Appunti di Economia del Lavoro (PDF)
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Questi appunti di economia del lavoro introducono il concetto di mercato del lavoro e analizzano la domanda e l'offerta di lavoro individuali, considerando sia il lungo che il breve periodo. L'importanza dei fattori come i salarii, l'intensità di processi produttivi ad elevata intensita di lavoro rispetto a quelli di capitale nel determinare la domanda di lavoro vengono spiegati.
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Mucl, Economia del Lavoro 1. Introduzione Le imprese acquistano gli inputs per trasformarli in output. L’input più rilevante è il lavoro. Un’impresa di trasporto ha bisogno di autisti, un ristorante ha bisogno di camerieri, un produttore di auto ha bisogno di ingegneri ed operai. Per soddisfar...
Mucl, Economia del Lavoro 1. Introduzione Le imprese acquistano gli inputs per trasformarli in output. L’input più rilevante è il lavoro. Un’impresa di trasporto ha bisogno di autisti, un ristorante ha bisogno di camerieri, un produttore di auto ha bisogno di ingegneri ed operai. Per soddisfare questi bisogni le imprese si rivolgono al mercato del lavoro e richiedono servizi di lavoro alle persone in carne ed ossa. Per converso, le persone in carne ed ossa offrono i propri servizi sul mercato del lavoro al fine di ricavarne una remunerazione. Per mercato del lavoro, quindi, gli economisti intendono il mercato in cui vengono scambiati i servizi di lavoro a fronte di un corrispettivo in danaro. In questo mercato gli individui offrono servizi di lavoro e le imprese li domandano. Più brevemente diremo che gli individui offrono lavoro e le imprese domandano lavoro. I corrispettivi in danaro vengono solitamente indicati con i termini salario e stipendio. Fuori dalle aule accademiche è frequente riferirsi ad un disoccupato come ad un individuo che chiede lavoro o che domanda lavoro. Nel corso di queste lezioni, invece, un disoccupato è un individuo che offre lavoro. Non si tratta di una contraddizione. Fuori dalle aule accademiche, la frase ‘il disoccupato domanda lavoro’ significa ‘il disoccupato domanda un posto di lavoro’. Nelle aule accademiche, la frase ‘il disoccupato offre lavoro’ significa ‘il disoccupato offre servizi di lavoro’. Insomma, la contraddizione è solo apparente perché le due frasi fanno riferimento a due nozioni diverse ancorché sottointese, quella di posto e quella di servizio. E’ fuorviante parlare di mercato del lavoro al singolare in quanto esistono importanti segmentazioni sia geografiche che professionali. Il mercato del lavoro in Lombardia è diverso dal mercato del lavoro in Sicilia. Inoltre, il mercato del lavoro lombardo per gli ingegneri elettronici è diverso dal mercato del lavoro lombardo per gli operai non specializzati. In queste lezioni, tuttavia, si parlerà quasi sempre di mercato del lavoro al singolare. Il motivo è che i concetti ed i meccanismi che saranno oggetto di studio non sono specifici di singoli segmenti ma valgono in generale. In altri termini, quello che impareremo vale per tutti i possibili segmenti del mercato del lavoro. Non avrebbe senso complicare la trattazione facendo riferimento ai vari segmenti. Oltre alla presente introduzione, questi appunti sono strutturati in cinque paragrafi. Ogni paragrafo corrisponde ad una lezione. Nel paragrafo 2 vengono trattate la domanda e l’offerta di lavoro individuali. Il paragrafo 3 illustra l’equilibrio del mercato del lavoro. Il paragrafo 4 descrive che cosa si intente per tasso di partecipazione e tasso di disoccupazione. Infine, i paragrafi 5 e 6 spiegano quali sono le cause della disoccupazione. 2. La Domanda e l’Offerta di Lavoro Individuali 2.1 La Domanda Individuale Per domanda di lavoro di un’impresa si intende il numero di dipendenti che l’impresa desidera occupare piuttosto che il numero di dipendenti che l’impresa occupa effettivamente. Questa precisazione è importante perché non sempre un’impresa occupa la forza lavoro che desidera occupare. A volte le imprese desiderano assumere più persone ma non riescono a farlo perché sul mercato i lavoratori scarseggiano. Non è un caso raro, è un caso che si verifica spesso nei segmenti del mercato per le qualifiche professionali avanzate (ingegneri elettronici, chimici, etc.). Altre volte, invece, le imprese desiderano occupare meno persone di quelle che occupano effettivamente ma non riescono a realizzare questo desiderio perché esistono delle regole che limitano la libertà di licenziamento. Per semplicità, in questa sede faremo astrazione dalla differenza tra forza lavoro desiderata e forza lavoro effettivamente occupata. In pratica, assumeremo che l’impresa è sempre in grado di occupare il numero di lavoratori che desidera. Assumeremo cioè che non ci sono regole che limitano la libertà di licenziamento né sussistono problemi di carenza di offerta nei segmenti professionali avanzati del mercato del lavoro. Un’altra ipotesi che manterremo è quella per cui le imprese non esercitano nessun controllo sul salario. Gli economisti esprimono questa ipotesi dicendo che le imprese sono wage takers: per loro il salario è un dato e non una variabile che riescono a controllare. Si tratta di un’ipotesi tutto sommato realistica per il nostro Paese. Le imprese che riescono a controllare il salario sono quelle che esercitano una certa posizione dominante nel mercato del lavoro di riferimento. Questo accade, ad esempio, quando una multinazionale apre uno stabilimento in una qualche zona remota del terzo mondo e diventa di fatto l’unico datore di lavoro per il mercato locale di riferimento. E’ del tutto evidente che questa posizione dominante le conferisce un potere di controllo del salario. In pratica, l’impresa è in grado di formulare delle offerte del tipo ‘prendere o lasciare’ ben sapendo che i lavoratori non hanno opzioni alternative e, quindi, non hanno nessun potere contrattuale. Avendo fatto queste precisazioni, il nostro obiettivo diventa ora quello di capire come fa un’impresa wage taker a decidere la sua domanda di lavoro ovvero il numero di lavoratori da assumere. Ricordiamo che l’impresa è guidata da un imprenditore e che un’ipotesi chiave dell’economia politica è che l’obiettivo dell’imprenditore è il profitto. Pertanto, il numero di lavoratori che un’impresa assume non è scelto a caso ma è il numero a cui corrisponde il massimo profitto possibile. In realtà, per i nostri scopi non è tanto importante stabilire il numero esatto di lavoratori da assumere quanto piuttosto come varia questo numero al variare del salario di mercato. In altri termini siamo interessati a come reagiscono le imprese se il salario di mercato dovesse, per una qualche ragione, diminuire o aumentare. Graficamente, la relazione tra il salario e la forza lavoro desiderata – e, quindi, impiegata – da una certa impresa si chiama curva della domanda di lavoro individuale. Il grafico seguente fornisce un esempio di tale curva: Per l’impresa che opera dietro le quinte di questo grafico, quando il salario è pari a 8 il livello occupazionale ideale è 75. Invece, quando il salario è pari a 12, il livello occupazionale ideale è 50. Nel grafico sono stati evidenziati solo due punti della curva. In realtà i punti sono infiniti. Tra 8 e 12, ad esempio, c’è 10. Tra 8 e 10, ad esempio, c’è 9. Tra 8 e 9, ad esempio, c’è 8.5. Tra 8 e 8.5, ad esempio, c’è 8.25. E si può andare avanti all’infinito, basta aggiungere via via più cifre dopo la virgola. Un matematico direbbe che la curva è continua. A noi però interessa il significato della curva, che è il seguente. Per ognuno dei possibili (infiniti) livelli del salario la curva indica il livello occupazionale ideale dell’impresa. Livello occupazionale ideale significa che a quel livello l’impresa massimizza i profitti. Il livello occupazionale ideale coincide, quindi, con la forza lavoro desiderata ovvero con la forza lavoro domandata dall’impresa. Pertanto, un modo equivalente di commentare il grafico è il seguente. Se il salario è pari a 12, l’impresa domanda 50 lavoratori. Se il salario scende da 12 a 8, l’impresa domanda 25 lavoratori ulteriori. Un matematico direbbe che la curva di domanda di lavoro è decrescente perché rappresenta una relazione inversa tra il salario e la domanda di lavoro. La domanda di lavoro diminuisce se il salario aumenta e viceversa. Ma quali sono i meccanismi economici che operano dietro le quinte di questa relazione inversa? I meccanismi economici rilevanti sono due. Uno opera nel lungo periodo e l’altro nel breve periodo. 2.1.1 Il lungo periodo Per gli economisti, il lungo periodo è l’orizzonte temporale all’interno del quale l’impresa può cambiare l’utilizzo di tutti i suoi inputs. In particolare, può cambiare la dimensione sia del capitale produttivo (l’impianto) che della forza lavoro. Quanto effettivamente è lungo il ‘lungo periodo’ dipende dal tipo di impresa. Se l’impresa è un produttore di automobili allora il lungo periodo è tre/quattro anni. Un’impresa automobilistica può assumere nuovi lavoratori nel giro di tre mesi ma se decide di espandere i propri impianti (capitale produttivo) dovrà aspettare tre/quattro anni. Occorrono tre/quattro anni per progettare, ottenere i permessi e costruire questi impianti. In altri termini, l’impresa è in grado di cambiare la dimensione di tutti i suoi input solo all’interno di un orizzonte di tre/quattro anni. Questo orizzonte è il suo lungo periodo. Per una banca, invece, il lungo periodo potrebbe essere un anno. Le banche usano essenzialmente tre inputs: immobili, computers e persone. Per assumere nuovi dipendenti occorrono pochi mesi, per ricevere le segnalazioni delle università sui neolaureati e per formarli. Anche per i computers e gli arredi occorrono pochi mesi. La ricerca di immobili per aprire nuove sedi potrebbe invece richiedere qualche mese in più ma è improbabile che occorra più di un anno. In conclusione, entro un anno una banca è in grado di espandere tutti gli inputs necessari al suo processo produttivo. Potendo decidere il livello di utilizzo di tutti gli inputs, nel lungo periodo le imprese possono anche decidere il mix di inputs. Più concretamente, possono decidere se adottare processi produttivi ad elevata intensità di lavoro oppure processi produttivi ad elevata intensità di capitale. La scelta dell’intensità di utilizzo è guidata dall’obiettivo del profitto. A parità di altre condizioni, se il salario è basso conviene utilizzare processi produttivi con molti lavoratori e poco capitale produttivo (processi labour intensive). Per converso, se i salari sono elevati, conviene utilizzare processi produttivi con molte macchine – robots, computers, etc. - e pochi lavoratori (processi capital intensive). La possibilità di calibrare l’intensità di utilizzo degli inputs nel lungo periodo costituisce un primo meccanismo che spiega l’andamento decrescente della curva di domanda di lavoro. Se il salario cresce, nel lungo periodo le imprese sostituiscono il lavoro con il capitale adottando metodi più capital intensive. La domanda di lavoro, quindi, si riduce. 