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These notes cover various aspects of clinical biochemistry, including metabolic disorders, lipids, proteins, enzymes, liver disease, kidney function, electrolytes, and bone, heart, and gastrointestinal disorders. The document describes techniques and interpretations in clinical biochemistry and highlights factors affecting diagnostic accuracy and biological variability.

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Lezione 1 PRINCIPALI ARGOMENTI ❖ Disturbi del metabolismo degli zuccheri: diagnosi e cenni su fisiopatologia ❖ Lipidi plasmatici e di...

Lezione 1 PRINCIPALI ARGOMENTI ❖ Disturbi del metabolismo degli zuccheri: diagnosi e cenni su fisiopatologia ❖ Lipidi plasmatici e dislipidemie ❖ Proteine plasmatiche: uso diagnostico ❖ Enzimologia clinica ❖ Marcatori delle malattie epatiche ❖ Malattie del rene: diagnosi (esame del sangue e delle urine) e cenni su fisiopatologia ❖ Elettroliti (micro e macro-elementi) nelle patologie: calcio, fosforo, ferro, rame, sodio e potassio ❖ Diagnosi delle malattie dell’osso, del miocardio e dell’apparato gastrointestinale. _______________________________________________________________________________________________ Questo corso si pone come obiettivo principale di assimilare, durante la lezione, dei concetti che permettano agli studenti di interpetrare almeno una parte del referto preso in esempio. In questo corso verranno presi in considerazione i parametri che si misurano nel sangue attraverso tecniche di biochimica clinica. Attraverso queste tecniche si ottengono dei valori che poi devono essere confrontati con il range o intervallo di normalità, ovvero quell’intervallo di valori all’interno dei quali il dato ottenuto si può ritenere normale, e quindi non patologico. Se invece, il valore ottenuto per quel dato valore è superiore o inferiore al range di normalità, allora vuol dire che il soggetto soffre o e a rischio di sviluppare una data patologia o una condizione fisiopatologica. CHIMICA CLINICA o BIOCHIMICA CLINICA Ramo della medicina di laboratorio che si occupa dello studio delle alterazioni biochimiche di natura patologica, e dell’applicazione di tecniche analitiche chimico-strumentali ed immunochimiche per effettuare determinazioni di analiti (o biomarcatori) di tipo diagnostico* o di routine sui liquidi biologici. *Valore diagnostico → una variazione di un dato biomarcatore può essere associata alla presenza o meno di una patologia. Se il valore che si ottiene (es. del glucosio) è superiore o inferiore al range di normalità, questo vorrà dire che il paziente in questione ha un problema a livello del metabolismo glucidico, e pertanto dovrà essere sottoposto ad ulteriori indagini (esami del sangue o dell’urina, oppure attraverso visite specialistiche di vario genere). MEDICINA DI LABORATORIO o PATOLOGIA CLINICA Il referto preso in esempio precedentemente è un prodotto della medicina di laboratorio o patologia clinica. Questi due termini vengono spesso utilizzati come sinonimi anche se non lo sono. Per definizione, la medicina di laboratorio è l’insieme dei servizi diagnostici generali e specialistici che studia i campioni provenienti dall’uomo (analisi in vitro su sangue, urina, ecc.) o nell’uomo stesso (analisi in vivo: risonanza magnetica, e altre tecniche d’immagine) quei parametri chimici e fisici che possono fornire informazioni su processi fisiologici e patologici che stanno avvenendo in un dato paziente. Esempio: 1. Un soggetto si reca dal medico clinico perché percepisce un sintomo particolare (es. problemi respiratori, intestinali). Il medico formalizza l’ipotesi sulla diagnosi e chiede la tipologia di esami da condurre. 2. Si procede con l’esame, si ottengono dei dati, e da questi dati si può già fare un’ipotesi più plausibile, e quindi si ha il restringimento del campo dell’ipotesi. Ovviamente, l’esame del sangue non è mai lo step finale, ma ci deve essere un ulteriore step che è l’esame specialistico che spesso si avvale dell’uso di tecniche di immagine (es. risonanza magnetica, PET) che riescono a fornire un dato più preciso e specifico. NOTA: La medicina di laboratorio viene eseguita non solo dal medico ma anche da altri operatori con diverse competenze analitiche (chimica, biologia, biochimica, statistica ecc.) LA BIOCHIMICA CLINICA VIENE UTILIZZATA: ❖ Per diagnosticare la presenza di malattie ❖ Per valutare l’evoluzione della malattia (prognosi) ❖ Per monitorare la terapia ❖ Nello screening di popolazioni (e studi epidemiologici) ❖ Nella ricerca delle basi molecolari delle malattie BIOMARCATORE I tecnici dei laboratori di biochimica clinica misurano, nel fluido biologico, un biomarcatore. Questo termine viene utilizzato per indicare un parametro, che in alcune patologie è alterato, che serve per la diagnosi di tali malattie. Definizione biomarcatore: una caratteristica che è obiettivamente misurata e valutata come indicatore degli stati biologici normali o patologici (alterati) o delle risposte farmacologiche ad un intervento terapeutico. Pertanto, il biomarcatore non solo cambia come valore e come unità (se è un enzima) o come quantità/ concentrazione (se è un parametro non enzimatico) nel caso il soggetto presenti una patologia. Ma può variare in alcuni casi anche in risposta ad un trattamento farmacologico, e quindi può essere utilizzato dal medico per vedere se il paziente sta rispondendo in modo positivo o negativo a tale trattamento. MARCATORE BIOCHIMICO Il biomarcatore definisce una vasta gamma di parametri (possono essere misurati anche attraverso PET o MR), ma quando invece si parla di marcatore biochimico (e chimico) si intende un analita che viene misurato e determinato attraverso tecniche di laboratorio della biochimica clinica, e deve soddisfare alcuni criteri analitici e biologici fondamentale → deve avere proprietà diagnostiche. REPERTORIO DI BIOCHIMICA CLINICA: Biochimica di base: ❖ Sodio, potassio, cloruro e bicarbonato ❖ Urea e creatinina ❖ Calcio e fosfato ❖ Proteine totali e albumina ❖ Bilirubina, fosfatasi alcalina, alanina aminotransferasi (ALT) e Aspartato aminotransferasi (AST) ❖ γ-Glutamil-transpeptidasi (γGT) ❖ creatina chinasi (CK) ❖ H+, PCO2, PO2 (emogas analisi) ❖ Glucosio ❖ Amilasi Esami specifici ❖ Ormoni ❖ Proteine specifiche Questi vengono eseguiti quando un primo esame ❖ Elementi di traccia (Rame, zinco, selenio) del sangue ha evidenziato alcune anomalie, allora ❖ Vitamine si vuole andare a vedere quale può essere la causa ❖ Farmaci specifica di quella data patologie per fare una ❖ Lipidi e lipoproteine diagnosi vera e propria ❖ Analisi del DNA CAMPIONI USATI NELLE ANALISI CLINICHE: ❖ Sangue venoso, siero o plasma (sono quelli che ci interessano principalmente in quanto tutti i marcatori che vedremo derivano da questi campioni biologici). ❖ Sangue arterioso (usato soprattutto per misurare la concentrazione di O2 e CO2, quindi lo stato di ossigenazione del sangue) ❖ Sangue da capillari ❖ Urine ❖ Feci ❖ Fluido cerebrospinale (utilizzato per fare diagnosi di patologie neurologiche come la sclerosi multipla) ❖ Esecrato e saliva ❖ Tessuto e cellule ❖ Aspirato, per esempio: -Fluido della pleura -Asciti -Fluido sinoviale -Fluido intestinale (duodeno) -Pseudocisti pancreatica ❖ Calcoli Un buon biomarcatore diagnostico è: quello con cui si riesce a distinguere, con alta probabilità, il soggetto sano da quello malato. 1) 2) Idealmente ci si aspetta una situazione in cui c’è un range di valori per un dato parametro che è attribuibile ai soggetti sani, e un range (in media più alto) attribuibile ai soggetti malati. Ma questo non accade nella maggior parte dei casi, ovvero i valori per un dato biomarcatore difficilmente sono così diversi nella popolazione dei malati rispetto alla popolazione dei sani. Spesso si hanno delle intersecazioni (grafico 2) delle due curve, e quindi abbiamo una parte di soggetti sani che hanno valori simili o identici a quelli dei soggetti malati, pertanto è necessario intervenire con cut-off diagnostici. Un altro problema è dato dal fatto che il compito del biomarcatore è estremamente difficile in quanto ogni parametro misurabile è affetto da errore, ovvero da una variabilità biologica e analitica. La validità diagnostica di un test di laboratorio è condizionata da: 1. Variabilità dovuta a metodologia analitica → Quanto il valore vero è vicino al valore misurato. 2. Variabilità dovuta alla fisiopatologia → responsabile della distribuzione del valore vero. 1. VARIABILITA’ ANALITICA Il valore analitico che comparirà nel referto deve rappresentare una stima più fedele possibile del valore vero, ma questo valore è il risultato di un lungo e complesso processo denso di possibili errori. A sua volta, la variabilità analitica della misura dipende da errori che si possono compiere nel periodo pre-analitico oppure durante l’analisi stessa. La variabilità pre-analitica è dovuta a tutti gli errori che si possono compiere dal momento della raccolta del campione alla vera e propria analisi, quindi si parla di problemi nel prelievo, nel trasporto oppure errori che derivano dalla sbagliata metodologia di conservazione del campione (che spesso deve essere refrigerato), e poi c’è anche la variabilità dovuta al metodo o allo strumento che è stato utilizzato per compiere l’analisi di quel campione, inoltre ci può essere l’errore casuale che dipende maggiormente dall’operatore (ovviamente questo genere di errori sono minimi perché in genere nei laboratori di analisi si utilizzano per lo più strumenti automatizzati). Esempio di un tipico errore della fase pre-analitica: Vogliamo misurare un parametro nel siero, sbagliamo e mettiamo l’anticoagulante, centrifughiamo e invece di ottenere il siero otteniamo il plasma. Ci sono alcuni parametri che variano a seconda che si misurino nel plasma o nel siero, non solo i fattori della coagulazione che ci sono solo nel plasma, ma ci sono altri parametri la cui concentrazione varia a seconda che si tratti di siero o di plasma e questi sono: calcio, cloruro, proteine totali (che aumentano nel plasma rispetto al siero), albumina (diminuisce), la fosfatasi alcalina (diminuisce), concentrazione di glucosio (diminuisce), e la concentrazione del potassio. DA COSA DIPENDONO GLI ERRORI NELLA FASE ANALITICA? Dalla validità del metodo utilizzato e dalla efficienza dell’operatore ❖ ACCURATEZZA e PRECISIONE (automazione – riduzione al minimo dell’errore casuale) ❖ SENSIBILITA’ e SPECIFICITA’ ANALITICA (minore misura possibile e assenza di sostanze interferenze) SENSIBILITA’: capacità del metodo di misurare la quantità più piccola possibile di quel dato parametro SPECIFICTA’: Capacità del metodo di individuare solo quella data sostanza, e quindi di non influenzare il dosaggio da altre sostanze presenti nel campione che possono interferire nella misura. ❖ CERTIFICAZIONE DI QUALITA’ (controlli di qualità) 2. VARIABILITA’ BIOLOGICA (dovuta alla fisiopatologia) E’ responsabile della distribuzione del valore vero all’interno della popolazione. Per distribuzione del valore vero si intende quanto è rappresentato nel grafico: in cui si mettono in relazione i valori della glicemia (concentrazione di glucosio misurato nel plasma) in una popolazione (omogenea) sana non affetta da diabete o da patologie correlate (legati a disturbi nel metabolismo del glucosio o degli zuccheri). Come è possibile vedere, pur essendo una popolazione sana ha dei valori di glicemia diversi l’uno dall’altro, non ci si può aspettare che ogni soggetto, pur essendo sano, abbia lo stesso valore di glicemia → è proprio questo il concetto di variabilità biologica. Il valore per un dato parametro varia all’interno di una popolazione, pur essendo omogenea, ma deve comunque presentare dei valori molto vicini l’uno con l’altro (i valori non devono essere o troppo alti o troppo bassi, perché oltre ad esserci l’iperglicemia legata al diabete, vi è anche l’ipoglicemia che può causare seri danni alla salute). La variabilità biologica è assolutamente incomprimibile ed inevitabile (così come lo è la variabilità della misura)! La variabilità biologica è risultato di diverse componenti: individuali, etniche, ambientali, fisiologiche, ecc. Riuscire ad individuare il peso specifico di queste componenti è prerequisito fondamentale per l’uso diagnostico di quel dato parametro → si pensi, ad esempio, alla differenzia di genere: non si può considerare l’uomo e la donna uguali per alcuni parametri (la concentrazione di colesterolo è tendenzialmente più bassa nella donna che nell’uomo, quindi lo stesso valore può essere preoccupante nell’uomo e può non esserlo nella donna). Esistono delle sottocategorie di variabilità biologica: ❖ VARIABILITA’ CONTROLLABILE (modificabile): stress, traumi, febbre, uso di farmaci, ecc. ❖ VARIABILITA’ INCONTROLLABILE: 1. INTRAINDIVIDUALE (VI): ricorda ritmi circadiani (fosfato cambia nella sua concentrazione plasmatica enormemente durante la giornata). 2. INTERINDIVIDUALE (VG): sesso, etnia, ecc. ESEMPI: VARIABILITA’ BIOLOGICA CONTROLLABILE In un primo esempio, il soggetto passa dalla posizione supina alla posizione eretta. Se andassimo a misurare, in questo soggetto, la concentrazione ematica di alcune sostanze prima e dopo, vedremo che la concentrazione di alcuni analiti aumenterebbe. Gli analiti la cui concentrazione aumenta in questo caso sono: bilirubina, calcio, albumina, acido urico. Questo perché cambiando di posizione si ha un aumento della pressione arteriosa dovuto all’aumento della pressione idrostatica all’interno del vaso che spinge i liquidi (solvente) fuori del vaso, e in questo modo aumenterà la concentrazione dei soluti (analiti). Allo stesso modo, dopo un’eccessiva stasi venosa (quando prima del prelievo teniamo il laccio emostatico per più di 3 minuti) la concentrazione delle stesse sostanze citate prima (proteine totali, lipidi plasmatici, colesterolo, bilirubina), aumenta per lo stesso motivo: aumenta la pressione idrostatica, escono i liquidi dal vaso e quindi aumenta la concentrazione dei soluti. Come è possibile vedere, il potassio diminuisce e ciò è dovuto a shift trans-cellulare legato all’azione di alcuni ormoni (in particolare l’insulina). Se invece il paziente ha consumato un pasto, la concentrazione di alcune sostanze aumenterà (in primo luogo le sostanze che possono essere assorbite a livello intestinale), aumenteranno quindi il colesterolo, le proteine, il calcio, la tirosina, e alcuni enzimi. Proprio per questo motivo, per cercare di standardizzare i dosaggi soprattutto di glucosio e colesterolo, si eseguono gli esami del sangue a digiuno (in modo tale che un individuo sia confrontabile con un altro). VARABILITA’ BIOLOGICA NON CONTROLLABILE Ci sono molti analiti la cui concentrazione ematica dipende dall’età (quasi tutti). Il colesterolo aumenta di concentrazione fino a 50/60 anni in quanto c’è una diminuzione dei recettori del colesterolo che permettono l’entrata di quest’ultimo all’interno della cellula. Dopo i 60 anni continua quindi a diminuire l’espressione di questi recettori ma diminuisce anche la capacità del fegato di espellere gli eccessi di colesterolo attraverso la bile. Per questo motivo si verifica in primo luogo un rallentamento della crescita della concentrazione ematica del colesterolo, a cui segue una diminuzione. L’urea è abbastanza costante come concentrazione, ma poi ad un certo punto aumenta esponenzialmente in quanto essa viene escreta attraverso il rene, e dopo una certa età il rene (anche in assenza di una patologia) funziona di meno, quindi riesce ad espellere meno urea, e per questo motivo la concentrazione di urea nel plasma aumenta. La stessa cosa accade con il fosfato che viene escreto attraverso il rene che ad un certo punto non riesce più a farlo, quindi la concentrazione di questo elemento aumenta a livello plasmatico. Un’altra fonte di variabilità è sicuramente l’ora della giornata in cui si misura un dato analita. Questo problema è da considerare soprattutto per alcuni elettroliti serici, la cui concentrazione varia (anche di molto) durante la giornata: calcio, magnesio, potassio. Lezione 2 (a) LIMITI DI RIFERIMENTO La curva che si ottiene per la glicemia nella popolazione diabetica non ha dei limiti definiti. E’ necessario quindi stabilire dei limiti di riferimento, che racchiudano i valori entro cui si può considerare quel valore di glicemia come un valore “normale” → bisogna quindi stabilire un intervallo di normalità per un dato biomarcatore. Intervallo di normalità vuol dire che in quell’intervallo di valori sono racchiusi dei valori per quel biomarcatore che si possono considerare fisiologici e non patologici. Essendo questa una curva gaussiana, essa non ha dei limiti definiti, va all’infinito, ma a noi servono dei valori definiti. I limiti di riferimento devono essere dei limiti definiti. Per fare ciò bisogna applicare delle leggi statistiche e bisogna scendere a compromessi perché in qualsiasi modo non è possibile avere dei valori che racchiudano il 100% della popolazione, quindi bisogna accontentarsi del 95%. Utilizzando la statistica sappiamo che se abbiamo a che fare con una curva di Gauss perfetta, in cui c’è una media che corrisponde alla mediana, allora in un intervallo racchiuso tra la media ± 1,96 (deviazione standard) ci sarà il 95% dei soggetti sani: solo in questo caso riusciremo ad ottenere valori ben definiti di glicemia (125,60). Riesco sempre a distinguere, attraverso la misura di un biomarcatore, i pazienti sani da quelli malati? → La risposta a questa domanda è negativa, perché se si confronta la distribuzione dei valori per un dato parametro nei soggetti sani e nei soggetti malati difficilmente si otterrà una situazione in cui le due curve sono completamente diverse e si può tracciare una retta che definisce il valore dei sani e dei malati. Questo non succede. → Quello che succede spesso è che le due curve sono, almeno in parte, sovrapposte. Per cui c’è una zona di indecisione molto ampia in cui i soggetti sani e malati hanno anche stessi valori per quel dato parametro. → L’opzione più plausibile è quella in qui le due curve che descrivono la distribuzione dei valori per quel dato parametro si sovrappongono. Esiste una zona di limbo in cui i valori per i soggetti sani e malati sono identici. In questi casi, per riuscire a distinguere un soggetto sano da un soggetto malato, il medico deve intervenire decidendo un valore soglia → CUT-OFF DIAGNOSTICO, cioè un valore per il quale valori più alti o più bassi di quel cut-off diagnostico saranno considerati associati ad uno stato di malattia o ad uno stato di salute. Dal cut-off diagnostico dipendono i seguenti criteri: 1. SENSIBILITA’ CLINICA: Percentuale di soggetti malati che risultano positivi al test. (sensibilità al 100% vuol dire che al test non scappa neanche un malato) (da non confondere con sensibilità analitica). 2. SPECIFICITA’ CLINICA: Percentuale di soggetti sani che risultano negativi al test. (specificità al 100% vuol dire che al test non scappa neanche un sano). Il CUT-OFF diagnostico, il valore soglia, divide i pazienti in pazienti positivi al test o negativi al test. I pazienti positivi saranno considerati malati, mentre quelli negativi Bassa specificità ma alta sensibilità saranno considerati sani. Ovviamente non siamo sicuri al 100% di aver etichettato bene i pazienti sani e malati, in quanto è presente un errore calcolato e necessario che bisogna compiere per evitare l’indecisione clinica. Il cut-off diagnostico deriva da una decisione del medico o della comunità scientifica, che decidono dove inserire il cut-off in base alle esigenze, le richieste e lo scopo per cui sta eseguendo il test. Esempio di come si può spostare il cut-off: Vogliamo trattare tutti i soggetti malati (tumore) con un farmaco salvavita che non ha effetti collaterali gravi. Quindi spostiamo il cut-off verso sinistra (ovvero verso valori più bassi), in questo modo siamo sicuri di poter intercettare, con il test, tutti i pazienti malati. Infatti, tutti i pazienti malati (descritti nel grafico con la curva nera) risulteranno positivi al test → aumentiamo quindi la sensibilità clinica, ovvero aumentiamo la percentuale di soggetti malati che risultano positivi al test. Così facendo aumenta anche il numero di positivi, ovvero di soggetti che risultano positivi al test che non sono malati ma sono sani → aumenta quindi il numero di falsi positivi (In questo caso ce lo possiamo permettere perché questo farmaco non ha importanti effetti collaterali). NOTA: Aumentando la sensibilità clinica aumentano anche i falsi positivi (sensibilità clinica = percentuale di soggetti malati che risultano positivi al test → sensibilità al 100% vuol dire che al test non scappa neanche un malato). Se invece vogliamo aumentare la specificità clinica (ovvero la percentuale di soggetti sani che risultano negativi al test) spostermo il cut-off diagnostico verso valori più alti (verso destra). Così facendo aumenteranno i falsi negativi (ovvero i soggetti che risultano negativi anche se sono malati). Aumentiamo la specificità clinica quando, ad esempio, abbiamo un farmaco salvavita che ha importanti effetti collaterali, quindi lo vogliamo dare solo a quei soggetti che sono veramente malati, e quindi per intercettare i soggetti davvero malati è necessario aumentare la specificità (con il rischio che ci siano dei soggetti malati che non siano stati identificati nel modo corretto e che quindi non saranno trattati). NOTA: aumentando la specificità clinica aumentano anche i falsi negativi. Molto spesso i limiti tra sani e malati non sono netti Lezione 3 DIABETE MELLITO Patologia cronica causata dall’incapacità del pancreas endocrino di produrre una quantità sufficiente di insulina per soddisfare il bisogno metabolico dei vari organi e tessuti. E’ una patologia causata anche dall’incapacità dei nostri tessuti di utilizzare in modo efficace l’insulina, quindi in questo caso l’insulina viene prodotta ma le nostre cellule non riescono ad utilizzarla. Tutte le forme di diabete sono associate a valori elevati di glicemia più o meno severi. CLASSIFICAZIONE 1. DIABETE MELLITO PRIMARIO → insulino-dipendente (IDDM) o Tipo 1 → non insulino-dipendente (NIDDM) o Tipo 2 NOTA: La definizione di diabete insulino dipendente e indipendente è stata superata perché nel paziente con il Tipo 2, soprattutto negli ultimi anni di vita o se la malattia procede da molti anni, si deve somministrare insulina, e quindi non è più non-insulino dipendente. 