Patologia Clinica - Valutazione Funzione Emostatica PDF
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Summary
Lezione di patologia clinica, sulla valutazione della funzione emostatica, ripercorrendo i concetti di emostasi primaria e secondaria, e introducendo la valutazione dei tempi di coagulazione (PT e aPTT) come metodi diagnostici fondamentali. La lezione esplora i fattori coinvolti nelle vie intrinseca ed estrinseca della coagulazione, l'importanza del tempo di protrombina e del tempo di tromboplastina parziale attivata.
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Matilde Conti 17/10/2024 Giulia Franca Patologia clinica, lezione 4 Vanessa Frisoni...
Matilde Conti 17/10/2024 Giulia Franca Patologia clinica, lezione 4 Vanessa Frisoni Prof. Davide Trerè Giulia Kremser Il professore si scusa per non essere riuscito a tenere la sua ultima lezione per motivi personali e afferma che la recupererà lunedì 4 novembre dalle 9 alle 11, ha già prenotato l’aula. IL LABORATORIO NELLA VALUTAZIONE DELLA FUNZIONE EMOSTATICA – 2 Essendo un argomento spezzato in due lezioni il prof riprende la scorsa lezione per dare un po' di continuità. Abbiamo visto la differenza tra emostasi primaria (coinvolte le piastrine) ed emostasi secondaria (coinvolti i fattori della coagulazione). Nei casi in cui il paziente abbia un’emorragia non traumatica ma spontanea, o che ecceda rispetto al danno che l’ha provocata, dobbiamo indagare una possibile alterazione dell’emostasi: l’approccio più razionale è quello di indagare prima un’alterazione dell’emostasi primaria e poi un’alterazione dell’emostasi secondaria. Per indagare le alterazioni dell’emostasi primaria si fa la conta delle piastrine, si valuta il tempo di emorragia e il test di aggregazione piastrinica (che valuta sia l’aggregazione che l’adesione piastrinica). Esclusa un’alterazione dell’emostasi primaria ci concentriamo sull’emostasi secondaria. Questo è il ragionamento logico che vale la pena seguire quando ci troveremo ad affrontare problematiche di questo tipo. Domanda del Prof: ragionando con il buon senso, cosa chiedete al laboratorio nel caso in cui abbiate il sospetto di un’alterazione dell’emostasi secondaria? Risposta di uno studente: dosare i fattori della coagulazione. Il prof afferma che la risposta è la più ragionevole, così come per valutare un disordine dell’emostasi primaria si chiede al laboratorio una conta delle piastrine, per valutare un disordine dell’emostasi secondaria si potrebbe chiedere al laboratorio una conta dei fattori di coagulazione. Questa è però una cosa inattuabile perché i fattori di coagulazione sono 13 (in realtà 12 perché il sesto non c’è) e la frequenza con cui vengono richiesti questo tipo di esami è altissima. Tutti i pazienti che si devono sottoporre a interventi chirurgici devono fare questi esami il giorno prima e a questi si aggiungono tutti i pazienti con sospetti problemi dell’emostasi. Stiamo parlando di un numero di pazienti che non è compatibile economicamente con il dosaggio dei fattori della coagulazione. TEMPI DI COAGULAZIONE Abbiamo un’alternativa meno costosa, che è data da due indici di laboratorio: i tempi di coagulazione. Hanno due sigle importanti da ricordare: PT e aPTT. Questi sono esami estremamente diffusi, a prescindere dalla specializzazione che sceglieremo di intraprendere. 1. aPTT È l’acronico di tempo di tromboplastina parziale attivata. Questo tempo valuta l’efficacia della via intrinseca e della via comune della coagulazione dove sono coinvolti i fattori I, II, V, VIII, IX, X, XI, XII, HMWK, PK. Si parte da un campione di plasma-citrato, che vuol dire che il paziente ha fatto un prelievo del sangue ed è stato utilizzato come anticoagulante il citrato di sodio (tappo azzurro) perché non interferisce con gli esami di laboratorio che andiamo a fare sul plasma in questo contesto. A questo campione aggiungo: · fosfolipidi: sono sostituti piastrinici, perché non ci sono le piastrine nel plasma, e le piastrine sono fondamentali per garantire la cascata coagulativa · ioni calcio: perché il citrato ha eliminato il calcio, ha agito come anticoagulante inibendo l’azione degli ioni calcio (in questo modo il citrato