2.1.2 Il breve periodo Per breve periodo un economista intende l’orizzonte temporale entro il quale un’impresa può cambiare solo un input mentre tutti quanti gli altri inputs sono fissi. Nell’esempio precedente del produttore di automobili, il breve periodo è rappresentato da tre mesi. In tre mesi l’impresa può cambiare la dimensione della sua forza lavoro ma tutti gli altri inputs sono fissi. In particolare, gli impianti sono fissi. Questo significa che se intende aumentare la produzione nel giro di qualche mese l’impresa ha come unica opzione quella di aumentare la forza lavoro intensificando l’utilizzo degli impianti (con turni notturni, ad esempio). Anche nel breve periodo opera un meccanismo che spinge l’impresa ad aumentare l’occupazione se il salario si abbassa e viceversa. Questo meccanismo è basato sulla cosiddetta legge del rendimento decrescente del lavoro. L’idea è più o meno la seguente. Se vengono assegnate unità aggiuntive di lavoro ad un impianto di dimensioni date, la produzione cresce ma prima o poi l’impianto si congestiona e gli incrementi diventano sempre più piccoli. Supponiamo che l’impianto di una certa impresa sia stato concepito per una forza lavoro di 20 persone. Se si passa da 20 a 21 la produzione ovviamente aumenta. E anche se si passa da 30 a 31 la produzione aumenta ma, e questo è il punto, nel secondo caso l’aumento di produzione è inferiore. Il motivo è che con 30 persone l’impianto è già ‘spremuto’ e, quindi, l’aggiunta di una trentunesima persona contribuisce veramente poco. Perché la legge del rendimento decrescente del lavoro ha come implicazione che una riduzione del salario causa un aumento della forza lavoro occupata? Per rispondere a questa domanda si consideri attentamente il seguente esempio. Supponiamo che per una certa impresa dotata di un impianto fisso il passaggio da 12 a 13 dipendenti faccia aumentare il fatturato di 2.000 euro al mese. Mentre, a causa della legge del rendimento decrescente del lavoro, il passaggio da 13 a 14 dipendenti faccia aumentare il fatturato non di 2.000 ma di soli 1.800 euro mensili. Supponiamo, inoltre, che il salario di mercato sia 1.900 euro al mese e, per semplicità, supponiamo che non ci siano né tasse né contributi per cui il salario netto percepito dal lavoratore coincide con il salario lordo pagato dall’impresa. In pratica, ogni lavoratore in più che viene assunto causa un incremento dei costi pari a 1.900 euro mensili. Quanti lavoratori assume questa impresa? La risposta è piuttosto ovvia. L’impresa si spinge fino ad assumere 13 dipendenti! Non arriva ad assumerne un quattordicesimo perché, se lo facesse, i suoi ricavi aumenterebbero solo di 1.800 euro mentre i suoi costi di 1.900 euro. Assumendo un ipotetico quattordicesimo lavoratore l’impresa ridurrebbe i profitti di 100 euro al mese. Cosa succede se, per una qualche ragione, il salario di mercato si riduce da 1.900 a 1.700 euro al mese? Anche qui la risposta è ovvia: per l’impresa diventa ora conveniente assumere un quattordicesimo dipendente. Infatti, il rendimento di questo dipendente extra è 1.800 mentre il costo è 1.700. Assumendo un ipotetico quattordicesimo dipendente i profitti aumentano di 100 al mese. Il succo dell’esempio è che le imprese seguono un criterio molto semplice quando decidono la dimensione della forza lavoro. Il criterio impone di assumere solo i lavoratori il cui rendimento - il cui contributo al fatturato - è maggiore del salario. Per la legge del rendimento decrescente, se il salario si abbassa, si amplia la platea di lavoratori che rispettano questo criterio. Tornando all’esempio, la riduzione del salario da 1.900 a 1.700 allarga la platea dei lavoratori che ‘conviene’ assumere portandola da 13 a 14. Il meccanismo descritto è di breve periodo perché poggia sulla legge dei rendimenti decrescenti ovvero sull’idea del congestionamento di un impianto. L’ipotesi implicita, quindi, è che la dimensione dell’impianto sia fissa. Si tratta di un meccanismo aggiuntivo rispetto a quello di lungo periodo, che è basato sulla possibilità di variare l’intensità di utilizzo di tutti gli inputs. Entrambi i meccanismi, però, conducono allo stesso risultato. Se il salario si riduce l’impresa domanda più lavoro mentre, se il salario aumenta, l’impresa domanda meno lavoro. 2.2 L’Offerta Individuale Dopo aver studiato la domanda di lavoro espressa dall’impresa passiamo ora allo studio dell’offerta di lavoro da parte degli individui. In questa sezione, infatti, studieremo il comportamento di un individuo che ha un certo ammontare di tempo a disposizione e deve decidere come impiegarlo. In particolare, deve decidere se impiegarne una parte nel mercato del lavoro. Nel mondo reale, per quanto concerne l’utilizzo del proprio tempo, gli individui possono decidere due cose: 1) se lavorare o meno (decisione sul margine estensivo) e 2) nel caso in cui decidano di lavorare, quante ore dedicare al lavoro (decisione sul margine intensivo). La decisione 1 è a disposizione di tutti. La decisione 2 no. Un carabiniere, ad esempio, non può decidere quante ore lavorare mentre un libero professionista può farlo. Al pari dell’impresa anche l’individuo al centro della nostra analisi è un agente razionale. Per gli economisti un agente razionale è un soggetto che non prende decisioni a caso ma le prende sempre in funzione di un obiettivo. Impresa ed individuo differiscono solo per il tipo di obiettivo. L’obiettivo dell’impresa è il profitto, quello dell’individuo è l’utilità. Un corollario della razionalità è che, quando deve decidere se offrire o meno lavoro, l’individuo valuta i costi ed i benefici legati all’offerta di lavoro ed offre lavoro solo se i benefici sono superiori o, al limite, uguali ai costi. I benefici dell’offrire lavoro sono ovvii. Il lavoro è remunerato con un certo salario e, quindi, produce reddito. Questo reddito, che viene indicato come reddito da lavoro, si aggiunge al reddito non da lavoro e consente all’individuo di consumare di più. Incidentalmente, il reddito non da lavoro consiste nel reddito prodotto dalla ricchezza immobiliare (affitti) e dal reddito prodotto dalla ricchezza finanziaria (interessi, plusvalenze, etc.). Anche i costi legati all’offerta di lavoro sono ovvii. Se si lavora occorre rinunciare ad una parte del proprio tempo ed il tempo è fonte di utilità per gli individui. Il tempo può innanzitutto essere dedicato ad attività piacevoli (sport, amici, etc.). Ma, soprattutto, il tempo può essere dedicato alla produzione di servizi domestici (cura dei bambini, degli anziani, preparazione dei pasti, etc.). Come anticipato, l’individuo offre lavoro solo se i benefici sono superiori o, al limite, uguali ai costi. Ne segue che la variabile principale che influenza la decisione è il salario. Se il salario offerto sul mercato cresce, il beneficio dell’offrire lavoro aumenta dato che aumenta il reddito da lavoro. Per converso, i costi in termini di rinuncia al proprio tempo non sono affatto influenzati dal salario. Il risultato è che al crescere del salario è più probabile che i benefici siano superiori ai costi e, quindi, è più probabile che l’individuo decida di offrire lavoro. Un modo alternativo per interpretare la decisione di offerta di lavoro fa leva sulla nozione di salario di riserva. Per definizione, il salario di riserva è quel salario ipotetico che rende uguali i costi ai benefici, ovvero che rende l’individuo indifferente tra offrire e non offrire lavoro. Si tratta di una nozione simile al prezzo di riserva di un’asta. Il venditore che affida un oggetto ad una casa d’aste (Ebay, ad esempio) può riservarsi la facoltà di non cedere il bene se il prezzo finale dell’asta dovesse essere inferiore ad un livello da lui prefissato. Evidentemente, al prezzo di riserva il venditore è indifferente tra cedere e non cedere il bene. Utilizzando la nozione di salario di riserva, il criterio che opera dietro le quinte della decisione di lavorare è molto semplice. L’individuo decide di lavorare se il salario che gli viene offerto sul mercato è superiore o, al limite, uguale al suo salario di riserva. All’opposto, l’individuo decide di non lavorare se il salario di mercato è inferiore al suo salario di riserva. Il corsivo utilizzato per l’aggettivo ‘suo’ non è a caso ma intende enfatizzare il fatto che il salario di riserva è una grandezza soggettiva e, quindi, non è la stessa per tutti gli individui. Alcuni individui sono caratterizzati da un salario di riserva molto elevato, altri da un salario di riserva piuttosto basso. I primi offrono lavoro solo se vengono pagati molto bene. I secondi si accontentano di poco ed offrono lavoro anche se il salario è modesto. Vale la pena osservare che ogni individuo ha il suo salario di riserva anche se non è consapevole di averlo. Il salario di riserva è una nozione teorica non un oggetto concreto. E’ la nozione teorica che cattura il senso di una frase del tipo “…forse mi offrono una posizione ma se non mi pagano almeno 2.500 euro al mese non penso di accettare…”. L’individuo che ha pronunciato questa frase probabilmente non lo sa ma la frase contiene una quantificazione del suo salario di riserva. Le caratteristiche di un individuo che determinano il suo salario di riserva sono due, le sue preferenze ed il suo reddito non da lavoro. Per preferenze gli economisti intendono le valutazioni soggettive degli individui. Nel contesto che stiamo studiando, le valutazioni soggettive rilevanti sono quelle relative al tempo. Alcuni individui assegnano un elevato valore al proprio tempo. Altri individui assegnano meno valore. Una mamma con figli piccoli assegna molto valore al suo tempo dato che l’avere a disposizione del tempo le consente di produrre servizi di cura ed assistenza molto preziosi. All’opposto un single assegna poco valore al suo tempo. Il modo in cui le preferenze determinano il salario di riserva è del tutto ovvio. A parità di altre condizioni, una maggiore valutazione soggettiva del tempo induce un maggior salario di riserva. La locuzione ‘a parità di altre condizioni’ impone la seguente interpretazione. Se prendiamo due donne simili in tutto – stesso titolo di studio, stesso reddito non da lavoro, stessa età, stessa città, etc. - tranne che per una cosa, una valuta molto il suo tempo mentre l’altra lo valuta poco, ebbene il salario di riserva della prima è maggiore rispetto a quello della seconda. Anche la relazione tra reddito non da lavoro e salario di riserva è piuttosto ovvia. A parità di altre condizioni, un maggior reddito non da lavoro induce un maggior salario di riserva. L’interpretazione è la seguente. Prendiamo due individui simili in tutto tranne che per una cosa, uno ha un elevato reddito non da lavoro (possiede molte case, ad esempio) mentre l’altro ha un reddito non da lavoro basso o nullo, ebbene il salario di riserva del primo è maggiore del salario di riserva del secondo. Un individuo che può vivere di rendita sceglie di non lavorare a meno che il salario che gli viene offerto non sia molto elevato. All’opposto, un individuo senza rendite sceglie di lavorare anche se il salario che gli viene offerto è basso. Dato che non dispone di altra fonte di reddito, se non lavorasse non potrebbe consumare. 