Biologia Molecolare PDF
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Questo documento descrive la biologia molecolare, focalizzandosi sul genoma e le sue caratteristiche in organismi procarioti ed eucarioti. Viene spiegato il paradosso C e il ruolo dell'RNA regolatore. Il documento presenta una panoramica delle diverse tipologie di DNA e del processo della duplicazione.
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1 BIOLOGIA MOLECOLARE Il genoma è l’informazione genetica presente nelle nostre cellule→ l’intera massa del DNA cellulare e quindi il patrimonio...
1 BIOLOGIA MOLECOLARE Il genoma è l’informazione genetica presente nelle nostre cellule→ l’intera massa del DNA cellulare e quindi il patrimonio proprio di una cellula, che appartiene a un organismo, il quale fa parte a sua volta di una specie→ consiste in una sequenza lineare di mattoncini chiamati desossiribonucleotidi (una sequenza di pacchetti chimici) che accomuna e viene decodificata allo stesso modo in tutte le cellule di tutti gli organismo viventi→ questo aspetto è alla base della conservazione della vita sulla Terra All’interno di un unico organismo la molecola di DNA è uguale in tutte le cellule→ tutte le cellule del nostro corpo posseggono al loro interno lo stesso identico materiale genetico ed è nostro compito capire perché possediamo diversi gruppi cellulari differenziati e quindi, ad esempio, perché le cellule della retina si comportano in un certo modo mentre le cellule β del pancreas si comportano in modo completamente differente→ capire la variabilità dell’espressione genica delle nostre cellule a parità di genoma presente all’interno del nucleo delle stesse. Le cellule batteriche sono prive di nucleo e possiedono un unico cromosoma circolare, presente all’interno della cellula e assemblata con proteine che ne rendono possibile il compattamento all’interno di uno spazio ristretto. La regione in cui è presente questa molecola viene definito nucleoide, privo di alcun tipo di membrana che la contenga. Tuttavia, non tutta l'informazione genetica è contenuta nel cromosoma: in aggiunta a esso, molti batteri ospitano molecole più piccole dette plasmidi, molecole circolari di DNA a doppia elica separate dal cromosoma principale. I plasmidi sono lunghi poche migliaia di paia di basi (un cromosoma batterico possiede mediamente un milione di paia di basi), contengono circa 10-12 geni e hanno una propria origine di replicazione che ne consente la duplicazione sincrona con quella del cromosoma, in modo da essere ereditati dalle cellule figlie. I plasmidi possono passare facilmente da una cellula batterica all'altra. Per esempio, quando un batterio muore e la cellula si rompe, i plasmidi rilasciati possono essere acquisiti da cellule batteriche adiacenti. La presenza di DNA extra-cromosomale è di grande importanza per la vita e l'evoluzione dei batteri, in quanto grazie ai geni contenuti in queste molecole sono codificati elementi strategici per permettere ai batteri di sfuggire a molecole tossiche, come gli antibiotici. Queste molecole hanno permesso la tecnologia del DNA ricombinante, essendo piccole e facilmente manipolabili in laboratorio. TRASMISSIONE ORIZZONTALE Gli eucarioti Le cellule eucarioti invece posseggono una sequenza nucleotidica superavvolta e legata a proteine dette istoni per formare fibre di cromatina, che a loro volta si concentrano a formare i cromosomi, contenuti nel nucleo. Il corredo cromosomico può essere aploide o diploide. È costante e specifico a livello di specie, sia sotto il profilo numerico sia sotto quello morfologico. Il compattamento in cromosomi è una strategia che permette ai 2 metri lineari di genoma di essere contenuti in un corpuscolo detto nucleo del diametro di circa 7 micron. Anche le cellule eucariote hanno del DNA extra-cromosomale, che nel caso delle cellule animali è presente nei mitocondri, organelli deputati alla sintesi di ATP. Il DNA mitocondriale presenta alcune analogie con il DNA nucleare, come per esempio il doppio filamento di nucleotidi, la composizione in termini di basi azotate e la presenza di geni. Tuttavia, presenta anche alcune particolarità, sia strutturali sia funzionali, che lo rendono unico nel suo genere. Tra queste particolarità, rientrano: la circolarità del doppio filamento di nucleotidi, il contenuto di geni (che è solo di 37 elementi) e la quasi totale assenza di sequenze di nucleotidi non codificanti. 2 L’omologo vegetale del mitocondrio è il cloroplasto, un organello circondato da una doppia membrana (come il mitocondrio) che è deputato alla sintesi di ATP mediante la fotosintesi. Mitocondri e cloroplasti hanno al loro interno un corredo cromosomico particolare essenziale per le funzioni estremamente specializzate di questi organelli. Secondo la teoria endosimbiontica, queste strutture sarebbero state in grado di penetrare nelle cellule eucariote, avendo origine del tutto procariote, e avrebbero dato origine a un rapporto di simbiosi (favori reciproci) che col passare delle generazioni avrebbe permesso loro di essere trattenute all’interno delle cellule eucariote. Si pensava che l’apparato proteico deputato al compattamento del genoma nel nucleo avesse solo funzione strutturale, ma ora si è scoperto che questo ha anche una funzione fondamentale nella regolazione dell’espressione genica ed è il protagonista dell’epigenetica. Paradosso di C Nonostante l’uomo si trovi in cima alla piramide evoluzionistica, egli non presenta il genoma più complesso di tutti gli esseri viventi. Il gamberetto e le felci hanno un numero di cromosomi estremamente superiore a quelle degli umani. Se si analizzano le caratteristiche del genoma degli organismi sia procarioti che eucarioti è possibile osservare che non esiste alcun tipo di proporzionalità tra la complessità del genoma, intesa come quantità fisica di DNA, e la complessità dell’organismo cui il genoma appartiene. →“Paradosso di C” (“C” di “complessità”). Ad oggi abbiamo una spiegazione per questo paradosso, grazie al lavoro titanico di sequenziamento del genoma umano (Human Genome Project), descritto su Nature nel febbraio 2001. Il sequenziamento del genoma ha permesso di capire che di tutte le sequenze presenti nel DNA delle cellula eucariote umana, soltanto l’1,5% codifica per prodotti proteici. Il restante 98,5% è stato per molto definito junk DNA (dna spazzatura), in quanto non codificante. Osservando il genoma procariote ed eucariote si notano varie differenze strutturali. Il genoma procariote è quasi totalmente codificante; ciò significa che al suo interno ciascuna sequenza è responsabile della produzione di uno specifico elemento proteico. Talvolta esistono addirittura stesse sequenze codificanti per più di una molecola. Salendo sulla scala evolutiva invece ed avvicinandosi a Homo sapiens il compattamento genico diminuisce. Analizzando genomi più complessi è possibile notare come a sequenze codificanti si intervallino sempre più sequenze non codificanti. Più l’organismo è complesso, meno i geni che codificano per prodotti proteici sono strettamente impacchettati vicino l’uno con l’altro e più il suo genoma è costituito da sequenze di riempimento (Junk DNA). Il genoma umano è rimasto così per centinaia di migliaia, a cosa serve il 98% del dna non codificante? Il Junk DNA, secondo alcune ipotesi, viene considerato come quantità extra di DNA che va a rigenerare un possibile danneggiamento di quello codificante, in modo da mantenere inalterato il patrimonio genetico ereditario della specie nelle generazioni, ed evitare che le eventuali mutazioni colpiscano il DNA codificante. Le regioni intergeniche ricoprono quindi una funzione difensiva. Un’altra tesi attribuisce al junk DNA una funzione di regolazione. Questa tesi è sostenuta dal fatto che tra le sequenze del DNA non codificanti compaiono sequenze regolatrici, come ad esempio quelle dei promotori, che si occupano di modulare l’espressione genica. Proprio per questo motivo se le sequenze promotrici vengono alterate, si rischia di alterare le sequenze codificanti per successivi prodotti proteici. Tra le altre tesi vi è quella che intende il junk DNA come deposito di materiale genetico silenziato, perché non necessario alla sopravvivenza sul pianeta. Ciò è stato dimostrato dal momento che in seguito al sequenziamento è emersa la grande presenza di genomi virali silenziati, capaci di integrarsi all’interno di una 3 doppia elica di DNA. Ciò accade ad esempio nel caso dei retro-virus, massicciamente presenti e che possibilmente si possono riattivare. Tutte queste considerazioni sono state incluse nel concetto di trascrizione pervasiva o estensiva, con il quale si spiega che il nostro genoma, indipendentemente che codifichi per proteine o meno, viene trascritto in acido ribonucleico. Quindi per cosa codificano le sequenze rimanenti? Per piccoli RNA regolatori (circa 40mila), ma solo una piccola parte di questi ha un ruolo ben chiaro. Alcuni modulano negativamente o positivamente l’espressione genica, silenziano intere regioni del genoma, portano alla trascrizione continua e ripetuta di altre sequenze geniche, governano lo sviluppo di interi organismi, guidano le caratteristiche embrionali dei diversi tipi cellulari all’interno dell’embrione in formazione. Sono quindi proprio queste piccole molecole di RNA regolatore a fare da cardine all’individualità genica di una cellula e quindi di ciascun organismo. Secondo recenti studi, pare che questo tipo di molecole sia responsabile di fattori come orientamento sessuale, capacità di apprendimento, specifici caratteri psicologici e della personalità ed il silenziamento del cromosoma X. Quindi il paradosso C (paradosso della complessità) viene spiegato, perché più l’organismo è semplice e meno ha bisogno di questi RNA regolatori che vadano a modulare la propria espressione genica. Man mano che si sale nella scala evolutiva, la sofisticatezza dell’espressione genica è raggiunta grazie alle molecole dei piccoli RNA regolatori. L’acido desossiribonucleico è composto da unità strutturali che sono i desossiribonucleotidi, strutture chimiche formate da uno zucchero pentoso, da un gruppo fosfato e una base azotata. Gli zuccheri che compongono i nucleotidi sono dei pentosi: ribosio per l’RNA e desossiribosio per il DNA. Le basi azotate sono delle strutture ad anello, divise in pirimidine e purine. L'acidità che caratterizza il DNA è causata dal gruppo fosfato, il quale in ambiente acquoso (in cui il DNA è immerso) è in grado di cedere protoni, conferendo una carica netta negativa al DNA. Un nucleotide può contenere uno, due o tre gruppi fosfato. L’ATP, molecola deputata a fornire energia nelle reazioni biologiche, è un nucleotide con tre fosfati la cui base è un’adenina. È l’idrolisi del gruppo trifosfato con rilascio di due fosfati, chiamati nell’insieme pirofosfato, che genera l’energia necessaria per il compimento di numerose reazioni chimiche I filamenti di DNA sono composti da nucleotidi legati tra di loro da un legame covalente. Il processo di formazione del legame è il seguente: alla posizione 3’ (contenente il gruppo OH) del nucleotide precedente già legato alla catena viene attaccata la posizione 5’ (contenente il gruppo fosfato) del nucleotide che viene incorporato (uno specifico deossiribonucleotide trifosfato = dNTP). A questo punto, la formazione del legame (o ponte) fosfodiestereo (legame covalente estremamente stabile) tra i due nucleotidi è catalizzata da enzimi dette polimerasi, che possono essere DNA polimerasi nel caso in cui lo zucchero dei nucleotidi sia un desossiribosio o RNA polimerasi nel caso in cui invece sia un ribosio. Questo procedimento porta all’eliminazione di fosfato in eccesso (che viene scisso in due molecole di fosfato inorganico). Il primo nucleotide della sequenza avrà la posizione 5’ non impegnata in alcun legame: questo rappresenta l’estremità 5’ del filamento di DNA o RNA. L’ultimo