2. DIABETE SECONDARIO come complicanza a: → malattie pancreatiche (pancreatiti, carcinoma, ecc.) → altre endocrinopatie (acromegalia, s. di Cushing) → farmaci (corticosteroidi) → sindromi genetiche (rare) → anormalità dell’insulina o dei suoi recettori (es. insulino-resistenza associata ad acanthosis nigricans) 3. RIDOTTA TOLLERANZA AL GLUCOSIO In questi casi si hanno valori di glicemia borderline, vicini a quelli che permettono la diagnosi del diabete. Si ha quindi incapacità di minimizzare le escursioni glicemiche, pertanto si hanno valori relativamente alti di glucosio ematico. 4. DIABETE GESTAZIONALE 5. LADA//NIRAD (latent autoimmune diabetes of adults, non insuline requiring autoimmune diabetes) Diabete di tipo 1 che si manifesta in età adulta (chetoacidosi). EPIDEMIOLOGIA Il diabete è principalmente diffuso nei paesi occidentali, ovvero in quei paesi che hanno un’alimentazione ricca di grassi e zuccheri, infatti vi è un’alta associazione tra alimentazione ipercalorica e rischio di diabete di tipo 2. 2010: 6,6% (258 milioni) della popolazione mondiale è affetta da diabete (diventerà 7,8 nel 2030) Diabete tipo 1 = 10% 2010: intolleranza al glucosio 7,9% (diventerà 8,4% nel 2030) PREVALENZA DEI VARI TIPI DI DIABETE In Europa: circa 18 milioni di persone sono affette da diabete In Italia: la prevalenza del diabete noto era del 3% (circa 1.700.000) nel 2000. del 4,6% nel 2006 Si prevede un incremento al 7% entro il 2010. DIABETE DI TIPO 1 Caratteristiche: ❖ Insorgenza in età infanto-giovanile (75% prima dei 30 anni → dato che distingue il diabete di tipo 1 da quello di tipo 2 che insorge intorno ai 40/45 anni) ❖ Insulino dipendenza assoluta (per cui deve essere somministrata insulina dopo i pasti) ❖ Patogenesi prevalentemente autoimmune (produzione di autoanticorpi contro le cellule beta che producono insulina) ma anche genetica (da 30% a 95% tra gemelli). Per avere una diagnosi certa di diabete di tipo 1 e per differenziare con estrema accuratezza il malato con diabete di tipo 1 dal malato con il diabete di tipo 2, si consiglia di fare la misurazione di alcuni autoanticorpi (come quelle contro le cellule insulari del pancreas (ICA) oppure contro la carbossilasi dell’acido glutammico (GAD): ❖ Predisposizione genetica: (HLA, DR3, DR4) ❖ Autoanticorpi contro cellule che producono insulina: 1. vs. cellule insulari pancreatiche (ICA) (LADA) 2. vs. carbossilasi dell’acido glutammico (anti-GAD) (anche in LADA) 3. vs. tirosin-fosfatai IA-2 (anti-IA2) 4. vs. insulina (IAAs) Per avere una diagnosi certa di diabete di tipo 1 e per differenziare con estrema accuratezza il malato con diabete di tipo 1 dal malato con il diabete di tipo 2, si consiglia di fare la misurazione di alcuni autoanticorpi (come quelle contro le cellule insulari del pancreas (ICA) oppure contro la carbossilasi dell’acido glutammico (GAD). ❖ Parziale o completa distruzione delle cellule beta (C-peptide basso/molto basso). Infatti di solito si misura, non tanto la quantità di insulina che ha un’emivita molto bassa, ma il peptide C che è quello che si libera durante la maturazione intra-pancreatica dell’insulina. La concentrazione del peptide C sarà proporzionale alla capacità del pancreas di produrre insulina. ❖ Complicanza acuta prevalente → chetoacidosi. ❖ Complicanze croniche prevalenti di tipo micro-vascolare (retinopatie, problemi a livello renale e cardiovascolare). DIABETE DI TIPO 2 ❖ Insorge in età adulta (10% in persone > 75 anni) ❖ Eziologia multifattoriale (poli-)genetica ed ambientale, no autoimmunitaria ❖ Insulino indipendenza per lunga parte della vita (trattamento con ipoglicemizzanti orali, soprattutto sulfaniluree e metformina anche se dopo 10 anni di malattia è sempre consigliata la somministrazione di insulina). Patogenesi prevalentemente legata a: 1. Insulino resistenza → ridotta sensibilità dei tessuti bersaglio (muscolo, fegato e tessuto adiposo) all’azione dell’insulina (infatti, ormoni come la metformina aumentano l’insulino-sensibilità di questi organi) 2. Progressiva perdita della funzionalità delle cellule beta del pancreas → quindi una perdita di responsività del pancreas agli stadi iperglicemici (perché l’insulina viene prodotta soprattutto in risposta ad un aumento della concentrazione di glucosio nel sangue). Tra le cause del diabete di tipo 2 vi sono: 1. Fattori ereditari ed ambientali 2. Conseguenza di altre patologie (malattie del pancreas esocrino) 3. Genetiche (MODY) 4. Obesità, stress, età, vita sedentaria → insulino resistenza, ovvero una diminuzione della riposta biologica alle normali concentrazioni di insulina circolante (ciò vuol dire i tessuti epatici o periferici sono meno sensibili al messaggio proveniente dall’insulina e quindi non riescono a rispondere in modo corretto all’informazione proveniente e trasmessa da questo ormone). glicemia x insulinemia L’insulino resistenza si misura attraverso = 𝐻𝑂𝑀𝐴 𝑖𝑛𝑑𝑒𝑥 = 22,5 (valori di riferimento: 0,23 – 2,5) Forme di MODY (2-5%) (geni espressi in cellule del pancreas e fegato) Questa forma di diabete monogenica caratterizzata da trasmissione autosomica dominante, ha le caratteristiche del diabete di tipo 1 in quanto presenta un esordio in giovane età, ma non è insulino indipendente come il diabete di tipo2. ❖ MODY 1: Mutazione gene per fattore nucleare 4-afa (HNF 4-alfa) ❖ MODY 2: Mutazioni glucochinasi (enzima epatico importante nella regolazione della glicemia perché, come l’esochinasi, fosforila il glucosio-6-fosfato bloccando il glucosio all’interno dell’epatocita ma a differenza dell’esochinasi è estremamente regolabile. ❖ MODY 3 :(70%) mutazioni di HNF 1-alfa che è un attivatore della secrezione dell’insulina ed è importante anche nella regolazione della secrezione del glucagone (no secrezione insulina e glucagone). ❖ MODY 4: mutazioni del gene di insulin promoter factor 1 (IPF-1) ❖ MODY 5: mutazione HNF 1-beta ❖ MODY 6: mutazione del genere di differenziamento neurogenico – 1 (neurod1). FATTORI che CONTRIBUISCONO all’ INSULINO RESISTENZA ❖ Aumento di ormoni antagonisti (glucagone) ❖ Modificazione della catena polipeptidica dell’insulina ❖ Mutazione del recettore che a sua volta è dovuto a polimorfismi (mutazioni dei geni che codificano per il recettore tirosinchinasico) ❖ Aumento delle adipochine (sostanze con varie funzioni biologiche che sono prodotte dalle cellule del tessuto adiposo sia sottocutaneo che viscerale). ❖ Aumento degli acidi grassi ematici ❖ Aumento dell’infiammazione (in particolare, aumento della citochina pro-infiammatoria IL-6) Questi ultimi tre fattori sono legati all’accumulo di tessuto adiposo di tipo viscerale che si trova a livello addominale e che ha una relazione di causa-effetto con l’insulino-resistenza. 1) Nell’organismo umano esistono due tipologie di grasso: Il grasso bruno e il grasso bianco (metabolicamente attivo). Il grasso bianco, a sua volta, si trova maggiormente localizzato a livello sottocutaneo e una piccola parte è localizzata a livello viscerale (la percentuale di grasso viscerale rispetto al grasso sottocutaneo aumenterà se l’individuo accumula grasso a livello addominale). Se si accumula grasso a livello addominale aumenta il volume delle cellule adipose a livello viscerale che diventano disfunzionali e quindi più insulino-resistenti. In più aumenta anche l’infiltrazione di cellule immunitarie come i macrofagi, ciò comporta un aumento nella produzione di citochine pro-infiammatorie, e quindi l’insorgenza di infiammazione low-grade (associata a rischio cardiovascolare anche nei soggetti apparentemente sani). 2) Alterazione delle adipochine: si evidenzia la diminuzione dell’adiponectina che è una delle poche adipochine con funzione di protezione cardiovascolare. 3) Aumento degli acidi grassi ematici Tutto ciò comporta l’insorgenza del fenomeno di insulino resistenza. ? Perché chi ha più grasso viscerale è più insulino-resistente rispetto a chi ne ha meno → perché il grasso viscerale è più insulino resistente rispetto al grasso ipodermico, sottocutaneo. Quello che succede ad una cellula adiposa quando riceve il segnale dall’insulina, la prima cosa che fa è promuovere la sintesi di trigliceridi. In più l’insulina riesce anche a bloccare la lipasi adipocitaria, quindi viene bloccata la lipolisi. L’insulina arriva alle cellule del tessuto adiposo sottocutaneo (4-9%) che reagiscono molto bene al messaggio ormonale, producono tanti trigliceridi e liberano pochi acidi grassi in quanto c’è un’inibizione efficace della lipasi. Il tessuto adiposo viscerale (1 – 1,2%) è più insulino-resistente e il risultato è che si accumulano pochi trigliceridi e aumenta la quantità di acidi grassi liberati perché non c’è inibizione della lipasi, e quindi se si accumulano cellule del tessuto adiposo viscerale, ci sarà anche un accumulo conseguente delle molecole di acido grasso a livello ematico. Successivamente le molecole di acido grasso arriveranno al fegato, diventeranno a loro volta trigliceridi, il fegato si riempirà di trigliceridi e diventerà “fegato grasso” che è una delle complicanze più importanti dell’insulino-resistenza del diabete d i tipo 2. Come cambia il rischio cardiovascolare in base alla quantità’ relativa di grasso sottocutaneo addominale. Si può parlare di 3 forme di obesità in base alla tipologia di grasso che si è depositato e alla zona anatomica in cui questo si è depositato. Quindi oltre all’obesità addomino-viscerale e l’obesità addomino- sottocutanea, c’è anche l’obesità sottocutanea gluteo-femorale in cui il grasso sottocutaneo si deposita a livello gluteo-femorale. Il quadro metabolico di quest’ultima forma di obesità è sicuramente migliore rispetto alle altre due, in quanto si ha insensibilità insulinica più alta, quindi minor resistenza all’effetto dell’insulina, il quadro infiammatorio è meno importante, e il rilascio di acidi grassi liberi è più basso. Gli acidi grassi liberi sono pericolosi, non solo perhè raggiungono il fegato e formano i trigliceridi causando disfunzione epatica, ma anche perché competono