3. L’Equilibrio nel Mercato del Lavoro 3.1 Introduzione In questo paragrafo studieremo il funzionamento di un mercato del lavoro competitivo. Una caratteristica di questo mercato è che tutti gli agenti, sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta, sono wage takers. Nel mondo reale questa ipotesi non è sempre rispettata. Quello che normalmente accade è che i lavoratori si coalizzano formando i sindacati mentre i datori di lavoro si coalizzano formando le associazioni di categoria. Per i sindacati e le associazioni di categoria i salari non sono un dato ma una variabile che riescono, in una certa misura, a controllare. In effetti, in molti segmenti del mercato del lavoro i salari sono proprio il risultato di una contrattazione tra sindacati ed associazioni datoriali. In questo paragrafo faremo astrazione dalla contrattazione salariale ed assumeremo che il mercato del lavoro funzioni più o meno come un qualsiasi altro mercato in cui il prezzo non è controllato da nessuno ma si forma ‘in automatico’ in risposta agli eccessi di domanda e di offerta. Nel prossimo paragrafo vedremo come va modificato il quadro teorico per tener conto anche della contrattazione salariale. L’analisi procederà attraverso quattro passaggi: 1) derivazione della curva di domanda del mercato; 2) derivazione della curva di offerta del mercato; 3) derivazione dell’equilibrio; 4) analisi dell’equilibrio. 3.2 La curva di domanda del mercato Per un certo segmento del mercato del lavoro la curva di domanda del mercato indica quanto lavoro viene richiesto da tutte le imprese in corrispondenza di ogni livello del salario. Per questa ragione, la curva di domanda del mercato coincide con l’aggregazione delle curve di domanda individuali delle imprese. Si ricordi che la curva di domanda individuale ha un andamento decrescente. Il grafico seguente riporta un esempio di curva individuale: L’impresa che opera dietro le quinte di questo grafico domanda 50 lavoratori se il salario è pari a 12 mentre ne domanda 75 se il salario è pari a 8. In generale, al crescere del salario si riduce la forza lavoro ottima richiesta dall’impresa. Supponiamo che nel segmento del mercato del lavoro che stiamo analizzando operano 100 imprese, tutte uguali a quella descritta nel grafico precedente. E’ del tutto evidente che, in questo segmento, se il salario è pari a 12 la domanda complessiva di lavoro sarà pari a 5.000 mentre, se il salario è pari a 8, la domanda complessiva sarà 7.500. In generale, per ogni livello del salario, l’intero mercato domanda la quantità richiesta da un singola impresa moltiplicata per 100. La figura seguente illustra la curva di domanda del mercato in questo segmento. Si tratta di una curva formalmente simile a quella precedente. L’unica differenza è la scala utilizzata per l’asse orizzontale. Per questo motivo è stata usata la lettera maiuscola ‘L’ (domanda di lavoro aggregata) al posto della lettera minuscola ‘l’ (domanda di lavoro individuale): 3.3 La curva di offerta del mercato Per un certo segmento del mercato del lavoro la curva di offerta del mercato indica quanti lavoratori sono disposti a lavorare in corrispondenza di ogni livello del salario. Abbiamo visto che per un lavoratore è conveniente offrire il proprio lavoro se il salario di mercato è maggiore o uguale al suo salario di riserva. L’implicazione è che la curva di offerta è inclinata positivamente dato che, al crescere del salario di mercato, un numero maggiore di lavoratori troverà conveniente offrire il proprio lavoro. Per cogliere ancora meglio il motivo per cui la curva di offerta è crescente si consideri il seguente semplice esempio. In questo esempio, il mercato del lavoro è popolato solo da 4 individui: Giorgio, Luigi, Paolo e Giovanni. L’ordine con cui sono stati elencati non è casuale ma riflette il loro salario di riserva. Il salario di riserva di Giorgio è il più basso di tutti ed è pari a 5, segue Luigi con un salario di riserva pari a 7, quindi Paolo con un salario di riserva pari a 8 e, infine, Giovanni con un salario di riserva pari a 9.5. Come abbiamo argomentato in precedenza, il salario di riserva é soggettivo e, quindi, non c’è ragione per cui questi individui debbano avere lo stesso salario di riserva. La curva di offerta del mercato è data dalla seguente curva ‘a gradini’: Con un salario di mercato inferiore a 5 nessuno dei quattro offre lavoro, l’offerta è pari a zero. Se il salario è compreso tra 5 e 6.99 l’offerta è pari a uno. Solo Giorgio ha convenienza ad offrire mentre tutti gli altri si astengono. Se il salario aumenta ad un livello qualsiasi compreso tra 7 e 7.99 allora l’offerta aumenta da uno a due. Oltre a Giorgio offre anche Luigi mentre gli altri due si astengono. Se il salario aumenta ulteriormente e si colloca ad un qualsiasi livello compreso tra 8 e 9.49 allora anche Paolo trova conveniente offrire lavoro, l’offerta passa da 2 a 3. L’unico che si astiene è Giovanni. Infine, per qualsiasi salario uguale o superiore a 9.5 tutti gli individui trovano conveniente offrire lavoro, l’offerta è 4. Nel mondo reale gli individui che offrono lavoro non sono solo quattro ma migliaia. Tuttavia, il principio che opera dietro le quinte della curva di offerta di mercato è lo stesso. L’unica differenza tra un mercato con migliaia di individui ed un mercato con solo quattro individui è che, dopo averli ordinati sulla base del loro salario di riserva, la differenza nel salario di riserva tra due individui ‘vicini’ in tale ordinamento è molto piccola. Questo significa che i gradini non sono così evidenti come nel grafico precedente ma sono quasi impercettibili. In altri termini, la curva di offerta appare continua come nel grafico seguente: Se il salario è pari a 8 l’offerta è 4.500. Questo significa che ci sono 4.500 individui con un salario di riserva inferiore a 8. Se il salario è pari a 12, l’offerta sale a 7.000. Ovvero, ci sono 2.500 individui con un salario di riserva compreso tra 8 e 12. Costoro non offrono lavoro quando il salario di mercato è pari a 8 ma lo offrono quando il salario di mercato è pari a 12. 3.4 Equilibrio L’equilibrio del mercato del lavoro è dato dall’incrocio tra la curva di domanda e la curva di offerta. Il grafico seguente illustra due situazioni di disequilibrio. La prima corrisponde ad un eccesso di domanda pari a 3.000 e si materializza quando il salario è 8. La seconda corrisponde ad un eccesso di offerta pari a 2.000 e si materializza quando il salario è 12. In presenza di un eccesso di domanda c’è una scarsità di lavoratori. Le imprese si fanno concorrenza per accaparrarsi il limitato numero di lavoratori disponibili e questa concorrenza si manifesta nella forma di offerte salariali più convenienti. Questo significa che il salario non rimane a lungo pari a 8 ma tenderà ad aumentare. Con un eccesso di offerta, invece, c’è una scarsità di posti di lavoro per cui i lavoratori faranno degli sconti sul salario alle imprese pur di essere assunti. Questo significa che il salario non rimane a lungo pari a 12 ma tenderà a ridursi. I salari tendono ad aumentare o a diminuire fino a quando c’è un eccesso di domanda o di offerta. Le variazioni cesseranno solo quando l’eccesso di domanda o di offerta sarà completamente assorbito. Nell’esempio che stiamo studiando questo accade quando il salario è pari a 10.5: In corrispondenza di 10.5, i lavoratori disposti a lavorare sono 6.000 e le imprese domandano esattamente 6.000 lavoratori. Non c’è scarsità di lavoratori né di posti di lavoro. Pertanto, il salario tende a permanere al livello 10.5. Vale la pena ribadire un concetto. In corrispondenza dell’equilibrio non c’è scarsità di posti di lavoro ovvero non c’è disoccupazione. Il fatto che non ci sia disoccupazione non vuol dire che lavorano tutti. In particolare, non lavorano le persone che hanno un salario di riserva superiore a 10.5. Queste persone non sono disoccupate proprio perchè non cercano lavoro. E non cercano lavoro perché a loro non conviene lavorare. Tecnicamente, queste persone non fanno parte delle Forze Lavoro. 3.5 Variazioni del salario I salari non sono fissi ma cambiano nel tempo. Il motivo è che, nel tempo, le curve di domanda e di offerta di lavoro si spostano e l’equilibrio si modifica. Per illustrare questo punto vedremo due esempi: il caso del mutamento tecnologico skill-biased ed il caso dei flussi migratori. 3.5.1 Mutamento tecnologico Skill-Biased Nel corso degli anni ’80 e ’90, prima negli USA e poi in tutte le altre economie avanzate, la curva di domanda di lavoro si è spostata ma non si è spostata in modo uniforme in tutti i segmenti del mercato del lavoro. In particolare, la curva di domanda si è spostata verso destra nei segmenti popolati da lavoratori ad elevata professionalità (skilled) e verso sinistra nei segmenti popolati da lavoratori a bassa professionalità (unskilled). Nel corso del decennio cambiano in modo profondo i processi produttivi. Le imprese abbandonano le tecnologie tradizionali e le sostituiscono con processi produttivi informatizzati, che fanno cioè largo uso di robot e di computers. In parallelo, le imprese cambiano anche l’organizzazione produttiva esternalizzando le fasi del ciclo produttivo a più elevata intensità di lavoro manuale. Sono gli anni in cui la Cina inizia a diventare la fabbrica del mondo perché è lì che si trovano lavoratori manuali a buon mercato. Questi fenomeni non impattano allo stesso modo nei vari segmenti del mercato del lavoro. Non sono neutrali per ciò che concerne la posizione relativa dei lavoratori skilled ed unskilled ma favoriscono i primi e danneggiano i secondi. Per questa ragione vengono definiti skill-biased. I due grafici seguenti schematizzano l’impatto di questi fenomeni nei segmenti skilled ed unskilled del mercato del lavoro. Per effetto del mutamento tecnologico ed organizzativo descritto, le imprese dei paesi avanzati esprimono una maggiore domanda di lavoratori skilled ed una minore domanda di lavoratori unskilled. In pratica, le nuove tecnologie richiedono più ingegneri e meno operai. Inoltre, gli operai cinesi sono un buon sostituto di quelli occidentali e costano molto meno. Dal punto di vista grafico, la curva di domanda degli skilled si sposta verso destra mentre quella degli unskilled si sposta verso sinistra. L’effetto sui salari dei due gruppi è del tutto ovvio. Il salario degli skilled aumenta, quello degli unskilled diminuisce. In pratica, la forbice tra i due livelli salariali si allarga. 3.5.2 Mutamento tecnologico Routine-Biased A partire dai primi anni 2000 il mutamento tecnologico ha cambiato direzione nel senso che le ‘macchine’ hanno progressivamente sostituito il lavoro di persone a qualifica intermedia. Tipicamente, il lavoro di queste persone richiede lo svolgimento di mansioni che non sono manuali ma hanno comunque un basso contenuto intellettuale e, soprattutto, sono ripetitive. Gli economisti si riferiscono a questo tipo di mansioni utilizzando il termine di mansioni routinarie ed, in effetti, i lavoratori che svolgono mansioni routinarie si prestano molto bene ad essere sostituiti nei processi produttivi da routine informatiche. Per effetto di questo mutamento tecnologico, ad esempio, sono quasi scomparse le agenzie di viaggio e, più in generale, gli addetti alle vendite di biglietti. Altro esempio è l’assottigliamento nel numero di occupati nel retail bancario, il banking online si espande e gli sportelli bancari si riducono. Utilizzando grafici simili a quelli del paragrafo precedente è molto semplice dimostrare come il progresso tecnologico routine-biased sposta la domanda di lavoro verso sinistra nei segmenti a qualifica intermedia. Il risultato è che le retribuzioni delle persone a qualifica intermedia – una volta venivano indicate come la ‘classe media’ – perdono terreno sia rispetto a coloro che svolgono mansioni manuali sia rispetto a coloro che svolgono mansioni professionali sofisticate. 