. una norma di fonte legislativa che si limiti a prevedere una sanzione penale per la violazione di un precetto che, successivamente all’emanazione della legge, verrà interamente individuato da un regolamento. Questa impostazione comporta il totale svuotamento della riserva di legge: non il Parlamento, ma l’autorità amministrativa deciderebbe in ultima analisi, con atti normativi generali e astratti, quali siano le azioni e omissioni che vanno punite. b) un secondo orientamento -a favore del carattere relativo della riserva- riconosce che le norme generali e astratte emanate da fonti subordinate alla legge, sulla base di un rinvio contenuto nella norma legislativa, integrano il precetto, concorrendo a definire la figura del reato. Il principio affermato dall’art.25 sarebbe rispettato quando sia una legge a indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa, alla trasgressione dei quali deve seguire la pena -> tuttavia, il criterio della sufficiente specificazione è così vago da legittimare qualsiasi apporto degli atti generali e astratti dell’esecutivo nella configurazione dei reati: cosicché l’intento di salvare la ratio della riserva di legge risulta completamente fallito. c) una terza impostazione che utilizza la formula riserva tendenzialmente assoluta ritiene legittimo il rinvio della legge ad atti generali e astratti del potere esecutivo solo se quegli atti si limitano a specificare sul piano tecnico elementi già descritti dal legislatore. Rapporti di questo tipo tra legge e atto sublegislativo si delineano, ad es. nella disciplina degli stupefacenti: l’art.73 t.u. stup. vieta di coltivare, produrre, fabbricare sostanze stupefacenti o psicotrope in assenza di autorizzazione; le sostanze stupefacenti o psicotrope interessate dal divieto sono individuate in una tabella allegata alla legge (per il completamento e l’aggiornamento delle tabelle si rinvia ad un decreto del ministro della salute) -> in tal caso, il legislatore compie la scelta politico-criminale di vietare la coltivazione, il traffico, etc., di sostanze stupefacenti; mentre ha carattere tecnico l’apporto delle fonti sublegislative, giacché al Ministro si chiede solo di accertare quali siano le sostanze stupefacenti a cui vanno riferiti i divieti della legge. Si segnala, però, che l’art.73 vieta la detenzione non autorizzata di sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale: per la fissazione di tali limiti quantitativi la legge rinvia a un decreto del Ministro della salute, emanato di concerto con il Ministro della giustizia -> in tal caso, ciò che la legge demanda al potere esecutivo non è un’integrazione tecnica, ma una scelta politico-criminale, come tale in contrasto con il principio di riserva di legge in materia penale. Lo schema della riserva tendenzialmente assoluta merita approvazione, proprio perché il carattere solo tecnico dell’integrazione non comporta scelte politiche da parte dell’esecutivo. Quando la legge penale rinvia non ad atti amministrativi generali ed astratti da emanare successivamente, ma ad atti preesistenti, tale disciplina sarà legittima quando non permanga in capo all’autorità amministrativa il potere di modificare l’atto: in tal caso il rinvio ha carattere recettizio, nel senso che la legge recepisce il contenuto del preesistente atto amministrativo, facendolo proprio. Quando, invece, in capo alla P.A. permane il potere di modificare l’atto preesistente, la norma sarà illegittima, perché il rinvio deve intendersi come riferito a quell’atto e alle sue successive modificazioni (=rinvio mobile): in tal caso, la legge affida al potere esecutivo il compito di formulare in tutto o in parte la norma incriminatrice. Il rinvio risulta pertanto legittimo in una sola ipotesi: quando sia l’atto preesistente sia le sue successive modificazioni abbiano per oggetto la specificazione da parte del potere esecutivo di elementi di natura tecnica, già individuati dalla norma legislativa. Quanto ai rapporti tra legge e provvedimenti individuale e concreti del potere esecutivo non violano la riserva di legge le norme penali che sanzionano l’inottemperanza a classi di provvedimenti della PA (centrale o periferica): ad es. art.650cp (punisce chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragioni d’igiene) -> il singolo provvedimento amministrativo, del quale la legge punisce l’inottemperanza, è estraneo al precetto penale, perché non aggiunge nulla all’astratta previsione legislativa: è solo un accadimento concreto che va ricondotto nella classe di provvedimenti descritta dalla norma incriminatrice. Compatibili con la riserva di legge sono anche le norme penali che sanzionano l’inottemperanza a classi di provvedimenti dell’autorità giudiziaria: il singolo provvedimento giurisdizionale, al pari del singolo provvedimento amministrativo, non aggiunge nulla all’astratta previsione legislativa. Tuttavia, le norme che puniscono l’inosservanza di classi di provvedimenti amministrativi (o giudiziari) possono peraltro violare la riserva di legge sotto il profilo del principio di precisione che tende a porre un limite agli interventi discrezionali del potere