nucleotide, invece, avrà la posizione 3’ libera, non coinvolta in alcun legame. l filamenti hanno una polarità ben definita: polarità 5’→3’. Il filamento complementare, invece, avrà una polarità opposta: un filamento avrà l’estremità 5’ affacciata all’estremità 3’ dell’altro filamento; per questo motivo i filamenti vengono detti antiparalleli. Interazioni intramolecolari 4 La distanza intercatena costante tra i due filamenti antiparalleli viene mantenuta grazie all’appaiamento di basi che formano spontaneamente dei legami a idrogeno tra le basi azotate opposte che costituiscono i nucleotidi. Questi legami si formano tra adenina e timina (tra cui si instaurano due legami ad H) e tra citosina e guanina (tra cui si instaurano tre legami ad H). Questo fa sì che la doppia elica raggiunga una conformazione stabile in ambiente acquoso. La molecola di DNA che si forma ha una regione estremamente idrofila, costituita dallo scheletro zucchero-fosfato, e un core interno estremamente idrofobico, costituito dagli anelli delle basi azotate La denaturazione è un processo (a volte forzato in maniera sperimentale) che porta alla separazione dei due filamenti complementari per motivi quali il calore e il pH non fisiologico. La denaturazione, però, avviene anche durante il processo di sintesi, correzione e trascrizione del DNA grazie all’azione di determinate molecole in grado di superare la conformazione estremamente raggomitolata del DNA nel nucleo (questo per esempio avviene in vivo grazie alle elicasi, proteine che attuano in maniera estremamente controllata una denaturazione localizzata del genoma). I due filamenti denaturati, dopo un certo periodo di tempo possono riassumere spontaneamente la conformazione iniziale. Tutte le molecole di DNA hanno una curva di melting (denaturazione) tracciata in base alla temperatura, sulla quale viene riportata la percentuale della molecola che passa dalla conformazione a doppio filamento alla conformazione a filamento singolo. Il punto di flesso della curva (temperatura di melting) rappresenta la temperatura a cui il 50% del DNA è denaturato. La percentuale di DNA denaturato aumenta con la temperatura. Dato un filamento di DNA, la temperatura di denaturazione aumenta se sale il contenuto di nucleotidi aventi come base la guanina e la citosina (a causa dei 3 legami a idrogeno da dover scindere). Ne consegue che è estremamente più probabile che l’origine della duplicazione/trascrizione del genoma avvenga in quelle regioni dove: la cromatina è più accessibile, meno compattata la frazione di nucleotidi con adenina e timina è maggiore, poiché minore sarà l’energia necessaria a denaturare localmente il DNA in quella regione. Ogni cellula vivente svolge tutte le proprie funzioni in maniera ciclica. Passa attraverso varie fasi, che partono dalla crescita e portano la cellula a duplicare il genoma per arrivare a dividere il patrimonio genetico e spartirlo tra due cellule figlie, in modo che ognuna di essere abbia lo stesso patrimonio genetico della cellula parentale. Questo processo deve essere estremamente preciso e non può subire mutazioni neanche a livello di durata temporale. Il periodo che intercorre tra due successive divisioni cellulari è definito ciclo cellulare. Il ciclo cellulare può essere diviso in interfase e mitosi. Durante l’interfase il nucleo è ben visibile al microscopio. Nel corso dell’interfase si possono distinguere tre sottofasi, denominate G1, S e G2. La fase G1 è quella in cui la cellula si accresce e svolge le proprie specifiche attività. Durante la fase S la cellula smette di occuparsi di qualsiasi funzione, rallenta il metabolismo e utilizza tutta la propria energia solo e soltanto per duplicare il proprio genoma. Questo processo deve essere estremamente preciso e non deve subire alcun tipo di alterazione sia nella scansione temporale sia nei meccanismi che lo regolano. Sia nei procarioti che negli eucarioti si sono evoluti meccanismi sempre più precisi per mantenere il tasso di errore sempre più basso: viene incorporata in maniera errata circa 1 base ogni 109di basi copiate. Nella fase G2 la cellula sintetizza tutto ciò che le serve per effettuare la divisione cellulare: i cromosomi, che sono stati duplicati nella fase precedente e che erano in forma di cromatina, si condensano e iniziano la spiralizzazione. La fase G2 termina con l’inizio della fase M (profase della divisione cellulare). Alcune cellule perdono la capacità di dividersi ed entrano nella fase G0, precedente alla S, che può durare da pochi giorni a molti anni; in alcuni casi l’ingresso in fase G0 è irreversibile e la cellula non può più dividersi. 5 Ogni volta che la cellula va incontro a un ciclo deve duplicare il suo materiale genetico per generare delle cellule figlie con un DNA identico a quello della madre. Il processo di sintesi del genoma avviene solo e soltanto in fase S. In fase S il contenuto nucleotidico presente all’interno del nostro nucleo è duplicato in modo da garantire alle due cellule figlie che origineranno a seguito della mitosi e della citodieresi della cellula un corredo cromosomico identico alla cellula generatrice. Sia nei procarioti che negli eucarioti si sono sviluppati meccanismi per mantenere pochissimi errori, viene sbagliata una base ogni miliardo circa. Tutta l’energia della cellula è destinata alla reazione di duplicazione in questa fase. Nell’articolo pubblicato nella rivista “Nature” il 25 aprile 1953 Watson e Crick oltre a descrivere la struttura della doppia elica hanno ipotizzato che la struttura identificata potesse far supporre un meccanismo replicativo della stessa. Pur non sapendo nulla dei dettagli chimici propri della doppia elica, solo in base alla sua struttura, si poteva intuire la fedeltà del meccanismo di replicazione ossia il mantenimento dell’appaiamento tra le basi azotate. Il DNA viene duplicato mantenendo l’architettura e la forma tridimensionale super compattata che è tipica del DNA. Nella cellula 2 m di DNA lineare vengono impacchettati in un nucleo del diametro di 7 μm e per tutta la fase di duplicazione viene mantenuta questa architettura e forma tridimensionale. La duplicazione o replicazione del DNA è un processo semiconservativo: da una molecola parentale si ottengono due molecole figlie costituite da una elica originale e da una seconda elica che viene sintetizzata ex novo, ottenendo due molecole ibride. Quando si passa alla seconda duplicazione, partendo dalle molecole ibride, ci sarà una molecola completamente nuova ed una che è ancora un ibrido tra il filamento parentale originale e un filamento nuovo. Questa ereditarietà è stata provata sperimentalmente disprovando le atre due ipotesi di replicazione conservativa e dispersiva. La duplicazione ha inizio in regioni precise chiamate origini di duplicazione, parti del cromosoma ricche di adenina e timina in cui la denaturazione del DNA avviene in maniera più semplice, dato che qui devono essere scissi solo due legami a idrogeno per coppia di basi. Qui la macchina enzimatica deputata alla duplicazione del DNA prende contatto con la doppia elica (su cui si crea quindi uno spazio fisico per permettere l’accesso) e viene caricata sull’origine, pronta a iniziare la duplicazione del genoma. L’origine, quindi, è una regione di denaturazione localizzata in cui presto si forma una bolla di replicazione. Si crea la cosiddetta bolla di replicazione, l’evoluzione dell’origine di duplicazione: una volta che l’origine è riconosciuta dalla macchina, il DNA si allarga e si denatura come una cerniera lampo, formando una bolla ai margini della quale ci sono le forcelle di replicazione. La bolla di replicazione è quindi una regione denaturata che si sposta lungo il genoma con l’avanzamento della forca replicativa, ossia la struttura ad Y a livello della quale lavora la DNA Polimerasi. Da quest’area la replicazione avviene in entrambe le direzioni. Differenze nel processo di replicazione tra procarioti ed eucarioti Tutte le cellule sono dotate di cromosomi, ma gli eucarioti e i procarioti li replicano in modo differente. Il DNA dei procarioti è circolare, quello eucariote è lineare: la macchina replicativa procariotica affronta il processo di duplicazione a partire da un’origine che viene riconosciuta dalla macchina replicativa, la quale crea un punto di denaturazione localizzata. Le due forche replicative procedono in senso opposto l’una all’altra lungo tutta la molecola circolare parentale duplicando completamente la molecola parentale fino a creare due molecole identiche alla molecola genitrice. Le due molecole gemelle inizialmente sono ancora legate l’una all’altra. La differenza principale è nel numero di forcelle di replicazione che si vengono a creare: nei procarioti si crea una sola bolla di replicazione, negli eucarioti le origini di replicazione sono sparse lungo il genoma per una questione di sopravvivenza. I cromosomi eucarioti sono talmente grandi che ci vorrebbero 33 giorni per replicare un cromosoma umano usando una sola origine di replicazione e quindi una sola bolla: i maggiori siti di replicazione sono un risultato del processo evolutivo. 6 Tempi di replicazione: i batteri replicano i loro piccoli genomi in minuti, la cellula eucariote invece, in particolare un intero cromosoma umano, ci mette 8 ore per una replicazione completa. L’apparato enzimatico eucariotico è più complicato di quello procariote ma la sintesi chimica è la stessa. Lunghezza complessiva del genoma: il genoma eucariote è molto più lungo di quello procariote. La lunghezza del genoma di E. coli è di 4,6 Mb, ovvero 4,6 milioni di paia di basi. Se distendessimo questo DNA in linea retta, sarebbe lungo circa 1.4 mm, ma riesce a stare all’interno del batterio stesso, grande appena 1 µm. Per il mondo procariote E. Coli è considerato il modello per gli studi di genetica batterica. A partire dall’analisi della replicazione del suo DNA si sono stabilite alcune regole valide in tutto il mondo dei procarioti. Elementi caratterizzanti della replicazione Origine di replicazione: affinché si crei la bolla di replicazione la temperatura in vivo deve essere di 37°C e il pH di 7.4 e deve avvenire in maniera naturale e fisiologica. Sia nei procarioti che negli eucarioti, sono state identificate le sequenze Ori, zone estremamente circoscritte lunghe circa 200 paia di basi (l’origine minima di E. Coli è lunga solo 245 paia di basi), caratterizzate da un’alta percentuale di adenine e timine, in grado di garantire una facile denaturazione del DNA per permettere la formazione della bolla di replicazione. A livello di questa regione viene richiamata una macchina molecolare speciale deputata a segnalare che quella regione è proprio una origine di duplicazione. Sequenze consensus Nella fase finale le due forche continuano in direzione opposta fino ad ottenere le due molecole figlie interconnesse tra di loro. A 180 gradi rispetto al sito di origine esiste il sito di terminazione (sequenza Ter): un sito in cui le due macchine molecolari si trovano faccia a faccia. Questo punto, in cui le forcelle si scontrano, ha una sequenza ben precisa (così come funziona per ori) ed è il punto dove viene reclutata ed interviene la topoisomerasi II. Questa fa un taglio in uno dei due anelli e libera nell’ambiente le due molecole. I tre principi della duplicazione eucariote e procariote 1. La duplicazione del genoma deve essere semiconservativa: la DNA polimerasi non può inserire a caso sequenze nuove, deve copiare lo stampo. 2. La replicazione deve incominciare solo e soltanto a partire dalle origini, quei punti in cui il DNA viene denaturato e che costituisce il punto di partenza per due forcelle replicative che si muovono in direzione opposta rispetto all’origine stessa 3. La sintesi di un nuovo filamento deve avvenire con una direzionalità, ossia solo e soltanto in direzione 5’→3’: è l’unica che permette l’aggiunta di nucleotidi e quindi la sintesi di nuovi filamenti a partire dagli stampi. Il processo di polimerizzazione può essere sintetizzato in tre fasi distinte: 1. Formazione della bolla di replicazione. 