3.5.3 Flussi Migratori Negli ultimi tre decenni, molti paesi europei sono stati meta di importanti flussi migratori provenienti dai paesi in via di sviluppo. I protagonisti di questi flussi sono solitamente persone a bassa qualifica o, in ogni caso, percepiti come tali dai datori di lavoro. L’impatto di questi flussi, pertanto, è stato notevole nei segmenti del mercato del lavoro popolati da persone con basso livello di istruzione mentre è stato piuttosto irrilevante nei segmenti popolati da persone ad elevato livello di istruzione. Per comprendere di quale impatto si sta parlando occorre prestare attenzione al grafico seguente: Questo grafico illustra il mercato del lavoro di una certa città per i lavoratori a bassa qualifica (camerieri, addetti alle pulizie, commessi, badanti, etc.). Prima dei flussi migratori l’offerta è espressa solamente dai nativi ed è rappresentata dalla curva S. L’equilibrio è indicato dal punto E, ovvero dall’incrocio di S e D. In corrispondenza di questo equilibrio il salario è pari a w e gli occupati sono 20.000. Supponiamo che i flussi migratori abbiano portato nella città 20.000 immigrati a bassa qualifica e con un basso salario di riserva. Basso salario di riserva significa che gli immigrati sono disposti a lavorare anche per molto poco. La conseguenza è che, qualunque sia il salario di mercato, ai nativi che a quel salario sono disposti a lavorare si aggiungono altre 20.000 persone. Graficamente, la curva di offerta si sposta da S a S’ e lo spostamento misura proprio 20.000 unità. Il grafico suggerisce che in seguito allo spostamento verso destra della curva di offerta, il salario non può rimanere al livello w. Al livello w, infatti, si genera un eccesso di offerta per cui i lavoratori faranno sconti ai datori pur di essere assunti. Nel tempo, quindi, il salario si abbasserà ed un nuovo equilibrio sarà raggiunto. Il nuovo equilibrio è indicato dal punto E’, ovvero dall’incrocio della S’ con la D. In corrispondenza di questo nuovo equilibrio il salario si è abbassato a w’ e l’occupazione è aumentata a 30.000. Chi sono i 30.000 occupati? Tra di essi ci sono sicuramente tutti i 20.000 immigrati. Gli immigrati, ripetiamolo, hanno un salario di riserva molto basso e sono ben contenti di lavorare al salario w’. Gli altri 10.000 sono nativi. Questo significa che, rispetto all’equilibrio ex ante, 10.000 nativi hanno lasciato il mercato del lavoro. Chi sono i nativi che rimangono e quelli che lasciano? I nativi che continuano ad offrire lavoro sono quelli che hanno un salario di riserva uguale o inferiore a w’. I nativi che lasciano sono quelli che hanno un salario di riserva compreso tra w’ e w. Questi ultimi offrono lavoro nell’equilibrio ex ante ma si astengono dal farlo nell’equilibrio ex post. Chi guadagna e chi perde per effetto dei flussi migratori? Gli immigrati guadagnano, a meno di non aver sbagliato le loro previsioni sulle prospettive di reddito nel momento in cui hanno deciso di emigrare. I lavoratori nativi a bassa qualifica perdono dato che ricevono salari più bassi e, in molti casi, si ritirano dal mercato. I datori di lavoro nativi, invece, guadagnano dato che pagano salari più bassi. Salari più bassi, a loro volta, possono riflettersi in prezzi più bassi per i beni prodotti con un vantaggio per tutti i consumatori (ad esempio, se non ci fosse un impiego massiccio di immigrati nell’agricoltura i prezzi della frutta e della verdura sarebbero più alti). Insomma, i flussi migratori generano vantaggi per alcuni e svantaggi per altri per cui, in linea di principio, il beneficio netto è incerto. E’ verosimile, tuttavia, che per i paesi con una bassa dinamica demografica i vantaggi superino gli svantaggi ed il benefico netto è positivo. In questi paesi, pertanto, un intervento pubblico saggio non dovrebbe impedire questi flussi ma dovrebbe regolarli e governarne gli effetti in modo da distribuire a tutti il beneficio netto. 4. Occupazione, Disoccupazione e Partecipazione 4.1 Il Tasso di Partecipazione o di Attività Nel precedente paragrafo abbiamo sviluppato l’importante nozione di salario di riserva. Ogni individuo ha il ‘suo’ salario di riserva e lo confronta con i salari di mercato che sono ‘alla sua portata’ ovvero con i salari che vengono pagati ai lavoratori che posseggono un titolo di studio ed un’esperienza in linea con la propria. In pratica, un individuo con un basso livello di istruzione non confronta il suo salario di riserva con la remunerazione di un chirurgo o di un ingegnere elettronico ma lo confronta con la remunerazione di lavoratori con un livello di istruzione simile al suo. Per popolazione attiva si intendono quegli individui che sono potenzialmente in grado di lavorare. Di solito, gli istituti di statistica dei paesi avanzati classificano come appartenenti alla popolazione attiva tutti gli individui di età compresa tra i 15 ed i 74 anni che non sono nel sistema educativo né nei ranghi militari. In linea di principio, ogni individuo che appartiene alla popolazione attiva confronta il suo salario di riserva con il salario di mercato alla sua portata. Se il salario di riserva è minore o, al limite, uguale ai salari che sono alla sua portata allora l’individuo sceglie di partecipare al mercato del lavoro ed entra a far parte delle cosiddette forze lavoro. Se, all’opposto, il salario di riserva è maggiore allora l’individuo sceglie di non partecipare al mercato del lavoro e, quindi, rientra nelle Non-Forze Lavoro: Scegliere di partecipare al mercato significa mettersi alla ricerca di un’occupazione e, una volta ricevuta una proposta di lavoro, accettarla e lavorare. Quindi le Forze Lavoro di un paese sono composte sia da coloro che lavorano sia da coloro che sono alla ricerca di un’occupazione. I primi sono chiamati Occupati, i secondi Disoccupati: Per Tasso di Partecipazione o Tasso di Attività si intende il rapporto tra le Forze Lavoro e la Popolazione Attiva: 𝐹𝑜𝑟𝑧𝑒 𝐿𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑇𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑃𝑎𝑟𝑡𝑒𝑐. 𝑜 𝑑𝑖 𝐴𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖𝑡à = 𝑃𝑜𝑝. 𝐴𝑡𝑡𝑖𝑣𝑎 La tabella seguente riporta il tasso di partecipazione relativo al 2023 per l’Italia e per alcuni altri paesi che sono naturali termini di confronto. Tasso di Occupazione 2023 Età: 15-64 anni Donne Uomini Totale Danimarca 74,2 78,9 76,6 Francia 66,0 71,0 68,5 Germania 73,6 80,8 77,2 Italia 52,5 70,4 61,5 Spagna 60,7 70,0 65,4 Unione Europea (27 paesi) 65,7 75,1 70,4 OCSE 63,2 76,9 70,0 Il Tasso di Partecipazione italiano nel 2023 è stato pari al 61,5%. Per ogni 100 appartenenti alla popolazione attiva, 61,5 hanno deciso di partecipare al mercato del lavoro mentre 39,5 hanno deciso di rimanerne fuori. Nel periodo 2017-2019 il tasso era il 57%, qualche progresso è stato fatto. In ogni caso, l’Italia presenta un Tasso di Partecipazione inferiore rispetto a quello degli altri paesi europei. Il tasso medio europeo è 70,4% , il tasso per la Danimarca è 76,6%. Il dato aggregato italiano, inoltre, nasconde profonde differenze di genere e territoriali. Per quanto concerne le differenze di genere, il tasso di partecipazione maschile è il 70,4%, in linea con il dato spagnolo e francese ma inferiore ai paesi del Nord Europa. Ciò che contraddistingue l’Italia in negativo è il tasso di partecipazione femminile. Prendendo come termini di confronto i due paesi culturalmente più vicini, la differenza con la Spagna è di 8.2 punti mentre quella con la Francia è di 13,5 punti. Per quanto concerne le differenze territoriali, il tasso di partecipazione è pari al 67% nelle regioni del Nord, al 66% nelle regioni del Centro e al 52% nelle regioni del Sud. Prima di passare al prossimo paragrafo vale la pena fare cenno alla rilevazione di queste grandezze da parte degli istituti di statistica nazionali. Seguendo le linee guida di Eurostat, gli istituti di statistica nei vari paesi europei effettuano una rilevazione campionaria. In Italia, utilizzando l’anagrafe dei comuni, l’Istat estrae ogni anno un campione rappresentativo di 250 famiglie per un totale di circa 600 individui. Ciascuno di questi individui viene intervistato dal rilevatore per 4 volte nei quindici mesi successivi all’estrazione del campione. Il questionario usato dal rilevatore mira a stabilire se la persona lavora o meno e, se non lavora, se sta cercando attivamente lavoro. L’Istat considera occupata una persona che nella settimana precedente l’intervista ha effettuato almeno un’ora di lavoro retribuita (sia alle dipendenze che in forma autonoma, sia in part-time che in full-time, sia a tempo determinato che indeterminato). Inoltre, l’Istat considera fuori dalla forza lavoro una persona che non è occupata né ha cercato lavoro nelle quattro settimane prima dell’intervista. 4.2 I motivi della bassa partecipazione in Italia Perché il Tasso di Partecipazione in Italia è molto più basso rispetto agli altri paesi europei? La disaggregazione per genere suggerisce che la differenza più marcata non è tanto sul tasso di partecipazione maschile ma su quello femminile. Quindi, la vera domanda è perché le donne italiane partecipano meno al mercato del lavoro rispetto alle altre donne europee? Abbiamo visto che partecipare o non partecipare è l’esito di una scelta e che tale scelta si basa sul confronto tra il proprio salario di riserva ed il salario di mercato alla propria portata. Dovremmo quindi concludere che le donne italiane scelgono di non partecipare perché, in media, hanno salari di riserva troppo elevati rispetto ai salari di mercato? In effetti, la causa della bassa partecipazione potrebbe essere proprio questa. Nel paragrafo precedente abbiamo visto che il salario di riserva riflette soprattutto la valutazione soggettiva del tempo libero. Per ragioni culturali, nel nostro Paese le donne si fanno più carico degli uomini dei servizi prodotti all’interno delle mura domestiche come, ad esempio, la cura dei bambini. Ne discende che il valore assegnato dalle donne al tempo libero (o meglio, al tempo da poter dedicare alla famiglia) è mediamente maggiore rispetto a quello assegnato dagli uomini. Da qui un maggiore salario di riserva ed una maggiore tendenza a non partecipare al mercato del lavoro. La bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro è considerata economicamente non efficiente nonché in contrasto con basilari principi di parità. Pertanto, da più parti si auspicano interventi pubblici per correggere le differenze di genere. L’intervento correttivo più ovvio è quello di introdurre nel nostro Paese un welfare ‘di tipo nord-europeo’ basato su un’ampia disponibilità di posti negli asili-nido e su aiuti economici diretti alle famiglie con bambini. Un welfare di questo tipo, oltre ad invertire l’attuale tendenza demografica negativa, dovrebbe ridurre il valore del tempo libero per le donne italiane ed incentivare la loro partecipazione al mercato del lavoro. Alcuni suggeriscono invece un intervento correttivo attraverso il sistema fiscale. La riforma che auspicano è quella di tassare le donne in modo più favorevole rispetto agli uomini. In pratica, a parità di reddito lordo, le donne dovrebbero essere soggette ad aliquote Irpef inferiori rispetto a quelle degli uomini. Lo scopo di questa riforma è duplice. Da un lato, una tassazione inferiore fa aumentare il salario netto e, quindi, per un numero maggiore di donne il salario di mercato potrebbe diventare maggiore del salario di riserva incentivando la loro partecipazione. Dall’altro, la decisione sul partecipare o meno al mercato del lavoro spesso viene presa congiuntamente dai due membri di una coppia. Se le