blocca la cascata coagulativa) · agenti adiuvanti: facoltativi, per attivare la via intrinseca sarebbe sufficiente il contatto del plasma con la plastica della provetta, ma aggiungere queste sostanze velocizzanti serve a standardizzare la reazione. Il prof ripete il concetto: ho un campione di plasma con anticoagulante e aggiungo calcio per antagonizzare l’effetto dell’anticoagulante e sostituti piastrinici perché le piastrine nel plasma non ci sono. A questo punto si attiva la via intrinseca della cascata coagulativa e dopo un certo periodo di tempo sono visibili sul fondo della provetta aloni bianchi (coaguli di fibrina). Bisogna cronometrare quanto tempo impiega quel campione di sangue per avere l’aspetto con il coagulo di fibrina. Solitamente questo tempo va da 28 a 40 secondi. Non viene scritto così nel referto ma si trova come aPTT ratio (ratio vuol dire rapporto). Per standardizzare questa reazione, quindi renderla più equiparabile anche per laboratori diversi, si fa il rapporto tra il tempo di coagulazione del paziente e un pool di plasmi di controllo. Il valore di riferimento è 1: quando il tempo di coagulazione del paziente corrisponde al tempo di coagulazione di pazienti senza coagulopatie il rapporto è 1. 2. PT Valuta la via estrinseca e la via comune della coagulazione. Si parte sempre da plasma citrato e a questo punto si aggiunge: · Tromboplastina: agisce sulla via estrinseca attivando il fattore VII. Non devo aggiungere sostituti piastrinici perché la tromboplastina ha già fosfolipidi. · Ioni calcio: per lo stesso discorso dell’aPTT Il tempo di coagulazione è ridotto perché ci sono meno fattori coinvolti e va da 11 a 13 secondi, ancora una volta espresso in PT ratio, cioè rapporto tra il tempo di coagulazione del paziente e quello di un pool di controllo senza coagulopatie. Il prof afferma di aver schematizzato nella seguente diapositiva tutti i concetti che verranno affrontati successivamente in questa lezione. La via intrinseca è quella cerchiata in rosso, la via estrinseca in verde. Questi esami si valutano assieme, si integrano e abbiamo 4 possibilità: entrambi i tempi normali, entrambi allungati o solo uno allungato. 1. Entrambi i tempi normali Ci sono tutti i fattori della coagulazione, non ne manca nessuno, non serve dosarli. 2. Solo aPTT allungato e PT normale Domanda del prof: che considerazioni vi sentite di fare? Risposta corretta: gli imputati sono i fattori coinvolti SOLO nella via intrinseca, quindi XII + XI + IX +VIII. Il XII è importante, ma non in vivo (ci spiegherà poi perché), quindi possiamo escluderlo dal ragionamento. Una carenza, un deficit congenito del fattore XI, esiste ma è rarissima, presumibilmente non ci capiterà mai di vederla. Ci concentriamo sul fattore VIII e IX. La carenza di fattore VIII e IX portano a un quadro di emofilia. Senza dosare alcun fattore di coagulazione siamo già indirizzati verso il quadro patologico di emofilia. Emofilia L’emofilia è la malattia emorragica più conosciuta, perché è quella che ha maggiori casi gravi (la più frequente è la malattia di Von Willembrand). È trasmessa attraverso il cromosoma X, si parla di eredità diaginica. Primo caso (sinistra): il padre è sano e la madre è portatrice, il 50% dei figli maschi saranno malati e il 50% delle figlie femmine saranno portatrici. Secondo caso (centro): il padre è malato e la madre è portatrice, il 100% delle figlie femmine saranno portatrici e il 100% dei figli maschi saranno sani. Il prof lo definisce un “paradosso” perché il maschio malato avrà tutti i figli maschi sani e la madre sana avrà tutte le figlie femmine portatrici. Terzo caso (destra): il padre è malato e la mamma è portatrice, il 50% dei figli maschi saranno malati e il 50% delle figlie femmine saranno malate (unica possibilità di avere una femmina emofilica) e la restante parte delle femmine saranno portatrici. L’emofilia è una malattia emorragica congenita (che studieremo meglio in ematologia). Una delle manifestazioni cliniche più precoci e caratteristiche è l’emartro, cioè un versamento ematico nelle articolazioni, soprattutto quelle sottoposte a carico come ginocchia, gomiti, spalle e anche. Oltre all’emartro ci sono una