Dispensa Logistica - PDF
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University of Naples Federico II
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This document discusses different types of production management systems, ranging from traditional Fordism to more modern, networked models. It analyzes the relationship between production complexity and market demand, especially in terms of factors such as consumer behavior and purchasing power. The document examines how market characteristics affect the selection of appropriate production strategies, such as 'push' (make-to-stock) or 'pull' (make-to-order) methods.
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IL MANAGMENT DELLA PRODUZIONE E DELLA LOGISTICA CAPITOLO 1. LE TIPOLOGIE DI PROCESSO PRODUTTIVO 1. EVOLUZIONE DEI SISTEMI DI GESTIONE DELLA PRODUZIONE Nell’arco di pochi decenni, si è elevato il grado di complessità e dinamismo della domanda, accorciando i cicli di vita di prodotti e sett...
IL MANAGMENT DELLA PRODUZIONE E DELLA LOGISTICA CAPITOLO 1. LE TIPOLOGIE DI PROCESSO PRODUTTIVO 1. EVOLUZIONE DEI SISTEMI DI GESTIONE DELLA PRODUZIONE Nell’arco di pochi decenni, si è elevato il grado di complessità e dinamismo della domanda, accorciando i cicli di vita di prodotti e settori industriali. Naturalmente, tutto ciò ha dato corpo a profondi ripensamenti sul versante dell’offerta, che si è dovuta misurare con problemi di management completamente nuovi, dovuti all’aumento incontrollabile della pressione competitiva, senza più le “certezze” derivanti dalla prospettiva del medio-lungo termine. Si ritiene necessario affrontare il tema dell’evoluzione dei sistemi industriali facendo ricorso all’approccio ormai classico che analizza il problema confrontando i tratti salienti del fordismo e del post-fordismo. -> Contrariamente alla fase del fordismo, la cui caratteristica principale era la produzione industriale di massa basata sull’impiego di lavoro ripetitivo che aveva progressivamente perso qualifiche e specializzazioni, il postfordismo si caratterizza per l’adozione di tecnologie e criteri organizzativi che pongono nuova enfasi sulla specializzazione, qualificazione e flessibilità dei lavoratori. L’industria, abbandonata la tradizionale produzione di massa, acquista maggiore flessibilità produttiva e organizzativa, adeguando la propria offerta a una domanda, in particolare di beni di consumo, sempre più diversificata e soggetta a cambiamenti anche molto improvvisi. Negli anni, dunque, sono nati nuovi modelli di gestione della produzione (oltre quello fordista classico). In estrema sintesi, i modelli di gestione della produzione possono assumere caratteristiche differenti a mano a mano che variano il grado di complessità della domanda di beni e servizi e il livello di intensità della pressione competitiva sotto il vincolo della disponibilità di saperi e competenze scientifiche innovative sul piano tecnologico, manageriale e organizzativo. Volendo schematizzare, è possibile ricorrere a una matrice (tabella 1) attraverso la quale si definiscono, seppur in modo più “statico”, i tratti essenziali di quattro tipologie di organizzazione e gestione delle attività produttive. 1) Modelli fordisti “classici”: Pressione: Bassa / Complessità della domanda: Bassa. Quadrante: BB. Nasce con l'avvento della rivoluzione industriale; la fabbrica fordista ha costruito il suo successo sulla standardizzazione delle proposte di marketing e dei processi operativi; questa filosofia di gestione tipica delle imprese orientate al prodotto, ha rappresentato per lunghi anni la risposta più efficiente e remunerativa del sistema produttivo alle necessità di un mercato di consumo in larga parte omogeneo. In particolare, le imprese collocano nel mercato grandi quantitativi di prodotti indifferenziati, limitando quindi la profondità della gamma. Questo permetteva di ottenere dei vantaggi di costo di produzione notevoli. Ancora oggi il modello ispirato alle scelte industriali di Ford è considerato, seppure con i dovuti adeguamenti di natura tecnologica, sindacale e ambientale, la migliore soluzione organizzativa per la gestione di iniziative industriali nei settori meno condizionati dai comportamenti dei consumatori sempre più desiderosi di varietà e novità. Il governo delle imprese fordista tradizionali una volta “messe a punto” le regole di gestione fondamentale, può fare affidamento su procedure organizzative e meccanismi di coordinamento e controllo sofisticati sul piano tecnico, che, però, una volta standardizzati e interiorizzati dal management, possono essere applicati a problematiche spesso ripetitive per le quali esiste generalmente un bagaglio di esperienze aziendali a cui fare riferimento. Ciò, evidentemente, in un certo senso semplifica e snellisce compiti direzionali. 2) Modelli fordisti “high scale and technology intensive (alta scala e tecnologia intensiva)”: Pressione: Alta / Complessità della domanda: Bassa. Quadrante: AB. Questi modelli si adottano quando, rispetto ai modelli classici, l’intensità della concorrenza (pressione competitiva) è maggiore. Ciò favorisce, da un lato, lo sviluppo e l’introduzione in azienda delle innovazioni tecnologiche più adatte a sostituire il lavoro umano con quello dei macchinari in grado di far crescere la quantità di operazioni realizzate nell’unità di tempo e, dall’altro, la sperimentazione continua di metodologie di gestione delle risorse umane finalizzate a ridurre i “tempi morti”, aumentando quanto più possibile livelli di produttività del lavoro. In questi modelli, prevale nell’impostazione della fabbrica, il vincolo del costo di produzione, che la pressione competitiva rende sempre più stringente nella “lotta” per l’acquisizione e la difesa degli spazi di mercato e dei margini di redditività. 3) Modelli fordisti “flessibili”: Pressione: bassa / Complessità della domanda: Alta. Quadrante: BA. Nei casi in cui, invece, l’impresa pur riuscendo a operare al riparo dagli attacchi della concorrenza (pressione competitiva bassa), si trova a dover fronteggiare un mercato che esprime bisogni estremamente variegati e mutevoli, si adottano politiche industriali basate sull’utilizzo diffuso di tecnologie di produzione capaci di conferire al sistema una struttura più flessibile. In situazioni come questa, dunque, il cliente assume ruolo molto più importante e si pone al centro di tutti i processi decisionali e di gestione aziendale. Anche la gerarchia degli obiettivi delle finalità imprenditoriali assume una caratterizzazione del tutto diversa che vede al primo posto la customer satisfaction, intesa come condizione necessaria per poter raggiungere risultati economico-finanziari soddisfacenti. 4) Modelli reticolari: Pressione: alta/ Complessità della domanda: Alta. Quadrante: AA. In un contesto di elevato grado di complessità della domanda e allo stesso tempo di elevato grado di pressione competitiva i modelli reticolari favoriscono operazioni di ridefinizione dei confini dell’impresa finalizzate al ridimensionamento del business gestito e alla focalizzazione sulle attività considerate a maggior valore aggiunto sul piano sia tecnico sia strategico. Si formano così dei veri e propri reticoli di imprese, ognuna specializzata nella gestione di “compiti” a scala più ridotta, sinergici rispetto al sistema che li ha originati e che li governa, ma nel contempo sufficientemente liberi di proporsi al mercato con una propria autonomia strategica e dignità di business. In questi casi, quindi le imprese si inseriscono in una rete di imprese. 2. COMPLESSITÀ DELLA DOMANDA E PRESSIONE COMPETITIVA Per analizzare in maniera più approfondita i sistemi di gestione della produzione è necessario specificare un ambito industriale di riferimento, ovvero un raggruppamento di settori che presentino caratteristiche di sostanziale omogeneità nel comportamento di acquisto, indipendentemente dalle specificità merceologiche, tecnologiche strutturali. Seguendo questo ragionamento il mondo dell'industria può essere suddiviso in due cluster: 1. quello dei settori in cui prevalgono i comportamenti di acquisto cosiddetti banali; 2. a cui si contrappone quello in cui sono più frequenti, invece, i comportamenti definiti in letteratura con il termine problematici. Fatto ciò, è possibile procedere a un esame critico dei modelli di gestione della produzione, finalizzato a evidenziare la natura della correlazione tra il grado di sviluppo economico dei sistemi sociali (espresso dal livello di avanzamento della scienza e della tecnologia e dal potere di acquisto dei consumatori) e le modalità con cui si è manifestata la domanda di mercato (con riferimento a entrambi i raggruppamenti dei settori banali e problematici). 1. Nei settori banali-> 1) lo sviluppo economico si basa: valore unitario degli acquisti modesto, ovvero basso, scarsa disponibilità del cliente ad aspettare, marketing indifferenziato, ciclo di vita del prodotto medio- lungo, rischi di invenduto minimi; 2) modelli di gestione sono: produzione “on forecast (sulle previsioni)” (push/make to stock), impresa integrata, automazione, standardizzazione dei processi, modelli orientati all’efficienza. 3) complessità della domanda: stazionaria/calante. 2. Nei settori problematici-> 1) lo sviluppo economico si basa: valore unitario degli acquisti elevato, disponibilità del cliente ad aspettare, marketing differenziato/focalizzato, ciclo di vita dei prodotti breve, rischi di invenduto elevati; 2) modelli di gestione sono: produzione “on demand” (pull/make to order), impresa reticolata, gestione snella e flessibile, modelli orientati all’efficacia. 3) complessità della domanda: crescente. Vediamo ora nel dettaglio, lo sviluppo economico, la complessità della domanda i modelli di gestione della produzione nei settori problematici: quando si esce dal comparto del largo consumo, invece, le merceologie (arredamento, automobili, gioielleria, abbigliamento elegante) presentano in media un valore unitario molto più elevato e, di conseguenza, gli acquisti sono effettuati solitamente più di rado, ovvero o meno spesso, a seguito di processi di ricerca più complessi e articolati in cui prevalgono aspetti come l'informazione, la comparazione, la fiducia, che ne caratterizzano appunto la natura problematica. In questi casi, pertanto, il consumatore spinge il mondo dell'offerta a effettuare grandi investimenti in ricerca e sviluppo di innovazioni in grado di rendere il prodotto sempre più ricco di contenuti su cui fondare efficaci e concrete strategie di differenziazione. Analizzando invece l'evoluzione dal lato della domanda notiamo che il consumatore col tempo è diventato più esperto ed esigente. In sintesi, nei settori in cui prevalgono i comportamenti di acquisto cosiddetti problematici, si presenta in genere la necessità di dover fronteggiare una domanda particolarmente complessa sul piano della richiesta sia di varietà sia di novità; tale circostanza costringe le imprese ad avviare sperimentazioni nell'ambito del management dei processi produttivi basate sulla ricerca dell'equilibrio ottimale tra specificità di mercato, compressione del lead time (intervallo di tempo necessario ad un'azienda per soddisfare una richiesta del cliente), efficienza delle operazioni, condivisione del rischio d'impresa e adeguamento dei meccanismi organizzativi di coordinamento e controllo. A mano a mano che il mercato manifesta esigenze di consumo più sofisticate e mutevoli, in particolare nei settori in cui prevalgono i comportamenti di acquisto problematici, l'offerta industriale non può sottrarsi all'obbligo di ricercare soluzioni manageriali innovative. Si afferma, pertanto, la necessità di ibridare ovvero incrociare, in modo sapiente e originale modelli di produzione di grandi serie (produzioni di massa) con dosi massicce di logiche tipiche dei sistemi di lavorazioni cosiddetti job (produzioni su commessa). In figura 4 si riporta a una sistematizzazione delle principali tipologie di modelli di gestione della produzione. Le variabili utilizzate per classificare la complessa varietà di soluzioni manageriali utilizzabili per governare le attività di produzione sono molteplici: il grado di personalizzazione della gamma produttiva, la quantità di tempo concesso dalla clientela potenziale per realizzare materialmente il bene oggetto di vendita (il cosiddetto lead time concesso dalla domanda), l'incidenza del costo di acquisto dell’output realizzato sulla disponibilità di reddito da destinare agli acquisti della clientela -> Pertanto, in basso a sinistra si troveranno le soluzioni adottate per realizzare, con una logica tipicamente push (prima), beni di massa standardizzata, per i quali il mercato non è disposto ad aspettare per acquistarne la disponibilità e che non richiedono sforzi economici significativi per essere acquistati; si tratta, in genere, di produzioni caratterizzate da cicli produttivi a fasi continue. -> All'opposto, invece, in alto a destra, si trovano i modelli che adottano soluzioni organizzative più flessibili, più adatte a realizzare unità di prodotto ad elevata intensità di personalizzazione (logica pull, dopo), per i quali il mercato è disposto a concedere lunghi i tempi di attesa e a sacrificare quoti rilevanti reddito disponibile pur di essere accontentato. Push significa spingere, ovvero gestire processi in anticipo rispetto al fabbisogno dei clienti. Pull, ovvero tirare, significa fare, al contrario, un'azione su richiesta. In una gestione rigorosamente pull, l'ingresso dei prodotti in produzione non è anticipato rispetto agli ordini. 