donne vengono tassate di meno rispetto agli uomini alcune coppie potrebbero decidere che la donna partecipa al mercato e l’uomo si occupa della famiglia. La tassazione differenziale potrebbe essere in conflitto con il principio di uguaglianza della Costituzione della Repubblica. E’ anche vero, tuttavia, che un compito della Repubblica è quello di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione delle persone alla vita democratica del Paese (Art. 3). Nella misura in cui la bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro costituisce uno di questi ‘ostacoli’ allora la tassazione differenziale potrebbe essere coerente con i principi costituzionali. Inoltre, una misura di questo tipo sarebbe intrinsecamente temporanea. Nel tempo, e grazie alla maggiore partecipazione indotta dalla tassazione differenziale, le specificità culturali che sono alla base del gap di partecipazione scompariranno. E, di conseguenza, scomparirà la ratio stessa della tassazione differenziale. La distanza tra Italia ed EU in termini di partecipazione al mercato del lavoro non è solo ascrivibile alla bassa partecipazione femminile. Esiste una seconda peculiarità del nostro mercato del lavoro che contribuisce a generare tale distanza. La peculiarità è la seguente. Nel nostro Paese ci sono molte persone che non sono in cerca di occupazione non tanto perché il loro salario di riserva è elevato e quindi scelgono di rimanere fuori ma perché ritengono che le chances di trovare un posto di lavoro sono estremamente basse. Per la statistica ufficiale queste persone sono fuori dalle Forze Lavoro in quanto non lavorano né cercano. Sul piano sostanziale, invece, queste persone sono dei veri e propri disoccupati. Se qualcuno bussasse alla loro porta e gli offrisse un lavoro essi accetterebbero. Non vanno a cercare lavoro semplicemente perché anticipano che la ricerca sarà infruttuosa. Gli economisti etichettano queste persone come disoccupati scoraggiati. Ripetiamo il concetto. I disoccupati scoraggiati non cercano un’occupazione anche se sarebbero disposti a lavorare. Siccome non cercano né lavorano allora l’Istat non li classifica come appartenenti alle Forze Lavoro con la conseguenza di abbassare la stima del Tasso di Partecipazione. Quanti sono i disoccupati scoraggiati? Per stabilirlo occorrerebbe intervistare tutti coloro che appartengono alla popolazione attiva ma che non lavorano né cercano e chiedere loro la vera motivazione del perché non cercano. Questa rilevazione ‘a tappeto’ non esiste ma esistono delle rilevazioni campionarie. Sulla base degli esiti delle rilevazioni campionarie condotte nel periodo 2015-2020, si stimava che i disoccupati scoraggiati nel nostro Paese fossero tra i 2 ed i 3 milioni. L’ultima rilevazione – si veda la tabella seguente - quantifica il numero di disoccupati scoraggiati a circa 1 milione. Anche se negli ultimi due anni il numero di disoccupati scoraggiati sembra essersi ridotto, si tratta comunque di un numero molto elevato e di vari ordini di grandezza superiore a quello di altri paesi europei di dimensioni pari a quelle dell’Italia. La maggior parte dei disoccupati scoraggiati risiede nelle regioni del Sud e ciò spiega in buona parte il dato molto basso del Tasso di Partecipazione in queste regioni. 4.3 Il tasso di disoccupazione ed il tasso di occupazione Il tasso di disoccupazione è dato dal rapporto tra il numero di persone in cerca di occupazione (disoccupati) ed il numero di persone che fanno parte delle Forze Lavoro: 𝐷𝑖𝑠𝑜𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑡𝑖 𝑇𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝐷𝑖𝑠𝑜𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝐹𝑜𝑟𝑧𝑒 𝐿𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 Tipo dato tasso di disoccupazione Classe di età 15-64 anni Seleziona periodo 2020 2021 2022 2023 Sesso Territorio Maschi Italia 8,8 8,9 7,3 7,0 Trentino Alto Adige 4,1 3,8 2,2 2,3 Campania 17,4 18,0 15,8 15,9 femmine Italia 10,5 10,8 9,5 8,9 Trentino Alto Adige 5,2 5,0 4,0 3,5 Campania 21,1 22,6 20,3 21,2 Totale Italia 9,5 9,7 8,2 7,8 Trentino Alto Adige / Südtirol 4,6 4,3 3,1 2,9 Campania 18,8 19,7 17,4 17,8 Tradizionalmente, il tasso di disoccupazione è considerato la variabile chiave per apprezzare il funzionamento del mercato del lavoro. Un elevato tasso, infatti, segnala una carenza di posti di lavoro e, quindi, un diffuso malessere sociale. Di recente, tuttavia, gli economisti sono diventati molto più scettici sull’affidabilità del tasso di disoccupazione nel misurare il malessere sociale associato alla scarsità di posti di lavoro. Il caso italiano è emblematico. Esiste almeno un milione di cosiddetti disoccupati scoraggiati che, siccome non cercano, non vengono rilevati ufficialmente come appartenenti alle Forze Lavoro e, quindi, come disoccupati. Se costoro venissero inseriti nell’insieme dei disoccupati il tasso di disoccupazione italiano aumenterebbe e, molto probabilmente, misurerebbe in modo più preciso la carenza di posti di lavoro. Si consideri in proposito il seguente esempio. Prendiamo due paesi, A e B, entrambi con una popolazione attiva pari a 10 milioni. Il tasso di partecipazione è pari a 0.7 nel paese A e a 0.5 nel paese B. Il tasso di disoccupazione è invece pari al 0.1 (10%) in entrambi i paesi. Se guardiamo solo al tasso di disoccupazione dobbiamo concludere che la scarsità di posti di lavoro è la stessa nei due paesi dato che in entrambi c’è un 10% di disoccupati. Ma quello che accade dietro le quinte potrebbe essere molto diverso. Nel paese A ci sono 6.3 milioni di occupati (7 milioni appartengono alla forza lavoro ma il 10% di costoro sono alla ricerca) mentre nel paese B ci sono solo 4.5 occupati (5 milioni appartengono alla forza lavoro ma il 10% di costoro sono alla ricerca). Siccome la popolazione è la stessa, è del tutto evidente che nel paese B la scarsità di posti di lavoro rispetto alla richiesta potrebbe essere maggiore rispetto al paese A. Infatti, nel paese B il tasso di partecipazione potrebbe essere basso proprio perchè, come accade in Italia, ci sono molti disoccupati scoraggiati. L’esempio dei due paesi suggerisce che la scarsità di posti di lavoro potrebbe non essere misurata in modo affidabile dal tasso di disoccupazione. Per questo motivo, nel corso dell’ultimo decennio gli economisti hanno prestato un’attenzione crescente ad un altro indicatore, il Tasso di Occupazione. Il tasso di occupazione è il rapporto tra gli occupati e la popolazione attiva: 𝑂𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑡𝑖 𝑇𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑂𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝑃𝑜𝑝𝑜𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝐴𝑡𝑡𝑖𝑣𝑎 Applicando questo indicatore al nostro esempio, la differenza tra i due paesi emerge in modo chiaro: 6.3 𝑇𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑂𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑎𝑒𝑠𝑒 𝐴 = = 0.63 10 4.5 𝑇𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑂𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑎𝑒𝑠𝑒 𝐵 = = 0.45 10 Vale la pena, tuttavia, esercitare una certa cautela sull’uso del tasso di occupazione. Nell’esempio dei due paesi il tasso di occupazione è più affidabile del tasso di disoccupazione nella misura in cui nel paese B ci sono molti disoccupati scoraggiati. In questo caso, infatti, il tasso di occupazione riesce a cogliere il problema sociale della scarsità di lavoro, al contrario del tasso di disoccupazione. Ma potrebbe anche darsi che nel paese B non c’è nessun disoccupato scoraggiato. Potrebbe darsi che nel paese B c’è una minore partecipazione al mercato del lavoro semplicemente perché gli individui sono mediamente più benestanti del paese A oppure perché più inclini, per ragioni socio-culturali, ad avere più tempo libero per gli svaghi e le attività domestiche. In questo caso, il tasso di disoccupazione è un indicatore della scarsità di posti di lavoro più affidabile del tasso di occupazione. Rimane sempre vero che in A ci sono più occupati rispetto a B ma questo non significa che in B c’è più scarsità di lavoro. Significa semplicemente che in B c’è meno gente disposta ad offrire lavoro. Nelle due figure seguenti vengono presentati i dati relativi al tasso di disoccupazione ed al tasso di occupazione di un insieme di paesi avanzati. Si osservi che l’Italia presenta una performance abbastanza buona per quanto concerne il tasso di disoccupazione. Ad esempio, il tasso di disoccupazione italiano è inferiore a quello francese. Invece, la performance sul tasso di occupazione è molto bassa: solo la Grecia fa peggio. A quale grafico dovremmo guardare per avere un’idea sullo stato di salute del mercato del lavoro italiano? Se il basso tasso di occupazione italiano è dovuto alla scelta libera di molte persone di non partecipare al mercato del lavoro allora dovremmo prestare maggiore attenzione al tasso di disoccupazione e, quindi, dovremmo concludere che il mercato del lavoro italiano gode di una discreta salute. Se, invece, il basso tasso di occupazione è dovuto ad una bassa partecipazione causata da scoraggiamento allora il tasso di disoccupazione ufficiale è fuorviante in quanto sottostima la disoccupazione ‘vera’. 5 Istituzioni e Disoccupazione 5.1 Introduzione Gli economisti sostengono che il mercato del lavoro è fortemente istituzionalizzato perché esistono molteplici regole e consuetudini che interferiscono e, a tratti, impediscono l’azione delle forze di mercato. Interferiscono cioè con il meccanismo della domanda e dell’offerta. In questo paragrafo esamineremo gli effetti di tre istituzioni diverse: i minimi salariali, la contrattazione collettiva ed i vincoli alla libertà di licenziamento. Il risultato principale della nostra analisi sarà che ognuna di queste tre istituzioni è una fonte potenziale di disoccupazione. Questo non significa che queste istituzioni siano di per sé dannose. Anzi, esistono delle ottime ragioni che ne giustificano l’esistenza. La disamina di queste ragioni, tuttavia, travalica gli scopi ed i confini delle nostre lezioni. 