serie di altre manifestazioni emorragiche trattate la volta scorsa (dalla slide: ematomi intramuscolari frequenti, epistassi, ematuria, emorragie del cavo orale, ecchimosi). Va prestata particolare attenzione ai traumi cranici, l’emorragia cerebrale è la causa più frequente di morte per i pazienti emofilici. Anche un banalissimo trauma deve essere gestito per questi pazienti con particolare attenzione. A questo punto dobbiamo distinguere emofilia A (manca il fattore VIII) ed emofilia B (manca il fattore IX). Il seguente pezzo non è chiaro dalla registrazione, riporto per completezza parte della sbobina dello scorso anno. [È importante e da un punto di vista medico-legale riconoscere emofilia A e B ed è quindi necessario procedere al dosaggio: si dosa la concentrazione del fattore VIII (emofilia A) e del fattore IX (emofilia B). C'è un'alternativa che ci consente di arrivare alla diagnosi di emofilia senza dosare nessun fattore di coagulazione. Abbiamo un paziente con emofilia A e un paziente con emofilia B, entrambi con aPTT allungato, come faccio a capire se manca il fattore VIII o il fattore IX? Aggiungo ad entrambe le provette il plasma di un paziente che ha un'emofilia A. A quel punto se il paziente ha un'emofilia A l'aPTT rimarrà allungato, se invece ha un'emofilia B l'aPTT diventa normale. Quindi ho la possibilità di arrivare alla diagnosi (da un punto di vista medico-legale vanno comunque dosati i fattori di coagulazione).] Fine integrazione. 3. Solo PT allungato e aPPT normale Può essere solo un deficit del fattore VII, abbiamo fatto un’altra diagnosi senza dosare nessun fattore. Il deficit del fattore VII è molto raro, ma il caso con solo PT è allungato è abbastanza frequente (verrà spiegato successivamente il perché). Excursus sulla denominazione dei tempi di coagulazione: i più attenti di voi avranno notato che l’aPTT si chiama tempo di tromboplastina parziale attivata, ma la tromboplastina è utilizzata nel PT. In realtà questo è stato un errore, ma come avviene nella maggior parte delle volte in medicina gli errori non vengono corretti, cioè se si denomina qualcosa in maniera sbagliata, questa cosa diventa talmente radicata (nei libri, a lezione) che poi non si cambia più. Langdell, Wagner e Brinkhous sono i tre ricercatori che per primi sfruttarono questo esame di laboratorio (aPTT). Usarono la tromboplastina per diagnosticare le emofilie. Domanda del prof: se aggiungo tromboplastina al plasma di un paziente emofilico, secondo voi il tempo di coagulazione si allunga? La risposta corretta è no. I tre ricercatori aggiunsero prima tromboplastina normale e non avvenne nulla, poi tromboplastina parziale (purificata, denaturata) e osservarono che i tempi di coagulazione si allungavano, perché la tromboplastina parziale è priva del fattore tessutale, quindi è di fatto formata solo da fosfolipidi (quindi non mettevano praticamente nulla se non sostituti piastrinici, come si fa nell’aPTT). Però avevano chiamato questo tempo come tempo di tromboplastina parziale attivata e ha continuato a chiamarsi così. La piccola rivincita che ci possiamo prendere nei confronti di questi colleghi, che ci hanno oggettivamente creato confusione, deriva dal fatto che abbiano fatto questa scoperta nel 1953. Nel 1953, sfortunatamente per loro, Watson e Crick hanno pubblicato i loro studio sulla struttura del DNA e Krebs vinse il premio Nobel per la medicina per la scoperta del ciclo dell’acido citrico, quindi non ci fu nessuna commemorazione per loro. Tutto questo solo per dire che questa denominazione è confondente. 4. Entrambi i tempi allungati (La cascata coagulativa va memorizzata), i fattori alterati saranno quelli della via comune, ovvero II, V, X, XIII, ancora una volta non riconosciamo le patologie, riconoscevamo l’emofilia perché è abbastanza frequente. Dal momento che i fattori della coagulazione sono prodotti dal fegato, l’insufficienza epatica è la causa più importante di questa condizione, infatti i tempi di coagulazione sono anche indici di funzionalità epatica. Il fegato produce le proteine circolanti e, tra queste, ci sono appunto i fattori della coagulazione, quindi nell’insufficienza epatica si riduce la capacità