3. LE VARIABILI RILEVANTI NELLA SCELTA DEI MODELLI DI GESTIONE DEI PROCESSI PRODUTTIVI La gestione della produzione riguarda la progettazione, l'implementazione, la manutenzione e il miglioramento continuo di sistemi integrati di risorse (uomini, macchine, materiali e denaro). Un processo produttivo scaturisce da una serie di valutazioni relative a fattori prettamente tecnici (“quale può essere la macchina utensile più adatta allo svolgimento di una questa lavorazione?”, “Quale materia prima va utilizzata?”) ovvero più propriamente economico-aziendali (“quale può essere il ritorno potenziale di questo investimento?”). Nella letteratura sono diversi gli approcci utilizzati per schematizzare le tipologie di sistemi produttivi. Naturalmente, il tentativo di classificazione necessariamente semplifica la realtà, la quale perciò spesso risulta non coincidente in modo perfetto con nessuna delle categorie riconosciute. infatti, accade spesso che i manager siano indotti ad adottare soluzioni ibride (miste), proprio a causa della notevole complessità delle situazioni che sono chiamati a gestire, le quali chiamano in causa un numero di variabili spesso più elevato di quanto i modelli teorici riescano a spiegare. 3.1. LA CONTINUITÀ DEL PROCESSO Un aspetto cruciale nella progettazione e nell'analisi di un processo produttivo è il grado di connessione tra le unità produttive; vi possono essere casi in cui: 1. le attività svolte in ogni fase avvengono in sequenza e; 2. all'estremo opposto, casi nei quali ciascuna delle attività viene isolata da quelle che la precedono e/o la seguono, attraverso l'interposizione di buffer. Lungo il processo produttivo, l'interposizione di un buffer permette di attutire le conseguenze della variabilità di una fase rispetto all'altra. Un buffer può essere un magazzino o anche una coda d'attesa. La presenza di buffer all'interno del processo distingue il processo produttivo intermittente da quello continuo: 1. Il flusso continuo è caratterizzato dalla presenza di un buffer posso solo all'inizio e alla fine dell'intero ciclo delle attività di trasformazione svolte all'interno dell'impresa; 2. Al contrario, il flusso intermittente caratterizzato dalla presenza di magazzini intermedi che separano gruppi di operazioni a monte (prima) da altri gruppi a valle del processo. È evidente che, in quest'ultima fattispecie, si rischia di vedere aumentare i tempi di attesa, di attrezzaggio e di spostamento dei materiali, rispetto a quelli di lavorazione. 3.2. I VOLUMI DA PRODURRE E LA GAMMA DI VENDITA L'ampiezza e la profondità della gamma hanno senz'altro un'influenza notevole sull'organizzazione del processo produttivo. Profondità della gamma di vendita: 1. Un prodotto con poche varianti, che difficilmente cambia le sue caratteristiche sostanziali in breve tempo, semplifica la scelta produttiva e d'impianto. Questa impostazione caratterizza, ad esempio, le produzioni linea, che richiedono investimenti rilevanti, dedicati a specifiche produzioni, che inevitabilmente irrigidiscono il sistema delle operazioni di fabbrica; la praticabilità di queste scelte è senz'altro condizionata dalla capacità di sviluppare elevati volumi di vendita. 2. Viceversa, per le imprese che adottano politiche di marketing basate sulla differenziazione e sul rinnovamento continuo della gamma di vendita e che hanno la necessità di procedere frequentemente ad aggiustamenti più o meno radicali dell'impostazione produttiva, è più adeguato un modello a flusso flessibile, che per sua natura si presta a essere adattato alle caratteristiche del prodotto da realizzare. Volumi da produrre: Anche i volumi mediamente realizzati per ciascuna tipologia di prodotto rilevano nella scelta del grado di flessibilità degli impianti di produzione; accade, pertanto, che i modelli di gestione della produzione con flusso in linea possono dare performance migliori rispetto a quelle cosiddetti a flusso flessibile, allorquando la gamma produttiva è ristretta e i volumi da realizzare sono consistenti (grandi). La scelta del processo produttivo può dipendere anche da considerazioni che riguardano il ciclo di vita del prodotto che si vuole realizzare; così, ad esempio, con il passare dalla fase di introduzione a quella di sviluppo, l'impresa si trova nella condizione di dover gestire volumi sempre più consistenti (grandi). Il modo in cui un processo produttivo è progettato è altresì influenzato dalle dimensioni fisiche dell'output da produrre. È intuibile, infatti, che le modalità con cui viene realizzato un veicolo o una nave da crociera sono condizionate dalla mole (volume molto notevole) del prodotto e di alcuni dei suoi componenti, più di quanto non accada ad esempio per la produzione di viti e bulloni. 3.3. LE LOGICHE PUSH E PULL I processi produttivi possono essere classificati in relazione al momento in cui materialmente si attivano: può avvenire, infatti, che le attività di produzione siano avviate soltanto dopo aver acquisito gli ordinativi; oppure può accadere che esse partano in base alle previsioni di vendita, anticipando anche notevolmente il momento dell'acquisizione degli ordini. 1. Nel primo caso, si rientra nell'ambito delle produzioni su ordine (make to order), caratterizzate da cicli di lavorazione condizionati (nei volumi e nelle differenziazioni produttive) dalle richieste di mercato (secondo la logica pull). 2. Nel secondo caso, i processi sono guidati dalle previsioni, e si opera in make to stock (seguendo la logica push). Esempio di logica pull: la produzione di veicoli ferroviari si attiva dopo ricevimento dell'ordine; generalmente le commesse contengono indicazioni specifiche in quanto a prestazioni tecniche, standard qualitativi, dimensioni dell'output, il che richiede una elevata capacità di adattamento del sistema produttivo. 4. LE TIPOLOGIE DI PROCESSO PRODUTTIVO 4.1. PRODUZIONE PER PROGETTO E PRODUZIONE SU COMMESSA (JOB) 1. Produrre per progetto vuol dire lavorare a un esemplare unico di prodotto (una diga, una grande nave portacontenitori, ecc.) al quale destinare per un certo tempo risorse specializzate che dovranno essere opportunamente coordinate. 2. Anche la produzione su commessa (job) può essere eventualmente costituita da un singolo prodotto (commesse singole), anche se più frequentemente si tratta di un numero moderatamente elevato di pezzi (commesse ripetitive) (ad esempio, le auto “fuoriserie”); ciò che davvero distingue questo tipo di produzione da quella per progetto risiede nella minore complessità e nel valore dell’output relativamente più contenuto. Nella produzione su progetto e in quella su commessa, i macchinari sono flessibili, poco specializzati e la capacità produttiva e i compiti affidati al personale sono variabili. 4.2. PRODUZIONE OMOGENEA E PRODUZIONE RIPETITIVA Le produzioni ripetitive e quelle omogenee sono caratterizzate da volumi molto consistenti e da varietà, invece, contenuta. La produzione ripetitiva si distingue da quella omogenea per la tipologia di output: 1. Nel primo caso (ripetitiva), si realizzano unità di prodotto distinte e commercializzabili singolarmente (lamette da barba, quindi a sfera, gelati, ecc.); 2. Mentre le produzioni del secondo tipo (omogenea) generano veri e propri flussi di beni che si trasformano in unità vendibili di dimensioni e natura variabile in funzione delle decisioni riguardanti il packaging e la distribuzione. 4.3. PRODUZIONE DISCONTINUA (BATCH O A LOTTI) Nella realtà industriali che adottano modelli di produzione discontinua (produzione batch o a lotti), l’output è realizzato in quantità elevate, ma nello stesso tempo risulta considerevolmente differenziato in quanto a modelli/varianti (abbigliamento; elettrodomestici; ecc.); in questi casi, la produzione è organizzata per gruppi (i lotti, appunto) omogenei in relazione a determinate caratteristiche. 4.4. PRODUZIONE IN LINEA Si definisce produzione “in linea” l’organizzazione del processo caratterizzata da una disposizione dei macchinari in sequenze, dettata dalla necessità di ciclo tecnologico. La movimentazione dei materiali e dei semilavorati avviene mediante linee transfert automatizzate che permettono considerevoli economie di spazio e di tempi di percorrenza, e un robusto ridimensionamento e controllo dei work in progress in giacenza (giacenze di prodotti in lavorazione). 5. ALCUNE RIFLESSIONI SULLE TIPOLOGIE DI PROCESSO É nell’intensità e nella natura della personalizzazione che vanno ricercate le prime fondamentali differenze tra l’output dei modelli job (su commessa) e bath (a lotti). 1. Nel primo caso, il sistema di produzione è interamente creato e gestito sulla base delle indicazioni fornite da chi ordina il prodotto, che formula le proprie richieste senza alcun condizionamento sostanziale da parte di chi avrà il compito di accontentarlo. 2. Un prodotto realizzato mediante la produzione batch, al contrario, è destinato a clienti che l’impresa non conosce nel momento in cui avvia gli investimenti industriali. Inoltre qui, in genere, le opzioni di varietà sono comunque più limitate rispetto alla completa personalizzazione delle lavorazioni job (su commessa). I costi di alimentazione delle linee di produzione e di assemblaggio (movimentazioni di materiali e componenti, magazzini “polmone”, ecc.), non sempre possono essere compressi al di sotto di certi valori “soglia”, se non si vuole compromettere la funzionalità tecnica delle operazioni e l’equilibrio (sociale e sindacale) nella gestione delle risorse umane a esse dedicate. CAPITOLO 2. SCELTE STRATEGICHE DI GESTIONE DELLA PRODUZIONE E DELLA LOGISTICA 1. POST-FORDISMO E DECENTRAMENTO PRODUTTIVO Ricerca utile di Post-Fordismo-> Contrariamente alla fase del fordismo, la cui caratteristica principale era la produzione industriale di massa basata sull’impiego di lavoro ripetitivo che aveva progressivamente perso qualifiche e specializzazioni; il post-fordismo si caratterizza per l’adozione di tecnologie e criteri organizzativi che pongono nuova enfasi sulla specializzazione, qualificazione e flessibilità dei lavoratori. L’industria, abbandonata la tradizionale produzione di massa, acquista maggiore flessibilità produttiva e organizzativa, adeguando la propria offerta a una domanda, in particolare di beni di consumo, sempre più diversificata e soggetta a cambiamenti anche molto improvvisi. Decentramento produttivo-> Fenomeno per cui determinate produzioni, o processi di produzione, che in passato venivano realizzati all'interno di un'impresa vengono affidati a fornitori esterni; per es., una grande impresa automobilistica affida a piccole imprese satelliti la produzione di singole parti dell'automobile. Dal frazionamento (decentramento) dei processi produttivi, finalizzato a generare economie di specializzazione e a dare vita ad assetti strutturali più flessibili, derivano esigenze di movimentazione di materiali, semilavorati e prodotti finiti assolutamente e nuove. Cresce la domanda di logistica (insieme di operazioni finalizzate a ottimizzare i flussi fisici di materiali e quelli delle informazioni che li riguardano), poiché gli stabilimenti integrati tradizionali si diffondono sul territorio, in seguito alle tendenze delocalizzative; di conseguenza, aumentano le esigenze di spostare i materiali all’interno di nuovi sistemi di produzione, e di gestirli in modo che si siano disponibili dove e quando servono, nelle quantità giuste. Tutti questi fenomeni contribuiscono a crescere l’importanza delle operazioni logistiche di supporto ai processi di produzione, che determinano le seguenti direttrici di sviluppo: -Aumento, a parità di volume di output finale realizzati, di trasporti in termini di numeri di viaggi, per effetto dei cambiamenti in corso nei modelli di gestione della produzione (disgregazione dei processi produttivi). -Nuove opportunità di business per gli operatori del trasporto. -Nascita di un vero e proprio settore dei servizi di logistica e di Supply chain management (gestione della catena di fornitura), che vede al suo interno la presenza di imprese capaci di costruire un sistema integrato di operazioni di supporto al manufacturing (produzione). ****RICORDA LA DIFFERENZA TRA SUPPLY CHAIN (CATENA DI FORNITURA) E LA LOGISTICA: 1. La supply chain riguarda tutti gli elementi che riguardano l'approvvigionamento fino alla consegna del prodotto al cliente finale e quindi prevede una serie di combinazioni di attori che intervengono nei variprocessi. 