2. Fase di copiatura del filamento parentale a livello di entrambi i filamenti parentali che fungono da copia per la polimerizzazione di due molecole di DNA figlie. 3. Creazione e ottimizzazione delle due molecole figlie di neosintesi: esse devono essere controllate in maniera estremamente precisa da apparati enzimatici per verificare la fedeltà che la polimerasi ha avuto nei confronti del filamento stampo. Questo è alla base della trasmissione dell’informazione genetica identica da madre a figlie. La denaturazione del DNA in vitro può avvenire con metodi fisici o chimici. All’interno del nucleo delle nostre cellule, il meccanismo è affidato ad enzimi chiamati DNA elicasi, che svolgono una funzione essenziale al processo di duplicazione; per fare questo hanno mantenuto inalterata la propria struttura nel corso dell’evoluzione. Per svolgere la loro funzione usano un’enorme quantità di energia derivata dall’idrolisi dell’ATP. La replicazione avviene ogni 12 ore. 7 La replicazione ha inizio in corrispondenza dell’origine di replicazione, su cui si legano due complessi di replicazione, che contengono l’enzima in grado di legare i nucleotidi tra loro, la DNA Polimerasi. Il punto in cui il DNA viene aperto per consentire l’azione della DNA polimerasi è detto forca (o forcella di replicazione). A livello della forcella di replicazione avviene la copiatura del filamento parentale. L’enzima “principe” della replicazione, cioè la DNA polimerasi, è un complesso multi-proteico formato da un insieme di subunità enzimatiche, che coordinandosi tra loro portano alla duplicazione del genoma. Essa richiede un innesco per poter procedere alla sintesi di un nuovo filamento. All’interno del nucleo della cellula l’entropia è molto alta, apparentemente incompatibile con la copiatura precisa di ogni singolo nucleotide in un filamento complementare. Durante la fase S del ciclo cellulare (dura circa 8-12 ore), le cellule eucariotiche dei vari tessuti duplicano il proprio DNA; perché questo possa avvenire il complesso DNA polimerasico è strutturato in maniera tale da ottimizzare la precisione e l’intero insieme di reazioni chimiche. La polimerasi è rappresentata graficamente come una mano destra. Il palmo di una mano è una sorta di ambiente circoscritto e protetto; le dita proteggono il sito catalitico in cui avviene la duplicazione, isolandolo dall’entropia esterna e creando le condizioni più favorevoli alla fedele copiatura del filamento stampo. L’insieme di tutti gli enzimi forma una sorta di “grotta molecolare”, al cui interno l’entropia si abbassa, rendendo possibile una copiatura fedele. È necessario avere un corretto orientamento tra i nucleotidi di stampo e quelli che entrano nel sito catalitico in modo da garantire il riconoscimento delle basi complementari e rendere possibile l’incorporazione di un nuovo nucleotide complementare nel filamento che sta crescendo. Per permettere il corretto appaiamento tra i residui che formeranno il legame idrogeno, è necessaria una superficie piana che permetta la posizione più consona alla complementarità delle basi e la formazione del legame fosfodiesterico. Le basi complementari possono affacciarsi le une alle altre, e se la complementarità viene rispettata, possono rendere possibile la formazione del legame. La replicazione del DNA richiede numerosi enzimi e fattori proteici (più di 20) che nell’insieme costituiscono il sistema della DNA replicasi o REPLISOMA La DNA polimerasi effettua una reazione enzimatica estremamente semplice: nel sito catalitico entra il nucleoside trifosfato; la base azotata si appaia al filamento stampo e infine si effettua l’attacco nucleofilo del fosfato in 5’ sull’ossidrile 3’ (formando un legame fosfodiestereo). Così si elimina pirofosfato (i 2 restanti gruppi fosfato), che viene idrolizzato a due gruppi di fosfato inorganico dalla pirofosfatasi e la reazione è resa irreversibile. Questo tipo di catalisi è estremamente semplice. Il punto critico è invece l’ambiente circostante, che deve rendere possibile un meccanismo di copiatura fedele con un tasso di errore pari a 1 su un miliardesimo. Caratteristiche delle DNA Polimerasi Tutte le DNA polimerasi condividono queste caratteristiche: 1. Le DNA polimerasi non sono in grado di rompere i legami a idrogeno e di denaturare la doppia elica per creare la bolla di replicazione; quindi, ci sarà bisogno di enzima dedicato (elicasi). 2. La DNA polimerasi non è in grado di sintetizzare un filamento di DNA ex novo e ha sempre bisogno di uno stampo da copiare, fornito dai filamenti di un’elica preesistente. 3. Le DNA polimerasi hanno bisogno di un innesco (che deve esporre un’estremità 3’-OH libera) al quale aggiungere i nucleotidi del nuovo filamento e sul quale poter formare il legame fosfodiesterico. A differenza di quanto accade per altri enzimi polimerasici come ad esempio le RNA polimerasi, che cominciano ex novo la sintesi di un filamento di RNA, le DNA Polimerasi non sono enzimi autonomi. 4. L’orientamento dei due filamenti di DNA è antiparallelo e anche il processo di neosintesi è direzionale, procedendo solo in direzione 5’→ 3’. 8 5. Le DNA polimerasi usano come substrato soltanto i quattro nucleotidi trifosfato, che troviamo nella sequenza del DNA, e non possono incorporare nucleotidi con base azotate diverse perché non si accomodano nella tasca enzimatica al centro dell’enzima creando una tensione sterica tale per cui la catalisi non procede. In sintesi, le principali caratteristiche della DNA polimerasi sono: 1. La replicasi non rompe i legami idrogeno; 2. Necessita di uno stampo da copiare; 3. Necessita un primer (innesco) da cui iniziare il processo di sintesi; 4. Ha una direzionalità di lavoro precisa. Per lavorare, la polimerasi del replisoma, ossia un complesso di enzimi e proteine accessorie che lavorano insieme, ciascuno con un compito specifico, per favorire la replicazione del DNA. le elicasi, enzimi deputati a creare la bolla di replicazione denaturando e scindendo i legami a idrogeno tra le basi azotate (usano ATP per svolgere i filamenti di DNA); le topoisomerasi, degli enzimi deputati a rilasciare l’energia torsionale che si crea al momento della denaturazione del DNA; le single-strand binding protein (SBB), proteine strutturali che hanno un ruolo nel creare l’ambiente ideale al processo di replicazione, stabilizzando i filamenti singoli; le primasi, classe di enzimi che sintetizzano l’innesco nel processo di duplicazione; le DNA ligasi, classe di enzimi deputata ad unire tra loro, mediante legame covalente, eventuali frammenti (Okazaki) di DNA che sono stati formati soprattutto sul lagging strand durante il processo di duplicazione. La doppia elica si denatura localmente da Ori, dove si crea una bolla a livello della quale hanno accesso gli enzimi deputati alla replicazione. Questa bolla ha due estremità chiamate forcelle di replicazione (o forche), a livello delle quali lavorano le elicasi per denaturare il DNA (come una zip) e permettere quindi la copiatura del filamento stampo da parte della DNA polimerasi. Il DNA parentale viene denaturato in due filamenti definiti come leading strand e lagging strand, con orientamento antiparallelo. Il leading strand (template) viene duplicato con direzionalità 5’→3’. Il lagging strand ha una direzionalità opposta e si pone quindi la necessità, per la sua copiatura, di fornire alla polimerasi degli inneschi che permettano il proprio lavoro di copiatura solo e soltanto con la corretta direzionalità (5’→3’). Elicasi Le elicasi hanno mantenuto nel corso dell’evoluzione una specifica struttura a “margherita”. Sono complessi proteici esamerici formati da sei subunità simili ma non identiche, che assumono una conformazione tridimensionale simile ad una corolla al centro della quale passa il singolo filamento di DNA. Le elicasi quindi, una volta reclutate sul DNA stampo, prendono contatto con la forcella di replicazione, per poi aprirsi e far passare all’interno del complesso il filamento singolo e infine rinchiudersi. Così facendo, questa struttura esamerica ingloba al proprio interno il filamento singolo e, muovendosi a livello della forca verso la porzione che non è stata ancora denaturata, lavora come una zip. Nello specifico, usando l’energia tratta dall’idrolisi dell’ATP, uno dei petali si apre (come se fosse una porticina), ingloba all’interno del buco il filamento singolo; la subunità torna poi in posizione standard, rendendo questa conformazione inossidabile e saldamente legata al filamento singolo. Questo meccanismo richiede molta energia, però garantisce la denaturazione dell’intera molecola. 9 A livello delle origini di replicazione, sono due le elicasi che lavorano contemporaneamente in direzione Il DNA che viene denaturato tende a tornare spontaneamente alla sua conformazione nativa, ostacolando la replicazione. Ecco perché esistono delle molecole prive di attività enzimatica, che però sono fondamentali al processo di copiatura. La loro presenza è essenziale alla vita: il knockout di queste proteine è letale. Le SSB svolgono la funzione fondamentale di mantenere in conformazione distesa il DNA denaturato dalle elicasi, permettendo l’azione della DNA polimerasi e consentendo il “lavoro su un piano orizzontale” che è necessario alla duplicazione fedele del filamento stampo. Queste proteine hanno altissima affinità con il DNA a singolo filamento e legandosi davanti alla DNA polimerasi evitano il processo di rinaturazione spontanea che il DNA denaturato tenderebbe ad attuare. La replicasi ha sempre bisogno di un innesco, costituito da un’estremità 3’-OH alla quale attaccare il fosfato α di un nucleotide trifosfato. L’innesco (in vivo) è fornito da un primer, cioè una corta molecola che viene posizionata sia sul filamento leading che sul filamento lagging e che espone l’estremità 3’-OH. La DNA polimerasi è un enzima “senza grandi pretese”, le basta un 3’-OH di un qualunque tipo di innesco perché inizi il processo, non deve per forza appartenere ad un primer messo in una data posizione. Può essere un 3’-OH esposto da una rottura su un filamento, oppure può essere un OH di un nucleotide sintetico legato chimicamente a biglie di vetro all’interno di un tubo di reazione, dentro al quale sintetizzo una molecola di DNA. All’interno delle cellule, l’enzima deputato a sintetizzare l’innesco adatto alle DNA polimerasi è la primasi, appartenente alla famiglia delle RNA polimerasi. La primasi lavora sulla forca e sintetizza dei corti innesti (lunghi circa 20 ribonucleotidi). La primasi, sintetizzando dei corti inneschi di RNA, fornisce l’estremità 3’-OH libera alla quale la DNA polimerasi si attaccherà per copiare il DNA stampo. È necessario fare appello alla classe delle RNA polimerasi, nonostante le numerose isoforme di DNA polimerasi presenti nel nucleo, perché solo le RNA polimerasi sono in grado di sintetizzare ex novo un filamento di DNA. Uno dei filamenti, quello che potrà essere copiato in direzione 5’→3’, viene definito LEADING STRAND (= filamento “guida”). Il secondo filamento, invece, definito LAGGING STRAND (= filamento “lento” o ritardato), non esponendo l’estremità 3’ nella direzione di lavoro della DNA polimerasi, non consente la copiatura continua della sequenza genomica; per questo motivo la direzionalità della replicazione è opposta rispetto alla direzionalità della forca di replicazione. Per ovviare al problema della differenza tra i filamenti, intervengono vari complessi enzimatici che permettono la sintesi del nuovo filamento parallelamente al leading strand. Affinché avvenga la sintesi del filamento da parte della DNA polimerasi, questa necessita una sequenza innesco, o primer, che esponga il gruppo ossidrile di un carbonio 3’ a cui sia possibile legare il primo nucleotide della nuova catena. La natura del primer è indifferente. I passaggi fondamentali sono: Sintesi di un primer a RNA (sequenze di 20 ribonucleotidi) da parte della primasi, una RNA polimerasi che lavora a livello della forcella replicativa. Questo complesso enzimatico, a differenza della DNA polimerasi, riesce a sintetizzare una catena nucleotidica senza bisogno di un innesco. A partire da due ribonucleotidi crea il legame fosfodiestereo unendo i monomeri. La distanza tra primer successivi ammonta a 1000 nucleotidi nei procarioti, e a 100-150 nucleotidi negli eucarioti. 