con il glucosio come substrato energetico → ovvero se la cellula vede molti acidi grassi liberi, sceglie questi per produrre energia (e non il glucosio), ciò comporterà l’insulino-resistenza dei vari organi. Quindi l’aumento degli acidi grassi liberi a livello ematico aumenterà anche il fenomeno dell’insulino-resistenza: quindi è causato dall’insulino-resistenza ma allo stesso tempo provoca un aumento della gravità di questa condizione. PERCENTUALE DI GRASSO VISCERALE/SOTTOCUTANEO Uomo (70 Kg) Grasso totale: 10,5 Kg: 15% Essenziale: 2,1 Kg: 3% Deposito: 8,3 Kg: 12% SOTTOCUTANEO: 3,1 Kg: 4% Intermuscolare: 3,3 Kg: 5% Rapporto grasso viscerale/sottocutaneo = 3:1 Intramuscolare: 0,8 Kg: 1% VISCERALE: 1 Kg: 1% Donna (56,8 Kg) Rapporto grasso viscerale/sottocutaneo = 5:1 Grasso totale: 15,3 Kg: 27% Ciò vuol dire che è presente del grasso sottocutaneo più abbondante Essenziale: 4,9 – 6,8 Kg: 9-12% in percentuale rispetto al grasso viscerale. Deposito: 8,5 – 10,4 Kg: 15-18% Questo proteggerà la donna nei primi anni di vita dal rischio SOTTOCUTANEO: 5,1 Kg: 9% cardiovascolare e dal rischio di patologie tumorali (colon, retto) che Intermuscolare: 3,5 Kg: 6% sono strettamente associate con l’obesità addomino-viscerale. Intramuscolare: 0,6 Kg: 1% Quindi la donna sarà più protetta verso queste patologie fino ai 50 rispetto che nell’uomo (in quanto la donna tende ad accumulare VISCERALE: 1,2 Kg: 2% grasso soprattutto a livello gluteo-femorale, mentre l’uomo accumula grasso sempre a livello addomino-viscerale). Ma dopo i 50 anni, il declino degli estrogeni comporta anche uno shift, una diversa organizzazione del grasso corporeo (tende ad assomigliare all’uomo) così anche la curva di mortalità cardiovascolare tende ad aumentare fino a raggiungere quasi quella dell’uomo (circa verso gli 80 anni). SINDROME METABOLICA (Sindrome X, Sindrome da insulino-resistenza, Sindrome di Reaven) Il circolo vizioso che si instaura tra l’obesità addomino-viscerale e l’insulino-resistenza è molto pericoloso per la nostra salute. Questo circolo vizioso è alla base della sindrome metabolica → ovvero una situazione clinica nella quale diversi fattori (biochimici e metabolici) fra loro correlati concorrono ad aumentare la possibilità di sviluppare patologie a carico dell’apparato circolatorio e diabete. IPOTESI DI BASE: varie alterazioni metaboliche hanno un’origine comune che ruota attorno alla ridotta attività insulinica. Un soggetto con sindrome metabolica non è malato, non è affetto da alcuna malattia e pertanto non ha segni clinici evidenti. Tuttavia questo soggetto avrà un maggior rischio di sviluppare una patologia rispetto ad un soggetto senza sindrome metabolica. Ci sono varie definizioni di sindrome metabolica, ma quella usata con maggiore frequenza è quella formulata dalla Cholesterol Education Program Adult Treatment Panel (ATP) III nel 2001: Siano dati 5 parametri: glicemia, ipertensione, obesità addominale, profilo lipidico (misurato come concentrazione di trigliceridi o di colesterolo HDL) → L’individuo è affetto da sindrome metabolica se almeno 3 di questi parametri sono alterati. E’ importante, inoltre, considerare che la sindrome metabolica non è altro che un campanello d’allarme. Infatti, nella maggior parte dei casi la sindrome metabolica può essere attenuta e combattuta, eliminando così il rischio di ammalarsi di patologie cardiovascolari attraverso uno stile di vita e una dieta adeguata. DIFFERENZE TRA DIABETE DI TIPO I e II Lezione 4 Criteri per la diagnosi di diabete secondo le raccomandazioni ada 2005 Glicemia plasmatica a digiuno (FPG) ≥ 126 mg/dl (A digiuno significa distanza > 8 ore dall’ultima ingestione di cibo o bevande caloriche Sintomi legati al diabete (poliuria, polidipsia ed inspiegabile perdita di peso) e rilievo casuale di glicemia plasmatica ≥ 200 mg/dl (casuale significa in qualsiasi momento indipendentemente dalla distanza dall’ultimo pasto) Glicemia plasmatica dopo 2 ore dal carico orale di glucosio (OGTT) ≥ 200 mg/dl (non è raccomandata per l’uso clinico di routine) Emoglobina glicata → HbA1c ≥ 6,5% (maggiore di 48 mmol/mol) In assenza di un’inequivocabile iperglicemia con scompenso metabolico acuto, ma anche in tutti gli altri casi, questi criteri dovrebbero essere confermati da test ripetuti in giorni differenti. SOGGETTO NORMALE Glicemia plasmatica a digiuno < 100 mg/dl Glicemia plasmatica dopo 2 ore dal carico orale di glucosio (OGTT) < 140 mg/dl CATEGORIE DI AUMENTATO RISCHIO DIABETE DI TIPO 2 FPG: glicemia plasmatica a digiuno = 100-125 mg/dL ITG: glicemia plasmatica dopo 2 ore dal carico orale di glucosio = 140-199 mg/dl HbA1c = 5-7 -6,4 % Glicemia a digiuno La procedura standard per la misurazione della glicemia prevede come campione biologico il plasma venoso prelevato dopo un digiuno tra le 8-12 ore. Sangue intero (misura più rapida): tramite glucometri portatili per monitoraggio ospedaliero e/o etra-ospedaliero di pazienti diabetici (infatti, lo si consiglia ai pazienti prima di prendere la dose di insulina). Il valore di glicemia che si ottiene in questo caso è del 10-15% minore rispetto al plasma. Qualora il plasma non possa essere separato da corpuscoli, tramite centrifugazione, entro 30 minuti è necessario inibire la glicolisi con fluoruro di sodio, perché la glicolisi attivata comporterebbe una diminuzione della concentrazione di glucosio plasmatica. Il metodo di determinazione di glucosio raccomandato è quello dell’esochinasi. Test di tolleranza al glucosio - curva da carico In passato il principale criterio per la diagnosi di diabete risiedeva sull’esecuzione della curva da carico (Oral Glucose Tolerance Test – OGTT) A partire da una condizione di digiuno, a riposo, si fa bere al paziente uno sciroppo dolce (75 gr di glucosio) e si effettuano 2 (o più) prelievi (il primo a digiuno). Importante per diagnosticare “impaired glucose tolerance” IGT Immaginando di misurare la concentrazione nel plasma di un individuo a 0,1,2,3,4,5,6 ore l’andamento che dovrebbe seguire se l’individuo non è diabetico è nel grafico rappresentato dalla curva rossa → si avrà un picco della glicemia che non supererà la soglia dei 140 mg/dl anche dopo un’ora. Il picco sarà seguito da una riduzione relativamente veloce della concentrazione ematica di questo metabolita. Mentre nel soggetto diabetico (curva blu) si avrà un picco, anche dopo poche ore, superiore ai 120 mg/dl, si raggiungerà un plateau che poi si abbasserà molto lentamente, quindi valori molto alti di glicemia permarranno per alcune ore NOTA: Dopo 3 giorni di dieta con almeno 150 gr di carboidrati al giorno e dopo 12-16 ore di digiuno. Si segue la concentrazione di glucosio per 2 ore ogni 30 minuti. Diabete Gestazionale Il test OGTT si fa frequentemente nelle donne in gravidanza (soprattutto tra la 24° e la 28° settimana) perché queste donne hanno un grande rischio di avere diabete gestazionale. Le cause dell’insorgenza di questa forma di diabete sono: Aumento di ormoni ad attività contro-insulare prodotti dalla placenta (cortisolo, lattosio neo-placentare, progesterone) Aumento della massa adiposa materna e calo attività fisica Si avrà una tendenza, in queste donne, ad avere insulino-resistenza e quando il pancreas non riuscirà più a controbilanciare in modo corretto questa tendenza, allora si avrà il diabete. DIAGNOSI: Misura della glicemia plasmatica a digiuno ≥ 92 mg/dl ma < 126 mg/dl alla prima visita prenatale perché se è superiore si avrà un’altra forma di diabete: DIABETE CONCLAMATO La glicemia plasmatica la si misura anche attraverso il test OGTT e per avere diagnosi di diabete gestazionale ci deve essere almeno un valore anormale fra le 24-28 settimane (screening solo donne a rischio). Emoglobina glicata Rappresenta un ottimo parametro retrospettivo della presenza di uno stato iperglicemico (8-12 settimane). Infatti il suo valore (che non è altro che la percentuale dell’emoglobina glicata sull’emoglobine totale) riflette la glicemia media nelle 8-12 settimane prima del prelievo. Questo dipende dall’emivita di questo parametro che a sua volta è uguale all’emivita dell’emoglobina, che a sua volta è ancora uguale all’emivita del globulo rosso (8-12 settimane) Il glucosio si lega, per via non enzimatica, ad amminoacidi delle subunità proteiche dell’emoglobina e si forma un legame stabile. Quella più misurata è HbA1c nel quale il legame del glucosio è dato dall’interazione tra il glucosio e la valina delle subunità beta dell’emoglobina. Esiste una corrispondenza vera e propria tra i valori di HbA1c e i valori di glicemia media: per cui aumentando la percentuale aumenta anche la glicemia media. L’emoglobina glicata è pertanto considerata un biomarcatore anche per la diagnosi del diabete, ma la sua utilità è espressa soprattutto nella valutazione del compenso glicemico, nella valutazione e nell’efficacia della terapia (es. con metformina) e per la valutazione del rischio e delle complicanze croniche. Infatti, è possibile vedere nel grafico l’incremento in percentuale della retinopatia diabetica, una delle principali complicanze del diabete di tipo I e II. Il rischio aumenta quando si va dal 6% al 7%, poi se aumenta il valore di HbA1c aumenta enormemente anche l’incidenza di questa complicanza. > 6,5% (48 mmol/mol) = diagnosi diabete valori normali 5,7 – 6,4% (37-46 mmol/mol) = alto rischio di diabete Altre proteine glicate: Fruttosamine: indice delle proteine seriche stabilmente glicate (chetoamine, albumina, lipoproteine, ecc.) Albumina glicata Queste sono utili soprattutto quando vi sono patologie concomitanti che interferiscono con i valori di HbA1c (come anemia, insufficienza renale cronica). Oppure sono utili quando ci serve un dato più a breve termine, infatti l’albumina glicata ha un’emivita molto più bassa rispetto a quella dell’HbA1c (2-3 settimane). Clinica Diabete Tipo I Tutti i sintomi sono legati ad alcune alterazioni: iperglicemia, glicosuria (presenza di glucosio nell’urina) e chetoacidosi (caratteristica tipica del diabete di Tipo I, talvolta anche nel Tipo II). I sintomi sono: Perdita di liquidi e disidratazione (poliuria, più di 2 litri/giorno) Secchezza della cute e delle mucose Polidipsia (l’individuo beve più del normale) Dimagrimento ed astenia Nausea e vomito Dolore addominale, toracico Respiro profondo Questi sintomi sono dovuti principalmente alla Alito acetonico chetoacidosi Alterazione della coscienza Coma cheto-acidosico (a volte è il sintomo di esordio) Clinica Diabete Tipo II La classica sintomatologia è caratterizzata da: Poliuria (che rappresenta il sintomo più frequentemente riscontrato con esordio sintomatico) Polidipsia Astenia Polifagia Coma iperosomoalre Complicanze acute diabete tipo I e II Coma chetoacidosico Diabete tipo I (ipoglicemico e lattacidemico) Dovuto all’innalzamento della concentrazione dei corpi chetonici o chetoacidi, che