2. Mentre con il termine logistica si vuole indicare l’insieme di operazioni finalizzate a ottimizzare i flussi fisici di materiali e quelli delle informazioni che li riguardano, che si generano per effetto delle attività d’impresa; essa si occupa dunque di tutte le attività che ruotano intorno ai materiali, magazzino e trasporti. **** I sistemi di produzione orientati alla “atomizzazione” (scomposizione) dei processi operativi, per funzionare correttamente, richiedono figure professionali in grado di assicurarne fluidità, sincronizzazione e stabilità ai flussi di beni e di informazioni gestiti con la partecipazione di un numero crescente di soggetti sostanzialmente autonomi. 2. IL MANAGMENT DELLA PRODUZIONE E LE RETI La produzione su commessa può essere considerata un obiettivo perseguibile sul piano anche tecnico ed economico. Chiaramente, ciò accade per prassi nei settori in cui si realizzano beni su commessa di elevato valore unitario (aerei, treni, impianti industriali, ecc.), per i quali è possibile allestire di volta in volta il “cantiere” più adatto a soddisfare le richieste di mercato, sviluppando al massimo le economie di scala nelle fasi del processo produttivo. In questi casi, la scomposizione, tempificazione e sequenzializzazione del ciclo operativo devono essere compiute considerando che la porzione di lead time compresa tra l’avvio delle attività finali di assemblaggio e la consegna del prodotto al cliente dovrebbe essere ponderata con attenzione per evitare di uscire dai “limiti” stabiliti dalla committenza (il soggetto che ha formulato l'ordine). Quest’ultima, infatti, non sempre è disposta a fare ulteriori concessioni se non previa revisione a ribasso del prezzo pattuito. A ciò vanno aggiunti gli eventuali vincoli posti dal fornitore in merito ai tempi di consegna, che in alcuni casi possono essere talmente lunghi da costringere le imprese clienti a programmare gli ordini con larghissimo anticipo rispetto al momento in cui i beni acquistati devono entrare nel ciclo produttivo. Naturalmente, qualunque attività produttiva che si pone l’obiettivo di realizzare output caratterizzanti da fattori di differenziazione via via maggiori, devi mettere in conto necessità di tempo superiori. La produzione può essere realizzata ricorrendo al contributo specialistico di un insieme di soggetti economici collegati da rapporti contrattuali, coordinati e stabilizzati da chi assume la leadership della rete; la soluzione reticolare (capitolo 1), se ben progettata ed equilibrata nelle sue componenti, può garantire un innalzamento degli standard di efficienza. Alla rete di fornitori di primo livello è demandato il compito di produrre innovazioni (tecnologia, materiali, efficienza) con riferimento al business gestito e di alimentare il magazzino in sincronia con la programmazione industriale del committente, al fine di evitare interruzioni nel suo ciclo produttivo oppure eccedenze nei livelli di giacenza. Il soggetto che promuove, organizza e gestisce la rete mantiene, comunque, al proprio interno l’onere di coordinare le attività considerate essenziali per preservare il know-how (conoscenze e le abilità operative necessarie per svolgere una determinata attività lavorativa) strategico e per personalizzare l’offerta. Queste ultime (attività), in particolare, solitamente comprendono le operazioni di ricerca e sviluppo delle innovazioni di marketing, studio e progettazione del design e assemblaggio. È necessaria, comunque, sempre la massima attenzione per mantenere stabilmente alto il grado di saturazione (punto in cui la domanda di un prodotto non aumenterà più) e il ritmo di utilizzo delle risorse impiegate nel business (attrezzature, impianti, capitale circolante e manodopera), in modo da favorire la crescita costante della produttività dell’iniziativa, anche a costo di causare un aumento delle giacenze di magazzino. Per quanto concerne il modo in cui questi sistemi produttivi riescono a raggiungere l’obiettivo della compressione di costi di approvvigionamento, è sufficiente precisare che per poter essere competitivo un network, deve sviluppare un’architettura fondata su alcuni pilastri capaci di assorbire i costi di coordinamento. 3. SISTEMI DI IMPRESE E RETI DI CONOSCENZA Vale la pena di sottolineare l’importanza della flessibilità nelle scelte aziendali, che sempre più spesso sono frutto di decisioni prese in contesti ambientali complessi e mutevoli. Ciò richiede lo sviluppo da parte del management di una nuova cultura dell’innovazione, che ponga al centro dei comportamenti imprenditoriali la sperimentazione continua, basata su metodologie del tipo “prova ed errore”, e sia rivolta a cercare soluzioni di gestione attraverso le quali produrre valore economico per il mercato. Per operare in contesti così complessi, può essere conveniente adottare un approccio ai problemi delle attività d’impresa incentrato sul concetto di ridefinizione soggettivista dei confini classici dell’unità elementare di business. In questo senso, le attività d’impresa gestite mediante sistemi reticolari possono contare sul contributo di creatività delle singole unità di business che rendono concretamente implementabile la specializzazione della conoscenza. Il network rappresenta una forma di impresa particolarmente adatta a sviluppare innovazioni di gestione. La complessità dei fenomeni aziendali raggiunge, in determinate realtà operative, livelli tali da rendere obsoleti gli schemi di gestione d’impresa di matrice fordista. Questo rappresenta la causa principale della straordinaria ondata di cambiamento culturale che ha investito sia i sistemi di produzione sia le modalità con le quali le imprese sviluppano il know-how e le risorse conoscitive fondamentali per mantenere sempre elevati gli standard di competitività della propria formula imprenditoriale. In questo scenario, cresce evidentemente il bisogno di innovazione in materia di tecniche di management dei processi operativi, da utilizzare per ottenere continui miglioramenti sul piano sia dell’efficienza sia della flessibilità strutturale e dell’efficacia delle proposte di marketing. Ma le esigenze in questione sono, in genere, talmente particolari da richiedere l’allestimento di laboratori di ricerca e sviluppo dedicati all’approfondimento delle problematiche specifiche di singoli sistemi di impresa, che diventano pertanto il luogo più adatto per produrre ed elaborare contestualmente le informazioni necessarie ad alimentare il processo empirico di “prove ed errore” attraverso il quale, come si è detto poc’anzi, la conoscenza produce nuova conoscenza. 4. L’OUTSOURCING E IL BUSINESS PROCESS RE-ENGINEERING -> Il termine "outsourcing" è costituito dalle parole inglesi out e source, che abbinate possono essere approssimativamente intese come “ricevere dal fuori”, esattamente ciò che di fatto è: un'azienda esternalizza a terzi singole mansioni, reparti o processi aziendali, ottenendo così supporto esterno. I servizi di cui la vostra azienda era responsabile in precedenza sono ora forniti da un fornitore di servizi specializzato. Queste sono spesso funzioni secondarie: compiti che devono essere eseguiti affinché un'impresa possa svolgere la sua attività principale. -> la riprogettazione dei processi aziendali o Business Process Reengineering – (BPR) è un intervento organizzativo di profonda revisione dei procedimenti operativi che non risultano più adeguati alle necessità aziendali. Molte imprese traggono la loro condizione di vantaggio dalle “risorse logistiche”, che consistono nella disponibilità di asset materiali, ma anche di know-how, esperienza manageriale e capacità relazionali che non sempre sono patrimonio di tutte le imprese e, cosa ancora più importante, sono difficilmente imitabili o replicabili in altri contesti aziendali concorrenti. Nei mercati caratterizzati da forte incertezza, la possibilità di costruire sistemi di produzione flessibili, basati sul contributo di terzi, fornitori di beni e servizi, con i quali condividere i rischi operativi, costituisce un’opzione strategica di particolare importanza. Ci sono mercati, dei prodotti o dei momenti della vita aziendale, che rendono le scelte del management (in materia di dimensionamento della capacità produttiva) assai complesse e rischiose da gestire. In alcuni casi, la decisione di ricorrere a fornitori specializzati permette di usufruire in modo indiretto della maggiore flessibilità strutturale di queste imprese. Quello logistico è uno degli ambiti in cui ricorso a fornitori specializzati si diffonde e produce buoni risultati. Laddove si decida di “acquistare” alcuni servizi da specialisti, diventa cruciale (decisivo) l’analisi dei processi operativi e logistici, al fine di individuare quelli più adatti a essere delegati, anche con l’ausilio del partner esterno. L'implementazione di un flusso di operazioni, ridisegnato in modo da contemplare lo svolgimento all'esterno di alcune attività, innesca cambiamenti radicali nel sistema aziendale; l'impresa, infatti, deve dotarsi di risorse umane con competenze professionali in grado di svolgere le mansioni direzionali e di coordinamento del partner esterno. Mutamenti di tale portata, inoltre, rischiano di generare dissidi e tensioni dovute alle revisioni nella gerarchia organizzativa. Questo il motivo per il quale ogni scelta di outsourcing va opportunamente valutata alla luce dei benefici ma anche dei rischi che comporta. Deriva da tutto quanto appena detto la crucialità e la delicatezza dei meccanismi mediante i quali avviene la re- Ingegnerizzazione dei processi (BPR). Mediante l’implementazione di adeguate politiche di business process re- engineering (BPR) è possibile dar vita a innovazioni significative nei modelli di management con il fine di migliorare il grado di competitività aziendale. L’implementazione del BPR richiede che le informazioni prodotte durante la gestione delle attività siano elaborate con cura evitando ridondanze e, soprattutto, avendo ben chiare le reali necessità dei soggetti a cui è demandata la responsabilità di eseguire e di coordinare processi operativi. L’obiettivo ultimo del BPR risiede, dunque, nella razionalizzazione dei cicli produttivi mediante la revisione e, laddove è necessario e opportuno, la eliminazione delle fasi operative che non apportano un contributo alla creazione del valore, in linea con gli standard richiesti dal confronto competitivo. Pertanto, al termine del percorso di implementazione di un progetto di reingegnerizzazione, le imprese possono ottenere risultati positivi molto rilevanti in termini di velocizzazione dei cicli di lavorazione, di riduzioni dei fabbisogni di risorse umane e di spazi necessari per il corretto svolgimento delle operazioni di produzione e di logistica, di sviluppo di modelli organizzativi aziendali e dei sistemi informativi di supporto alle decisioni esecutive e direzionali. Fondamentale per il successo di queste iniziative è lo sviluppo di una cultura delle relazioni aziendali incentrata sulla collaborazione e condivisione di obiettivi e valori, informazioni, conoscenze e responsabilità. La metodologia applicativa con la quale sia avvia in concreto un’operazione di BPR si compone di tre fasi fondamentali: 1. Check-up del sistema d’impresa. Ogni progetto di BPR deve partire con un’analisi dettagliata dello “stato dell’arte” finalizzata evidenziare con chiarezza i punti di forza e di debolezza da cui partire, per individuare gli interventi correttivi più appropriati sul piano dei contenuti, dei costi e dell’impatto organizzativo. 