giudiziario nell’individuazione dei fatti penalmente rilevanti -> ciò accade quando la classe di provvedimenti sia descritta dalla legge in modo impreciso: ad es. nell’art.650cp le classi di provvedimenti emanati dall’autorità per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o d’ordine pubblico; la genericità di queste formule comporta, infatti, che ogni singolo giudice debba integrare il precetto in violazione della riserva di legge, identificando a suo arbitrio quali siano i provvedimenti la cui inosservanza va sanzionata penalmente. Norme penali in bianco = norme penali il cui precetto è posto in tutto o in parte da una norma di fonte inferiore alla legge: la legge lascia cioè in bianco il contenuto del precetto, che si colora solo ad opera della fonte sublegislativa -> ne deriva che è costituzionalmente: * illegittima una norma il cui precetto, lasciato in bianco dalla legge, venga posto da un atto generale e astratto del potere esecutivo, a meno che l’apporto di quest’ultimo abbia carattere puramente tecnico. * legittima una norma che sanzioni l’inottemperanza di provvedimenti amministrativi individuali e concreti, purché la norma di fonte legislativa individui con precisione la classe di provvedimenti di cui reprime l’inosservanza Riserva di legge e potere giudiziario Per mettere al sicuro il cittadino dagli arbitri del potere giudiziario la riserva di legge impone al legislatore un triplice ordine di obblighi: 1) lo vincola a formulare le norme penali nella forma più chiara possibile = principio di precisione 2) a incriminare solo fatti suscettibili di essere provati nel processo = principio di determinatezza 3) a imporre al giudice il divieto di estensione analogica delle norme incriminatrici e a formulare le norme incriminatrici in modo rispettoso del divieto di analogia = principio di tassatività Questi principi sono parte integrante del principio di legalità e trovano il loro fondamento nell’art.25cost 1) il principio di precisione L’obbligo per il legislatore di disciplinare con precisione il reato e le sanzioni penali tende ad evitare che il giudice possa assumere un ruolo creativo: i confini tra lecito e illecito debbono essere posti in via generale ed astratta dal legislatore, e al giudice compete solo l’applicazione della legge. Oltre che espressione della divisione dei poteri, il principio di precisione è garanzia per la libertà e la sicurezza del cittadino, il quale solo in leggi precise e chiare può trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato. Il rispetto del principio di precisione è indispensabile per assicurare esigenze proprie del sistema penale: i) affinché la minaccia legislativa della pena operi come strumento di prevenzione generale: invero, perché la norma penale possa orientare il comportamento dei suoi destinatari è necessario che sia formulata in modo preciso, così da consentire al cittadino di sapere se il suo comportamento sarà sanzionato o meno ii) leggi imprecise non consentono di muovere all’agente un rimprovero di colpevolezza: la corte costituzionale ha ritenuto che si possa invocare a propria scusa l’erronea interpretazione della legge penale, quando l’errore sia stato provocato dalla assoluta oscurità del testo legislativo iii) solo norme incriminatrici precise assicurano all’imputato il pieno esercizio del diritto di difesa: una norma imprecisa impedisce di individuare l’oggetto dell’accusa e di fornire elementi di prova a discolpa. Le norme penali sono più o meno precise a seconda delle tecniche adottate dal legislatore nella loro formulazione -> il più elevato grado di precisione è assicurato dalla tecnica casistica = descrizione analitica di specifici comportamenti, oggetti, situazioni. Ad es.la norma sulle lesioni personali gravissime stabilisce che la lesione personale è gravissima se dal fatto deriva: ° una malattia certamente o probabilmente insanabile ° la perdita di un senso ° la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, o la perdita dell’uso di un organo, o della capacità di procreare, ovvero una permanente o grave difficoltà della favella ° la deformazione o lo sfregio permanente del viso Un rischio di imprecisione deriva dal ricorso a clausole generali, = formule sintetiche comprensive di un gran n. di casi, che il legislatore rinuncia ad enumerare e specificare -> si pensi, ad es a una norma che descrivesse le lesioni gravissime con una clausola generale del tipo “la lesione è gravissima se la persona viene lesa molto seriamente nel corpo o nella mente”. L’adozione di tale tecnica è comunque legittima a condizione che i termini sintetici impiegati dal legislatore consentano di individuare in modo sufficientemente certo le ipotesi riconducibili sotto la norma incriminatrice -> ad es. nella formulazione delle norme dell’omicidio, delle lesioni personali, dell’incendio, il legislatore ha legittimamente rinunciato a descrivere le molteplici condotte attraverso cui è possibile causare la morte, la malattia, l’incendio: il termine cagionare consente di individuare con sufficiente precisione le classi di condotte vietate, perché quel termine rinvia non al libero apprezzamento