10 Al primer si lega la DNA polimerasi, che riempie gli spazi presenti tra primer catalizzando i legami fosfodiestere. Appena si scontra con il primer successivo, la DNA polimerasi richiama la RNasi H, una esonucleasi adibita alla degradazione dei primer tramite la scissione dei legami fosfodiestere tra i ribonucleotidi. La polimerasi può quindi avanzare fino allo scontro con un altro filamento neosintetizzato. A questo punto il complesso si stacca, lasciando un gap tra i due filamenti. Il gap viene riempito dall’enzima ligasi tramite l’energia fornita dall’ATP (attraverso legami covalenti); questo enzima è inoltre importante anche nelle tecniche di ingegneria genetica. I complessi enzimatici coinvolti nel processo di replicazione del DNA riescono ad operare sulla molecola per via della loro affinità con la stessa. Nel corso dell’evoluzione tale affinità ha subìto (grazie al perfezionamento della struttura tridimensionale degli enzimi) un forte miglioramento, fondamentale data l’altissima entropia dell’ambiente nucleare; la duplicazione del genoma, che avviene in questo ambiente, deve infatti essere più precisa possibile. Esiste anche una proteina altamente specifica priva di attività enzimatica (strutturale) che sposta l’equilibrio della reazione verso una maggiore affinità della polimerasi con la molecola di acido desossiribonucleico, la cosiddetta proteina PCNA. La PCNA ha una forma toroidale (a ciambella) ed utilizza un meccanismo di apertura simile a quello di elicasi (un petalo si apre per permettere al singolo filamento di dna di entrare nella ciambella); grazie all’energia fornita dall’idrolisi dell’ATP, la proteina PCNA si lega stabilmente alla molecola di DNA, cui è molto affine. A questo legame contribuisce inoltre una molecola clamp loader che agisce come “caricatore della pinza”, utilizzando ATP per aiutare la formazione del complesso DNA-PCNA. La PCNA ha un’affinità ancora maggiore con la DNA polimerasi e, legatasi al DNA, la richiama. Se in quell’intorno si trova un enzima polimerasico, automaticamente PCNA lo richiama sul filamento. Con questo gioco di calamite, si è evoluto il reclutamento specifico delle DNA Polimerasi sulle forcelle di replicaizone all’entrata in fase S. La proteina PCNA viene sintetizzata solo durante la fase S del ciclo cellulare e la sua concentrazione aumenta solo in questa fase. Viene perciò utilizzata come marker di proliferazione cellulare nelle indagini immunopatologiche. Nei referti istologici la proliferazione delle cellule viene valutata con tecniche immunoistocliniche con la presenza di un marker ki67 tipico di questo processo. Topoisomerasi I risolve una conseguenza della denaturazione. La denaturazione del DNA avviene in regioni circoscritte dei filamenti, le origini di replicazione, dove la molecola si despiralizza. Despiralizzandosi, la molecola deve scaricare le forze torsionali a monte e a valle della bolla di replicazione, con il conseguente aumento della compattazione dei superavvolgimenti destrorsi. Qualora le forze rimanessero tali, sarebbe un problema per la molecola (l’apertura della forca e il passaggio della polimerasi diventerebbero impossibili); di conseguenza si sono evoluti degli enzimi, le topoisomerasi, deputati in maniera specifica ed univoca a risolvere i problemi legati all’accumulo di forze torsionali a monte e a valle della bolla di replicazione. La topoisomerasi I agisce tagliando uno dei filamenti in maniera controllata per permetterne uno svolgimento tale per cui le forze torsionali non rappresentino più un problema per la molecola. Il processo avviene nel sito catalitico dell’enzima, che contiene un residuo di tirosina. L’OH al 3’ della tiroxina rompe il DNA e lega un’estremità della doppia elica (a livello di un gruppo fosfato) per evitare che il filamento si disperda, permettendo all’altra estremità di ruotare libera nel nucleoplasma fino a liberare tutta l’energia torsionale accumulata. Infine, le due estremità vengono riavvicinate all’interno del sito catalitico dell’enzima, il quale catalizza la ri-formazione del legame fosfodiestereo. 11 Il taglio del filamento è anche definito nick. Per chiarire, il processo può essere paragonato all’avvolgimento di due cavi a spirale: ad un certo punto la forza torsionale rende difficile un ulteriore avvolgimento, e lasciando i cavi i due tendono a svolgersi in autonomia. Topoisomerasi II Le due forcelle di replicazione di incontrano a circa 180° rispetto all’origine di replicazione. Le sequenze ter, di 23 bp, vengono legate dalle TBP (Ter binding proteins) e fanno terminare le forcelle di replicazione. La Topoiomerasi II dividerà fisicamente le due molecole figlie. La Topoisomerasi II lavora solo nei procarioti e permette la scissione delle molecole. Nei procarioti la replicazione del DNA prevede la formazione di due molecole figlie circolari ed identiche, che nelle fasi finali del processo risultano essere legate insieme come due anelli. Queste molecole vanno scisse per permetterne la funzionalità indipendente, e a tal fine interviene l’enzima topoisomerasi II. La topoisomerasi II si lega stabilmente con legame covalente a entrambi i filamenti di DNA ed attua un taglio controllato su una delle due eliche (double strand break), permettendo all’altra di passare nella breccia (nick transiente) e risaldando il taglio, rendendole indipendenti. Il passaggio della molecola attraverso il nick transiente avviene nella direzione che permette la diminuzione di accumulo di forze torsionali. In una cellula eucariote, un double strand break risulterebbe una mutazione non compatibile con la vita, per questo motivo, qualora il DNA eucariote subisse un insulto simile, si attiverebbe una macchina molecolare estremamente complessa. Strutture coinvolte nella replicazione - panoramica Complessi enzimatici ELICASI: 2 per origine di replicazione, uno per ciascuna forcella che si viene a creare. Forcelle di replicazione: 2 per origine, si muovono in direzione opposta. Complessi enzimatici DNA polimerasi: 2 per forcella di replicazione, uno sul leading strand e uno sul lagging strand. Quindi in totale 4 per origine di replicazione. Studiando il fenomeno della replicazione in vivo, si nota che i complessi enzimatici lavorano in parallelo, nonostante la direzionalità di replicazione diversa e il meccanismo a primer e frammenti sul lagging strand. Questo è dovuto alla particolare conformazione spaziale assunta dal filamento in questa fase, che grazie al processo di DNA looping riesce, mantenendo la propria struttura superavvolta, ad avvicinare regioni molto distanti. Cosi le due polimerasi riescono a lavorare spazialmente in contiguità, e addirittura riescono a legarsi l’una all’altra negli eucarioti, grazie ad una subunità τ, in modo che le due macchine di replicazione a livello della forca procedano parallelamente su regioni non così distanti tra loro. Questo modello è un’estrema semplificazione, ma è fondamentale per capire come la cellula riesce a completare la replicazione con precisione e soprattutto nei tempi predefiniti (per evitare l’apoptosi). Il tasso di errore di appaiamento è uno ogni miliardo di basi, sia nei procarioti che negli eucarioti. Questo numero è mantenuto così basso grazie a dei sistemi di controllo della copiatura. Vari meccanismi di proof- reading intervengono a diversi livelli determinando l’elevata fedeltà di copiatura del DNA (1 errore ogni 10 9 nucleotidi copiati). In biologia molecolare sta emergendo un concetto molto particolare, riguardante la conformazione tridimensionale del DNA, per il quale i complessi molecolari riconoscono gli errori, a causa della stericità anomala che questi fanno assumere al filamento. Ciò si traduce con un intervento di correzione 12 là dove i substrati generano delle tensioni torsionali non fisiologiche, in quanto questi non alloggiano perfettamente nelle tasche dei siti catalitici. I controlli sono organizzati su tre livelli (selezione dei nucleotidi, correzione di bozze, riparazione dei malappaiamenti). I primi due dipendono da enzimi appartenenti al complesso DNA-polimerasi, mentre l’ultimo è un sistema a sé. 1° Livello: Selezione e dei nucleotidi in base alla conformazione sterica Dopo che un nucleotide è entrato nel sito catalitico dell’enzima, ma prima che si crei il legame fosfodiesterico, la DNA Polimerasi va incontro ad un cambiamento di conformazione. Qualora il nucleotide non si appai in maniera corretta e complementare al filamento stampo, si attiva un meccanismo chiave-serratura, per cui un cambio conformazionale della DNA pol determina il distacco del nucleotide dall’enzima. 2° Livello: L’attività proof-reading Alcuni nucleotidi possono risultare appaiati scorrettamente, poiché sfuggiti al primo check, causando potenzialmente una mutazione puntiforme. Quando la polimerasi rileva un errore di appaiamento tra le basi, dopo che il legame fosfodiestereo è già stato creato, si attiva l’attività enzimatica peculiare di una subunità proteica all’interno del macro-complesso DNA polimerasi, con attività esonucleasica con direzionalità 3'→5'. Grazie a questa subunità, la DNA polimerasi, oltre a possedere un’attività enzimatica polimerasica in direzione 5’→3’, possiede anche un’attività esonucleasica in direzione 3’→5’. L’esonucleasi riconosce la base mal incorporata ed erode il filamento neo sintetizzato rimuovendo il nucleotide errato a partire dalla posizione 3’, procedendo finchè tutti i nucleotidi non sono corretti. Poi si stacca e lascia riempire il gap dalla polimerasi, che riprende la copiatura. Le nucleasi sono enzimi in grado di interrompere un filamento polinucleotidico, le esonucleasi erodono i filamenti nucleotidici dalle estremità (dalla 3’ o dalla 5’), mentre le endonucleasi lo fanno attaccando il filamento polinucleotidici dall’interno, dal core. Questa attivita’ proof reading riduce la frequenza di errore a uno ogni 107 nucleotidi. 3° Livello: Sistema di riparazione degli appaiamenti sbagliati Lo Strand-directed mismatch repair system riconosce l’errore puntiforme nel DNA già duplicato e lo rimuove chirurgicamente. Esso comprende un insieme di enzimi che si sono evoluti proprio per affrontare questo problema biologico, e lo fanno identificando la distorsione dell’elica in corrispondenza dell'errore e tagliando le estremità del nucleotide per eliminarlo dal filamento. Quest’ultimo sistema di correzione, nei batteri, è costituito da una serie di enzimi denominati Mut. MutS è la prima subunità enzimatica a intervenire, con una scansione della conformazione della doppia elica al seguito della DNA polimerasi. Se è presente una mutazione puntiforme, questa crea una distorsione dell’elica, perché i legami a idrogeno non combaciano nella maniera corretta. Se MutS dovesse riscontrare una distorsione conformazionale, si arresterebbe e recluterebbe altri componenti del sistema enzimatico (per primo MutL, che richiama MutH), che con attività endonucleasica tagliano il filamento a monte e a valle del segmento mutato, che poi viene eliminato. Fatto ciò, viene richiamata una DNA polimerasi a riempire il gap inserendo i corretti nucleotidi e una ligasi a saldare i frammenti, con processo sovrapponibile a quello dei frammenti di Okazaki. Come fanno gli enzimi a distinguere il filamento stampo da quello neo sintetizzato? Quando agli enzimi di controllo è richiesto di intervenire, essi potrebbero modificare tanto il filamento di nuova sintesi, quanto il filamento parentale, ma è chiaro che se dovessero modificare quello parentale, si perderebbero delle informazioni genetiche. 