2. Process re-engineering. Sulla base delle informazioni raccolte nella fase precedente, ha inizio l’attività di valutazione “critica” del modello di gestione del business, il cui output consiste nella riprogettazione delle procedure di gestione, guidata dalla necessità di migliorare i livelli di efficienza operativa e la capacità di risposta alle istanze (richieste) di mercato. 3. Implementazione. Questa fase rappresenta il vero banco di prova dell’intera iniziativa. Il passaggio dal modello vecchio a quello nuovo costituisce difatti un momento assai critico, da gestire con estrema cautela e sensibilità, soprattutto per ciò che concerne i rapporti con il personale investito dal processo di cambiamento. A tal scopo è essenziale creare il clima e le motivazioni idonee per evitare comportamenti ostruzionistici da parte del sistema aziendale e delle strutture che lo governano. Naturalmente, ogni programma di BPR comporta degli investimenti, essi vanno commisurati (paragonati) all’incremento di valore generalizzabile dalla re-ingegnerizzazione, dapprima calcolato in sede di programmazione e, successivamente, rettificato durante il percorso di implementazione. In termini più generali, la sfida della competizione richiede all’imprese investimenti consistenti per l’acquisizione di competenze e tecnologie idonee a supportare con continuità sia programmi di rinnovamento e differenziazione della gamma produttiva, sia progetti di revisione dei cicli operativi che siano realmente in grado di favorire la crescita del rapporto “valore percepito-prezzo" per il mercato di riferimento. 5. LA VALUTAZIONE DELLE SCELTE MAKE OR BUY -> make or buy. Alternativa esistente per un’impresa tra produrre internamente (make) o acquistare dall’esterno (buy) beni e servizi necessari per lo svolgimento della propria attività. La scelta assume un carattere strategico perché porta a un confronto diretto fra i costi unitari di produzione di un bene realizzato all’interno della stessa organizzazione aziendale, e quelli di un bene fornito da un produttore esterno più specializzato. Si è visto che molte imprese considerano più opportuno e conveniente affidare la gestione di alcuni segmenti di attività a fornitori specializzati, per i quali tali attività rappresentano il business primario (core business). Molto spesso lo svolgimento delle lavorazioni cedute in outsourcing avviene in siti i prossimi allo stabilimento che terziarizza. L’analisi del trade-off (compromesso, situazione che implica la perdita (o il guadagno) di qualcosa per ottenere in cambio qualcos’altro) tra i costi associati all’acquisizione da fornitori esterni di un bene o di un servizio e quelli collegati alla produzione interna, rappresenta la base del processo decisorio finalizzata a sciogliere il classico dilemma del make or buy. I costi di transazione (costi sostenuti per effettuare un’operazione di mercato) possono essere suddivisi in tre grandi categorie relative a: costi informativi legati alla raccolta di informazioni sul partner potenziale; costi di negoziazione legati al perfezionamento dei contratti; costi legati al miglioramento delle performance, alla risoluzione dei conflitti, alla rinegoziazione. In prima approssimazione, può dirsi che un'impresa tende a espandere i propri confini (make) fino a che i costi incrementali di gestione interna di certe operazioni eguagliano i costi connessi all'acquisto delle stesse sul mercato. Le transazioni possono essere occasionali oppure molto frequenti e possono essere caratterizzate da livelli di incertezza e di specificità diversi; la figura 3 suggerisce alcune soluzioni del dilemma del make or buy in relazione alle caratteristiche delle transazioni. Secondo la teoria dei costi di transazione: 1. il mercato (buy) è la forma organizzativa più adatta nei casi in cui la specificità della transazione è bassa e non si richiedono conoscenze e capacità particolari (grado di incertezza); 2. viceversa, se la specificità e il grado di incertezza sono elevati è preferibile ricorso alla produzione con risorse di proprietà (make) (integrazione verticale: scelta di un'impresa produttrice o assemblatrice di un certo prodotto di integrare all'interno della propria attività un maggior numero di "passaggi intermedi" necessari all'ottenimento del prodotto finito). A supporto del difficile processo di analisi e di scelta tra le alternative del make or buy, si può utilizzare un metodo semplice che consiste nel confrontare il totale degli “costi cessanti” a seguito dell’implementazione di un progetto di outsourcing con quello dei relativi “costi emergenti”. 1. I costi cessanti sono i costi che non vengono più sostenuti in base alla decisione aziendale presa (sono collegati alle attività di produzione in procinto (che stanno per) di essere ceduti a terzi); 2. I costi emergenti: sono nuovi costi che l'azienda deve sostenere in base alla decisione presa (si manifestano nel momento in cui determinate attività devono essere acquistate sul mercato). Le scelte di make or buy possono essere supportate anche dalla determinazione del fabbisogno di indifferenza, che rappresenta la quantità di output (es: 1) al di sopra della quale la produzione interna risulta giustificata rispetto all’ipotesi di acquisto sul mercato. Sebbene con alcuni accorgimenti specifici, l’applicazione del metodo è possibile anche quando l’oggetto della valutazione è un servizio. La formula per il calcolo del fabbisogno di indifferenza è la seguente:. 1. Nella parte sinistra dell'equazione si sommano i costi fissi (CFm), il prodotto tra i costi variabili unitari (CVUm) e la quantità corrispondente al fabbisogno di indifferenza (incognita del problema); 2. Mentre nella parte destra dell'equazione si effettua il prodotto tra i costi unitari di approvvigionamento (CAU) e il fabbisogno di indifferenza. Una volta risolta l'equazione, si ottiene la quantità di materiale corrispondente al fabbisogno di indifferenza, che è quella quantità per la quale è indifferente per l'impresa produrre all'interno o comprare all'esterno. CAPITOLO 3. CAPACITÀ PRODUTTIVA E SCELTE LOCALIZZATIVE 1. IL MANAGMENT DELLA CAPACITÀ PRODUTTIVA La capacità produttiva massima teorica è la quantità massima di output ottenibile partendo da un certo volume di risorse impiegate nel processo produttivo, in presenza di condizioni di lavoro ideali. Evidentemente, nella realtà operativa è molto raro che si riesca operare in condizioni ideali, poiché numerosi e frequenti sono gli eventi perturbatori che caratterizzano l’industria: a titolo di esempio, si pensi al setup (nei sistemi produttivi quali ad esempio le macchine, è un termine riguardante l'attrezzaggio, ovvero: il periodo di tempo per preparare un mezzo di produzione, ad esempio una macchina, per essere pronti a funzionare o ad accettare un compito) degli impianti, l’assenteismo, gli episodi di sciopero, ecc. La capacità produttiva massima si può mettere in relazione con il fabbisogno netto di capacità, cioè con il quantitativo di prodotto programmato, da realizzare in un periodo futuro definito (si veda la figura 1). La quantità indicata in figura 1 con la lettera “D” deriva dalla differenza tra la capacità produttiva massima e il fabbisogno netto e rappresenta la disponibilità residua di capacità ; si tratta di un “riserva” di capacità produttiva chel’impresa potrà utilizzare in caso di incrementi futuri della produzione. Le decisioni che riguardano la capacità produttiva si riflettono sulla qualità e sulla quantità delle risorse che l’impresa ha disposizione. Il processo di “allineamento” tra capacità e risorse rappresenta un obiettivo prioritario per i responsabili delle operazioni. Con riferimento all’orizzonte temporale, si consideri che per tempo lungo si intende l’orizzonte temporale che permette di modificare gli assetti aziendali in materia di risorse strutturali (immobili, impianti, attrezzature, sono dunque le risorse tecniche essenziali per la esecuzione dei processi produttivi gestiti dall‘impresa); cosa che, invece, nel breve e nel medio termine risulta estremamente difficile e costoso. Nel breve periodo, la capacità produttiva dell’impresa può essere adeguata in funzione degli andamenti del mercato, nei limiti delle risorse disponibili o economicamente acquisibili; ciò significa che, se le decisioni da prendere non riguardano il tempo lungo, non si potrà agire acquistando nuovi impianti o aprendo una nuova filiale, mentre si potrà seguire, ad esempio, la strada del lavoro straordinario ovvero come può essere la variazione del mix di vendita. In altri termini, si agirà “sotto il vincolo” della capacità produttiva massima degli impianti presenti nel ciclo di lavorazione, data la difficoltà (non economicità) di intervenire sulle risorse strutturali in tempi limitati (modificando le scelte di dimensionamento). A tal riguardo, si osservi che le imprese più flessibili hanno una maggiore “attitudine” ad affrontare situazioni di cambiamento. Le scelte che riguardano il tempo lungo richiedono il coinvolgimento dei livelli più elevati della gerarchia aziendale, poiché spesso comportano investimenti che incidono sul profilo di rischio dell’impresa e sull’impostazione complessiva del manufacturing (fabbisogni di materiali, di risorse umane, di energia, ecc.). Il manager di produzione è costantemente impiegato a ottimizzare l’utilizzo delle risorse produttive rispetto alle richieste del mercato. 2. ANALISI DELLA CAPACITÀ PRODUTTIVA L’analisi della capacità produttiva si basa essenzialmente sul confronto tra la potenzialità del mercato di assorbire il prodotto in un certo arco temporale e la capacità che ha l’impresa di realizzarlo, compatibilmente con le risorse disponibili e i tempi richiesti. 3. DIMENSIONAMENTO DELLA CAPACITÀ PRODUTTIVA La capacità produttiva dei macchinari dipende dalle tecnologie incorporate negli stessi e dalle loro specifiche caratteristiche. La dimensione ottima minima (DOM-flusso di pieno impiego) di un impianto di produzione (cui viene affidata la gestione di una successione predefinita di fasi di lavorazione) è pari al volume di “output equivalente (prodotto standard rispetto alla gamma)” che l’impianto è in grado di produrre. Si definisce efficienza di sistema il rapporto tra la produzione effettiva e il flusso di pieno impiego: Nell’ipotesi in cui si preveda un utilizzo degli impianti inferiore al 100%, per ragioni tecniche o strategiche, la formula per il calcolo dell’efficienza di sistema tiene conto del fattore d’uso, cioè del grado di utilizzo previsto indicato in %, nel modo seguente: Il numero di macchinari necessari alla produzione è pari al rapporto tra la quantità totale di produzione desiderata nell’unità di tempo e l’output medio riproducibile nello stesso arco temporale da un singolo macchinario. Tenendo conto dell’efficienza di sistema, la quantità desiderata nell'unità di tempo e pari a: L’output medio per macchinario nell’unità di tempo, considerando il fattore d’uso, è pari a: Le opzioni strategiche di gestione della capacità produttiva condizionano evidentemente le scelte operative. Tali opzioni consistono essenzialmente in: livellamento della produzione oppure adattamento alla domanda. 