sintetica, che si traduce anche, oltre a manifestazioni cliniche, in un allungamento di PT e aPTT. L’insufficienza epatica è molto più frequente della carenza dei fattori. Un’altra causa, ancora più frequente, è la carenza di vitamina K (ricorda che ci sono 4 fattori vitamina K dipendenti, uno nella via intrinseca, uno nella via estrinseca, due nella via comune), quindi una carenza si traduce in inefficienza di questi 4 fattori. Non si sta dosando nessun fattore della coagulazione, infatti questi tempi sono così importanti perché consentono di valutare la cascata coagulativa di patologie complesse, riducendo al massimo l’impatto economico che deriverebbe dal dover dosare tutti i fattori della coagulazione. Il problema è che misurare i tempi della coagulazione necessita di un ragionamento approfondito. Un paziente con insufficienza epatica o carenza di vitamina K, allunga prima PT rispetto ad aPTT. Il fattore della coagulazione che ha minore emivita è il VII, emivita molto più bassa rispetto agli altri; ecco perché nell’insorgenza dell’insufficienza epatica, o di deficit di vitamina K, si allunga prima PT. Per questo motivo una situazione con PT allungato e aPTT normale è più frequente rispetto al solo deficit del fattore VII, perché le condizioni più frequenti sono l’insufficienza epatica e la carenza di vitamina K. [Da sbobina dell’anno scorso: ecco perché l’allungamento dell’aPTT o di PT è frequente, perché è indice di un’epatopatia nelle fasi iniziali, di una carenza di vitamina K iniziale, molto raramente invece è attribuibile ad un deficit congenito del fattore VII]. Il PT nel monitoraggio dei pazienti in terapia con anticoagulanti orali Un gruppo consistente di pazienti hanno condizioni che li predispongono a trombosi, e questi vengono trattati preventivamente con farmaci anticoagulanti: siccome hanno un rischio di attivare la coagulazione, noi li scoaguliamo, ovvero rallentiamo la cascata coagulativa. I farmaci anticoagulanti sono i dicumarolici (come il Coumadin) e sono inibitori della vitamina K: agiscono sui 4 fattori vitamina K- dipendenti, in particolare i target sono il fattore II, VII, IX, X, rallentano così la cascata coagulativa. Il problema di questa terapia è che non può esser somministrata la stessa dose a tutti i pazienti, perché ad esempio la vitamina K viene assunta tramite gli alimenti e ognuno di noi presenta alimentazione differente, non soltanto da individuo a individuo ma anche nello stesso individuo da giorno a giorno, mese a mese; la dose va quindi calibrata in base all’effetto che ha sulla cascata della coagulazione, i tempi di coagulazione diventano l’indicatore dell’efficacia della terapia. Per capire, un esempio più intuitivo è quello dei pazienti diabetici: non assumono tutti la stessa dose di insulina, ma varia in base alla glicemia. Il contesto è però, rispetto al diabete, più impegnativo da gestire; infatti, mentre la glicemia può essere misurata in autonomia, in questo caso è necessario un medico che definisca le variazioni della terapia in funzione dei tempi della coagulazione. Se tratto un paziente con anticoagulante, inizialmente si allunga soltanto PT, successivamente anche aPTT; ecco perché il PT viene utilizzato per monitorare gli effetti della terapia di questi pazienti. Mentre un paziente che necessita di terapia insulinica basta che si punga il dito 2-3 volte al giorno per verificare la sua glicemia, questi pazienti devono recarsi con una certa frequenza a fare un prelievo. È fondamentale che i diversi laboratori diano lo stesso risultato (dal momento questi pazienti hanno ovviamente il diritto di spostarsi per vacanza/lavoro); se viene prescritto Coumadin a dosaggio troppo elevato, c’è rischio di produrre un’emorragia (viene causata un’emorragia in un soggetto che non presenta nessuna patologia); viceversa, se ne prescrivo meno, non si ottiene l’effetto desiderato. È una situazione che presenta un equilibrio molto delicato. Per garantire omogeneità dei dati di laboratorio tra i diversi laboratori, è stato istituito il sistema INR (International Normalised Ratio). È una formula matematica molto semplice, che consente di confrontare i PT eseguiti in diversi laboratori. Corrisponde