comporta acidosi e quindi diminuzione del pH plasmatico (valori normali 7,35 – 7,45). I corpi chetonici aumentano perché i tessuti sono obbligati ad utilizzare acidi grassi per produrre energia: Vengono utilizzati gli acidi grassi che sono rilasciati dalle cellule adipose in quanto non c’è più l’attività inibitoria dell’insulina nei confronti della lipasi adipocitaria. Acidi grassi provenienti dal catabolismo → beta ossidazione degli acidi grassi, che se massiva, libera una massiva quantità di corpi chetonici. Si può avere anche un’altra concentrazione di lattato che incide sui valori del pH (acidosi), e questo è dovuto al fatto che non c’è più l’inibizione della gluconeogenesi pertanto viene richiamato lattato e altri intermedi neo-glugenetici dal muscolo. Coma iperosomoalre Diabete tipo II In condizioni normali, quando la concentrazione di glucosio è attorno a 100 mg/dl, il glucosio passa al glomerulo ma viene completamente riassorbito, pertanto non lo si ritroverà nell’urina. Ma se il glucosio è presente nel plasma in valori oltre a 180-200 mg/dl allora questo verrà ritrovato nell’urina. L’aumentata concentrazione di questa molecola osmoticamente attiva comporta il richiamo di acqua dal parenchima renale, in quanto il glucosio deve essere disciolto in questo fluido, e quindi si ha perdita di acqua (poliuria) e di conseguenza polidipsia. Quando si ha una disidratazione molto elevata si può andare in contro a coma iperosomoalre. Il diabete è una malattia cronica, gravata da complicanze micro e macrovascolari, fortemente invalidanti Complicanze microcircolo: Complicanze macrocircolo Retinopatia diabetica Arteriosclerosi Cataratta Nefropatia diabetica Neuropatia diabetica Microangiopatia (ispessimento membrane basali) Piede diabetico VASCOLUPATIA: microangiopatia e macroangiopatia - Macroangiopatia - ❖ La macroangiopatia è dovuta all’aterosclerosi che si sviluppa in modo più esteso e precoce nella popolazione affetta da diabete rispetto alla popolazione generale. (malattie cardiovascolari come infarto ed angina, sono le principali cause di morte per diabetici). ❖ A contribuire a questo incremento del rischio di aterosclerosi c’è sicuramente la glicazione dell’LDL → in quanto le LDL glicate e ossidate hanno una maggiore atergenicità rispetto alle LDL non modificate. ❖ Concause: obesità, dislipidemia, ipertensione arteriosa. ❖ Se sono interessati i grossi vasi degli arti inferiori si ha la claudicatio intermittens. - Microangiopatia - ❖ Se sono interessati i piccoli vasi si ha la comparsa di ulcere a livello del piede spesso complicate dalla gangrena. ❖ La formazione delle ulcere è favorita dalla neuropatia che comporta riduzione o perdita di tutti i tipi di sensibilità (il soggetto, non essendo sensibile in quella zona, continua ad indossare le scarpe e l’ulcera diventa più grave). ❖ Comune è la sovrainfezione batterica delle ulcere. Se l’infezione non risponde al trattamento antibiotico è necessaria l’amputazione dell’arto per evitare la sepsi. Monitoraggio del diabete e delle sue complicanze 1. Concentrazione del glucosio nell’urina e concentrazione ematica del glucosio a digiuno. 2. Determinazione dei chetoacidi 3. Emoglobina glicata 4. Microalbuminuria 5. Lipoproteine plasmatiche 1. Urina vs Concentrazione glucosio nel sangue glicosuria dipende da soglia renale E’ possibile misurare il glucosio nell’urina ma è necessario ricordare che non è possibile misurare il glucosio per fare diagnosi. Questo perché il glucosio arriva nell’urina ed è misurabile e riscontrabile nell’urina solo quando la concentrazione ematica del glucosio supera i 180-200 mg/dl (soglia renale) perché prima di quella soglia, il glucosio passa dal filtro del glomerulo ma poi viene riassorbito dai trasportatori presenti a livello del tubulo prossimale, quindi non si trovano tracce di glucosio nel soggetto non diabetico. Se la soglia 180-200 mg/dl viene superata, allora i trasportatori non riescono a riassorbire tutto il glucosio presente nella pre-urina e quindi saranno presenti tracce di glucosio nell’urina. 2. Chetoacidi ❖ Si misurano i chetoacidi perché sia il diabete di tipo I che di tipo II sono associati ad un aumento dei chetoacidi, e se aumentano troppo possono incidere sul pH plasmatico e possono portare all’insorgenza del coma chetoacidosico. ❖ Si misurano soprattutto i chetoacidi più abbondanti come: acetoacetato e acido idrossibutirrico. 3. Microalbuminuria ❖ E’ un marker molto affidabile per la valutazione e il monitoraggio della nefropatia diabetica (danno renale). ❖ Si definisce microalbuminuria la presenza di albumina nelle urine tra 30-300 mg/24h (20-200 microgrammi/min) Questo vuol dire che in un soggetto non diabetico è normale avere delle tracce di albumina sopra i 30 mg/24h. ❖ Un valore superiore a 300 mg/24h è indice di proteinuria clinica che si accompagna con una diminuzione della GFR ed è segnale di nefropatia conclamata (creatinina sierica ed azotemia aumentano – UREMIA). ❖ Considerato anche un fattore di rischio CVD. Prescritta: annualmente per diabete di tipo I dopo 5 anni di malattia e per diabete di tipo II o diabete gestazionale. Definizione di microalbuminuria e albuminuria clinica seconda l’ADA NOTA: La diagnosi di microalbuminuria richiede la dimostrazione di un aumento di escrezione di albumina in almeno due di tre test ripetuti ad intervalli di 3-6 mesi. Il glomerulo Il sangue arriva al glomerulo renale e viene filtrato → si forma la pre-urina che si trova nello spazio di Bowman. L’urina primitiva contiene ioni, acqua e molecole a basso peso molecolare in quanto il filtro glomerulare, come tutti i filtri, fa passare solo sostanze di un certo diametro (quindi, ad esempio, proteine di 100-120 kDa non riescono a superare il filtro, mentre ioni o molecole/proteine come la microglobulina con un diametro molto basso riescono a passare attraverso questo filtro. L’albumina riuscirebbe a superare il filtro del glomerulo in quanto ha un P.M. attorno ai 67 kDa, e il filtro fa passare le proteine che sono tra i 66- 67 kDa. Ma allora perché l’albumina si trova solo in tracce nell’urina? → perché l’albumina ha carica netta negativa, che si trova anche a livello del filtro del glomerulo, soprattutto nella lamina basale, che è la componente proteica del filtro che è ricca di collagene e di proteine negativa, quindi ci sono delle repulsioni elettrostatiche che impediscono all’albumina carica negativamente di passare attraverso il filtro. In condizioni normali passa una piccola quantità di albumina (le IgG che hanno un P.M. elevato non passano). Inizia il danno al glomerulo renale causato dal diabete: In un primo momento la lamina basale viene un po' destrutturata e quindi perde cariche negative, ne consegue un maggiore passaggio di albumina (presenza di una maggiore concentrazione di albumina nelle urine). Quando il danno diventerà massivo e severo, ci sarà una perdita completa della struttura e dell’integrità del glomerulo renale, per cui oltre a perdere albumina si perderanno proteine a più alto peso molecolare → proteinuria non selettiva. Insulina (12-150 pmol/L) e peptide C (0,25 – 0,6 nmol/L) La determinazione nel plasma di insulina, generalmente, non è prescritta nei pazienti con diabete, non viene utilizzata neanche per fare diagnosi differenziale tra diabete di tipo I e II (anche se sappiamo che nel diabetico di tipo II vi sono valori di insulina più elevati rispetto al tipo I). E’ molto utile per la valutazione delle ipoglicemie a digiuno, per ottimizzare la terapia, o per escludere insulinoma (tumore pancreatico che comporta produzione in grande quantità di insulina). Si può misurare come insulina in quanto tale o come Peptide C (che ha come vantaggio il fatto di avere un’emivita più elevata e quindi più stabile) consigliato soprattutto per chi fa terapia insulinica. Dislipidemie Diabetiche Il diabete di tipo I e II si associano dislipidemie, si rende quindi necessaria la valutazione delle concentrazioni delle lipoproteine e dei lipidi plasmatici per la valutazione del rischio, in questi pazienti, di andare in contro a malattie cardiovascolari (principale causa di morte tra pazienti diabetici) Diabete di tipo I: Trigliceridi alti (VLDL e chilomicroni), per mancata inibizione della lipasi e mancata attivazione della lipoproteinlipasi. (Gli acidi grassi che si liberano in grandi quantità dal tessuto adiposo, in mancanza dell’insulina che non può inibire la lipasi adipocitaria, finiscono al fegato. Il fegato in parte li deposita e in parte produce VLDL che sono trasportatrici di trigliceridi. La conseguenza immediata è l’aumento di questi ultimi). Aumento di LDL (colesterolo cattivo) e soprattutto diminuzione HDL (colesterolo buono). Diabete di tipo II: Trigliceridi alti (VLDL e chilomicroni) a causa del fenomeno dell’insulino-resistenza e, pertanto, per la mancata inibizione della lipasi e mancata attivazione della lipoproteinlipasi. LDL non molto basse ma piccole e dense (maggiormente aterogeniche) Diminuzione HDL Sindromi ipoglicemiche Valore soglia di glicemia = 40-50 mg/dL CAUSE Ipotiroidismo, malattia di Addison (no cortisolo), malattie epatiche, overdose da insulina, digiuno prolungato, insulinoma. SINTOMI Sudorazione, debolezza, tachicardia, confusione, poca concertazione… EFFETTI -Segni clinici tipici dovute ai danni al SNC -Remissione della sintomatologia dopo somministrazione di glucosio PER FARE DIAGNOSI: Glicemia a digiuno Insulinemia a digiuno Peptide C Prova digiuno protratto (72h) + eventuale esercizio fisico Lezione 5 Lipidi Insolubili in acqua Costituiti da acidi grassi: a loro volta costituiti da un gruppo carbossilico polare ionizzato in condizioni fisiologiche, da una catena alifatica idrocarburica più o meno lunga. Gli acidi grassi possono essere: Saturi o insaturi: a seconda della presenza o meno di doppi legami tra atomi di carbonio adiacenti Essenziali: linolenico e linoleico (3-5%) che devono essere assunti con la dieta. In forma libera: NEFA. Anche se nel plasma sono trasportati dall’albumina (in quanto presentano una lunga catena alifatica idrofobica e quindi hanno bisogno di un trasportatore nell’ambiente acquoso) Forma di deposito o di accumulo → ESTERIFICATA: 1. Acidi grassi legati al glicerolo mediante triacilglicerolo sintetasi (trigliceridi) 2. Acido grasso legato a colesterolo mediante Acetil-CoA: cholesterol acil transferasi (ACAT epatocitario) a formare gli esteri del glicerolo. Colesterolo ❖ E’ uno sterolo, quindi ha un nucleo steroideo rigido formato da 4 anelli fusi (27 C disposti in una struttura di peridrociclopentanofenantrene tratraciclico). ❖ E’ una molecola anfipatica, infatti presenta una porzione completamente idrofoba un gruppo ionizzabile (polare) ❖ Il colesterolo libero, non esterificato, si trova soprattutto nel foglietto esterno delle membrane plasmatiche con la porzione