13 I batteri apportano al DNA parentale delle modificazioni biochimiche. Sfruttano un sistema sviluppatosi originalmente per la difesa della cellula, ovvero la metilazione del filamento stampo. Per azione di enzimi chiamati metiltransferasi, che legano dei gruppi metilici CH3 sulle adenine della sequenza GATC, si differenzia il filamento parentale da quello neosintetizzato. Quest’ultimo, infatti, per un breve periodo dopo la sintesi non presenterà le aggiunte chimiche sulle adenine, mentre quello parentale si. Dopo pochi minuti anche il filamento nuovo viene metilato e non può più essere distinto dal template. I procarioti subiscono infezioni dai fagi, virus che attaccano i procarioti. Quando una cellula batterica viene infettata da un fago, il suo genoma è iniettata nel batterio, in modo che il virus possa riprodursi e infettare la colonia. La metilazione si è manifestata per permettere ai batteri di distinguere il genoma self da quello fagico, nel caso in cui avessero dovuto attivare nel proprio citoplasma delle endo- o esonucleasi per tagliare, eliminare e distruggere il DNA virale esogeno senza intaccare il proprio. Il cromosoma batterico è sparso nel citoplasma, quindi questa esplosione di enzimi rischierebbe di attaccare anche il genoma dei batteri, se questo non fosse protetto chimicamente dalla metilazione. Questo sistema si è, poi, mantenuto anche nelle cellule eucariotiche, ma con l’arricchimento dei macchinari che intervengono nel processo di correzione. Mutazioni nei geni che codificano per le subunità del mismatch repair system causano la predisposizione a certi tipi di cancro (carcinoma colon rettale). Precedentemente è stata affrontata in toto la duplicazione del DNA nei procarioti, la quale è strettamente dipendente e facilitata dalla loro organizzazione cellulare. Si pensi alla forma circolare del genoma, all’unica origine di replicazione, alle due forche su cui la duplicazione avviene contemporaneamente in sensi opposti, alla terminazione del processo a 180° rispetto all’Ori, alle topoisomerasi II. D’ora in avanti sarà trattata la replicazione negli eucarioti, la quale è in realtà paragonabile a quella dei procarioti per quanto riguarda l’insieme degli enzimi di duplicazione e il meccanismo. La differenza fondamentale tra la duplicazione negli eucarioti e quella nei procarioti sta nel fatto che la macchina di replicazione negli eucarioti deve superare l’ostacolo della struttura tridimensionale della cromatina, data dalla struttura a collana di perle. I nucleosomi non si possono srotolare, pena lo stravolgimento dell’impacchettamento del DNA. Per questo motivo si sono sviluppati dei processi a facilitare la duplicazione, come quello che coinvolge i frammenti di Okazaki, lunghi circa 1000-2000 nucleotidi nei procarioti e solo 200 nucleotidi negli eucarioti, misura che corrisponde allo spazio libero tra due nucleosomi adiacenti. Gli Istoni appartengono a classi ben precise e sono assemblati nel nucleosoma in una struttura ottamerica formata da due dimeri degli istoni H3-H4 e due dimeri di H2A-H2B. Un esempio tra le mille isoforme degli istoni è l’H1, ovvero il linker tra due nucleosomi adiacenti, che stringe il passo della collana di perle. Durante la fase S, la cellula è completamente focalizzata nel processo di duplicazione, quindi tutto il resto risulta rallentato, anche la sintesi proteica. C’è la necessità che i due filamenti figli abbiano un corretto impaccamento nelle fasi successive al passaggio dell’elica. Ciò lo si ottiene distribuendo i nucleosomi del filamento parentale sui due filamenti neosintetizzati, ognuno dei quali possiederà di conseguenza il 50% di essi. Nelle prime fasi successive al passaggio della DNA-polimerasi si rimedia alla metà mancante grazie al picco di produzione degli istoni, dunque alla creazione di nuove particelle nucleosomiche. Le uniche proteine che vengono sintetizzate in massa in questa fase sono proprio gli istoni, i quali servono immediatamente a compattare il filamento neosintetizzato nella cromatina per motivi sterici. 14 L’entrata della cellula in fase S coincide con il picco di sintesi delle proteine istoniche, per terminare in maniera precisa con il passaggio alla fase G2. È un meccanismo eccezionale, perché la cellula non spreca energia per sintetizzare proteine che non servono. Come è possibile? L’entrata nelle fasi delle singole fasi del ciclo cellulare è regolata da check-points, punti critici a livello dei quali le chinasi (enzimi che catalizzano il trasferimento di un gruppo fosfato dall’ATP a un’altra molecola, fosforilano substrati, tipicamente proteine) si attivano facendo procedere il ciclo cellulare solo in caso fisiologico di integrità del genoma e stato biologico normale. Dato che la fosforilazione causa l’attivazione o l’inibizione della molecola ricevente il gruppo fosfato, i check-points sono necessari per arrestare il ciclo nel caso in cui sia necessaria la morte o la correzione di cellule difettose e mal funzionanti, in modo da poter fare il “punto della situazione” ed eventualmente procedere. Uno dei fattori determinanti nell’insorgenza del cancro è la perdita, da parte delle cellule tumorali, dei sistemi di controllo del ciclo cellulare. La transizione tra fase G1 ( di accrescimento e specifiche attività) e la fase S è un punto di non ritorno per la cellula. Raggiunto tale punto la cellula è obbligata a duplicare il proprio DNA. In questa transizione una chinasi (ciclina E-CdK2) funge da co-attivatore per sbloccare la sintesi degli istoni, avviata solo se la chinasi fosforila e attiva un fattore di trascrizione specifico per gli istoni (proteina che lega il DNA in una regione specifica di un promotore o di un enhancer, da dove poi regola la trascrizione). Post attivazione del fattore di trascrizione si ha una massiccia produzione di mRNA degli istoni, generando un processo di produzione a cascata. Così è possibile il passaggio alla fase S. La produzione delle suddette proteine è controllata anche a livello genomico, vistane l’enorme quantità di isoforme. Infatti, i geni che codificano per le stesse isoforme di istoni, sono raggruppati in zone specifiche dei cromosomi 1 e 6, affinché l’RNA polimerasi possa lavorare in modo lineare senza dover saltare da una zona all’altra della cromatina. Inoltre, la maggior parte di questi geni è priva di introni, così da risparmiare il tempo e le energie che si spenderebbero nel processo di splicing. Il processo attraverso cui le particelle nucleosomiche vengono assemblate viene regolato in dettaglio ed adiuvato da fattori proteici (come CAF-1, insieme ad altri) che si legano a tetrameri degli istoni H3 e H4 (struttura che prende il nome di eminucleosoma) e li accompagnano sull’elica neo sintetizzata. In una seconda fase, un altro fattore proteico aiuta l’assemblaggio dell’altra metà della particella nucleosomica che viene accompagnata sulla cromatina a formare il nucleosoma nella conformazione finale. I nucleosomi parentali sono divisi equamente sui due filamenti neosintetizzati e, contemporaneamente, fattori proteici specifici (sintetizzati anch’essi solo in fase S come CAF-1) aiutano e accompagnano sui due filamenti le due metà di ciascuno dei nucleosomi. I nucleosomi non hanno solamente funzione strutturale. Infatti, ciascuna delle subunità istoniche subisce modificazioni post-traduzionali fondamentali per regolare il processo di trascrizione e quindi l’espressione genica all’interno di una cellula eucariotica. In una data cellula i nucleosomi sono acetilati/metilati/ubiquitinati/fosforilati a livello dei singoli istoni, su residui diversi. Questo processo regola la branca che viene definita epigenetica, che è strettamente legata alla diversa espressione genetica nei vari tipi cellulari. Ad esempio, se il DNA si duplica in un fibroblasto, gli mRNA che devono essere trascritti nella cellula figlia devono essere quelli tipici del fibroblasto (non possono essere quelli, ad esempio, di un neurone). Dunque anche le modificazioni chimiche di un nucleosoma di un dato tipo cellulare devono essere mantenute nel filamento figlio (mantenimento del self dal punto di vista qualitativo dei filamenti neosintetizzati all’interno di uno stesso tipo cellulare). Dunque i nucleosomi del filamento parentale hanno delle modificazioni precise e sono divisi equamente tra i due filamenti neosintetizzati, portandosi dietro l’identità del genoma parentale. Vengono portati 15 immediatamente sulla cromatina a formare il corredo completo di nucleosomi. I nucleosomi neosintetizzati (durante la fase S) sono ancora privi delle modificazioni chimiche post-traduzionali degli istoni. Intervengono, dunque, delle modificazioni a carico della cromatina effettuate dai Chromatin Modification Complexes, cioè degli enzimi che leggono le modificazioni chimiche degli istoni ‘’vecchi’’, richiamano gli enzimi specifici sui due filamenti nuovi e li guidano per riportare esattamente lo stesso quadro delle modificazioni post-traduzionali presenti sugli istoni parentali. Questo meccanismo è un riconoscimento del self a livello di identità cellulare (simile a quello della metilazione dei procarioti), infatti il genoma di un fibroblasto o di un neurone che svolge la duplicazione deve mantenere le caratteristiche del suo tipo cellulare, date dal corredo proteico, originato dagli mRNA e a loro volta creati dalla RNA-polimerasi influenzata dalle modificazioni chimiche appena descritte. La lunghezza del DNA da duplicare ad ogni ciclo di replicazione in una cellula eucariota di mammifero è di circa 2 metri. L’esistenza di un’unica origine di replicazione porterebbe portare ad avere tempi incompatibili con le esigenze delle cellule eucarioti. La formazione delle origini negli eucarioti è la stessa che è presente nei procarioti: il DNA viene denaturato localmente, vengono sintetizzati degli innesti su entrambi i filamenti, in maniera tale da creare due forche di replicazione che si muovono in direzione opposta l’una all’altra. Negli eucarioti però, le origini di replicazione che si accendono sono multiple. In questo modo, a tempi diversi (durante la fase S), il DNA si denatura in diversi punti e le forche si muovono in direzione opposta all’origine fino a fondersi le une con le altre, ottimizzando così il processo di duplicazione. La contemporanea esistenza di più origini fa assumere al DNA la caratteristica struttura a ‘collana di perle’. Il problema della lunghezza compatibile con i tempi della fase S viene dunque risolto tramite la creazione di multiple origini di replicazione. Il processo di duplicazione negli eucarioti, però, è dipendente anche dall’organizzazione tridimensionale della cromatina. A seconda del grado di compattamento della cromatina, il DNA e le origini vengono ‘’accese’’ in maniera più o meno efficiente e più o meno preferenziale. La durata media della fase S in una cellula eucariota mammifera in attiva replicazione è di circa 8 ore nelle cellule epiteliali, mentre cambiano per altri tipi cellulari (in genere dalle 8 alle 10 ore). La colorazione chiara corrisponde all’accensione delle origini di duplicazione e alla presenza sul DNA della DNA polimerasi intesa come oloenzima (= proteina nella sua forma attiva). Nei diversi stadi della fase S si osserva che i punti in cui la colorazione chiara è più intensa variano di posizione. La polimerasi è influenzata dal grado di compattamento della cromatina al punto che le origini presenti nelle zone eucromatiniche del genoma vengono accese prima di quelle delle zone eterocromatiniche (più compatte). Il genoma deve essere interamente duplicato, ma dove il compattamento è più stretto, le origini di duplicazione vengono utilizzate a tempi successivi rispetto alle zone in cui la cromatina è rilassata. Il modello per studiare il mondo eucariota è una cellula più semplice di quella mammifera, ovvero quella del lievito. Gli studi risalgono alla metà degli anni ‘60 ed hanno affrontato lo studio del genoma con un approccio estremamente semplice. Esso consisteva nell’eliminare dal lievito regioni del DNA in punti diversi del genoma per vedere quali fossero le conseguenze sul processo di duplicazione. Si è notato che NON vi è una corrispondenza del tipo: regione grande → danno grande, regione piccola → danno piccolo, ma piuttosto: regione peculiare → danno grande. Si è osservato che una rimozione subìta in una regione particolare comportava grossi problemi di replicazione del DNA ed eventuale apoptosi, mentre la stessa lunghezza tolta in un’altra regione non aveva conseguenze. 