5.2 Salario Minimo e Disoccupazione In molti paesi avanzati esiste una legge sul salario minimo ovvero una legge che fa divieto ai datori di lavoro di pagare salari inferiori ad un certo ammontare prefissato. In Germania ed in Olanda, ad esempio, la legge fa divieto di pagare un salario lordo mensile inferiore a 1.600 euro per un orario di lavoro standard. In Italia non esiste ancora nessuna legge che indica un livello salariale minimo ma esiste un meccanismo che produce un esito equivalente. Questo meccanismo si basa sulla contrattazione nazionale di categoria. Per ogni settore produttivo (meccanica, chimica, telecomunicazioni, etc.), i sindacati e le associazioni datoriali firmano un contratto di lavoro a livello nazionale. In questo contratto viene indicato il salario minimo che deve essere rispettato da tutte le imprese che operano nel settore. Dopo la contrattazione nazionale, le singole imprese possono anche aprire ulteriori tavoli di contrattazione con i propri dipendenti ma l’esito di questa contrattazione di secondo livello può solo ‘migliorare’ quanto deciso nel contratto nazionale. In pratica, nella contrattazione di secondo livello il salario può essere fissato al di sopra di quanto stabilito dal contratto nazionale ma non può essere fissato al di sotto. In estrema sintesi si può affermare che mentre in Germania ed in Olanda sono i parlamenti nazionali a fissare per legge il salario minimo, in Italia il salario minimo viene fissato dalle parti sociali. Quali sono gli effetti dell’introduzione del salario minimo sull’equilibrio del mercato del lavoro? La risposta a questa domanda è piuttosto semplice. L’introduzione del salario minimo non produce nessun effetto se il salario di equilibrio è superiore al minimo. Per converso, l’introduzione del salario minimo causa disoccupazione se il minimo è superiore al salario di equilibrio. Si osservino, in proposito, i due grafici seguenti: Il grafico di sinistra rappresenta una situazione in cui il salario minimo è inferiore al salario di equilibrio w*. Siccome il salario di equilibrio costituisce il salario al quale il mercato tende spontaneamente, il fatto che il salario minimo sia inferiore a quello di equilibrio non produce nessun impatto sul mercato. L’azione spontanea delle forze di mercato realizza ‘in automatico’ l’esito desiderato dalla legge. Lo scopo della legge, infatti, è quello di vietare salari inferiori ad un certo livello prefissato, non certo quello di vietare salari maggiori. Il grafico di destra, invece, rappresenta una situazione in cui il salario minimo è superiore al salario di equilibrio. In questo caso, le forze spontanee del mercato tendono a definire un salario di equilibrio ‘fuorilegge’, troppo basso rispetto al minimo indicato dalla legge. Siccome il rispetto della legge impedisce di raggiungere l’equilibrio, la legge interferisce con le forze di mercato e produce un effetto ben preciso, la disoccupazione. Il grafico evidenzia come, in corrispondenza del salario minimo, la quantità di lavoro offerta è maggiore della quantità di lavoro domandata. Si materializza cioè una situazione di carenza di posti di lavoro: ci sono molti lavoratori che vorrebbero lavorare al salario minimo e pochi datori disposti ad assumerli. In un qualsiasi mercato in cui c’è eccesso di offerta il prezzo tende a scendere e, prima o poi, l’eccesso di offerta scompare. E questo accadrebbe anche nel mercato del lavoro, se non ci fossero degli impedimenti alla discesa de salario. L’eccesso di offerta (disoccupazione) del grafico di destra potrebbe essere riassorbito, nel tempo, dalla discesa del salario al di sotto di w min. Ma questa discesa è vietata dalla legge. Il risultato che abbiamo raggiunto è piuttosto netto. L’introduzione di un salario minimo causa disoccupazione se il minimo viene fissato ad un livello troppo elevato rispetto al salario ‘spontaneo’ di equilibrio. Un corollario di questo risultato è che il salario minimo tende a generare disoccupazione nei segmenti del mercato del lavoro popolati da lavoratori a bassa qualifica mentre tende ad essere privo di effetti nei segmenti popolati da lavoratori ad elevata qualifica. Se viene introdotto un salario lordo minimo mensile pari a 1.600 euro, non ci sarà nessun effetto nel mercato dei chirurghi o degli ingegneri dato che per costoro le forze di mercato ‘spontaneamente’ definiscono una retribuzione ben maggiore di 1.600. Questo livello di salario minimo, invece, produrrà disoccupazione per i lavoratori manuali e, più in generale, per i lavoratori che hanno un basso valore della produttività. L’interazione tra salario minimo, produttività e disoccupazione è piuttosto evidente nel nostro Paese. Come abbiamo accennato in precedenza, la contrattazione nazionale di categoria definisce un minimo salariale che vale per tutto il Paese, per la Lombardia così come per la Calabria. Il problema è che Lombardia e Calabria sono caratterizzate da un tessuto produttivo molto diverso per cui, a parità di altre condizioni, il valore della produttività del lavoro è più elevato in Lombardia rispetto alla Calabria. L’effetto è che, per la Lombardia, il minimo nazionale è inferiore al salario ‘spontaneo’ di equilibro e, quindi, non produce nessun effetto. Per la Calabria, invece, il minimo nazionale è più elevato del salario ‘spontaneo’ di equilibrio. L’esito è la disoccupazione. O, per sfuggire a tale esito, il ricorso a rapporti di lavoro ‘informali’. A livello più astratto immaginiamo due regioni, una del Sud e una del Nord, caratterizzate dalla stessa curva dell’offerta di lavoro (stesso numero di abitanti e stessi salari di riserva) ma da una diversa curva della domanda di lavoro. Le imprese nella regione del Sud sono meno produttive rispetto a quelle della regione del Nord. Meno produttive significa che, a parità di altre condizioni, il rendimento dei lavoratori è inferiore. Siccome le imprese assumono un lavoratore solo se il suo rendimento è maggiore del salario al quale il lavoratore è remunerato, il fatto che al Sud il rendimento sia inferiore implica che, rispetto alla regione del Nord, la curva della domanda di lavoro della regione del Sud è spostata più a sinistra (o, se si preferisce, più in basso). Il due grafici seguenti illustrano il mercato del lavoro nelle due regioni: Nei due grafici la curva S è la stessa mentre nella regione del Nord la curva D è a destra (o, se si preferisce, al di sopra) rispetto alla curva D della regione del Sud per le ragioni descritte. In assenza di un salario minimo nazionale, i due mercati del lavoro definiscono due diversi livelli del salario di equilibrio w*, più elevato al Nord e più basso al Sud. Inoltre, in nessun mercato c’è disoccupazione. La quantità di lavoro domandata è esattamente uguale alla quantità di lavoro offerta. In entrambi i mercati chi non lavora è perché decide di non lavorare dopo aver confrontato il proprio salario di riserva con il salario di equilibrio pagato nel mercato. Cosa succede se viene introdotto un salario minimo nazionale intermedio tra i due salari di equilibrio? L’introduzione del salario minimo non produce nessun effetto al Nord ma causa disoccupazione al Sud. Il salario ‘spontaneo’ del Nord è già di per sé superiore al minimo nazionale. Al Sud, invece, il salario ‘spontaneo’ è fuorilegge. L’implicazione è che, al minimo nazionale, l’offerta di lavoro al Sud è ben superiore alla domanda. L’unico modo per assorbire la disoccupazione è non rispettare la legge ricorrendo a rapporti di lavoro informali. Attenzione, non stiamo dicendo che il minimo nazionale genera eccesso di offerta ovvero disoccupazione al Sud ed eccesso di domanda al Nord. Ribadiamo il concetto, il minimo nazionale genera eccesso di offerta al Sud ma non ha nessun effetto al Nord. Quello che normalmente accade nelle regioni del Nord è che la contrattazione di secondo livello ritocca verso l’alto il salario deciso nel contratto nazionale. In pratica, la contrattazione di secondo livello consente il pieno manifestarsi delle forze di mercato per cui l’esito finale è che al Nord i lavoratori vengono pagati al salario di equilibrio w* del Nord. Chi guadagna e chi perde da questo assetto istituzionale? I lavoratori e le imprese della regione del Nord non sono né favoriti né danneggiati. Per loro nulla cambia rispetto al libero mercato. I lavoratori occupati della regione del Sud sono certamente favoriti dato che percepiscono un minimo nazionale superiore al salario ‘spontaneo’ di equilibrio. I lavoratori disoccupati (o occupati in modo informale) della regione del Sud, invece, sono danneggiati in quanto con un salario inferiore al minimo nazionale avrebbero più chances di trovare un’occupazione regolare. Infine, anche le imprese della regione del Sud sono danneggiate dato che pagano salari più elevati rispetto ai salari che pagherebbero con il libero mercato. Per alcuni studiosi del mercato del lavoro gli svantaggi che abbiamo elencato sono superiori ai vantaggi per cui l’auspicio è quello del superamento dell’attuale assetto istituzionale. Secondo costoro, l’attuale assetto dovrebbe essere sostituito da un sistema che consenta ai salari di riflettere in modo più fedele le condizioni locali di produttività. Vale la pena concludere la sezione con una precisazione. La differenza nel valore della produttività del lavoro tra regioni del Nord e del Sud del nostro Paese è un fatto, non un’opinione. Ma come va interpretato questo fatto? Un lavoratore del Sud è meno dedito al lavoro di uno del Nord? Un imprenditore del Sud è meno capace di uno del Nord? Ovviamente, la risposta ad entrambe le domande è ‘no’. La differenza non è causata da differenze individuali ma di contesto. Uno stesso individuo ha una produttività bassa o elevata in base al contesto in cui opera. Allo stesso modo, un’impresa può risultare profittevole o meno in base al contesto che la circonda. In un conteso esclusivamente agricolo, ad esempio, il valore di ciò che riesce a produrre un ingegnere meccanico è modesto. E’ un valore simile al valore che produce un operaio non qualificato. Anzi, molto spesso è persino minore. Per converso, in un’area dominata da produzioni meccaniche – si pensi, ad esempio, all’area tra Bologna e Modena – il valore di ciò che riesce a produrre lo stesso ingegnere può essere elevatissimo. In quest’area, gli ingegneri meccanici partecipano alla progettazione di auto e moto che valgono una fortuna. E’ quindi il contesto a fare la differenza e non i singoli. I motivi però per cui i contesti produttivi nel Nord e nel Sud sono diversi non verranno trattati in quanto esulano dagli scopi delle lezioni. 5.3 Sindacati, Contrattazione Collettiva e Disoccupazione Oltre ai salari minimi esiste una seconda importanze interferenza istituzionale nel mercato del lavoro. Questa interferenza è causata dalle regole che tutelano il diritto dei lavoratori a formare sindacati e a scioperare. Nel nostro Paese, ad esempio, il diritto di sciopero è garantito dalla Costituzione della Repubblica. Esistono delle ottime ragioni affinché questi diritti debbano essere riconosciuti e tutelati. In questa sezione, tuttavia, non ci soffermeremo su queste ragioni ma cercheremo di evidenziare quali sono gli effetti di questi diritti sul funzionamento del mercato del lavoro. Il primo effetto della formazione di sindacati è quello di generare, per reazione, la formazione di coalizioni di datori di lavoro. I salari che vengono pagati in una moderna economia sono, pertanto, determinati dalla contrattazione collettiva tra sindacati ed associazioni datoriali piuttosto che risultare dal gioco spontaneo delle forze di mercato. La contrattazione collettiva, tuttavia, non è del tutto slegata dalle forze di mercato. Per comprendere questo punto è utile fare un esempio. Immaginiamo che un certo settore produttivo produca il bene X e che la domanda per tale bene sia in espansione. L’espansione nella domanda e nella produzione di X causa, a cascata, un aumento della domanda di lavoro. Tecnicamente, la curva D si sposta a destra per cui l’effetto finale è quello di far aumentare il salario di equilibrio. Insomma, grazie alla libera azione delle forze di mercato, l’espansione nella domanda di X fa aumentare il salario pagato ai lavoratori che producono X. Come cambia il quadro descritto se, al posto del libero mercato, il salario viene deciso dalla contrattazione collettiva tra sindacati e datori? L’esito di una contrattazione riflette sempre il potere contrattuale delle parti.1 Nel caso della contrattazione sul salario, se il sindacato ha più potere contrattuale dei datori allora riesce a spuntare un salario elevato. Se, invece, sono i datori ad avere più potere contrattuale, il salario contrattato è basso. Avendo appurato che l’esito della contrattazione dipende dal potere contrattuale ‘relativo’ delle parti, torniamo al settore che produce il bene X. E’ del tutto evidente che l’espansione nella domanda di X rafforza il potere contrattuale del sindacato e, parallelamente, indebolisce quello dei datori. Il motivo è il seguente. Essendo il settore in espansione, i datori temono fortemente l’eventualità di uno sciopero. Sciopero significa mancata produzione, ordini non evasi e perdita di fatturato. La minaccia di sciopero da parte del sindacato viene quindi presa seriamente e, per scongiurare la minaccia, i datori tendono ad assecondare le richieste dei sindacati. 