polare esposta verso l’ambiente acquoso. La porzione polare è anche il sito di esterificazione in cui il colesterolo diventa estere e si forma il legame con l’acido grasso. ❖ Oltre ad essere un componente fondatale delle membrane per le quali gioca un ruolo fondamentale nel regolarne la plasticità e la fluidità, esso è anche un precursore degli acidi biliari che altro non sono che il prodotto del catabolismo del colesterolo (è l’unico modo che l’organismo ha per espellere il colesterolo). Ed è anche un precursore di importanti ormoni steroidei (aldosterone, progesterone, ormoni sessuali) e dalla vitamina D. ❖ Il nome proviene dal greco chole (bile) e steros (solido) e la sua presenza era già stata riscontrata nei calcoli delle cistifellea nel 18mo secolo. Acidi grassi essenziali Acidi che non sono sintetizzati dall’organismo dei mammiferi ma dato che sono indispensabili devono essere introdotti con la dieta. L’uomo non riesce a sintetizzare acidi grassi con doppio legame oltre alla posizione 9, quindi da questo si può capire come la maggior parte degli acidi grassi insaturi devono essere assunti con la dieta. Vi sono due famiglie con due precursori OMEGA 6: acido Linoleico (LA) (C 18:2) (n-6) OMEGA 3: acido Alfalinoleico (ALA) (C18:3) (n-3) Una dieta tipica dei paesi occidentali, il rapporto omega-6/omega-3 è di 15:1, mentre, per essere ideale dovrebbe essere di 5:1 Ruolo biologico nell’uomo Avere una dieta equilibrata di Omega-3 e Omega-6 è fondamentale in quanto essi sono precursori di famiglie di eicosanoidi, e di sostanze essenziali. Dagli Omega-3 e -6 si formano le varie serie di eicosanoidi coinvolti nella risposta infiammatoria Eicosanoidi della serie 2 (cattivi) → PGE2 e TXA2 Eicosanoidi della serie 3 (buoni) → PGE3 e TXA3 Eicosanoidi della serie 4 (cattivi) → LTB4 Eicosanoidi della serie 5 (buoni) LTB5 Distorsione dei doppi legami in acidi grassi insaturi In figura è possibile vedere un glicerolo che ha esterificato 2 acidi grassi saturi e 1 acido grasso insaturo a formare un trigliceride. Possiamo vedere la differenza nella conformazione tra gli acidi grassi saturi ed insaturi: Il saturo è linearizzato, mentre l’insaturo presenta una curvatura nella zona in cui c’è il doppio legame. Questo offre spazio si movimento tra l’acido grasso saturo ed insaturo, pertanto la catena dell’acido grasso saturo si può muovere e questo conferisce fluidità alla membrana. Ciò non potrebbe accadere se anche il terzo acido grasso fosse saturo. Acidi grassi CIS e TRANS I cis sono i più abbondanti in natura. I trans si formano naturalmente, quasi esclusivamente, nello stomaco dei ruminanti. Tuttavia si trovano discrete quantità di acidi grassi trans anche in alcuni alimenti (merendine, margarina) e sono formati attraverso processi industriali, quali rettificazione o idrogenazione degli oli vegetali. Acidi grassi insaturi = olio acidi grassi saturi = burro Burro= alimento ricco di acidi grassi saturi, è solido a temperatura ambiente. La presenza di doppi legami, soprattutto cis, abbassa il punto di fusione del lipide. Infatti, gli oli contengono acidi grassi insaturi di tipo cis, e sono liquidi nelle medesime condizioni a temperatura ambiente, perché hanno un punto di fusione più basso rispetto al burro. Biochimica degli acidi grassi: Importanza dell’Acetil-CoA Gli acidi grassi si formano nel citosol a partire da un precursore estremamente importante: Acetil-CoA: dall’acetil-CoA si forma il malonyl-CoA e da qui si formano altri intermedi molecolari fino ad arrivare all’acido grasso. L’acetil-CoA è molto importante perché è il crocevia di numerosissime vie metaboliche (tutte quelle conosciute). Esso deriva dal glucosio, attraverso la glicolisi si forma il piruvato che poi viene decarbossilato e alla fine si trasforma in aceti-CoA. Il piruvato, a sua volta può derivare dal lattato o dall’alanina (quindi da residui di proteine), oppure può derivare dalla beta ossidazione degli acidi grassi che avviene nel mitocondrio, al contrario della biosintesi degli acidi grassi che avviene nel citosol. L’acetil-CoA prodotto in grandi quantità può formare aceto-acetil-CoA e da lì aceto- acetato, acetone (che sono corpi chetonici che si producono in grandi quantità soprattutto nel soggetto diabetico che non riesce ad utilizzare il glucosio ed ossida molti acidi grassi, dai quali si ottiene una grande quantità di Aceti-CoA e di conseguenza una grande quantità di corpi chetonici che possono acidificare il sangue). L’acetil-CoA può entrare nel ciclo di Krebs e da lì formare aspartato, glutammato e altri residui proteici. Inoltre l’acetil-CoA è il precursore degli acidi grassi e anche del colesterolo. Biosintesi del colesterolo ❖ Il colesterolo viene prodotto da vari organi, soprattutto intestino e fegato o dalla pelle ❖ Ogni giorno viene prodotto internamente circa 1 gr di colesterolo endogeno, mentre l’apporto alimentare è di soli 0,4 gr/die (0,05 in vegetariani). ❖ Colesterolo totale: 100 gr (5% ematico, 95% cellulare). Per la sintesi del colesterolo si parte dall’acetil-CoA. L’acetil-CoA deriva anche dal glucosio, per cui se introduciamo molto glucosio con la dieta si avrà una maggiore produzione di Acetil-CoA, e quindi si rischia di avere elevate concentrazioni di colesterolo. Questo è uno dei principali motivi per cui una dieta ipercalorica comporta anche l’aumento del colesterolo in circolo. La biosintesi del colesterolo dipende dal glucosio: L’acetil-CoA mitocondriale: -PIRUVATO (da glucosio) -OSSIDAZIONE ACIDI GRASSI: esportato dal mitocondrio sotto forma di citrato citrato + ATP + CoASH + citrato liasi → ossalacetato + acetil CoA + ADP +Pi NADPH + H+ -VIA DEI PENTOSI FOSFATI (glucosio) -ENZIMA MALICO ATP -FOSFORILAZIONE OSSIDATIVA Di tutte le tappe metaboliche della biosintesi del colesterolo consideriamo solo la tappa che porta alla formazione di acido mevalonico dal substrato Idrossimetilglutaril-CoA. Questa tappa è catalizzata da un enzima molto importante: Idrossimetilglutaril- CoA reduttasi (HMGCoA) perché questo enzima catalizza la tappa limitante della stessa via, ovvero la tappa più lenta. Il fatto che sia più lenta è importante perché questo implica che la velocità di questa tappa influenza l’intera velocità della via metabolica. Per questo motivo è chiamata limitante. Questo implica a sua volta, che se si vuole diminuire la velocità di sintesi del colesterolo all’interno di fegato o intestino, si deve inibire o rallentare questa via, e quindi l’enzima HMGCoA reduttasi. Non a caso questo enzima è anche il target farmacologico per eccellenza per i pazienti che soffrono di ipercolesterolemia monogenica o poligenica (dislipidemia caratterizzata da valori molto elevati di colesterolo plasmatico). Ci sono dei farmaci, le statine, che inibiscono l’HMGCoA reduttasi, così facendo si riduce la velocità di formazione del colesterolo. Quindi viene prodotto meno colesterolo nell’unità di tempo. Ci sono altri fattori endogeni che modulano positivamente o negativamente questo enzima. Prendiamo, ad esempio, il colesterolo: se aumenta il colesterolo all’interno della cellula perché produrne altro? Infatti il colesterolo inibisce l’HMGCoA reduttasi, e così facendo la via di sintesi del colesterolo rallenta. Al contrario, l’insulina aumenta la velocità di produzione del colesterolo in quanto attiva, attraverso un processo di fosforilazione, l’enzima. In questo modo si produce più colesterolo nell’unità di tempo. Il glucagone è un antagonista dell’insulina quindi riduce la velocità di sintesi del colesterolo colpendo l’HMGCoA reduttasi. Quando si verifica un aumento del colesterolo si verifica anche un aumento del processo di deposito di colesterolo all’interno della cellula. Successivamente, L’enzima ACAT esterifica il colesterolo, ovvero attacca un acido grasso al colesterolo, in questo modo il colesterolo che aveva una polarità, ora la perde completamente diventando un grasso apolare come i trigliceridi. Infatti il trigliceride è un grasso di riserva come lo è l’estere del colesterolo. Aumentando il colesterolo, diminuisce anche la produzione del recettore per le LDL, ovvero quel recettore che si trova all’esterno di cellule intestinali, epatiche o di altri tessuti che permette l’entrata del colesterolo. Esterificazione del colesterolo Alla fine della via di biosintesi di questo lipide, si ha la formazione del colesterolo libero, ovvero colesterolo che presenta ancora l’ossidrile legato ad una delle unità isopreniche. Questo ossidrile dona una certa polarità al colesterolo, tanto che il colesterolo libero può insinuarsi e andare a costituire le membrane plasmatiche. Infatti il lato con l’ossidrile sarà quello esposto all’ambiente acquoso, sia citosolico ma soprattutto extracellulare. Quando interviene ACAT questo prende un acido grasso da un trigliceride o da un fosfolipide e lo attacca all’ossidrile: in questo modo viene prodotto un estere del colesterolo, una forma di deposito del colesterolo che è completamente apolare e idrofobica. Quindi l’estere del colesterolo non sarà più posto all’esterno della membrana in contatto con l’ambiente acquoso ma andrà a formare dei granuli lipofili all’interno della cellula. Regolazione della biosintesi del colesterolo La regolazione della biosintesi del colesterolo è molto importante in quanto il colesterolo ematico (colesterolemia) e tutto il colesterolo presente nell’organismo, fondamentale per tanti processi metabolici e ormonali, è di origine prevalentemente endogena (circa 80% del colesterolo è prodotto da fegato, intestino o altri tessuti). Quindi è fondamentale regolare la sua produzione perché regolando la sua produzione si regola anche la quantità di colesterolo presente nell’organismo. 