16 Analizzando la sequenza delle regioni critiche per gli incipit del processo di duplicazione, si è visto che queste regioni raggruppano delle sequenze ripetute e conservate chiamate sequenze autonome di replicazione (ARS da Autonomous Replicating Sequence). Sono state chiamate in questo modo perchè, se inserite in un plasmide, esse sono in grado di far partire la replicazione in maniera autonoma anche nel plasmide stesso. Tutte la ARS contengono almeno una ACS (= ARS Consensus Sequence) di 11bp, ossia una regione estremamente conservata ricca di adenine e timine (essenziali al processo di denaturazione) seguita da una regione laterale di lunghezza variabile DNA unwinding elements (DUE) coinvolte nell’apertura della doppia elica. Se questa regione viene mutata, fa scendere l’efficienza della duplicazione ma non ne compromette la messa in atto. Mutazioni delle ACS, invece, aboliscono la funzione delle ARS. La regione ACS è fondamentale e costituisce (nei lieviti come nei mammiferi) il sito di legame per la proteina iniziatrice del processo di duplicazione, nota come complesso di riconoscimento dell’origine o Origin Recognition Complex (ORC). ORC - Origin Recognition Complex Nelle cellule eucariote, ORC è il complesso multiproteico che si occupa del riconoscimento del punto in cui inizia la duplicazione del genoma. Quando viene accesa un’origine, ORC riconosce la sequenza ACS, vi si lega e recluta le subunità proteiche necessarie ad avviare la duplicazione. ORC si è dimostrata essere fondamentale al processo di duplicazione: durante i primi esperimenti di delezione del genoma erano stati eliminati i siti di legame per ORC e si era riusciti ad osservare come la duplicazione semplicemente non avveniva più in maniera efficiente. Da ciò, si è riusciti a comprendere come questo complesso sia l’elemento fondamentale per l’accensione delle origini di replicazione nelle cellule eucariote. ORC è un complesso multiproteico ad alto peso molecolare, formato da diverse subunità proteiche che sono conservate nelle diverse specie eucariote, ciascuna di esse è essenziale alla sopravvivenza della cellula eucariota. ORC assembla i diversi monomeri in modo tale da ‘’abbracciare’’ la regione di riconoscimento proprio in corrispondenza dell’origine, a cui si lega senza aver alcun bisogno di energia. Il riconoscimento è specifico per la regione ACS. Le sue diverse subunità si estendono a cavallo della sequenza vista precedentemente e ognuna di queste subunità è priva di attività catalitica. ORC è solo una bandierina molecolare che, in maniera precisa, riconosce il punto da cui deve partire il processo di duplicazione, ‘’abbraccia’’ il DNA in questo punto e resta lì, fungendo esclusivamente da punto di reclutamento della macchina enzimatica, che sarà necessaria ad accendere l’origine di duplicazione. ORC si lega al DNA in maniera stabile per tutte le fasi del ciclo cellulare e marca sia le origini normalmente attivate all’interno delle cellule, sia le origini silenti (che non vengono utilizzate). Mediante sequenziamento, 17 sono state identificate delle sequenze consensus di un’origine di replicazione, che sono state validate perché ad esse era legato ORC, però sperimentalmente si è visto che anche non tutte le origini che legano ORC vengono utilizzate. Le origini di replicazione strutturalmente ci sono (c’è la sequenza) e sono rese disponibili alla macchina polimerasica, ma per cause ancora sconosciute alcune vengono utilizzate e altre no. È stato ipotizzato che la mancata attivazione di alcune origini di replicazione possa essere correlata all’intorno cromatinico o a una particolare situazione metabolica, ma non è ancora stata trovata una spiegazione chiara. La caratteristica fondamentale dal punto di vista funzionale di ORC è che ha una conformazione tridimensionale stabile e conservata, che ha un’altissima affinità di legame specifica per alcune molecole che sono responsabili dell’accensione dell’origine, formando legami deboli proteina-proteina. ORC non si lega in modo casuale a qualunque proteina presente dentro al nucleo, ma ha un’altissima affinità solo e soltanto per le proteine iniziatrici dell’origine. * Le molteplici origini di replicazione rappresentano uno degli argomenti cardine di quella che è la biologia molecolare. Mauro Giacca è uno dei docenti dell’università di Trieste ed egli, nel ‘94, ha contribuito al approfondimento di questo argomento. Per comprendere come si formano le origini è necessario analizzare quello che viene definito Pre-Replication Complex o complesso di pre-replicazione. Si tratta di una struttura proteica multimerica, che si forma sulle origini di replicazione prima che esse vengano attivate. La loro preparazione avviene quando la cellula, conclusa la mitosi (fase M), si prepara per entrare in fase G1. Il complesso è formato da ORC, che ne è il costituente principale, e da altri componenti molecolari. La funzione di questo complesso di pre-replicazione consiste nel garantire che la duplicazione avvenga una e una sola volta durante la fase S. Durante la fase G1 del ciclo cellulare (anche se tutto è pianificato già dalla fase M): ORC si trova sull’origine; I “chromatin remodeling complexes” sistemano i nucleosomi nell’intorno dell’origine in maniera tale da cambiare la loro posizione reciproca e creare uno spazio adatto a raccogliere le subunità proteiche che lavorano sull’origine; ORC per affinità estremamente specifica richiama a sé due proteine chiave CDC6 e CDT1 e l’elicasi (MCM2-7), che entra in contatto con il DNA. Quando questo gruppo molecolare (composto da ORC, dalle proteine CDC6 e CDT1 e da altri elementi) si assembla sull’origine di replicazione, la cellula è pronta per entrare in fase S. ORC si trova sull’origine di replicazione e ha un’affinità altissima per CDC6 e CDT1, proteine accessorie chiamate licensing factors essenziali per il reclutamento delle MCM (i caricatori delle elicasi). CDC6 è un ATPasi (in grado di legare e scindere l’ATP) e utilizza l’energia dell’ATP per velocizzare e rendere più efficiente il proprio legame con ORC. Questa proteina è essenziale perché è legata all’origine di replicazione, quindi all’incipit del processo di replicazione del genoma. Il motivo per cui CDC6 è fondamentale è che è la molecola che recluta sull’origine l’elicasi. Senza CDC6, l’origine non si forma e il DNA non si denatura. Il “knock out” di CDC6 rivela che questa proteina è essenziale per la vita. Infatti, tramite knock out si è potuto osservare che gli organismi privi della proteina CDC6 esprimono uno stato embrionale letale. Su ORC vengono reclutate le molecole CDC6 e CDT1. Se si ha un topo knock out, con deletato il gene che corrisponde a CDC6, si nota che il suo sviluppo non va oltre le prime divisioni nello sviluppo embrionale. Viceversa, la tecnica knock in si ha quando, preso in considerazione modello animale che ha in sé il gene mutato, si inserisce il gene corretto per verificare se una 18 variante, corretta, del gene mutato può correggere il fenotipo. Il knock in prevede l’espressione in un modello animale in vivo di un gene non mutato al fine di verificarne la funzione biologica. Il legame di CDC6 a ORC e l’uso dell’energia delle ATP crea la situazione favorevole per il reclutamento sull’origine della DNA elicasi, che nelle cellule eucariotiche ha l’acronimo di MCM2-7. Questo complesso multimerico è formato da diverse subunità, che mantengono una struttura molecolare estremamente simile le une alle altre. I singoli monomeri assumono una conformazione tridimensionale “a ciambella”, tale da permettere l’inserimento nel buco della molecola di DNA, in modo tale da garantire l’apertura dell’elica. Nel momento in cui MCM2-7 “abbraccia” il DNA, il complesso elicasico prende contatto con la doppia elica in corrispondenza della presenza di ORC e di CDC6. Uno dei 7 monomeri della DNA elicasi si dissocia transientemente dagli altri, fa passare il filamento singolo all’interno del buco e, successivamente, allontanandosi in direzione opposta, le elicasi lavorano come una cerniera lampo nei confronti della doppia elica. Quando l’origine di replicazione viene accesa essa crea lo spostamento non solo dei nucleosomi ma anche delle proteine ad essi associati, parte fondamentale della struttura della cromatina. Sono proprio le proteine strutturali a mantenere il compattamento del genoma all’interno del nucleo. L’accensione dell’origine di replicazione crea: energia torsionale ed energia specifica per rilocalizzare tutte le proteine che si trovano sulla porzione di DNA che deve essere denaturata. Da questa situazione, si deve passare a un complesso attivo. Il passaggio da Pre-Replication Complex (Pre-RC, Complesso di Pre-Replicazione) a Pre-Initiation Complex (Pre-IC, Complesso di Pre-Inizio), coincide esattamente col passaggio delle cellule dalla fase G1 alla fase S. Questo preciso punto di passaggio viene chiamato checkpoint (così come ogni altro passaggio tra una fase e l’altra del ciclo cellulare). I checkpoint sono i punti di controllo. Questi punti di controllo tra una fase e l’altra sono molto importanti perché la cellula può fermarsi e verificare se sussistono tutte le condizioni ideali per procedere col ciclo cellulare. Se ci sono danni alla cromatina, se non c’è energia, se la cellula è danneggiata o sta morendo è inutile replicare il genoma e sprecare energia. Il checkpoint tra G1 ed S è caratterizzato dall’espressione di proteine specifiche per questo checkpoint. Queste proteine sono dotate di attività catalitica, in particolare chinasica e sono chiamate cicline e chinasi ciclino-dipendenti (Cdk). Esse sono in grado di fosforilare substrati specifici: la fosforilazione è un linguaggio immediato, un trasferimento di carica negativa. A seconda delle diverse fasi del ciclo e sono perciò capaci di regolare il processo ciclico cellulare. Tra queste chinasi che vengono espresse in maniera specifica e puntuale solo e soltanto al passaggio tra la fase G1 e la fase S (nelle altre fasi non vengono prodotte), sono presenti delle chinasi che fosforilano in maniera specifica proprio CDC6 e CDT1. La fosforilazione di CDC6 e CDT1 comporta la degradazione di queste proteine: con l’attività chinasica CDC6 e CDT1 vengono fisicamente eliminate dal complesso di Pre-Replicazione. CDC6 e CDT1, quindi, abbandonano ORC e le elicasi, e vengono sostituite dalla DNA polimerasi e tutte le proteine necessarie per dare inizio al processo di replicazione. L’attività specifica delle proteine chinasi ciclino-dipendenti (o CDKs) è uno degli elementi che garantisce che la fase S sia l’unica in cui il genoma può essere duplicato. Il fatto che CDC6 e CDT1 vengano degradate coincide esattamente con l’entrata in fase S ed è il segnale alla cellula affinché possa procedere col processo di replicazione. 