1 Questo vale per qualunque contrattazione, anche per le continue contrattazioni tra marito e moglie. Insomma, proprio come accade nel ‘libero mercato’ anche con la contrattazione collettiva si ottiene lo stesso esito: l’espansione nella domanda di X fa aumentare il salario di coloro che producono X. Se la domanda di X fosse in contrazione invece che in espansione il salario si ridurrebbe sia nel caso di ‘libero mercato’ che nel caso di contrattazione collettiva. Nel caso di libero mercato, la curva D si sposta a sinistra ed il salario di equilibrio si riduce. Nel caso di contrattazione collettiva, il sindacato perde forza contrattuale a vantaggio dei datori ed il salario contrattato si riduce. Il motivo per cui il sindacato perde forza contrattuale rispetto ai datori è il seguente. Dato che la domanda di X è in contrazione, i datori non temono la minaccia di sciopero. L’interruzione nella produzione per qualche giorno non costituisce un problema quando la domanda da parte dei consumatori è fiacca. Anzi, se i lavoratori si astengono dal lavorare, i datori risparmiano sugli stipendi. L’esempio precedente serve a capire che, anche con la contrattazione collettiva, le forze di mercato sono comunque all’opera. Non operano attraverso le curve S e D bensì attraverso il potere contrattuale ‘relativo’ delle parti. L’esempio, tuttavia, non deve spingerci a pensare che il libero mercato e la contrattazione collettiva arrivano a definire lo stesso livello salariale. L’unica conclusione che possiamo trarre è che la variazione del salario è la stessa: se il salario cresce con il libero mercato allora cresce anche con la contrattazione. Nulla autorizza però a concludere che il livello del salario è lo stesso con il libero mercato e con la contrattazione. Da cosa dipende il livello del salario contrattato? Abbiamo visto che dipende dalla forza contrattuale relativa ma dipende anche dalle preferenze del sindacato. Le preferenze delle imprese sono abbastanza scontate: più basso è il salario contrattato e maggiori sono i profitti. Le preferenze del sindacato invece sono un po' più complicate e dipendono essenzialmente dagli interessi che il sindacato rappresenta. Se il sindacato rappresenta gli interessi di tutti i lavoratori, degli occupati così come dei disoccupati, allora preferisce salari moderati. Il motivo è che un salario troppo elevato riduce le assunzioni e pregiudica le chances di occupazione dei disoccupati. Per converso, se il sindacato rappresenta solo gli interessi dei lavoratori occupati allora preferisce salari elevati. Gli incentivi alla moderazione sono assenti, per gli occupati più elevato è il salario e più elevata è l’utilità. In sostanza, il nocciolo della questione è l’esistenza di un conflitto di interessi tra lavoratori occupati e disoccupati. Gli occupati preferiscono salari elevati. I disoccupati preferiscono invece salari moderati. Le scelte del sindacato dipendono pertanto da quale dei due gruppi è più rappresentato ed influente. Se ad essere rappresentati sono solo gli occupati allora è molto probabile che il salario contrattato è maggiore del salario di equilibrio e, quindi, si genera in modo permanente una certa disoccupazione. La natura permanente è proprio dovuta al fatto che i disoccupati non riescono a condizionare il sindacato e a spingerlo nella direzione di una maggiore moderazione. 5.4 Vincoli ai Licenziamenti e Disoccupazione In molti paesi avanzati e, soprattutto, in tutti i paesi dell’Europa Continentale la libertà di licenziamento è fortemente limitata da regole e disposizioni di legge. Anche per la regolamentazione dei licenziamenti esistono delle ottime ragioni che ne giustificano l’esistenza. In questa sezione, tuttavia, non tratteremo di queste ragioni e ci limiteremo soltanto ad analizzare gli effetti sul funzionamento del mercato del lavoro. Il primo effetto della regolamentazione è quello di rendere costoso per il datore il licenziamento di un proprio dipendente. Sulla base della regolamentazione, il datore non può licenziare se non sussiste una giusta causa. Per giusta causa, in quasi tutte le legislazioni, si intendono due cose, la ridondanza economica del lavoratore oppure il suo comportamento scorretto. Un lavoratore diventa ridondante quando il datore di lavoro perde clienti, perde commesse, etc. per cui viene a mancare il presupposto economico del rapporto di lavoro. Tecnicamente, il valore della produttività del lavoratore si azzera o si riduce in modo rilevante. Un lavoratore si comporta in modo scorretto quando commette un furto ai danni dell’impresa, quando danneggia dolosamente una macchina, etc.. Spesso datore e lavoratore licenziato non sono d’accordo sulla sussistenza di una giusta causa per cui occorre rimettersi alla decisione di un giudice. In molte legislazioni, l’onere di provare la sussistenza di una giusta causa fa capo proprio al datore. L’implicazione è che, se il datore anticipa di non essere in grado di fornire la prova, allora l’unica possibilità che ha di licenziare il lavoratore è quella di ‘comprare’ le sue dimissioni. Per comprare le sue dimissioni deve mettere mano al portafogli e riconoscergli una buonuscita. La buonuscita rappresenta il costo che il datore deve sostenere per licenziare. Se non ci fosse l’obbligo di dimostrare la sussistenza di una giusta causa non ci sarebbe nessuna buonuscita. Oltre alla buonuscita un secondo elemento di costo è rappresentato dall’obbligo di preavviso. Anche se il datore è in grado di dimostrare, ad esempio, che un lavoratore è diventato economicamente ridondante, in molti paesi il lavoratore non può essere licenziato subito. Il giorno in cui venisse a mancare il presupposto economico del rapporto di lavoro, l’unica cosa che il datore può fare è inviare al lavoratore un avviso che sarà licenziato in una certa data futura. La distanza tra la data di preavviso e la data di licenziamento è stabilita dalla legge. L’obbligo di preavviso configura un costo ulteriore per il datore per il semplice fatto che, fino alla data di licenziamento, occorre pagare uno stipendio ad un lavoratore che, per un qualche motivo, è diventato improduttivo o scarsamente produttivo. La regolamentazione sui licenziamenti rende costoso licenziare. Ma quali sono gli effetti dei costi di licenziamento per il mercato del lavoro? Gli economisti ritengono che questi costi producono una segmentazione nel mercato del lavoro. Da un lato ci sono gli insiders, gli occupati ‘coperti’ dalla regolamentazione e per i quali il licenziamento è costoso. Dall’altra ci sono gli ousiders, i disoccupati e, soprattutto, gli occupati che non sono coperti. Un occupato outsider, ad esempio, è un lavoratore precario. Un precario può essere licenziato senza sostenere nessun costo. Per licenziarlo basta non rinnovargli il contratto. Il dualismo insider-outsider offre una chiave di interpretazione molto efficace per quanto concerne il ruolo dei costi di licenziamento. In effetti, il ruolo di questi costi è quello di limitare la concorrenza che gli outsiders potrebbero fare agli insiders a beneficio dei datori. In assenza di questo costo, un datore potrebbe imporre ad un insider di accettare un salario basso minacciandolo di sostituirlo con un outsider. La presenza dei costi di licenziamento svuota la minaccia e rende l’insider meno vulnerabile alle pressioni del datore. L’esito finale è che la regolamentazione sui licenziamenti rafforza il potere contrattuale degli insiders e, quindi, contribuisce a mantenere elevati i salari di questi ultimi. Per ragioni simmetriche, la regolamentazione indebolisce gli outsiders e ne peggiora le prospettive. 5.5 Conclusioni In questo paragrafo abbiamo analizzato gli effetti di tre diverse istituzioni tipiche del mercato del lavoro: i salari minimi, la contrattazione collettiva tra sindacati e datori e, infine, i vincoli alla libertà di licenziamento. Ripetiamolo, ognuna di queste istituzioni ha ottime ragioni di esistere. E’ tuttavia innegabile che ciascuna di esse avvantaggia alcuni gruppi e danneggia altri. In Italia, il contratto nazionale che fissa un salario minimo uniforme per tutto il Paese avvantaggia gli occupati del Sud ma danneggia le imprese ed i disoccupati del Sud. Se rappresentano gli interessi dei soli occupati, i sindacati contrattano salari che avvantaggiano gli occupati ma danneggiano i disoccupati. Infine, la regolamentazione dei licenziamenti avvantaggia gli insiders ma danneggia gli outsiders. 6 Imperfezioni e Disoccupazione 6.1 Introduzione Non sono solo le istituzioni ad interferire con la legge della domanda e dell’offerta ma anche le peculiarità della ‘merce’ stessa che viene scambiata nel mercato del lavoro. In questo capitolo esamineremo tre peculiarità. La prima è che i lavoratori possono comportarsi in modo opportunistico ai danni dei datori. Comportarsi in modo opportunistico significa non impegnarsi o impegnarsi poco nello svolgimento del proprio lavoro. Questo accade soprattutto nei casi in cui è difficile essere monitorati. La seconda peculiarità è che l’impegno di un lavoratore dipende non solo dal monitoraggio ma anche dalla sue motivazioni psicologiche. La terza è che la produttività dei lavoratori dipende, oltre che dall’impegno, anche dall’esperienza maturata sul posto di lavoro. Pertanto, a parità di altre condizioni, una forza lavoro stabile è più produttiva di una forza lavoro con un elevato turnover. Quelle elencate sono delle peculiarità del mercato del lavoro perché la merce ‘lavoro’ è intimamente connessa alle persone che la offrono. Se al posto delle persone avessimo dei robots, queste peculiarità non sarebbero presenti. Un robot non tende a fregare il suo proprietario. Non ha bisogno di essere motivato psicologicamente. Non impara attraverso l’esperienza. Gli economisti si riferiscono a queste peculiarità parlando di imperfezioni del mercato del lavoro. Il termine ‘imperfezione’ si riferisce al fatto che queste peculiarità interferiscono e rendono imperfetto il meccanismo della domanda e dell’offerta. In particolare, nel prosieguo del paragrafo, vedremo come l’esito di queste imperfezioni è quello di generare un eccesso di offerta (disoccupazione) permanente. 