1) Regolazione HMG-CoA reduttasi: - regolazione a breve termine attraverso modificazioni post-traduzionali (fosforilazione/defosforilazione) → reversibili -regolazione a lungo termine che prevede il controllo della sintesi e degradazione dell’enzima mediante regolazione della sequenza SRE. 2) Regolazione uptake di colesterolo: recettore LDL 3) Regolazione tasso di esterificazione di colesterolo libero: (ACAT regolata a livello trascrizionale e post-traduzionale). Riepilogo Regolazione della sintesi (Epatociti) Prendiamo in considerazione una cellula epatica (luogo in cui avviene la produzione della maggior parte del colesterolo endogeno): Il colesterolo estere (CE) tramite dei macchinari molecolari, prodotti da intestino o cellule epatiche stesse, arriva all’interno della cellula, viene tagliato il suo legame estere, e si forma il colesterolo libero. Il colesterolo inizia ad aumentare all’interno della cellula e pertanto partecipa a dei meccanismi di regolazione del metabolismo del colesterolo stesso. La prima cosa che fa è quella di andare a bloccare HMGCoA reduttasi per poter ridurre le concentrazioni di colesterolo. Successivamente, aumenta l’attività di ACAT e quindi la formazione di colesterolo di riserva (estere di colesterolo). L’ultima cosa che fa è quella di ridurre la produzione di recettore del colesterolo: gli stessi recettori che hanno permesso l’entrata di quest’ultimo andando ad interagire con le lipoproteine. Lezione 6 Digestione ed assorbimento dei lipidi L’insolubilità dei lipidi in acqua condiziona la gestione dei processi digestivi. Nel lume gastrointestinale l’acqua è il solvente pertanto i lipidi costituiscono una fase separata in un mezzo acquoso. Diventa fondamentale l’emulsione, perché formando da una grande goccia lipidica tante piccole gocce, aumenta l’area di contatto tra le due fasi, e aumenta il territorio di caccia delle lipasi che riescono ad agire con maggior efficacia sui lipidi contenuti nelle gocce. Le lipasi sono enzimi che riescono ad idrolizzare i legami estere tra gli ossidrili del glicerolo e gli acidi grassi. Questa azione è fondamentale perché l’intestino non riesce ad assorbire il trigliceride, ma assorbe l’acido grasso. Ciò vuol dire che per assorbire i trigliceridi è necessario prima scinderli e la scissione avviene attraverso l’azione della lipasi. La digestione dei lipidi inizia nello stomaco per mezzo della lipasi gastrica (ma è poco efficiente perché taglia pochi trigliceridi alimentari, infatti, in un secondo momento seguirà la lipasi pancreatica che sarà molto più efficace). Nel duodeno arriva il chimo, che è il risultato della processazione gastrica del bolo alimentare. Il chimo essendo molto acido provoca una risposta da parte del duodeno che si concretizza con la secrezione del succo pancreatico basico e di bile. Il succo pancreatico basico è fondamentale in quanto il bicarbonato alza il pH del chimo (il chimo così acido non potrebbe essere attaccato da un enzima come la lipasi). La secrezione della bile è importante in quanto contiene tensioattivi emulsionanti quali gli acidi biliari. La secretina che viene secreta in risposta al chimo acido, stimola la produzione e la secrezione di un altro ormone: la colecistochina da parte del duodeno. A sua volta, la colecistochina potenzia l’azione della secrezione e permette il rilascio della lipasi pancreatica che è molto più efficace nel tagliare i trigliceridi. La colecistochina stimola anche il rilascio della colesterolo esterasi che è un enzima essenziale per la digestione e l’assorbimento del colesterolo. Essendo il colesterolo presente principalmente nella forma esterificata questo non può essere assorbito tal quale, e sarà la colesterolo esterasi prodotta dal pancreas a scindere questo legame. In più, la colecistochina aumenta la motilità intestinale favorendo ulteriormente l’emulsione dei grassi. Per finire, la colecistochina promuove anche il rilascio della bile ovvero degli acidi biliari. Gli acidi biliari sono dei tensioattivi, molecole anfipatiche, che permettono la formazione delle piccole gocce lipidiche, quindi permettono l’emulsione (colloide). Le lipasi riescono a scindere trigliceridi e fosfolipidi solo nell’interfaccia goccia lipidica-fase acquosa → ciò perché l’enzima lipasi è una proteina solubile in acqua e non può assolutamente agire in un ambiente idrofobico ostile. Consideriamo una goccia lipidica al cui interno sono contenuti i trigliceridi: nel momento in cui arriva una lipasi questa inizia a tagliare i fosfolipidi ma fa fatica a raggiungere i trigliceridi essendo questi posti internamente ed essendo circondati da un ambiente ostile. Per ovviare a questo problema è necessario disperdere questa goccia in tante piccole gocce. La dispersione la si può avere, ad esempio, attraverso un’azione meccanica come la peristalsi intestinale: si formano quindi tante gocce che dopo un po' tenderanno nuovamente a riunirsi. Per evitare che le nuove gocce formate si riuniscano in una goccia più grande e ritornino come prima, intervengono gli acidi biliari. Questi ultimi si insinuano tra un fosfolipide e l’altro andando a stabilizzare le piccole gocce che si sono formate. In questo modo si avranno gocce più piccole ed è aumentato il rapporto tra superficie e volume, pertanto la lipasi ha un territorio più vasto per la propria “caccia” e può raggiungere più facilmente e in breve tempo i trigliceridi per tagliarli. I trigliceridi vengono assorbiti con massima efficienza: il 95% dei trigliceridi alimentari vengono assorbiti. Una volta che la lipasi pancreatica agisce, tutti i trigliceridi vengono tagliati, gli acidi grassi vengono liberati nel lume intestinale e vengono assorbiti per semplice diffusione. E’ per questo motivo che l’assorbimento è molto efficiente. Le cose cambiano per il colesterolo: solo il 20-50% del colesterolo alimentare viene assorbito. Ci sono vari motivi per cui l’assorbimento del colesterolo è così poco efficiente: 1. Il primo motivo è la “competizione”. Prendiamo in esempio una dieta americana: Intake: Nel corso della giornata, il colesterolo alimentare non è l’unico 300-400 mg/die colesterolo + 200-250 mg/die fitosteroli colesterolo che transita nel lume intestinale. Nella bile, che Bile: viene prodotta per favorire l’assorbimento dei grassi, è 900-3000 mg colesterolo presente molto colesterolo endogeno (formato dal fegato). Intestino: A queste fonti di colesterolo si aggiungono quelle che 300 mg colesterolo provengono da un processo di desquamazione dell’intestino: le cellule intestinali perdono un po' di colesterolo che finirà nel lume intestinale. Pertanto il colesterolo alimentare si trova a competere, per alcuni canali, con altre molecole di colesterolo che hanno un’altra origine (puramente endogena). Proprio per questo motivo, il colesterolo viene assorbito con poca efficienza. I vari tipi di colesterolo competono per un numero finito di canali per l’assorbimento del colesterolo. Attraverso questi canali, posti negli enterociti, il colesterolo verrà assorbito. In proporzioni, il colesterolo alimentare è simile al colesterolo intestinale, è superiore ai fitosteroli (la quantità di fitosteroli aumenta se l’alimentazione è ricca di vegetali), ed è inferiore al colesterolo che viene riversato con la bile. Il colesterolo poi, indipendentemente dalla sua origine, passerà attraverso i canali e verrà assorbito. Come avviene l’assorbimento di colesterolo? Il canale da cui entra il colesterolo per poi andare a finire nell’enterocita si chiama NPC1L1 (proteina Niemann-Pick C1 like 1): questo canale fa entrare sia colesterolo che fitosterolo, non ha maggiore affinità per uno rispetto all’altro, è sempre aperto e non è regolato. Esiste un farmaco, l’ezetimibe (utilizzato nelle terapie anti-colesterolo) che blocca questo canale bloccando così l’assorbimento del colesterolo. Il colesterolo, a questo punto, si accumula ma se si accumula troppo si apre un altro canale formato da due proteine: ABCG5 e ABCG8 → questo canale si apre quando è presente troppo colesterolo, specialmente fitosterolo (perché al contrario del primo canale ha maggiore affinità per i fitosteroli). Quando questo canale si apre consente l’uscita del colesterolo in eccesso. In questo modo si capisce come l’assorbimento del colesterolo è regolato mentre quello dei trigliceridi no, e questo è un altro motivo per il quale l’assorbimento del colesterolo non è molto efficiente. Digestione e assorbimento del colesterolo Il risultato dell’alta competizione nel lume intestinale è il fatto che il colesterolo assunto con l’alimentazione ogni giorno rappresenta al massimo 1/5 del colesterolo circolante. Il colesterolo alimentare rappresenta il 25% del colesterolo plasmatico. Il 75% è di origine endogena. Questa è la spiegazione di un dato epidemiologico estremamente importante: ovvero il fatto che esiste una debole associazione tra il colesterolo che proviene dalla dieta e l’aterosclerosi coronarica. Infatti, in un articolo recente è stato riportato come ogni 100 mg di colesterolo alimentare corrispondono ad un aumento di 2,5 mg/dL di colesterolo nel siero (che è veramente poco). Ciò vuol dire che se un individuo ha la necessità di abbassare i valori ematici di colesterolo non sarà sufficiente annullare l’apporto di colesterolo alimentare (perché ci sarebbe una diminuzione fino a 250 mg/dL di colesterolo plasmatico, e quindi si avrà un valore ancora troppo alto). La debole associazione tra colesterolo da dieta e aterosclerosi coronarica (ad alta variabilità inter-individuale) è visibile in questo grafico: È possibile notare come aumentando la quantità di colesterolo introdotto, il rischio relativo di ammalarsi della patologia coronarica non aumenta significativamente (si passa da 1 a 1,17). I dati epidemiologici ci dicono che il colesterolo assunto tramite la dieta non influisce in modo significativo sul colesterolo circolante, e quindi sulla colesterolemia. Questo perché: 1. È poco assorbito → perché se andiamo a guardare il colesterolo alimentare che transita nel lume intestinale e che quindi è potenzialmente assorbibile, la sua quota è minimale rispetto alla quota di colesterolo endogeno che viene riversato attraverso la bile nell’intestino nelle 24h. Pertanto si verifica una massiva competizione per gli stessi canali che permettono l’assorbimento del colesterolo. In più l’assorbimento è regolato già a livello intestinale (ciò non accade, invece, con i trigliceridi perché questi una volta tagliati dalla lipasi, l’acido grasso viene assorbito per diffusione). 2. il colesterolo esogeno, una volta assorbito, va nel fegato dove può essere escreto come acido biliare o come colesterolo → ciò vuol dire che se si assumono elevate quantità di colesterolo esogeno, si verifica un controllo a feedback positivo a livello epatico. Ovvero il fegato riesce ad espellere le quote in eccesso di colesterolo come colesterolo nella sua forma nativa oppure come acido biliare (che è un prodotto del catabolismo del colesterolo). 