1. L’opzione di livellamento della produzione prevede il lancio in produzione di una quantità predefinita e stabile di output nell’unità di tempo (ad esempio, il valore medio delle vendite previste per un certo periodo futuro); questa scelta presuppone l’utilizzo delle scorte come buffer/polmone (il buffer è una zona delimitata all’interno del magazzino che funge da deposito temporaneo della merce come le materie prime). Il volume delle scorte aumenterà nei periodi in cui la domanda è inferiore al volume di prodotto realizzato, e diminuirà quando accade il contrario. 2. Al contrario, si preferisce “rincorrere” la domanda, seguendone gli andamenti, quando risulta prioritario tenere sotto controllo il livello delle giacenze (ad esempio, nei casi di elevato valore dei prodotti, o quando gli stessi sono soggetti a fenomeni di obsolescenza rapida), ed è perciò opportuno adeguare i volumi di produzione a quelli assorbiti dal mercato nell’arco dello stesso periodo. Questa opzione, evidentemente, presuppone un certo grado di flessibilità strutturale (capacità dell’impresa di rispondere alle sollecitazioni dell’ambiente), la quale può essere ottenuta grazie all’istituzione di turni aggiuntivi di lavoro o al ricorso allo straordinario. In una prospettiva di tipo strategico, le scelte di capacità hanno implicazioni molto consistenti: si consideri, a titolo di esempio, l’ipotesi in cui il management decida di aumentare la capacità produttiva complessivamente disponibile. Questo implica la valutazione di diverse opzioni di sviluppo dimensionale, che essenzialmente possono essere ricondotte a tre: 1. incremento di capacità produttiva attraverso un’espansione in sito; 2. apertura di un nuovo stabilimento; 3. trasferimento dell’intera attività manifatturiera. Qualunque sia l’opzione preferita, tra le tre appena elencate, si tratta di decisioni che richiedono lunghi tempi di attuazione e di “entrata a regime”, cui si collegano investimenti, rischi e costi di realizzazione start-up rilevanti. 1. l’espansione di capacità nel medesimo sito di produzione costituisce la decisione “meno problematica” dal punto di vista puramente gestionale. Il più delle volte, infatti, tale decisione comporta adeguamenti non particolarmente traumatici delle risorse strutturali, umane e tecnologiche, che contribuiscono tra l’altro ad alimentare le economie di scala (riduzione dei costi unitari all’aumentare delle quantità prodotte a parità di capacità e tecnologia l’impianto). 2. la creazione di un nuovo stabilimento può essere considerata un’alternativa vantaggiosa quando l’upgrading (estensione) di capacità riguarda un comparto che si preferisce rendere autonomo dal punto di vista organizzativo e degli spazi. 3. infine, il trasferimento dell’intero comparto manifatturiero è una soluzione che si preferisce allorquando la struttura esistente non appare più idonea a supportare lo sviluppo dell’impresa, e al tempo stesso la location su cui insiste l’impresa sembra non rappresentare una irrinunciabile fonte di vantaggio competitivo. A tale proposito, spesso la localizzazione dell’impianto può generare un vantaggio competitivo in ragione della vicinanza di fornitori e/o dei clienti; in questi casi, sarà più difficile decidere di spostare la sede produttiva, meno che non si riesca a ricreare le medesime condizioni di vantaggio anche nella nuova destinazione. 4. LA GESTIONE DELLE IMPRESE MULTIPLANT Un’impresa che si avvale di più stabilimenti di produzione opera nella logica cosiddetta Multiplant, cioè multi stabilimento: in tal caso, le decisioni di gestione della capacità produttiva si incrociano con quelle organizzative e localizzative poiché riguardano l’assegnazione quantitativa e qualitativa delle operazioni in capo a ciascuno degli stabilimenti. Le opzioni possibili sono essenzialmente tre: 1) specializzazione, 2) ripetizione, 3) parcellizzazione. 1. si opta per la specializzazione quando ciascuno degli stabilimenti si assegna una competenza per prodotto o per famiglia di prodotto; in altri termini, ogni stabilimento realizza i prodotti di una certa famiglia. 2. il modello di ripetizione, al contrario, prevede che ogni stabilimento realizzi interamente la gamma di prodotti offerta dall’impresa, nei volumi richiesti dal mercato di sbocco servito a livello locale. 3. infine, quando i prodotti presentano un’elevata complessità costruttiva, può essere conveniente suddividere il ciclo di lavorazione in più segmenti “isolabili” (modello di parcellizzazione), da assegnare a stabilimenti specializzati. In questo caso, cioè, si realizza quella che può essere definita una catena lunga del lavoro, in cui le differenti location produttive (di trasformazione e assemblaggio) concorrono alla creazione del valore aggiunto, svolgendo attività consecutive nel processo di realizzazione dell’output. 5. LE SCELTE LOCALIZZATIVE Schonberger e Knod (1999) suggeriscono uno strumento a supporto delle decisioni di localizzazione delle attività industriali, che utilizza la tabella delle relazioni combinate (REL). Qui di seguito è riportato un esempio di un es. Per procedere, è necessario innanzitutto compilare una matrice con l’obiettivo di rappresentare in forma schematica i fattori rilevanti nella decisione localizzativa. Dopo aver identificato le variabili ritenute rilevanti nella scelta, si procede un confronto a coppie, e per ogni coppia è richiesto di esprimere un giudizio, opportunamente codificato; il numero di volte in cui ognuno dei fattori appare in tabella esprime il relativo grado di importanza. Successivamente, le diverse ubicazioni (collocazioni) in esame sono valutate e ordinate in base ai suddetti parametri. Il punteggio attribuito ogni coppia è ponderato con il grado di importanza relativa; alla fine del procedimento, l’opzione localizzativa preferita è quella che raggiunge la valutazione complessiva più elevata. Si coglie l’occasione per precisare che i metodi e gli strumenti di supporto alle decisioni, ivi compreso quello appena presentato, in nessun caso possono sostituirsi alle complementari considerazioni di opportunità che il management è in grado di formulare. A tal proposito, è opportuno ribadire che, prima di attuare una decisione che si riflette sugli assetti strutturali di impresa, si deve attentamente valutare l’impatto che la stessa ha sugli equilibri competitivi, organizzativi ed economico-finanziari, oltre che sul profilo di rischio generale dell’impresa. 6. LA MISURAZIONE DEL GRADO DI UTILIZZO DELLA CAPACITÀ PRODUTTIVA Una volta prese tutte le decisioni legate al dimensionamento della capacità produttiva installata, è altrettanto importante l’azione di monitoraggio sul grado di utilizzo della stessa. A tal fine, uno degli indicatori più diffusi nella prassi manageriale è il coefficiente di utilizzazione. Nella formula appena presentata, il tempo disponibile in condizioni di pieno utilizzo (denominatore della formula) non tiene conto dei tempi di fermo impianto per manutenzione ordinaria, per setup, ecc. Tali situazioni, però, sono tutt’altro che infrequenti e, infatti, spesso avviene che l’impianto lavori in condizioni di capacità parziale. Per misurare il grado di utilizzo “I” della capacità produttiva del generico tipo i di macchinario si può utilizzare la formula seguente: Si consideri che la capacità inutilizzata può essere distinta in due categorie ben diverse tra loro: 1. La capacità inoperosa: la situazione descritta in precedenza è riconducibile alla prima delle due casistiche. La capacità inoperosa serve ad assicurare la necessaria elasticità operativa alle imprese che competono in mercati con andamenti della domanda oscillanti e difficilmente prevedibili. 2. L’eccesso di capacità (capacità eccedente), invece, costituisce un fenomeno “patologico”, originato da errori commessi in fase di dimensionamento dei fattori produttivi, che il management deve preoccuparsi di sanare con politiche di sviluppo e/o di razionalizzazione dei processi. 7. PLANT DESIGN E LAYOUT La gestione delle risorse tecniche e umane dedicate alle attività di produzione industriale, che sia finalizzata a ottenere performance brillanti in termini di efficacia ed efficienza, riguarda anche i criteri seguiti nella progettazione dello stabilimento e la disposizione dei materiali e delle attrezzature al suo interno. 1. Per progettazione di uno stabilimento (plant design) si intende l’insieme delle decisioni e delle attività connesse alla scelta della localizzazione, della tipologia di edificio, delle dimensioni dello stesso. In fase di plant design, le riflessioni riguardano la tipologia di edificio da realizzare, le caratteristiche che devono avere l’illuminazione, la pavimentazione, l’altezza degli spazi destinati a magazzino, l’areazione, il riscaldamento, Il condizionamento, gli spazi da destinare a servizio mensa, spogliatoio, toilette, ecc. Le decisioni di plant design, una volta effettuate, sono difficilmente modificabili, se non a costi molto elevati. 2. Per layout di stabilimento (plant layout) si intende, invece, la disposizione dei macchinari, delle attrezzature e più in generale delle postazioni di lavoro, all’interno dello stabilimento. Le attività di plant design non sempre tengono conto delle decisioni legate alla sistemazione delle strutture produttive all’interno dello stabilimento. Si riporta di seguito lo schema di layout (disposizione) adottato nello stabilimento di un’impresa operante nel settore della pasta secca alimentare (figura 3), che possiede tre linee di produzione, di cui due dedicate ai formati di pasta lunga (spaghetti, vermicelli, bucatini) e una ai formati di pasta corta (rigatoni, penne, ecc.). Da quanto appena detto, emerge che la definizione del layout di uno stabilimento è collegata alle peculiarità del processo produttivo, sia dal punto di vista delle tecnologie (cicli di lavorazione ad esempio), che dalla gestione delle risorse umane: un’impresa che adotta cicli di lavorazione continui avrà esigenze di layout molto diverse rispetto a quelle proprie di processi di tipo intermittente. La valutazione ex ante (prima) di un layout di stabilimento può essere efficacemente ottenuta attraverso la rappresentazione grafica: il diagramma a blocchi (figura 4) è uno strumento che permette di visualizzare la disposizione delle risorse nello spazio, tenendo conto dei flussi di materiali da gestire. Per costruirlo, si procede tracciando le linee rappresentative del flusso dei materiali su una carta, che rappresenta la disposizione dei reparti e/o i singoli macchinari, a seconda del livello di dettaglio scelto. La distribuzione dei blocchi può essere effettuata in maniera iterativa (ripetitiva), ponendosi un obiettivo che può essere, ad esempio, quello di minimizzare le operazioni di trasporto di materiali. I reparti contigui (che sono a contatto, vicini e confinanti) non necessariamente sono collegati da un flusso di materiali; un reparto può generare flussi di output destinati a più reparti diversi (flusso divergente: da dentro a fuori), al contrario può accadere che in un reparto confluiscano flussi di semilavorati provenienti da origini diverse (flusso convergente: da fuori a dentro). La disposizione dei mezzi di produzione (nel caso in cui i prodotti si possono spostare) può seguire: 1. il percorso del prodotto attraverso le successive lavorazioni alle quali è sottoposto (layout per prodotto per linea di prodotto-flow shop); 2. oppure può seguire il criterio della concentrazione, nella stessa area di uno stabilimento, di tutte le macchine che svolgono attività operative dello stesso tipo o similari (layout funzionale o per reparti o per processi-job shop). I prodotti che non si possono spostare, richiedono una gestione degli spazi molto diversa rispetto a quelle appena viste: 1. Il layout adottato per i prodotti che non si possono spostare, prevede postazioni di lavoro fisse che condizionano sia i flussi di materiali e di semilavorati sia la gestione delle risorse umane coinvolte nel processo produttivo (layout a postazioni fisse). 