a PT paziente/PT di controllo, elevato ad un indice ISI, che rappresenta la potenza di tromboplastina che viene usata in laboratorio. Il problema della standardizzazione di questo test è che la tromboplastina che viene utilizzata per attivare la reazione viene comprata, ma diverse ditte hanno diversi tipi di tromboplastine che possono attivare in maniera diversa la cascata coagulativa. L’indice ISI è l’indice della potenza della tromboplastina, quindi normalizzando PT ratio per questa variabile si riesce a garantire un’assoluta comparabilità degli esami di laboratorio ottenuti in diversi laboratori. PT ratio è l’Attività Protrombinica (sono due diciture per indicare la stessa cosa, in alcuni laboratori ne troveremo una in altri l’altra). Ratio= 1.06, INR= 1.06, quindi ISI corrisponde a 1. aPTT lo troviamo semplicemente come aPTT ratio. Quando vengono richiesti i tempi di coagulazione troviamo PT ratio, INR e aPTT ratio. Nell’immagine vi sono i valori di INR raccomandabili per la profilassi delle diverse condizioni elencate (non è da ricordare); ad esempio nella profilassi del tromboembolismo venoso il range è tra 1.5 e 2.5, il valore ottimale è 2; nella protesi valvolare meccanica è invece di 3. Vi è quindi una certa variabilità. Facendo una media dei valori precedenti, l’INR deve essere compreso tra 2 e 4, se è sotto 2 significa che la terapia è sotto-dosata, va quindi aumentata; viceversa, se il valore supera i 4, si crea nel paziente la condizione per sviluppare un’emorragia. Sono quindi esami importanti. Andando più nella pratica, nell’immagine è rappresentato il referto di un paziente con valvuloplastica mitralica, che lo mette a rischio di potenziali eventi trombotici: questi pazienti, dopo aver fatto l’intervento chirurgico, per tutta la vita o comunque per un periodo ben definito dal cardiologo, saranno sottoposti a questi esami ogni 10 giorni. - 9/12 (immagine a dx): INR di 2.47, quindi il medico farà continuare con la terapia della settimana precedente, ovvero Coumadin da 5mg, per un totale di 31.25mg: una un giorno, ¾ il giorno dopo, 1 il terzo giorno, e per continuare ¾, 1, ¾, 1. - 19/12 (immagine a sx): dopo 10 giorni l’INR è di 1.78, quindi fuori dal range (che è tra 2 e 3), viene quindi aumentata la dose a 33.75mg, ovvero una per sei giorni, ¾ l’ultimo. - 28/12 (immagine a dx): il paziente è rientrato nel range (2.21), continuerà quindi con le stesse dosi. Non è detto che questi controlli e terapia vadano eseguiti per tutta la vita, dipende dalle condizioni patologiche. Oggi, per quanto riguarda la valvuloplastica mitrale si esegue solo nelle fasi iniziali, in altre patologie invece per tutta la vita, in altre ancora per periodi molto estesi. Va sottolineata ancora l’importanza dell’INR, tutto questo è basato su questo esame di laboratorio. Questa parte patologia clinica presuppone anche il ragionamento. Negli ultimi anni sono stati messi a punto dei farmaci diversi, che hanno la stessa funzionalità del Coumadin, ma sono diversi come meccanismo d’azione. La terapia classica con Coumadin viene chiamata TAO (terapia anticoagulante orale), mentre i nuovi farmaci sono stati prima denominati NAO (nuovi anticoagulanti orali), oggi vengono invece definiti DOAC (anticoagulanti orali ad azione diretta), che agiscono su un solo fattore della coagulazione (o il II o il X) attivato, lo inibiscono, quindi non dipendono dalla vitamina K (e quindi dall’alimentazione). Questi farmaci stanno entrando a parziale sostituzione di cura: in alcune patologie il Coumadin può essere sostituito, in altre continua invece ad essere più efficace; siamo in una fase di sperimentazione in cui alcune patologie vengono trattate con questi farmaci, altre no (l’efficacia della nuova terapia deve essere almeno equivalente a quella con Coumadin). La terapia con DOAC non presuppone nessun monitoraggio di laboratorio e viene prescritta la stessa dose ad ogni paziente, come ad esempio si fa con l’aspirina. Occorre però verificare che l’efficacia di questi nuovi farmaci sia perlomeno equivalente a quella del farmaco che è stato sostituito. Il Warfarin (Coumadin) agisca su II, VII, IX e X. L’eparina, che è un anticoagulante, agisce sul