19 Per evitare eventuali errori in questo processo, è stato affinato un ulteriore livello di controllo, il cui scopo è quello di evitare che residui di CDT1 si leghino in maniera casuale a ORC e portino ad un’accensione incontrollata di altre origini di duplicazione. Durante la fase G2, la cellula eucariota ha sviluppato un meccanismo di controllo specifico per CDT1 che consiste nella proteina geminin. Questa ha il ruolo di sequestrare quelle poche molecole di CDT1 che eventualmente sono sintetizzate in maniera casuale o non controllata durante la fase G2. Geminin mostra un’affinità altissima e univoca per CDT1 (è un “binding partner” di CDT1 quasi assoluto) e funziona da “spugna molecolare”: la CDT1 in eccesso viene tirata via dal DNA ad opera di geminin in fase G2. Geminin garantisce, quindi, che tutta la fase G2 sia salva dal rischio di una errata accensione dell’origine. Quando la cellula entra in fase S, geminin viene sintetizzata in grande quantità, in modo da garantire l’eventuale sequestro di residui di CDT1 in fase G2. In fase M e in fase G1 geminin invece viene degradata, in quanto ha già fatto il suo dovere. Geminin è essenziale alla sopravvivenza e allo sviluppo embrionale. La sua mancanza potrebbe comportare extra suddivisioni del genoma e poliploidie che si rivelerebbero incompatibili con la sopravvivenza dell’organismo. Si pone un problema scientifico che richiede una spiegazione molecolare: perché alcune origini vengano accese e altre no. Si è osservato che l’accensione delle origini avviene, più frequentemente, in zone della cromatina in cui i nucleosomi sono formati da varianti istoniche ben precise. È necessario, tra l’altro, riflettere sul fatto che fin dalle origini le cellule eucariote presentano una struttura del nucleosoma ben definita e che la funzione del nucleosoma stesso sia propriamente strutturale, poiché focalizzata al compattamento della cromatina. Nelle prossime lezioni l’argomento verrà ripreso e approfondito. È lecito domandarsi come mai siano presenti decine di varianti di geni codificanti per 4 proteine istoniche perfettamente funzionanti; l’evoluzione avrebbe dovuto mantenere inalterata la struttura propria del nucleosoma, impedendo la formazione di varianti e consentendo il corretto funzionamento del meccanismo pre-esistente. Si sta cercando di dare una risposta a tale domanda: si è visto, infatti, che alcune varianti sono arricchite e fanno parte di nucleosomi che, casualmente, sono posti in corrispondenza delle origini di replicazione. Facendo riferimento a un articolo pubblicato nel 2020 su Nature, viene citata una variante dell’istone H₂a poiché indicata come riccamente presente nei nucleosomi in corrispondenza delle origini di replicazione e determinante per una corretta ed efficiente attivazione delle origini di replicazione stesse. Quindi, uno dei significati dell’evoluzione di queste così numerose varianti delle proteine istoniche è legato alla funzione di regolazione di funzioni ben precise quali, ad esempio, la scelta di quale origine di replicazione accendere in un determinato momento fisiologico della cellula. Il problema della porzione terminale dei cromosomi umani per quanto concerne la duplicazione può essere affrontato mediante diversi richiami ad argomenti precedentemente trattati. Si è parlato, infatti, di duplicazione continua sul filamento leading e discontinua sul filamento lagging (ritardato) caratterizzato dalla presenza dei frammenti di Okazaki: quando la primasi sintetizza l’ultimo primer in corrispondenza dell’estremità distale del cromosoma consente l’aggancio alla DNA-polimerasi e la sintesi del frammento di Okazaki. Il primer va incontro a degradazione e deve essere sostituito da una corrispondente piccola sequenza di DNA complementare a quello che è il filamento stampo. In precedenza, è stata definita la DNA-polimerasi come un grande complesso macromolecolare, paragonato a una mano destra, che fisicamente non ha lo spazio per agganciarsi al DNA e riempire questo intervallo (gap). Il problema si presenta all’estremità del cromosoma, 20 perché quando l’ultimo primer viene eliminato la DNA polimerasi non riesce a trovare un innesco al fine di sintetizzare la parte terminale mancante. La soluzione al problema si è identificata andando a sequenziare quelle che sono le estremità distali dei cromosomi, note come telomeri. Osservando e leggendo la sequenza lineare di nucleotidi telomerici si è notato come vi siano ripetute n-volte delle sequenze esameriche identiche mantenute inalterate e caratterizzate dalla stessa successione di nucleotidi (TTAGGG). Di conseguenza, se si vanno a sequenziare i telomeri di tutti i cromosomi dell’organismo umano si ritrovano gli stessi sei nucleotidi (TTAGGG) ripetuti centinaia di volte, fino a un’estensione di 10.000 nucleotidi. L’osservazione di tale fenomeno ha valso, nel 2009, il premio Nobel ai ricercatori Elizabeth Blackburn, Carol Greider e Jack Szostak che hanno compreso e decodificato il mistero relativo a queste sequenze ripetute. Effettivamente, ogni qualvolta il DNA lineare viene duplicato perde la frazione di genoma in corrispondenza del primer, che non riesce a essere riempito dalla polimerasi. Tuttavia, la cellula sarebbe danneggiata se il materiale genetico perso fosse codificante per cui la strategia escogitata dalla natura è stata quella di aggiungere, terminalmente, le sequenze telomeriche non codificanti e prive di significato. I telomeri, infatti, sono una sorta di cappuccio molecolare delle sequenze di nucleotidi che vengono aggiunti per estendere il DNA realmente codificante e sono soggetti a perdita, a ogni ciclo di replicazione, di parte della propria sequenza. Siccome, però, queste regioni sono non codificanti, la cellula non sarà danneggiata e potrà procedere con altri cicli di replicazione fin quando queste sequenze telomeriche non diventano tanto corte da rischiare di intaccare la porzione codificante del genoma. A quel punto la cellula smetterà di proliferare e andrà in contro alla cosiddetta “senescenza”, ossia a una fase della vita cellulare in cui il numero di divisioni tende a diminuire fino all’arresto totale. È un processo biochimicamente controllato a tutela del patrimonio genetico intatto di una cellula. Si ribadisce come questo sia dovuto a un preciso motivo biologico: i telomeri si sono accorciati in maniera drammatica e ogni ulteriore ciclo di divisione costituirebbe una minaccia per l’integrità del patrimonio genetico della cellula stessa. La telomerasi è l’enzima incaricato di aggiungere le sequenze telomeriche ai cromosomi; è definita come una ribonucleoproteina (come, ad esempio, i ribosomi), ossia composta da una componente proteica dotata di attività catalitico-strutturale e una componente a RNA. Quest’ultima funge da stampo per la sua azione catalitica in quanto la telomerasi è una DNA-polimerasi RNA-dipendente, cioè in grado di sintetizzare un filamento di DNA a partire da uno stampo a RNA che è presente all’interno della propria componente catalitica. La telomerasi è una DNA-polimerasi per cui allungherà il filamento di DNA a partire dallo stampo RNA che si trova all’interno della sua stessa struttura. Si nota nell’immagine il filamento che deve essere copiato dalla polimerasi che crea i frammenti di Okazaki e che presenta una regione, in corrispondenza del primer degradato, che non riesce a essere riempita dalla polimerasi stessa. A quel punto la telomerasi che, in quanto DNA-polimerasi, ha bisogno di un innesco, si lega all’estremità 3’ del filamento stampo e, copiando la sequenza esamerica che ha al proprio interno n volte, allunga il filamento superiore. Allungando il filamento stampo, la telomerasi aggiunge sequenze non codificanti a quello che è il filamento che deve essere copiato tramite frammenti di Okazaki creando una superficie di attacco per la macchina replicativa. Quest’ultima sfrutterà il telomero per prendere contatto con il cromosoma e continuare a sintetizzare primer e formare frammenti di Okazaki. Chiaramente, in corrispondenza dei telomeri i frammenti di Okazaki saranno complementari alle sequenze telomeriche; gradualmente, a ogni ciclo di replicazione, i telomeri verranno erosi per una certa quantità pari a uno spazio lungo tanto quanto i primer terminali che non riescono ad essere riempiti canonicamente fin quando ci si approssima alle sequenze codificanti e la cellula andrà in senescenza. La strategia è quella di allungare il template con sequenze non codificanti. La telomerasi sfrutta, in quanto polimerasi richiedente uno stampo e un innesco, l’estremità 3’ del filamento stampo come innesco, come 21 stampo la molecola di RNA presente all’interno del core e allunga, di sequenze non codificanti, il filamento che funge da templato stabilendo una data lunghezza di vita a ciascuna cellula. A ogni ciclo di replicazione il telomero viene eroso fin quando non si avvicina la porzione codificante e la cellula va in senescenza. È necessario, tuttavia, riconoscere il momento in cui viene attivata la telomerasi: quando dovranno essere poste le basi per lo sviluppo di singole cellule dei tessuti di un embrione. Di conseguenza, la telomerasi è molto attiva durante la vita e sviluppo embrionali in cui le cellule devono avere un corredo telomerico che possano garantire gli infiniti cicli di replicazione e differenziamento. Alla fine della vita embrionale la telomerasi smette di lavorare e quando si nasce, il corredo cromosomico, inteso come status quo del genoma, rimane tale per tutta la vita. Fanno eccezione alcune cellule come le cellule germinali, che devono garantire l’estensione massima dell’assetto cromosomico, le cellule intestinali a continua proliferazione, le cellule linfatiche e, ovviamente, le cellule embrionali. Se la telomerasi è costitutivamente attivata e continua a lavorare si allontanerà la senescenza di una cellula, libera di proliferare in maniera incontrollata. La proliferazione, benché sottoposta a numerosi siti di controllo, è soggetta a regolazione casuale per cui si incorre nel rischio di sviluppare neoplasie. Viceversa, una conseguenza positiva di un’attività da parte della telomerasi si traduce in un allungamento delle caratteristiche giovanili a livello cellulare. Per mantenere una omeostasi e una stabilità del genoma, atta a garantire una neurofisiologia delle cellule, i telomeri devono avere una struttura estremamente stabile. Difatti, nel caso in cui i telomeri venissero danneggiati, la cellula rischierebbe di non andare incontro a divisione e la conseguente morte cellulare (apoptosi). Per questo le estremità telomeriche dei cromosomi sono organizzate tridimensionalmente in maniera tale da assumere una conformazione a gomitolo terminale, con uno stretto impaccamento garantito da proteine chiave che vanno a rendere inattaccabile da parte delle esonucleasi, presenti all’interno delle cellule, l’estremità dei cromosomi stessi. Quindi, la strategia per proteggere l’integrità di quella che è la sequenza del DNA telomerico si basa sulla conformazione impaccata ad anello, mantenuta salda da componenti proteiche, che combattono le esonucleasi presenti a livello del nucleo. Il progressivo e cronico accorciamento dei telomeri è stato fin da subito una sorta di “orologio” intrinseco all’interno delle nostre cellule e uno strumento per segnarne l’invecchiamento. Infatti man mano che i telomeri si accorciano, diminuisce il numero delle potenziali divisioni a cui una cellula può andare incontro, facendo sì che la senescenza diventi sempre più prossima. La chiave per il mantenimento della stabilità del genoma è strettamente correlata all’integrità della struttura telomerica: tutte le cellule del corpo hanno una macchina di allerta, la cui proteina fondamentale è la P53 (caratterizzata estensivamente da uno dei docenti del Dipartimento di Scienze della Vita di UniTs). P53 è una proteina in costante allerta per sorvegliare il DNA e segnalare ogni sorta di danneggiamento a suo carico, sia dal punto di vista della sequenza o anche della conformazione tridimensionale. La struttura dei telomeri, se alterata per motivazioni fisiche o chimiche, attiva questa sentinella della sorveglianza del genoma che, immediatamente, determina l’apoptosi o la senescenza della cellula in questione. Se P53 non è attiva all’interno delle cellule si ha l’immediata trasformazione neoplastica. Il fenomeno dell’invecchiamento dei telomeri, che è tutt’oggi in primo piano, è stato affrontato in maniera sistematica già a metà degli anni ‘60 da Leonard Hayflick, primo ricercatore a trovare un nesso causale tra il numero delle divisioni a cui vanno incontro le cellule eucariote e l’età delle cellule stesse. Hayflick è stato il primo a formulare la “teoria dell’invecchiamento”, che prende per questo il suo nome. La sua ricerca ebbe origine dall’osservazione di cellule primarie in coltura e in attiva proliferazione. Tramite i fibroblasti (che sono le cellule del derma), Hayflick nota che il numero delle replicazioni a cui vanno incontro cresce fino ad un certo punto, dopodiché le divisioni rallentano fino a fermarsi del tutto. Il limite di Hayflick è dunque il numero di volte in cui una normale popolazione cellulare si divide prima che la divisione cellulare si arresti. 