2. Infine, si parla di layout a U quando le stazioni di lavoro sono disposte a “U” nello spazio (a ferro di cavallo), in modo da ottenere miglioramenti sul piano dei lead time di produzione, riducendo il numero di unità di personale dedicate. Il numero di postazioni di lavoro resta lo stesso, ma la disposizione a forma di “U” accorcia i tempi di movimentazione di trasferimento dall’uno all’altra. In uno stesso stabilimento possono coesistere diversi schemi di layout (schemi di disposizione), associati a cicli di lavorazione con esigenze diverse. Un caso particolare in cui l’utilizzo di soluzioni ibride (miste, intermedie) espressamente previsto è quello del layout a celle (o per raggruppamenti tecnologici). In questo tipo di layout, il raggruppamento delle lavorazioni in celle avviene sulla base di precisi criteri: tra cui, operazioni analoghe e dimensioni fisiche degli input. Per risolvere il problema della disposizione dei macchinari si può fare uso della carta from/to, detta anche tabella di trasferimento (schema di analisi delle distanze, dei carichi e delle frequenze degli spostamenti); si tratta di uno strumento che consente una valutazione organica delle diverse alternative legate alla disposizione dei macchinari. In particolare, l’assunto (affermazione) di base di questa metodologia è che il layout “ottimale”, sia quello in cui ogni segmento di attività operativa è allocato fisicamente in una parte dello stabilimento che “confina” con le altre aree (di segmenti di attività) in cui avvengono le operazioni immediatamente a monte o a valle del ciclo produttivo; questo al fine di minimizzare gli spostamenti. La carta from/to è una matrice, le cui dimensioni indicano i punti di partenza e di arrivo delle movimentazioni (reali o simulate); all’incrocio delle dimensioni si trova un numero, espresso in un’unità di misura scelta opportunatamente (ad esempio i carrelli di materiale scambiato al giorno, o la distanza percorsa), presente in tutte le caselle tranne, come è ovvio, in quelle poste sulla diagonale (questo perché, il numero di unità trasportate o percorse, non avviene da un punto verso uno stesso punto, ad esempio From A To A, il che appunto non avrebbe senso). Tale numero esprime, dunque, il numero di unità “trasportate” o percorse, da un punto a un altro; nel primo caso, naturalmente non è detto che il numero di unità trasportate in un senso del percorso sia uguale a quello dell’altro senso, il che spiega la possibilità concreta che i numeri posti al di sopra della diagonale siano diversi da quelli posti al di sotto della stessa. Qui di seguito è riportato un esempio di un es. Il metodo di pianificazione sistematica del layout attraverso il diagramma delle relazioni combinate (tabella REL, vedere paragrafo 5), permette di definire quando e quanto sia opportuna la vicinanza tra due reparti. CAPITOLO 4. LA GESTIONE DELLE RISORSE STRUTTURALI 1. LE RISORSE STRUTTURALI Grazie all’insieme di strutture e asset disponibili, l’impresa può svolgere correttamente i propri processi di produzione, e le diverse attività previste nel ciclo logistico. Si tratta di beni che spesso hanno un valore ingente (ad esempio, un impianto di imbottigliamento, magazzino automatizzato), e che richiedono “cure”, finalizzate a preservarne l’utilità e l’efficienza nel tempo. In cima alla piramide (figura 1), sono riportati gli asset dei clienti, mentre ai livelli inferiori si trovano, rispettivamente, quelli dell’impresa, dei suoi fornitori e degli altri soggetti che forniscono le infrastrutture di base. La forma piramidale suggerisce che le esigenze strutturali diminuiscono all’aumentare del livello al quale l’anello (attore) della catena (della fornitura, supply chain) si posiziona. Nell’impresa manifatturiera, le problematiche di gestione (ordinaria e straordinaria) delle risorse strutturali generalmente riguardano i seguenti beni materiali: capannoni industriali, impianti e macchinari, spazi attrezzature per lo stoccaggio, la movimentazione e trasporto dei materiali e prodotti finiti, all’interno all’esterno dello stabilimento. 2. LE ATTREZZATURE PER IL TRASPORTO La complessità della gestione dei trasporti deriva dalle differenze nelle caratteristiche fisiche degli oggetti da spostare (peso, ingombro, fragilità, valore, deperibilità), cui si aggiungono le problematiche operative tipiche di queste attività, che sinteticamente si possono riassumere nelle seguenti “sfide” manageriali: a) ottimizzazione delle opzioni modali (ferrovia, nave, aereo, camion); b) standardizzazione delle unità di carico; c) saturazione (limite massimo della capacità di sopportazione) della capacità di carico; d) razionalizzazione dei processi logistici e dei relativi flussi fisici, informativi e documentali; e) sviluppo continuo delle performance di efficienza e di servizio. Tuttavia, l’ottimizzazione della capacità operativa pone spesso alcuni problemi legati alla determinazione del numero di confezioni (colli) da collocare in ogni “strato” del Pallet e, più in generale, al grado di saturazione (soglia di tolleranza) della capienza del mezzo. Il livello di “riempimento” dei pallet e le modalità con cui gli stessi sono posizionati all’interno del camion devono tener conto, ad esempio, degli spazi vuoti necessari per consentire le operazioni di carico e scarico, e di bilanciamenti necessari per assicurare stabilità al veicolo. Inoltre, il mezzo può avere sagome e altezze non sempre perfettamente aderenti alle esigenze di efficienza delle operazioni di trasporto. Il livello di complessità tecnica delle decisioni aumenta esponenzialmente se, invece di considerare una sola tipologia di prodotto, si considera una gamma più ampia. Anche per questo, è prassi aziendale assai diffusa nell’industria (sia di grande che di piccola dimensione) quella di trasferire in capo a fornitori di servizi specializzati tutta la complessità manageriale correlata alle attività di trasporto, in questo modo diventano oggetto di business specifico. L’imballaggio non è solo elemento essenziale per un efficiente ed efficace gestione del trasporto, ma rappresenta anche uno strumento di marketing. Per quanto riguarda la scelta tra le diverse modalità di trasporto, è opportuno fare un breve cenno all’intermodalità, la quale è una tecnica di trasporto che si avvale di modalità diverse per portare uno stesso carico da un’origine a destinazione. È quindi l'utilizzo combinato di differenti mezzi di trasporto, esempi di trasporto intermodale merci sono: camion + nave; camion + treno. L’opzione intermodale può essere una valida alternativa a quella mono-modale, e comportare vantaggi in termini di costo e di qualità del servizio; tuttavia, l’impresa che effettua il trasporto intermodale, deve riuscire a risolvere le questioni legate: 1. agli aggravi di costo connessi alle attività terminalistiche, nei punti in cui avviene il cambio di modalità (ad esempio, per le movimentazioni); 2. all’allungamento dei tempi complessivi, a causa delle operazioni di trasbordo (trasferimento di carichi da un qualsiasi mezzo di trasporto all'altro) e delle eventuali attese nei nodi in cui avvengono le operazioni connesse al cambio di modalità; 3. al rischio di perdita o danneggiamento legati alle attività suddette; Si parla di modalità (o modo) di trasporto per riferissi alle diverse alternative di mezzi e infrastrutture utilizzate per gestire la trasportazione; si parla perciò di trasporto su gomma, su ferro (ad esempio treni), marittimo e aereo delle merci. Ciascuna delle modalità appena dette, ha evidentemente sue peculiarità, vantaggi e svantaggi, da valutare attentamente visto il “peso” che le attività trasportistiche possono avere sull’efficacia e l’efficienza complessiva di impresa (tabella 1). La convenienza all’utilizzo di una modalità di trasporto, in ragione delle distanze da coprire è sinteticamente rappresentata nel grafico in figura 4. La figura 4 rappresenta l’andamento delle tre funzioni di costo associate a tre modalità di trasporto prima citate, e segnatamente quelle su gomma, su ferro e marittima, al variare delle distanze percorse. 3. LA GESTIONE DEGLI IMPIANTI DI PRODUZIONE Gli impianti (macchinari e attrezzature) che supportano i processi di trasformazione industriale necessitano di costante monitoraggio e cura. Le attività finalizzate alla prevenzione dei guasti degli impianti installati e utilizzati all’interno dell’impresa industriale sono note con il nome di Total preventive maintenance TPM (figura 5). 1. Le operazioni definite di manutenzione preventiva periodica possono essere eseguite con cadenze temporali predefinite; in alternativa, tali operazioni possono seguire, quando necessario, le ispezioni operate regolarmente sugli impianti, denominate in gergo Inspect and Repair ad Necessary (IRAN). 2. Si tratta, ad ogni modo, di una manutenzione detta regolare, per distinguerla da quella irregolare od occasionale, attuata nel momento in cui anomalie evidenti suggeriscano una sostituzione pre-rottura, oppure là dove “fermi macchina” dovuti a guasti richiedono interventi urgenti di ripristino della funzionalità. Una volta raggiunto il proprio obiettivo di produzione, ogni risorsa umana può dedicare il tempo residuo alle operazioni di manutenzione: quindi i livelli più bassi della gerarchia aziendale, ovvero coloro che utilizzano quotidianamente le risorse tecniche e che ne conoscono perfettamente le caratteristiche, possono, se opportunamente addestrati, occuparsi con ottimi risultati della manutenzione. La TPM presuppone la disponibilità costante in azienda di tutta la componentistica utile a effettuare gli interventi di riparazione sui macchinari e sulle attrezzature. Un aspetto da non sottovalutare è il dimensionamento e il posizionamento dei magazzini che contengono tali item (elementi: utili per fronteggiare gli interventi di riparazione); Una soluzione adottata di frequente è quella dell’utilizzo di molteplici magazzini, specializzati per macchinario da servire (in termini di dotazione di materiali reperibili al loro interno). 4. LA GESTIONE DELLE STRUTTURE DI STOCCAGGIO I magazzini sono strettamente funzionali rispetto ai reparti operativi. È il caso di ricordare che il magazzino intrattiene strette costanti relazioni con molte altre funzioni presenti all’interno delle imprese manifatturiere, tra le quali: la produzione (che il suo principale fornitore e/o cliente); e il controllo di qualità (per le ispezioni sui materiali). Le scelte legate alle strutture destinate allo stoccaggio riguardano la dimensione (superficie piana, cubatura), la forma, l’organizzazione e la gestione degli spazi e delle attrezzature (impianti di sollevamento, scaffalature, tecnologie e mezzi di movimentazione) disponibili. La capacità di stoccaggio di un magazzino dipende certamente dalla superficie totale dello stesso; va chiarito, però, che una volta definito il locale in cui stoccare i materiali, la capacità di stoccaggio dello stesso può variare significativamente a seconda dell’organizzazione operativa che al suo interno si adotta. L’indice utilizzato per la valutazione del grado di sfruttamento del magazzino è il coefficiente di utilizzazione superficiale (CUS), calcolato come segue. Il problema del dimensionamento del magazzino assume connotazioni particolari nel caso di una struttura adibita allo stoccaggio dei prodotti in corso di lavorazione. In questo caso, lo stock in accumulo dipende dalla differenza di produttività tra i macchinari che effettuano le due lavorazioni successive, tra le quali si crea la coda d’attesa. La suddetta relazione è definita curva della giacenza, ed espressa dalla formula riportata di seguito. Dalla formula emerge che la variazione dell’ammontare della giacenza nell’intervallo di tempo (espresso nell’unità di tempo utilizzata, ad esempio le ore di macchina), si ottiene moltiplicando il lead time di riferimento (T) per la differenza di produttività tra due macchinari, alfa e beta, necessari per effettuare una determinata lavorazione. I magazzini di cui si è sin qui detto, sono stati sempre descritti come locali coperti nei quali effettuare lo stoccaggio dei materiali; nella realtà operativa, tuttavia, quando i materiali da stoccare non richiedono attenzioni particolari (nel caso in cui siano resistenti alle intemperie, ovvero qualsiasi alterazione delle condizioni atmosferiche o del clima; e non necessitino di accorgimenti dal punto di vista della sicurezza, ad esempio) è possibile effettuare lo stoccaggio “a piazzale”, questo tipo di stoccaggio avviene all’aperto e generalmente richiede investimenti meno rilevanti, sia sul piano economico che su quello tecnologico, di quelli necessari per equipaggiare una struttura coperta. Nella gestione del magazzino un