fattore II, sul fattore X attivato e sull’innesco della via intrinseca. Questi nuovi DOAC che agiscono sul fattore II e sul fattore X attivati. EMOSTASI FISIOLOGICA Adesso ci soffermiamo su una incongruenza (i due punti interrogativi nella slide), un passaggio delicato che il professore ci tiene a sottolineare. Il fattore XII, in vivo, non serve per attivare la cascata coagulativa, quindi potremmo concludere che, visto che il fattore XII è quello che innesca la via intrinseca, in vivo la via intrinseca non serve. Ma se la via intrinseca non avesse un’importanza in vivo non avremmo i pazienti emofiliaci (se ad esempio manca il fattore VIII il paziente muore). Questa considerazione ha portato alla definizione di un altro modello di cascata coagulativa, che non è quello presente nei testi ma è quello a cui fare riferimento (slide nlla pagina successiva). Noi vediamo come questo modello sia assolutamente corretto in vitro, in vitro (provetta) vediamo realizzare questa cascata (il prof intende quella vista fino a ora, nella slide sopra). In vivo, però, probabilmente, il contatto del sangue circolante con il fattore tissutale attiva solo la via estrinseca. Quindi il fattore tissutale si attiva e attiva il fattore VII che poi a sua volta attiva il fattore X, quindi in presenza di fattore V il fattore X attiva il fattore II che attiva il fattore I. Quindi solo la via estrinseca. Ma recentemente è stato dimostrato che la trombina sia in grado di andare ad attivare il fattore XI, che attiva il fattore IX, che attiva il fattore X. Non solo, la trombina attiva anche i fattori VIII e V. Il concetto è quindi che la via estrinseca attiva la cascata coagulativa, mentre la via intrinseca è attivata e potenziata dalla trombina senza il coinvolgimento del fattore XII. Tutto questo è per chi di noi ristudiando gli appunti identifichi questa potenziale contraddizione. Quindi in vivo probabilmente funziona così: il fattore XII è presente ma non ha impatto nell’attivazione e nel potenziamento della cascata coagulativa, è però molto importante per attivare fibrinolisi. Il fattore XII si chiama fattore di Hageman. Hageman in questo caso è il nome di un paziente, un ferroviere inglese che morì per trombosi, non presentando il fattore XII. Quindi, il fattore XII non impatta sulla cascata coagulativa (dalla sbobina dello scorso anno: sennò sarebbe morto per emorragia), ma è un attivatore della fibrinolisi, ecco perché il signor Hangeman è morto di trombosi, aveva un deficit non nella coagulazione, ma nella fibrinolisi. Alla scorsa lezione vi ho detto che emorragia e trombosi sono le due condizioni estreme di una grave alterazione dell’emostasi (emostasi sta per “interruzione delle emorragie”). Parte incomprensibile nella registrazione da 49.33 a 49.43. Quelle di cui abbiamo parlato sono tutte emorragie, non perché le emorragie siano più importanti delle trombosi, ma perché abbiamo più strumenti diagnostici. Mentre la cascata coagulativa la conosciamo bene, la possiamo indagare, possiamo guardare il singolo fattore, per quanto riguarda invece un paziente con trombosi non siamo sempre in grado di capire bene tutti i meccanismi. TROMBOFILIA Alla scorsa lezione vi ho detto che emorragia e trombosi sono le due condizioni estreme di una grave alterazione dell’emostasi (emostasi sta per “interruzione delle emorragie”). Parte incomprensibile nella registrazione da 49.33 a 49.43. Quelle di cui abbiamo parlato sono tutte emorragie, non perché le emorragie siano più importanti delle trombosi, ma perché abbiamo più strumenti diagnostici. Mentre la cascata coagulativa la conosciamo bene, la possiamo indagare, possiamo guardare il singolo fattore, per quanto riguarda invece un paziente con trombosi non siamo sempre in grado di capire bene tutti i meccanismi. La trombofilia è un termine che si utilizza per definire una inusuale predisposizione al tromboembolismo artero-venoso. Cioè un paziente che presenta trombofilia è un paziente, solitamente giovane, ha episodi ricorrenti di trombosi. Il termine trombofilia nasce nel 1965: l’emofilia è una tendenza a dare emorragia, la trombofilia è una tendenza a dare la trombosi. Ma se trombofilia etimologicamente ha un