del giudice, bensì a leggi scientifiche, per mezzo delle quali il giudice potrà affermare o negare la sussistenza del rapporto di causalità fra una data azione e la morte, la malattia, l’incendio verificatisi nel caso concreto. Una tecnica coerente con il principio di precisione è il ricorso a definizioni legislative rese talora necessarie dai molteplici significati dei termini impiegati dal legislatore -> questa tecnica è impiegata sia nella parte generale (dove, ad es. si definiscono il dolo, la colpa, il tentativo, etc) sia nella parte speciale. Nella parte speciale spesso si definiscono termini ricorrenti in diverse norme incriminatrici (si pensi, ad es. alla definizione dei termini pubblicamente, prossimi congiunti etc); altre volte il legislatore definisce termini presenti in singole disposizioni incriminatrici (si pensi, ad es., lla definizione di adescamento o alla definizione di immagini virtuali). Talora, il legislatore individua gli elementi del reato con termini/concetti descrittivi = termini che fanno riferimento, descrivendoli, a oggetti della realtà fisica o psichica, suscettibili di essere accertati con i sensi o comunque attraverso l’esperienza. L’impiego di concetti descrittivi non garantisce il rispetto del principio di precisione, giacché alcuni concetti descrittivi presentano una zona grigia che rende impossibile l’esatta individuazione dei fatti ai quali il termine fa riferimento -> in tal caso, la norma sarà illegittima per contrasto con l’art.25. Altre volte un elemento del reato è individuato dal legislatore attraverso un concetto normativo = concetto che fa riferimento ad un’altra norma, giuridica (ad es: altruità, matrimonio avente effetti civili) o extragiuridica (ad es.: osceno, atti sessuali, onore, decoro, reputazione, morale familiare) -> tale tecnica è compatibile con il principio di precisione a una duplice condizione: il concetto normativo non deve dare adito ad incertezze ° né in ordine all’individuazione della norma richiamata ° né in ordine all’ambito applicativo e al contenuto di tale norma Questa duplice esigenza è per lo più rispettata quando la norma richiamata è una norma giuridica. Quanto agli elementi individuati con il rinvio a norme extragiuridiche il principio di precisione è tendenzialmente rispettato quando il rinvio riguarda norme tecniche (ad es., le regole dell’arte dell’oculista) mentre sono imprecisi gli elementi individuati con il richiamo a norme etico-sociali, per il loro carattere vago -> si pensi, ad es “agli attentati alla morale familiare commessi col mezzo della stampa periodica”: non è chiaro se con la formula morale familiare la legge faccia riferimento alla sola morale sessuale o no. Il principio di precisione nella giurisprudenza La corte costituzionale ha sempre visto il fondamento del principio di precisione nell’art.25 obbligando il legislatore a formulare norme chiare e precise -> tuttavia, la Corte per lungo tempo ha rigettato le censure di imprecisione mosse dai giudici di merito nei confronti di questa o di quella norma incriminatrice, affermando, ad es. che i termini usati dal legislatore sono diffusi e generalmente compresi; solo più tardi, la Corte ha valorizzato il principio di precisione, non solo sul piano delle enunciazioni di principio, ma anche dichiarando costituzionalmente illegittime talune norme sottoposte al suo sindacato. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma che puniva lo straniero destinatario di un provvedimento di espulsione che non si adopera per ottenere dalla competente autorità diplomatica o consolare il rilascio del documento di viaggio occorrente -> nel motivare la propria decisione, la Corte ha affermato che l’espressione di “non adoperarsi per ottenere il rilascio del documento di viaggio” impedisce di stabilire con precisione quando l’inerzia del soggetto raggiunga la soglia penalmente apprezzabile. Non risulta difatti in alcun modo possibile stabilire (data la generica indicazione nella fattispecie incriminatrice) né il grado dell’inerzia punibile, né il tempo entro il quale la condotta doverosa ipotizzata dal legislatore debba essere compiuta -> per tali ragioni, per la Corte, la norma non è rispettosa del principio di precisione, rimanendo la sua applicazione affidata all’arbitrio dell’interprete. Talvolta, il principio di precisione viene è valorizzato anche come criterio interpretativo delle norme penali, che impone al giudice di optare tra i diversi possibili significati di una norma per quello che meglio soddisfa le esigenze di precisione: e tale indicazione di metodo si coniuga spesso con un richiamo al contesto in cui si inserisce la singola disposizione. -> ad es la corte nel 2010 aveva salvato la norma incriminatrice dell’art.75 decreto legislativo 158/2011 (codice antimafia) in cui si punisce l’inosservanza delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale e della prescrizione di vivere onestamente. Secondo la Corte, la prescrizione di vivere onestamente, se valutata in modo isolato, appare generica e suscettibile di assumere una molteplicità di significati; tuttavia, se è collocata nel contesto di tutte le