ruolo di primaria importanza è ricoperto dalla tecnologia. Infatti, la gestione del magazzino è un’attività estremamente complessa che può essere efficacemente razionalizzata mediante gli investimenti (spesso ingenti) in asset (beni) specifici. Uno degli strumenti essenziali per aumentare la performance del magazzino e ridurne il rischio di gestione è il warehourse managment system (WMS), cioè il software (appunto una tecnologia) di gestione del magazzino. I vantaggi legati all’utilizzo di questo tipo di software sono notevoli e, nel caso di magazzini medio-grandi, l’utilizzo del WMS è pressoché obbligatorio, sia per razionalizzare i prelievi, e i flussi all’interno della struttura, sia anche per definire l’inventario e aggiornare regolarmente la sistemazione degli item (elementi di un insieme). Le soluzioni tecnologiche per il magazzino sono adattate alla specifica realtà aziendale, sulla base di alcuni fattori, tra i quali la natura dei materiali da stoccare, la frequenza delle movimentazioni, e le dimensioni aziendali. All’interno dei magazzini automatizzati, le soluzioni hardware e software coesistono e si integrano per ridurre al minimo l’intervento dell’uomo e ottimizzare le performance, in termini di tempi e di spazi necessari. Questo tipo di magazzino richiede investimenti considerevoli. Tuttavia, risultati importanti possono essere ottenuti anche agendo solo su alcuni dei parametri che intervengono nella gestione delle strutture di stoccaggio. A tale proposito, l’alternativa rispetto al trasferimento manuale dei documenti contenenti le informazioni sui materiali è rappresentata dalla comunicazione delle stesse in radio frequenza. Lo scambio di dati, in questi casi, può avvenire attraverso terminali portatili, a disposizione degli addetti al magazzino, che riescono a riconoscere la merce e a conoscerne l’esatta ubicazione, interagendo con degli speciali transponder (dispositivo che emette un segnale di risposta su una frequenza determinata quando viene sollecitato da un impulso esterno) posti sugli imballaggi, che contengono un codice elettronico specifico. In questo modo si può pensare di ridurre alcune voci di costo associate alla gestione del magazzino e ridurre le inefficienze derivanti dalle operazioni di picking dei materiali (prelievo a scaffale) e dai possibili errori nell’individuazione degli stessi, avendo altresì la possibilità ad esempio di contribuire a gestire la priorità di consegna. Un’altra delle condizioni necessarie per garantire efficienza al magazzino è l’utilizzo di un adeguato sistema di codifica dei materiali in esso stoccati. Generalmente la codifica univoca degli item avviene con un codice, che può essere numerico o alfanumerico; questo permette di individuare in modo certo i materiali senza dover ricorrere a lunghe descrizioni e semplificandone le operazioni di prelievo. La codifica, inoltre, permette di semplificare le operazioni svolte da alcune delle funzioni collegate alla gestione dei materiali stessi; si pensi, ad esempio, alla possibilità di inserire i codici di prodotto all’interno di cataloghi presentati alla clientela in modo da ricevere ordini più facilmente e velocemente processabili. Uno dei possibili sistemi di codifica è quello che utilizza codici composti esclusivamente da cifre; ogni cifra, a seconda della sua posizione, indica una certa informazione (ad esempio, la prima cifra è associata alla categoria di materiale: 1 materia prima; 2: semilavorato; ecc.) e per ogni tipologia di informazione la cifra stessa ne riassume i contenuti (ad esempio, il metallo di cui è fatto il pezzo: 1 rame; 2: piombo; 3: zinco; ecc.). A volte il sistema di codifica contempla anche l’utilizzo di colori diversi associati a caratteristiche differenti dei materiali trattati. È bene che il numero di cifre e/o lettere di cui è composto ogni singolo codice sia uniforme per tutti gli articoli, ed è altresì preferibile che lo stesso sia relativamente semplice da interpretare. Tutte le codifiche utilizzate dall’impresa devono poi essere raccolte in un apposito catalogo dei materiali. L’utilizzo dei codici a barre permette di effettuare facilmente verifiche di magazzino. Un’evoluzione del codice a barre più tradizionale è rappresentata da quello “intelligente” costituito da un microchip, contenente un codice di prodotto elettronico, che può essere letto anche da dispositivi wireless (senza fili). Il codice a barre, inoltre, può essere associato anche a istruzioni di lavorazione lungo il processo produttivo. Ad esempio in un’impresa del settore automotive, la fase di saldatura risulta completamente automatizzata e affidata a robot in grado di essere programmati per saldare in qualsiasi posizione, seguendo appositi schemi di saldatura letti dal robot stesso sul codice a barre del pezzo. 5. LE ATTREZZATURE PER LA MOVIMENTAZIONE INTERNA La natura e la consistenza delle movimentazioni interne è condizionata dalla conformazione dello stabilimento e dalla disposizione (layout) dei macchinari al suo interno. Per le movimentazioni interne l’impresa deve utilizzare sistematicamente corrieri interni (dotati di mezzi adeguati) e strutture sopraelevate per la movimentazione delle carrozzerie. Per facilitare il processo decisionale correlato alle problematiche di movimentazione interna Schonberger e Knod (1999) suggeriscono l’uso di una matrice (figura 9) che all’incrocio delle variabili “quantità da trasportare” e “distanze da coprire” associa le soluzioni logistiche ritenute preferibili. In particolare, la matrice distingue tra movimentazione (per le distanze entro un certo raggio) e trasporto (per gli spostamenti che coprono distanze più consistenti). 1) Nel primo caso (movimentazione), 1.1. se le quantità da trasportare sono relativamente contenute, la matrice propone sistemi di movimentazione semplici e prevalentemente manuali, 1.2. i quali possono, invece, raggiungere complessità e costi anche molto elevati se le quantità da movimentare sono invece più consistenti. 2) Nel secondo caso (quello del trasporto) i mezzi definiti i complessi sono preferiti a quelli semplici, nel momento in cui (quanto più) aumentano le quantità da spostare. In generale, quanto più ci si sposta su movimentazione o trasporti di grossi quantitativi di materiali, tanto più è probabile che il mezzo utilizzato possa effettuare solo percorsi fissi e predefiniti. La matrice prima descritta (distanza-quantità da trasportare) è utile per supportare le decisioni relative a materiali omogenei; nell’ipotesi in cui i materiali da movimentare fossero eterogenei, viceversa, andrebbe utilizzata la matrice distanza-intensità (Muther, 1969); questa matrice si differenzia per una delle due dimensioni contemplate prima, l’intensità che va a sostituire la quantità da trasportare. 1. La misura dell’intensità complessiva è ottenuta sommando quella delle singole tipologie di materiali da spostare; 2. L’intensità (singola) è calcolata moltiplicando la quantità da spostare per la trasportabilità del materiale considerato. La trasportabilità è una misura composita che tiene conto di dimensione, densità o massa, e rischio di danneggiamento, nonché della condizione e, talvolta, anche del valore dei materiali da movimentare. CAPITOLO 5. METODI QUANTITATIVI DI PREVISIONE DELLA DOMANDA 1. LE PREVISIONI NELLA GESTIONE D’IMPRESA Le tecniche più diffuse di previsione della domanda prevedono l’utilizzo di serie storiche dei dati oggetto di previsione (vendite, ordini, ecc). Le serie storiche dovranno essere confrontabili ed essere composte da un numero sufficientemente elevato di osservazioni (più anni). Se ai dati di provenienza interna si aggiungono altre fonti esterne di tipo qualitativo (indagini di mercato, stime dei venditori, risultati di attività promozionali, ecc.), integrate da studi e ricerche settoriali e da rapporti d’impostazione più generale, che forniscono elementi utili a costruire scenari sullo sviluppo economico, sussistono le condizioni operative fondamentali per costruire previsioni accurate e ancora più affidabili. Alcune moderne tecniche di previsione della domanda, ad esempio, permettono di integrare nell’analisi i contenuti inseriti dagli utenti sulla rete attraverso i social network. Utilizzando queste informazioni è possibile ricostruire i gusti, le abitudini di consumo e il gradimento che i prodotti riscuotono. Le imprese possono sfruttare queste informazioni per orientare le loro campagne di marketing e per affinare le previsioni di domanda. I post sono analizzati mediante gli strumenti di text mining, una disciplina del data mining (letteralmente dall’inglese estrazione di dati, è l'insieme di tecniche e metodologie che hanno per oggetto l'estrazione di informazioni utili da grandi quantità di dati). Inoltre, mediante la clickstream analysis (è un approccio per esaminare il modo in cui gli utenti interagiscono con le pagine Web che si basa sul tracciamento dei clic effettuati dall'utente) le imprese sono in grado di ricostruire i pattern (modello di riferimento) temporali di navigazione degli utenti sui propri siti commerciali. Si definisce postponement (rinvio) lo spostamento, il più a valle (dopo) possibile lungo la successione di fasi del processo produttivo, del momento in cui materiali e componenti versatili sono sottoposti a lavorazioni che aggiungono valore mediante interventi differenziazione. È quindi una tecnica di produzione che sposta la personalizzazione del prodotto il più vicino possibile al cliente finale per ridurre il rischio di scorte elevate. In altri termini, mediante il postponement questa impresa riesce a tenere in magazzino componenti versatili, cioè utili alla realizzazione di numerose tipologie di prodotti, e a procedere alla loro personalizzazione solo dopo aver ricevuto l’ordine per una specifica tipologia. Si tiene conto della logica di tipo pull (logica di produzione in cui si cerca di produrre esattamente ciò che richiede il mercato). La fattibilità del postponoment è condizionata dall’ampiezza del lead time (il tempo necessario ad un produttore per completare un ordine dopo la generazione di un ordine di produzione) concesso dal mercato; evidentemente, infatti, l’azienda deve avere il tempo, dal momento in cui riceve l’ordine, di realizzare il prodotto richiesto. Il fenomeno che si vuole prevedere deve essere attentamente osservato da chi si occupa di fare stime su periodi futuri; alcuni “comportamenti” e tendenze devono essere registrate e tenute in considerazione. Per errore si intende la differenza tra il dato osservato e il valore teorico supposto esistente. L’errore è sempre calcolato a posteriori e vi sono vari procedimenti con i quali il calcolo può avvenire; uno dei più noti, ripreso nel seguito, è la deviazione media assoluta (MAD-mean absolute deviation). 2. I METODI QUANTITATIVI DI PREVISIONE Appartengono alla categoria dei metodi quantitativi di previsione, le tecniche di analisi univariata, che si fondano sostanzialmente sul presupposto che l’informazione utile per “spiegare” un certo fenomeno sia desumibile (ricavabile) dal suo andamento passato (dalla serie storica). 2.1. LE PROIEZIONI A BASE MULTIPERIODICA Una breve disamina (esame) delle metodologie di analisi univariata può partire con le proiezioni a base multiperiodica, in particolare con la media aritmetica. La qualità dei risultati, e quindi la vicinanza della previsione rispetto a quanto presumibilmente si verificherà, presuppone che i dati puntuali osservati si distribuiscano in modo regolare intorno alla media, senza evidenziare l’insorgere di fenomenologie congiunturali o stagionali (figura 3). In figura 3 si illustra il calcolo della media aritmetica di alcuni dati di vendita mensili, per i mesi di gennaio (200 unità vendute), febbraio (300), marzo (280), aprile (200) e maggio (380). La formula per il calcolo della media aritmetica è quella ben nota. Il calcolo dell’errore atteso delle previsioni può essere effettuato mediante l’utilizzo della deviazione media assoluta (MAD-mean absolute deviation). Nella formula della MAD, Et rappresenta l’errore (scostamento tra la domanda effettiva e la previsione effettuata) e n rappresenta il numero totale dei periodi considerati. Il margine di errore cresce quanto più si dilata l’orizzonte temporale di riferimento delle previsioni. Quando i dati storici mostrano una tendenza in aumento (o in diminuzione) che si ritiene possa verosimilmente proseguire anche durante l’arco temporale interessato dalla previsione, è opportuno l’utilizzo di tecniche studiate per “proiettare” l’andamento tendenziale del fenomeno. Dal punto di vista esclusivamente grafico, una proiezione di questo genere potrebbe presentarsi nel modo indicato in figura 4. 