6.2 Opportunismo Non tutti i lavoratori possono essere monitorati in modo continuo nello svolgimento delle proprie mansioni. Il rettore di una università non controlla l’operato dei docenti in modo continuo. Un dirigente d’azienda non viene controllato in ogni istante dall’amministratore delegato. Durante il lockdown per il Covid milioni di lavoratori sono passati dal lavoro in presenza a quello a distanza ed i datori non hanno più potuto controllare come questi impiegavano effettivamente il loro tempo durante l’orario di lavoro. Per un datore, l’impossibilità di monitorare in modo continuo il proprio dipendente rappresenta un problema dato che tra le due parti sussiste un ovvio conflitto di interesse. Da un lato, il datore desidera che il lavoratore si impegni nello svolgimento delle mansioni per cui è pagato. Dall’altro, l’impegno crea disutilità al lavoratore. Pertanto, se c’è la possibilità di comportarsi in modo opportunistico (battere la fiacca) senza essere scoperti, la tentazione a farlo è notevole. Come evitare che un lavoratore si comporti in modo opportunistico quando non viene monitorato? Quali incentivi bisogna introdurre affinché si comporti in modo corretto? La teoria economica e la ricerca empirica sul tema sono piuttosto chiare nel rispondere a queste domande. Per evitare che un lavoratore batta la fiacca quando non viene monitorato bisogna pagarlo bene! Il motivo è il seguente. Anche se il monitoraggio non viene esercitato in modo continuo questo non significa che il monitoraggio è del tutto assente. Significa solo che il monitoraggio avviene di tanto in tanto. Di tanto in tanto, ad esempio, un dirigente deve rendicontare il suo operato al suo capo. Ne segue che, se il dirigente viene pagato bene, se si sente privilegiato, allora farà di tutto per presentare buoni risultati. Si impegnerà per evitare un giudizio negativo in fase di rendicontazione e per mantenere la sua posizione di privilegio. Insomma, pagare al lavoratore una certa ‘rendita di posizione’ genera un incentivo al mantenimento della posizione. Questo incentivo spinge ad impegnarsi sempre, anche in assenza di monitoraggio corrente. I lavoratori interessati dal meccanismo descritto sono soprattutto i lavoratori intellettuali e, più in generale, i lavoratori che svolgono mansioni sofisticate. All’opposto, il meccanismo non vale per i lavoratori che svolgono mansioni semplici. Il motivo è che chi svolge mansioni semplici può essere monitorato in modo continuo. L’operaio impiegato alla catena di montaggio viene monitorato in modo continuo. Svolge il suo lavoro all’interno di uno stabilimento produttivo dove viene osservato dal caporeparto. Se va troppo lento, l’intera catena ne risente ed il caporeparto è nelle condizioni di rilevare immediatamente il problema. Per un avvocato dipendente da una compagnia assicurativa, invece, questo monitoraggio continuo non è possibile. Le sue mansioni sono sofisticate e non è possibile rilevare in tempo reale se si sta impegnando o meno nello svolgimento del suo lavoro. In prima approssimazione si potrebbe pensare che il numero di pratiche finalizzate in un mese sia un buon indicatore del suo impegno nel corso del mese. Ma il mero numero di pratiche non basta, bisogna anche guardare alla qualità di queste pratiche. Un avvocato può finalizzare anche molte pratiche ma, se la qualità è bassa, la compagnia assicurativa perderà tutte le cause. Il concetto che si vuole delineare con l’esempio dell’operaio e dell’avvocato è che se il primo batte la fiacca il suo capo lo scopre dopo 10-20 minuti mentre se batte la fiacca il secondo il suo capo lo scopre solo dopo un anno, quando cioè le sue pratiche correnti verranno definite in giudizio. Nel nostro Paese ci sono troppi avvocati. Molti sbarcano a stento il lunario o sono sostanzialmente disoccupati. Eppure, le compagnie assicurative pagano profumatamente i loro avvocati. Quando un individuo viene pagato di più rispetto ad un altro individuo simile gli economisti dicono che percepisce una rendita. Perché le compagnie assicurative pagano una rendita ai propri avvocati? Perché non approfittano del fatto che ci sono migliaia di avvocati disposti a lavorare per molto meno? Il motivo per cui le compagnie pagano una rendita ai loro avvocati adesso è chiaro. Se pagassero i propri avvocati pochi euro in più rispetto ai colleghi che sbarcano il lunario allora non ci sarebbe nessun incentivo a mantenere il posto di lavoro. Non ci sarebbe nessun incentivo ad impegnarsi. Anzi, gli avvocati della compagnia troveranno conveniente non impegnarsi dato che del mancato impegno il capo si accorgerà solo dopo un anno e, quindi, solo dopo un anno verranno licenziati (o messi nelle condizioni di dimettersi). E fino a quando il capo non se ne accorge ci si mette comunque in tasca uno stipendio senza sforzo. Infine, il licenziamento fra un anno non costituisce comunque un grave danno se si guadagnano solo pochi euro in più rispetto a uno che sbarca il lunario. E’ del tutto evidente, quindi, che per una compagnia assicurativa non sarebbe intelligente pagare poco i propri avvocati. Perdere le cause è costoso. E’ preferibile pagare una rendita e vincerle. Tutto questo non vale per un operaio impiegato alla catena di montaggio. Costui non ha la possibilità di battere la fiacca ed essere scoperto solo dopo un anno. Il danno che può fare comportandosi in modo opportunistico è molto basso. 6.3 Motivazioni Psicologiche Pagare bene un dipendente rende il dipendente efficiente. Nel paragrafo precedente abbiamo visto come l’efficienza può essere generata da un meccanismo economico. Il lavoratore pagato bene si impegna perché non vuole perdere una rendita. In questo paragrafo vedremo come l’efficienza può essere generata anche da un meccanismo psicologico. Il lavoratore pagato bene si impegna perché ritiene giusto e corretto farlo. Il meccanismo psicologico che induce un lavoratore ben pagato ad essere efficiente viene solitamente etichettato come teoria dello scambio di doni. Si tratta di una teoria del tutto intuitiva e semplice. Se un lavoratore viene pagato di più rispetto a quelle che sono le remunerazioni standard allora il lavoratore percepirà di ricevere una sorta di dono dal proprio datore di lavoro. E, come accade a tutti coloro che ricevono un dono, riterrà giusto fare qualcosa per ricambiarlo. L’unico modo che il lavoratore ha per ricambiare il dono è quello di impegnarsi a beneficio del proprio datore di lavoro. 6.4 Efficienza e Turnover Nelle due sezioni precedenti abbiamo rivolto l’attenzione all’efficienza dei singoli lavoratori ed abbiamo visto che questa efficienza dipende dall’incentivo economico e dalle motivazioni psicologiche. In questa sezione spostiamo l’attenzione dall’efficienza del singolo lavoratore all’efficienza dell’intera forza lavoro di un’impresa. Il risultato che otterremo, però, non è molto diverso. Vedremo, infatti, che per avere una forza lavoro efficiente bisogna pagarla bene. Il meccanismo che analizzeremo si basa sulla nozione di turnover. Ogni anno, alcuni lavoratori lasciano l’impresa perché si spostano verso un altro datore e, per rimpiazzarli, l’impresa deve assumerne altri. I flussi in entrata ed in uscita dalla forza lavoro vengono indicati con il termine turnover. Per tasso di turnover, invece, si intende il rapporto tra la somma di entrate ed uscite (a numeratore) e la numerosità della forza lavoro (a denominatore). In molti casi per le imprese il turnover è un fenomeno negativo in quanto abbassa la produttività media della forza lavoro. Il motivo è il seguente. I lavoratori che escono sono lavoratori altamente efficienti in quanto hanno trascorso del tempo all’interno dell’organizzazione produttiva ed hanno imparato ad interagire con gli altri lavoratori e con il capitale produttivo (un tornio, un software, etc.). Spesso hanno anche ricevuto un addestramento specifico. I lavoratori che entrano, invece, devono essere addestrati e inseriti nell’organizzazione produttiva. Questo li rende poco efficienti, almeno nei primi mesi immediatamente successivi al loro ingresso. In conclusione, un turnover accelerato implica una forza lavoro mediamente poco efficiente. Come si fa a ridurre il turnover? Come si stabilizza la forza lavoro? La migliore risposta a queste domande è stata fornita da Henri Ford nel 1915. Nel 1908 Ford vara il progetto ‘Modello T’, l’auto che doveva essere alla portata del ceto medio americano. Ed in effetti, nel corso degli anni ’10, il modello T viene venduto in milioni di unità ed inaugura la motorizzazione di massa negli USA (e nel mondo). Il problema di Henry Ford nel 1915 era solo uno, quello di garantire che il flusso della produzione dei suoi stabilimenti fosse in grado di soddisfare il flusso degli ordini. Ed il problema nel problema era proprio il turnover dei lavoratori. Infatti, ogni volta che un lavoratore si dimetteva un’intera linea di produzione si arrestava. E per far ripartire la linea occorreva assumere ed addestrare un nuovo lavoratore. Chiaramente occorreva del tempo per far ripartire la linea e l’interruzione risultava estremamente costosa per un’impresa in pieno boom di ordini. La soluzione del problema fu la seguente. Henri Ford aumentò il salario giornaliero dei suoi operai da 3 a 5 dollari e ridusse il loro orario di lavoro da 9 a 8 ore. Tenendo conto della riduzione di orario, l’aumento salariale equivaleva più o meno al raddoppio del salario orario. L’impatto sul turnover fu immediato. Negli anni seguenti pochissimi lavoratori lasciarono la Ford, che riuscì così ad evadere sempre gli ordini in tempi ragionevoli. Nonostante il raddoppio del costo unitario del lavoro, la crescita di produttività fu talmente elevata che i profitti aumentarono. 6.5 Salari di Efficienza Nelle tre sezioni precedenti abbiamo studiato tre peculiarità del mercato del lavoro e la conclusione è stata più o meno sempre la stessa, per avere lavoratori efficienti occorre pagarli bene. In effetti, gli economisti si riferiscono ai meccanismi che abbiamo descritto utilizzando il termine di salari di efficienza. Le imprese devono pagare salari elevati per rendere efficienti i loro dipendenti. Remunerare i lavoratori con salari elevati, tuttavia, genera disoccupazione, come si evince dal grafico seguente: In corrispondenza del salario di efficienza, il lavoro offerto è maggiore di quello domandato. Questo significa che non c’è un posto di lavoro per tutti. Alcuni lavoratori che vorrebbero lavorare al salario effettivamente pagato dalle imprese non riescono a trovare un datore disposto ad assumerli. Al lettore attento non dovrebbe sfuggire che, se le imprese pagano salari di efficienza, la legge della domanda e dell’offerta smette di funzionare. In base a questa ‘legge’, se c’è disoccupazione i salari si riducono e la disoccupazione viene riassorbita. Ma le peculiarità che operano dietro le quinte del grafico non consentono ai salari di ridursi. Una compagnia assicurativa non licenzia un avvocato ben pagato alle proprie dipendenze per assumerne uno disoccupato e pagarlo molto meno. Non lo fa perché sa che, pagandolo poco, l’avvocato neoassunto prima o poi si comporterà in modo opportunistico. Allo stesso modo, una qualsiasi impresa non sfrutta la presenza di una elevata disoccupazione per ‘minacciare’ i propri lavoratori ed indurli ad accettare salari bassi. Se lo facesse, causerebbe avversione psicologica e/o l’interruzione frequente dei rapporti di lavori. Come abbiamo visto, in entrambe le circostanze la produttività e l’efficienza ne risentirebbero in modo negativo. E al lettore attento non dovrebbe sfuggire nemmeno che il salario di efficienza non può essere mai inferiore al salario di equilibrio. Non è un caso, quindi, che nel grafico precedente il salario di efficienza è situato al di sopra di w*. La ragione è molto semplice, basta riflettere un secondo sull’esempio dell’avvocato alle dipendenze di una compagnia assicurativa. L’avvocato si comporta sempre bene anche se non viene monitorato in modo continuo per il semplice fatto che desidera conservare una rendita, un privilegio. Se la sua remunerazione fosse uguale o inferiore a quella di tutti gli altri allora non ci sarebbe nessuna rendita da conservare.