3. Il colesterolo esogeno viene trasportato al fegato e qui può inibire la via di sintesi endogena → il colesterolo intracellulare che entra nel fegato va a inibire la produzione endogena di colesterolo andando a bloccare o rallentare l’azione dell’enzima HMGCoA reduttasi che catalizza la tappa limitante della biosintesi del colesterolo. Riepilogo Assorbimento dei lipidi presenti nella dieta La digestione ha inizio nel cavo orale ad opera di una lipasi, che però è poco efficiente e ha poco tempo per agire, perché una volta che il bolo alimentare raggiunge lo stomaco (pH molto basso), questo ambiente sarà ostile alla lipasi che verrà inattivata e denaturata, quindi non potrà più svolgere la propria azione. Dopodiché si forma il chimo acido che viene tamponato dal bicarbonato contenuto nel succo pancreatico. Il succo pancreatico contiene anche l’isoenzima della lipasi precedente: la lipasi pancreatica, che è molto più efficiente anche perché ha molto più tempo per agire. Ma la lipasi può intervenire sui trigliceridi solo se questi vengono assemblati nelle micelle miste che contengono oltre ai trigliceridi, colesterolo e fosfolipidi, anche gli acidi biliari emulsionanti. Infatti, la funzione degli acidi biliari è quella di emulsionare i grassi e creare una sospensione di piccole goccioline (micelle). Gli acidi biliari derivano a loro volta dall’ossigenazione del colesterolo, sono infatti un prodotto del catabolismo del colesterolo. Le lipasi possono quindi andare a tagliare i trigliceridi in glicerolo e acidi grassi che poi possono attraversare liberamente la membrana degli enterociti. Oltre ai trigliceridi (acidi grassi), entreranno negli enterociti anche le molecole di colesterolo che però seguiranno un percorso arduo e difficile, infatti solo il 20-50% del colesterolo alimentare viene assorbito, al contrario dei trigliceridi alimentari che verranno assorbiti quasi completamente (90-95%). Una volta che gli acidi grassi e colesterolo sono entrati nell’enterocita questo può utilizzarli per produrre energia, per creare delle riserve energetiche, oppure più frequentemente può assemblare questi grassi in macromolecole complesse che contengono anche proteine →le lipoproteine che serviranno poi per trasportare questi grassi, insolubili in acqua, in un ambiente acquoso come quello plasmatico. Lezione 7 Assorbimento dei lipidi L’assorbimento dei lipidi avviene nell’intestino medio. Una volta che gli acidi grassi e il colesterolo sono entrati nell’enterocita, la maggior parte di questi lipidi viene poi assemblata in macromolecole costituite non solo dai lipidi stessi ma anche da proteine. Queste macromolecole sono le lipoproteine, e la prima lipoproteina che si forma è il chilomicrone. Cosa succede una volta che i lipidi arrivano nell’intestino? Acidi grassi: verranno utilizzati per produrre energia attraverso la beta ossidazione, oppure diventeranno trigliceridi e quindi energia di riserva. Lisofosfolipidi: ritorneranno ad essere fosfolipidi e quindi saranno inseriti nelle membrane degli organelli o nelle membrane plasmatiche. Colesterolo: diventerà estere del colesterolo, e quindi la forma di riserva. Ma la maggior parte di questi lipidi verranno assemblati a formare lipoproteine → chilomicroni, che trasporteranno queste molecole nell’organismo. Lipoproteine Le lipoproteine contengono sia una componente proteica (apolipoproteina) sia una parte lipidica. La parte proteica si trova sempre all’esterno perché fornisce le “ruote” della lipoproteina. Come è noto, la lipoproteina viene sintetizzata per trasportare materiale insolubile, come quello lipidico, in un ambiente acquoso come quello plasmatico, quindi necessita delle proteine che hanno gruppi polari all’esterno, in modo da rendere solubile questo complesso molecolare. Ma le lipoproteine non hanno solo una semplice funzione fisica, hanno anche altre funzioni biologiche come interazioni con il recettore, attivazione di enzimi, ecc. All’esterno della lipoproteina sono presenti quei lipidi che hanno almeno un gruppo polare che può stare a contatto con il plasma, troviamo quindi: fosfolipidi e colesterolo libero (lipidi anfipatici, che possiedono sia il gruppo polare che il gruppo apolare). Mentre all’interno sono presenti i lipidi esclusivamente apolari e idrofobici: trigliceridi ed esteri del colesterolo. Classificazione delle lipoproteine Chilomicroni: è costituito prevalentemente da trigliceridi (quasi tutti di origine esogena, quindi alimentari), c’è una piccola percentuale di colesterolo esogeno (8%), fosfolipidi, e proteine (2%). Il chilomicrone è più grande rispetto alle altre lipoproteine, ed ha una densità molto bassa essendo rappresentata maggiormente dai trigliceridi (che abbassano la densità) e da pochissime proteine. VLDL: Sono molto simili ai chilomicroni anche in termini di concentrazione di trigliceridi, ma inizia ad avere un buon contenuto di colesterolo, proteine e fosfolipidi. La differenza fondamentale tra VLDL e chilomicrone è che la VLDL è prodotta dal fegato e contiene soprattutto grassi endogeni. IDL: sono lipoproteine intermedie tra le VLDL e le LDL, infatti sono intermedie anche le percentuali dei diversi grassi. LDL: trasportano il colesterolo cattivo, ovvero quello che si può depositare nelle arterie. La quota di colesterolo aumenta di molto (arriva fino al 46%), così come aumenta la quota delle proteine, mentre i trigliceridi sono molto bassi. Infatti la densità delle LDL è molto maggiore rispetto a quella dei chilomicroni. LP(a): non è ancora ben nota la sua funzione. A livello strutturale è molto simile alle LDL, e come le LDL è anche un fattore di rischio cardiovascolare abbastanza forte. HDL: sono costituite prevalentemente da proteine e hanno pochissimi grassi (8%), i lipidi più abbondanti sono i fosfolipidi (22%). Apolipoproteine APO-I: è importante in quanto è un cofattore delle LCAT (permette l’attivazione) APO-II: funzione strutturale delle HDL APO-100 è un fattore caratterizzante delle VLDL e delle IDL, ed è l’unica apolipoproteina delle LDL. È fondamentale in queste lipoproteine in quanto permette il riconoscimento da parte del recettore per le LDL APO-B-48: Si trova nei chilomicroni e permette loro di uscire dall’enterocita (funzione strutturale) APO-C-II: E’ importante perché è un cofattore dell’enzima lipoprotein-lipasi (attivatore) APO-E: fattore che serve per il riconoscimento dei chilomicroni e delle VLDL con particolari recettori, tra cui anche il recettore per le LDL. Funzioni delle apolipoproteine: Funzione strutturale (integrali): es. Apo-B Cofattori enzimatici: es. Apo-C-II (lipoproteina lipasi) e Apo A-I (LCAT nelle HDL) Ligandi per i recettori delle lipoproteine nei tessuti: es. Apo-E (recettore dei residui dei chilomicroni), Apo-B-100 e Apo-E (recettore delle LDL), Apo-A-I (recettore delle HDL). Chilomicroni, nascita e maturazione Gli acidi grassi e il colesterolo entrano negli enterociti, una piccola parte di questi lipidi esogeni verrà utilizzato per produrre energia, e quindi per mantenere in vita gli enterociti. Invece la maggior parte di questi lipidi alimentari verranno assemblati per formare il chilomicrone. 1) enterociti → assemblaggio I chilomicroni sono formati soprattutto da trigliceridi esogeni (90% dei lipidi) + vitamine liposolubili + esteri del colesterolo + fosfolipidi esogeni + apolipoproteine B48 e A-I, II, IV. 2) chilomicroni nascenti entrano in circolo linfatico. Il sistema linfatico è un sistema di drenaggio in un solo verso, che trasporta i fluidi dallo spazio interstiziale dei tessuti al torrente circolatorio. E’ molto importante in quanto previene la formazione di edemi che sono dovuti ad un accumulo di fluidi a livello interstiziale, e proprio per questo viene definito sistema di drenaggio. I chilomicroni vanno nel sistema linfatico, risalgono verso il dotto toracico (principale vaso linfatico dell’organismo) dove la linfa si scarica nel torrente circolatorio ematico. In questo modo, i chilomicroni bypassano il fegato perché non vanno nel circolo portale (come avviene per il glucosio), questo perché il fegato riesce a gestire anche grandi quantità di glucosio e carboidrati, in quanto riesce a conservarli nella forma di glicogeno e riesce ad utilizzarli molto velocemente producendo energia, e riesce anche a distribuirli senza un grosso dispendio di energia. Mentre, per i grassi è molto più difficile perché per ridistribuirli è necessario produrre delle lipoproteine, e quindi dei complessi che richiedono molta energia per essere sintetizzati. In più basta anche una quantità più alta del normale dell’1-2% di trigliceridi nel fegato, per provocare una patologia chiamata steatosi epatica che può progredire a steatoepatite e che può comportare, infine, necrosi e cirrosi epatica. Pertanto, i trigliceridi vengono assorbiti e passano ai chilomicroni che proseguono nel circolo linfatico. Si forma il chilomicrone nascente con la B-48, APO-A, trigliceridi e colesterolo. 3) Una volta che i chilomicroni, insieme alla linfa, si riversano nel circolo sanguigno bypassando il fegato, si arricchiscono di altre due apolipoproteine fondamentali: Apo-CII e Apo-E da HDL → A questo punto diventano maturi, cioè biologicamente attivi. 4) Il chilomicrone maturo prosegue nei capillari, ed inizia a interagire con la lipoprotein-lipasi. Questo è fondamentale perché solo il chilomicrone maturo riesce a fare questa interazione, e da questa interazione si formeranno i chilomicroni remnants, ovvero chilomicroni senza una porzione importante di trigliceridi. Infatti, queste lipoproteine una volta che interagiscono con la lipoprotein-lipasi presente nell’endotelio dei capillari, perdono una quantità importante di trigliceridi che poi andranno nei tessuti extraepatici (tessuto muscolare scheletrico, tessuto adiposo). Quindi una volta persa questa componente e perse anche altre apolipoproteine, il chilomicrone non potrà più essere chiamato in questo modo e verrà chiamato chilomicrone remnants. Lipoprotein-Lipasi (LPL) E’ sintetizzata dalle cellule dei tessuti adiposo, muscolare o ghiandolare e poi secreta. Si trova legata alla membrana dell’endotelio dei capillari attraverso una catena polisaccaridica (proteoglicani). Una volta che la LPL interagisce con APO-C-II (costituente dei chilomicroni) inizia la sua attività catalitica. LPL interagisce con la lipoproteina, in questo caso il chilomicrone, e taglia il legame estere tra gli ossidrili del glicerolo e l’acido grasso. In questo modo i trigliceridi diventano digliceridi, monogliceridi o glicerolo e si liberano acidi grassi. Questo è fondamentale perché gli acidi grassi (e non i trigliceridi!) possono essere assorbiti dall’endotelio per poi arrivare alle cellule adipose sottostanti. Pertanto questa azione è fondamentale per la liberazione di grassi che possono essere assorbiti dalle cellule extraepatiche. Chilomicroni e lipoprotein-lipasi Vita media circa 13-14 minuti I trigliceridi dei chilomicroni vengono degradati dalla LPL soprattutto nel circolo capillare del: Tessuto adiposo Ghiandola mammaria (in gravidanza) Muscolo scheletrico Muscolo cardiaco (utilizza preferenzialmente acidi grassi). Questa figura rappresenta il processo del taglio della LPL nei confronti dei trigliceridi presenti nei chilomicroni. Gli acidi grassi liberati poi entrano nelle cellule e possono essere utilizzati diversamente a seconda delle cellule che stanno sotto i capillari. Naturalmente, se si parla di tessuto muscolare, gli acidi grassi liberi verranno utilizzati soprattutto per produrre ATP, mentre se si tratta di tessuto adiposo gli acidi grassi che provengono dalle VLDL e dai chilomicroni verranno utilizzati soprattutto per la formazione di grassi di deposito (trigliceridi). In seguito all’azione delle LPL, i chilomicroni diventano

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