1. La tendenza sistematica all'aumento o alla diminuzione della grandezza osservata si chiama trend. 2. La fluttuazione di una grandezza osservata durante un certo periodo di riferimento si chiama di ciclicità delle variazioni. Quando il ciclo ha l’ampiezza di un anno, il fenomeno ciclico si definisce stagionale. In casi del tipo appena descritto, ci si avvale spesso di una tecnica denominata metodo dei minimi quadrati ovvero regressione lineare. Questa tecnica (nell’ipotesi di linearità) permette di stimare la retta interpolatrice che meglio “interpreta” l’andamento dei dati storici. In pratica, l’obiettivo è il calcolo dei parametri alfa e beta, che caratterizzano il rapporto tra la variabile dipendente Y (oggetto della previsione) e quella indipendente X. Per valutare la bontà del procedimento si può utilizzare il coefficiente di determinazione, R2, che misura lo scostamento intorno alla media (compreso tra 0 e 1) della variabile dipendente. Più il valore del coefficiente di determinazione si avvicina a 1, più si può affermare che l’andamento della variabile dipendente Y è legato effettivamente a quello della variabile indipendente X. Una valutazione della bontà del metodo può essere ottenuta anche misurando l’errore standard contenuto nelle stime, secondo la formula sotto indicata. L’errore standard è un indicatore che esprime la variabilità delle osservazioni intorno alla retta di regressione. Quando una serie di dati storici manifesta andamenti stagionali, che consistono in fenomeni ricorrenti a intervalli di tempo regolari, per ottenere previsioni più accurate e affidabili si può ricorrere a calcolo dell’indice di stagionalità. Per procedere alle previsioni in caso di stagionalità, si procede preliminarmente alla identificazione del tipo di variazione che interessa i dati: 1. Le osservazioni sono caratterizzate da variazioni additive nei casi in cui la previsione Y deve tenere conto della componente stagionale S, che si aggiunge alla componente media o tendenziale T. 2. Nel caso in cui, invece, si registrino variazioni moltiplicative rispetto al valore di riferimento, la formula della previsione indica che la componente stagionale S deve essere moltiplicata a quella media o tendenziale T, per ottenere il valore della variabile dipendente Y. 2.2. LE PROIEZIONI A BASE APERIODICA Nei metodi a base aperiodica si segue un procedimento cosiddetto a scorrimento; in pratica, per due previsioni successive si fa scorrere in avanti di una unità la successione di dati storici considerati, eliminando la prima delle osservazioni considerate al passaggio di calcolo precedente, e aggiungendo un ulteriore osservazione dopo quella considerata per ultima nel passaggio precedente. 1. Si può utilizzare la media mobile nei casi in cui il fenomeno da prevedere è spiegabile attraverso le manifestazioni più recenti. 2. Si può anche decidere di ponderare le osservazioni prese in considerazione (nella formula il fattore di ponderazione è indicato con la lettera P), ottenendo così la media mobile pesata; i pesi sono utilizzati per differenziare l’influenza delle differenti osservazioni rispetto a quello che si sta calcolando. In sostanza, la media mobile accompagna l’andamento del fenomeno in esame, lasciando il giusto spazio a eventuali caratteri di ciclicità e stagionalità. Le formule da applicare sono le seguenti: Lo “smorzamento” del fenomeno si ottiene, con la massima efficacia, utilizzando un metodo specifico denominato smoothing esponenziale che, partendo dal concetto della media mobile ponderata, prevede l'associazione di “pesi” crescenti, a mano a mano che il fenomeno osservato si avvicina al momento temporale cui si riferisce la previsione. La logica di calcolo è iterativa: ogni previsione si “aggiusta”, infatti, tenendo conto dell’errore commesso in quella precedente. Un affinamento della tecnica appena illustrata può essere ottenuto facendo variare il coefficiente di smorzamento (a) in funzione delle condizioni di contesto, monitorate attraverso un indice (tracking signal) costruito mettendo a rapporto l’errore cumulato di previsione RSFE (running sum of forecast error) e la deviazione standard. Tra i metodi a base aperiodica rientra, infine, la simulazione; con questa tecnica si procede per aggiustamenti continui step by step, e si misurano le differenze tra i valori effettivi e le previsioni, per poi costruire serie diverse di errori simulati, e scegliere quella che presenta i valori più contenuti. La routine di simulazione più diffusa prende il nome di focus forecasting (previsione mirata). 2.3. LE TECNICHE DI PROIEZIONE ASSOCIATIVA Le tecniche di proiezione associativa pervengono alle stime future di un fenomeno sulla base dell’andamento di un fenomeno diverso, che è più semplice da analizzare. L’indice guida è un fenomeno il cui andamento è noto, o comunque facilmente prevedibile, che spiega in modo soddisfacente il fenomeno che si vuole prevedere. La bontà di un indice guida può essere valutata mediante il coefficiente di correlazione, che misura il grado di associazione tra le due variabili considerate. Se il coefficiente di correlazione risulta pari a zero, si può affermare che tra i due elementi considerati non vi è alcuna correlazione. 1. Quanto più il coefficiente di correlazione tende a +1, tanto più si può affermare che tra i fenomeni considerati vi è una correlazione diretta o positiva (in particolare, se r= +1 si parla di correlazione positiva perfetta). 2. Infine se il coefficiente tende a -1, allora si parla di correlazione inversa (in particolare, se r=-1 si parla di correlazione negativa perfetta). È il caso di specificare che la presenza di correlazione tra dati può essere evidenziata in via del tutto preliminare attraverso la rappresentazione grafica degli stessi; dalla forma che assume la “nube dei punti” associata alle osservazioni considerate, infatti, si può desumere l’esistenza e il segno della correlazione come mostrato in figura 7. Quello appena presentato è un caso di correlazione positiva tra i dati osservati. CAPITOLO 6. LA PROGRAMMAZIONE DELLA PRODUZIONE 1. I PROCESSI OPERATIVI DI ACQUISIZIONE ORDINI, PRODUZIONE E DISTRIBUZIONE Alcune imprese manifatturiere programmano, organizzano e gestiscono le proprie operazioni di fabbrica con l’obiettivo di alimentare nel continuo il magazzino prodotti finiti (make to stock, MTS: fare scorta), assicurando il rispetto dei livelli “ottimali” di giacenza stabiliti in sede di budget, talvolta revisionati durante l’anno, e seguendo le procedure di replenishment (rifornimento) previste, in modo da ottenere una differenzazione basata sulla compressione massima dei lead time di consegna. In altri casi, invece, si cerca di ridurre l’impegno finanziario e il rischio collegato al magazzino, organizzando il sistema di produzione in funzione delle richieste di mercato. Questo approccio porta, eventualmente, anche ad adottare modelli di manufacturing (produzione), assimilabili concettualmente alle lavorazioni su commessa, che “regolano” periodicamente le operazioni solo dopo avere acquisito e consolidato il portafoglio ordini. Esistono diverse tecniche finalizzate alla realizzazione di prodotti che non siano destinati al magazzino. Il modello che va sotto il nome di make to order (MTO: fare su ordinazione) cerca di conciliare la necessità di elaborare proposte di marketing elaborate per rispondere alle esigenze di specifici segmenti di mercato con le regole della produzione industriale su larga scala. Parliamo di regole della produzione industriale perché, nella stessa, soltanto alcune fasi del processo possono essere dedicate all’attività di “personalizzazione” del manufatto, mentre altre devono necessariamente essere standardizzate. Si utilizzano, pertanto, materiali e componenti generici per la creazione in serie di una gamma di prodotti basici, che poi possono essere avviati alla fase di completamento tenendo conto delle richieste puntuali espresse dal mercato attraverso gli ordini, in termini sia di varietà (nell’ambito comunque di un ventaglio di opzioni previsto “a catalogo”) sia di lead time di consegna. Questa pratica, come detto in altra parte del volume, è denominata postponement (rinvio: sposta la personalizzazione del prodotto il più dopo possibile). Per ottenere prestazioni soddisfacenti per l’impresa e per il mercato questi modelli richiedono sistemi informativi particolarmente potenti, in grado di supportare il lavoro dei responsabili della pianificazione della produzione con dati analitici e continuamente aggiornati, indispensabili per sincronizzare le diverse componenti della catena logistica. Sempre restando nell’ambito delle tecniche cosiddette “non make to stock (non fare scorta)”, una variante semplificata della produzione su ordine è quello alla quale è stato attribuito il termine di assembler to order (ATO: assembla sulla base dell'ordine). Le imprese che lo utilizzano, in sostanza, “ritardano” ulteriormente il momento della “personalizzazione” della gamma di vendita prevedendo, nella sola fase finale di assemblaggio, procedure dedicate alla realizzazione di articoli specificatamente richiesti dalla clientela, le cui caratteristiche differenziali dipendono essenzialmente dalle modalità con le quali possono essere combinati i diversi materiali previsti all’ultimo livello della distinta base (bill of materials: documento che definisce tutti gli elementi necessari per la realizzazione di un determinato prodotto). Va sotto il nome di engineering to order (ETO: un prodotto viene progettato e realizzato dopo l'arrivo dell'ordine) la tecnica che avvicina di più i sistemi make to order al mondo delle lavorazioni su commessa, e che consiste nel massimo spostamento in avanti del momento di avvio del ciclo produttivo, subordinando anche le attività di progettazione e le indicazioni provenienti dagli ordinativi della clientela. Per oltre due decenni, l’implementazione nell’ambito dei sistemi di produzione della logica make to order è stata considerata un obiettivo da raggiungere per le imprese che realizzano manufatti industriali in grande serie. Oggi, però, le differenze tra i settori industriali portano a rivalutare le logiche alternative, che in taluni casi sembrano rappresentare la migliore soluzione. 2. STRATEGIE AZIENDALI E PROGRAMMAZIONE DELLA PRODUZIONE Attraverso la costruzione di un sistema di piani integrati si possono efficacemente gestire le differenze (sia qualitative che quantitative) tra le richieste del mercato e l’offerta realizzata dall’impresa. Le tipologie e il numero delle lavorazioni, nonché le modalità con cui esse sono attivate ed eseguite, influenzano le decisioni riguardanti la programmazione. La programmazione della produzione, nelle aziende manifatturiere, si occupa di definire i piani o i programmi di produzione e quindi di stabilire cosa, quanto e quando produrre con diversi livelli di dettaglio e diversi orizzonti temporali. Le strategie adattabili in tal senso possono essere distinte essenzialmente in due categorie: 1. La prima, denominata di livellamento, si spira l’idea di stabilizzare i volumi produttivi intorno a un valore corrispondente alla media delle vendite previste per il periodo futuro oggetto di programmazione (figura 1)- >Strategia che ragiona prima. È evidente che nei periodi in cui la domanda effettiva è inferiore rispetto ai quantitativi di produzione realizzati si genereranno delle scorte, alle quali si attingerà nei periodi in cui, viceversa, la produzione risulterà inferiore rispetto all’assorbimento di mercato. 2. All’estremo opposto rispetto alla strategia di livellamento si colloca la strategia di adattamento, secondo la quale si decide di “inseguire” la domanda, adattando il ritmo della produzione agli andamenti di mercato (figura 2)->Strategia che si ragiona