22 In una fase successiva, il ricercatore si rese conto che il numero delle divisioni a cui le cellule vanno incontro sono proporzionali all’età dell’organismo da cui erano state prelevate. Di conseguenza, più lunga è la vita sulla Terra di una specie, maggiore è il numero delle sue divisioni cellulari (teoria genetica dell’invecchiamento). Successivamente Hayflick fu in grado di dimostrare che il numero delle replicazioni di fibroblasti appartenenti a varie specie animali era proporzionale alla lunghezza massima della vita dell'animale stesso. Ne trasse la conclusione che la durata della vita di ciascuna specie era legata a fattori genetici, e un individuo possiede come un "orologio interno", che è programmato per una durata di vita prefissata. Le formulazioni di Hayflick sono un fatto provato del meccanismo di accorciamento dei telomeri. Avendo una ribonucleoproteina (ossia un enzima con una componente a RNA e una componente proteica), dal punto di vista sperimentale, come si procede per dimostrare che o una, o l’altra o entrambe le componenti sono essenziali per il funzionamento dell’enzima? La procedura sperimentale è quella di inattivare la funzione di una delle due componenti e verificarne le successive conseguenze. In letteratura sono stati numerosi gli esperimenti dove in vivo o in vitro si inattivava la componente a RNA o la componente proteica di una ribonucleoproteina per andare, poi, ad identificare quale fosse l’elemento fondamentale dell’enzima che garantiva la sopravvivenza cellulare. Un articolo della rivista scientifica Cell fornisce un’interessante punto di vista per quanto concerne il silenziamento della telomerasi. L’osservazione è che le cellule non sono andate incontro a morte improvvisa in seguito alla delezione della componente a RNA della telomerasi, ma si è verificato un progressivo incremento dell’instabilità genomica. Le cellule hanno cominciato ad avere accorciamenti progressivi del genoma perdendo parti inutili e poi utili per il suo funzionamento. Prima di andare incontro ad una massiccia morte cellulare, sono state riscontrate anomalie genetiche gravi che hanno poi portato all’implosione della cellula e quindi alla fine della sua sopravvivenza. Questo esperimento in vitro dimostra che la componente a RNA sia fondamentale per la vita e per il funzionamento della telomerasi; enzima che a sua volta risulta fondamentale per la sopravvivenza della cellula eucariote e per l’integrità del genoma poiché ‘mantiene’ la lunghezza dei telomeri. Nel 1996 scienziati e ricercatori di tutto il mondo si sono domandati se la telomerasi fosse l’enzima dell’eterna giovinezza. Due anni dopo, nel 1998, Science pubblicò un articolo che descriveva la procedura sperimentale che si proponeva di tenere alta l’attività della telomerasi all’interno delle cellule. Una volta caratterizzata la struttura e la funzione della telomerasi, l’enzima è stato trasferito, ingegnerizzato e fatto esprimere da cellule normali di origine umana. Le cellule in coltura, rispetto al normale, hanno prolungato la propria esistenza di almeno 20 cicli di replicazione e le caratteristiche delle cellule mantenevano dei tratti di giovinezza per tutto il tempo della coltura. Questa è stata la prima dimostrazione che l’espressione sostenuta delle telomerasi in cellule umane ne impedisse l’invecchiamento. Una prima e importante conseguenza dell'attivazione della telomerasi è quella di riuscire a aggirare il meccanismo di controllo dell’integrità del genoma ed innescare, così, un meccanismo di replicazione incontrollato che ha come esito la trasformazione neoplastica. Quindi, dal 1998 al 2020 una serie di studi hanno dimostrato che, di fatto, l’espressione costitutiva (non regolata, continua, espressa sempre) della telomerasi non è fisiologica e non è fisiologicamente raggiungibile poiché favorisce l’insorgenza di una serie di tumori localizzati (come si è visto in animali ingegnerizzati a mantenere alta l’espressione della telomerasi in distretti ben specifici). La strategia utilizzata per andare oltre il problema della trasformazione neoplastica è stata quella di osservare, in un sistema cellulare resistente a tale trasformazione, se l’espressione della telomerasi riuscisse a far re-invertire un fenotipo invecchiato e farlo tornare ad essere un fenotipo giovane. 23 Nel 2008, 10 anni dopo l’articolo precedente pubblicato su Science, con un’approccio sperimentale si è deciso di avvalersi di un modello murino resistente all’insorgenza di tumori. Scoprendo, così, che, qualora la telomerasi venga espressa in maniera costitutiva, è possibile sperimentalmente bloccare o rallentare l’insorgenza del tumore andando ad inattivare geni specifici del nostro genoma che sono pro-tumorigenici. Si è notato che, effettivamente, gli animali che esprimono la telomerasi passavano da una media di 130 settimane di vita, ad una media di 160 settimane che, per un topo, è qualcosa di incredibile. A questo punto viene spontaneo chiedersi se animali che hanno così tanto esteso la propria sopravvivenza vivano 160 settimane di ‘qualità’ o se invecchino e diventino inabili a svolgere le proprie funzioni. Per rispondere a questo importante quesito, venne pubblicato nel 2011 un articolo che illustrava un esperimento in cui la telomerasi veniva riattivata in un modello animale dotato di caratteri netti di invecchiamento. Uno dei dubbi che si era sorto riguardava proprio il domandarsi se la telomerasi allungasse la vita facendo rimanere giovani o allungando solo la vecchiaia. In questo caso è stata riattivata la telomerasi in un modello murino (topi) che presentava già in partenza dei caratteri di invecchiamento estremamente netti come degenerazione tessutale in vari distretti, abbassamento del numero delle cellule staminali adulte e altri tratti fisici caratteristici come minore capacità di imparare e metabolismo degli acidi grassi poco sostenuto. Questi studi hanno dimostrato che l’espressione ad alti livelli della telomerasi aumenta il numero di divisioni, fenomeno che a lungo andare provoca l’insorgenza di tumori; ma se si riuscisse a risolvere il problema della spontanea insorgenza tumorale, sarebbe possibile allungare la vita di un certo organismo. L’allungamento di vita avverrebbe non allungando la fase terminale della propria esistenza, ma re-invertendo i propri caratteri invecchiati in caratteri giovanili. Ad esempio, per quanto riguarda i topi usati in laboratori, i tubuli seminiferi degenerati e privi di cellule erano diventati nuovamente come in età giovanile, capaci di produrre spermatozoi maturi; i villi intestinali da degenerati erano ritornati a essere cellule perfettamente vitali. Il numero delle cellule giovanili si è, quindi, sicuramente mantenuto superiore rispetto al topo che non è stato ingegnerizzato. Con questo esperimento i ricercatori hanno dimostrato che la ri-espressione della telomerasi fa re-invertire il fenotipo invecchiato, facendogli acquisire di nuovo i tratti tipici di un organismo giovane. Questi studi hanno dimostrato che l’espressione ad alti livelli della telomerasi aumenta il numero di divisioni, fenomeno che a lungo andare provoca l’insorgenza di tumori; ma se si riuscisse a risolvere il problema della spontanea insorgenza tumorale, sarebbe possibile allungare la vita di un certo organismo. L’allungamento di vita avverrebbe non allungando la fase terminale della propria esistenza, ma re-invertendo i propri caratteri invecchiati in caratteri giovanili. Se si volesse, però, pensare ad un’applicazione su Homo Sapiens, il limite intrinseco è che questo tipo di studio può essere effettuato solo e soltanto in modelli di roditore, che sono ancora troppo distanti da quello che è un modello più fine come è quello dell’homo sapiens. Proprio per avvalorare quanto detto, è stato tentato di ingegnerizzare anche il maiale, che è il modello più simile all’uomo, ma la trasformazione neoplastica ha preso il sopravvento poiché maggiore è il numero di cellule, maggiori sono le divisioni a cui andrà incontro e quindi maggiori sono i rischi di perdita di controllo da parte del ricercatore di ogni singolo check-point a cui la cellula deve andare incontro per evitare la trasformazione neoplastica. Aggiornato al 5 novembre 2023, la ricerca sulla telomerasi come strumento di eterna giovinezza si è interrotta quasi all’origine. 24 L’espressione di un gene avviene attraverso due processi: la trascrizione del DNA in RNA e la traduzione di questo in proteine. Su questi processi intervengono numerosi altri meccanismi che in modo integrato garantiscono la regolazione dell’espressione genica. La trascrizione è il processo mediante il quale le informazioni contenute nel DNA vengono copiate e trascritte in una molecola complementare di RNA a singolo filamento con una accuratezza di circa 1 errore/105 nt trascritti. Nel 1954 il fisico russo Gamow fondò l’ “RNA Tie Club” con l’obiettivo di risolvere la struttura dell’RNA e comprendere il suo ruolo nella trascrizione. Subito dopo aver proposto insieme a James Watson la struttura a doppia elica del DNA, Francis Crick cominciò a considerare il problema del rapporto funzionale fra DNA e proteine. Per spiegare in che modo una sequenza di DNA si trasforma nella sequenza di amminoacidi specifica di un polipeptide, Crick suggerì l’ipotesi dell’adattatore: deve esistere una molecola capace di legarsi in modo specifico a un amminoacido e di riconoscere una sequenza di nucleotidi. In seguito, si scoprì che tale molecola adattatrice era l’RNA transfer, o tRNA. Molecola di RNA Come il DNA, l’RNA è un polimero lineare, composto da quattro tipi di subunità nucleotidiche unite assieme da legami fosfodiesterici, che differisce chimicamente dal DNA per due aspetti: 1. I nucleotidi dell’RNA sono ribonucleotidi, cioè contengono lo zucchero ribosio (da cui il nome acido ribonucleico) anziché il desossiribosio; 2. L’RNA contiene l’uracile. Solitamente l’RNA si trova a singolo filamento, ma soprattutto in ambiente acquoso le basi azotate tendono a formare legami deboli quando esistono sequenze complementari per alcuni tratti, facendo assumere all’RNA una struttura tridimensionale, che ha un ruolo essenziale nel processo di trascrizione (tRNA). La trascrizione avviene ad opera di un complesso multiproteico, detto RNA polimerasi, che, legandosi senza un primer al DNA, lo denatura localmente, creando poi una bolla di trascrizione (lunghezza di circa 12-14 bp). All’interno della bolla di trascrizione il DNA a singolo filamento funge da stampo per l'enzima RNA polimerasi, che sintetizza una molecola di RNA. La RNA Polimerasi catalizza l’unione di ribonucleosidi trifosfato con legami fosfodiesterici da 5’ a 3’. L’RNA prodotto si stacca immediatamente dallo stampo. La trascrizione copia un segmento di DNA secondo il principio generale della complementarietà delle basi, con direzionalità 5’→3’. La differenza fondamentale della trascrizione nella cellula procariota ed eucariota è legata allo spazio