altre prescrizioni (e se si considera che è elemento di una fattispecie integrante un reato proprio, il quale può essere commesso solo da un soggetto già sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno) assume un contenuto più preciso, risolvendosi nel dovere imposto a quel soggetto di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso di prescrizioni. Anche la cassazione si è misurata con il principio costituzionale di precisione, quale criterio interpretativo di disposizioni incriminatrici -> a proposito dell’inosservanza delle prescrizioni di vivere onestamente la Corte di cassazione ssuu ha preso le distanze dalla sentenza della Corte costituzionale del 2010, che aveva salvato la disposizione. Pertanto, ssuu hanno affermato che gli obblighi e le prescrizioni devono avere un contenuto determinato e specifico; caratteri che difettano nelle prescrizioni di vivere onestamente e rispettare le leggi, la cui genericità dimostra l’assoluta inidoneità ad integrare il nucleo di una norma penale incriminatrice. Anche la corte EDU aveva sottolineato il carattere estremamente vago e indeterminato di quelle prescrizioni -> si precisa, inoltre, che la corte costituzionale nel 2019 preso atto della sentenza de Tommaso della Corte EDU e della sentenza Paternò delle sezioni Unite, ha preso le distanze dalla precedente decisione del 2010. Tuttavia, non mancano ipotesi in cui la cassazione, pur a fronte di concetti imprecisi, non solleva questione di legittimità costituzionale, fornendo una lettura della norma incriminatrice che si sostanzia in una sua riscrittura con usurpazione del ruolo del legislatore -> ad es con la sentenza Biondi, la Corte ha tradotto la formula “quantità ingenti” di sostanze stupefacenti, presente nell’art.80 t.u stup. in “quantità pari o superiore a duemila volte il valore massimo in milligrammi determinato per ogni sostanza” dal decreto ministeriale che individuava la soglia oltre la quale la detenzione non poteva essere considerata rivolta ad uso esclusivamente personale. La corte di cassazione ha reso precisa una locuzione imprecisa, ricavando un limite quantitativo numerico dal diritto vivente. Il principio di precisione e recente legislazione penale Anche la legislazione sembra più attenta al rispetto del principio di precisione -> ad es: - la norma sull’usura ha agganciato a parametri numerici fissati dalla legge il concetto di interessi usurari, che nella disciplina previgente era abbandonato all’arbitrio di ogni singolo giudice. L’interesse è usurario quando eccede di 1/4 aumentato di ulteriori 4 punti percentuali, quello rilevato trimestralmente per quella classe di operazioni dal Ministro dell’Economia con decreto - la riforma dell’abuso d’ufficio ha individuato le condotte abusive sulla base del contrasto con precise norme di legge o di regolamento, precludendo al giudice di considerare penalmente rilevanti anche comportamenti individuati attraverso gli elastici parametri dell’eccesso e dello sviamento di potere o attraverso i principi di imparzialità e buon andamento della P.A. - nella norma della riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù si è chiarito che per: ° schiavitù deve intendersi la sottoposizione di una persona a poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ° per servitù uno stato di soggezione continuativa, per effetto del quale una persona è costretta a prestazioni lavorative o sessuali, o all’accattonaggio o al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento o a sottoporsi al prelievo di organi. Si è precisato che la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona. 2) il principio di determinatezza Con il principio di determinatezza si esprime l’esigenza che le norme penali descrivano fatti suscettibili di essere accertati e provati nel processo. Come ha sottolineato la Corte costituzionale, per mettere il cittadino al riparo dagli arbitri del giudice, non basta che la norma abbia un contenuto intellegibile ma occorre altresì che essa rispecchi una fenomenologia empirica verificabile nel corso del processo sulla base di massime d’esperienza o di leggi scientifiche. La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima per contrasto con il principio di determinatezza la norma incriminatrice del plagio che puniva “chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione” -> pur essendo chiaro il significato del precetto, secondo la Corte, non si conoscono né sono accertabili i modi con cui si può effettuare l’azione psichica del plagio né come è raggiungibile il totale stato di soggezione che qualifica questo reato. Per contro, la Corte costituzionale, in una sentenza del 2014, nel rigettare una questione di legittimità costituzionale relativa al delitto di atti persecutori ha ritenuto che la disposizione incriminatrice di cui all’art.612 non contrasti con il principio di determinatezza: reiterate minacce e molestie che comportino eventi quali un perdurante stato d’ansia o di paura ovvero un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o l’alterazione delle proprie abitudini di vita, secondo la Corte, integrano comportamenti effettivamente riscontra