senso (è “trombo-filos” = tendenza ai trombi), il termine emofilia invece etimologicamente vuol dire “tendenza al sangue”, ma questo non coincide con ciò che descrive. In realtà questo termine deriva dalla contrazione del termine originale “haemorrhafilia”, che vuol dire, appunto, “tendenza all’emorragia” ed è stato coniato da uno studente di medicina. Un paziente con trombofilia viene indagato essenzialmente con alcune indagini di laboratorio (riportate nella slide a sx). Il primo paziente studiato malato di trombofilia presentava un deficit di antitrombina III. Nella lezione precedente abbiamo visto gli inibitori naturali della cascata coagulativa, in particolare: - l’antitrombina III va ad inibire la trombina e il fattore X - la proteina C attivata e la proteina S inibiscono il fattore V e il fattore VIII. Deficit congeniti di una di queste proteine portano a una eccessiva attivazione della cascata coagulativa, perché manca un freno, e per questo motivo questi pazienti sono a rischio di trombosi. Gli inibitori sono 3 (quelli elencati sopra), e sono tratti autosomici dominanti a penetrazione variabile. Lo stato di omozigosi è incompatibile con la vita, lo stato di eterozigosi determina invece un rischio di 5 volte (deficit antitrombina III), 6 volte (deficit della proteina S), e 7 (deficit proteina C) volte, superiore a quello della popolazione. MUTAZIONE DI LEIDEN Se consideriamo un paziente che presenta una mutazione in un gene che codifica per un fattore della coagulazione, la manifestazione clinica che ci aspettiamo è una emorragia. Ma se consideriamo una mutazione del gene che codifica per il fattore V, vedremo che avremo trombosi, cosa che sembra un paradosso. La spiegazione è stata trovata nel 1994 nella città Olandese di Leiden, motivo per cui la mutazione si chiama mutazione di Leiden. La mutazione di Leiden è una mutazione puntiforme di un solo amminoacido (arginina diventa glutammina) in posizione 506, questa però è la posizione in cui il fattore V viene inibito dalla proteina C. La proteina C inibisce il fattore V solo su questa parte, se mutata questa parte il fattore V non può più essere inibito, continua a funzionare ma non può essere inibito. Ecco perchè questa mutazione è causa di trombosi, ciò può sembrare paradossale ma può essere spiegato dai meccanismi con cui le proteine C ed S inibiscono i fattori. La mutazione di Leiden è molto frequente, oggi si ritiene che sia presente in eterozigosi nel 5-6% della popolazione caucasica. La caratteristica è che sia molto più diffusa nei paesi del nord Europa rispetto a quelli del Sud Europa. Anche in Italia abbiamo il nostro gradiente geografico: un paziente dell’Italia settentrionale ha un’incidenza poco superiore ad uno dell’Italia meridionale. Questa è possibile trovarla anche in omozigosi, dove in questo caso il rischio di trombosi è dell’80% aumentato. MUTAZIONE DEL GENE DELLA PROTROMBINA C’è una situazione analoga anche per un’altra mutazione, ovvero quella della protrombina (fattore II). Questa è una mutazione puntiforme nella posizione 20210 dove la guanina si trova al posto dell’adenina, ma nella regione non codificante, nel promotore. Quindi non c’è una sostituzione di amminoacidi nella proteina, c’è un alterato controllo della trascrizione che va a determinare una trascrizione di mRNA più stabile, più efficiente, quindi una maggiore produzione di protrombina, che va a determinare una maggiore presenza di trombina (aumentata fino al 30%), e di conseguenza va a favorire uno stato di trombosi. IPEROMOCISTINEMIA L’altra condizione che vale la pena considerare è l’iperomocistemia. L’omocisteina è un amminoacido che deriva della demetilazione della metionina. L’omocisteina, dopo la trasformazione tramite enzimi e coenzimi (non da sapere), ha vari risvolti metabolici. Il punto su cui focalizzarsi è che se mancano o un cofattore (più frequentemente) o uno degli enzimi, la omocisteina non viene trasformata e si va ad accumulare a livello periferico, andando a creare lo stato di iperomocistinemia. Poi ci sono anche altre condizioni, come un’insufficienza renale, con riduzione della clearance della omocisteina, età avanzata, sesso maschile, stili di vita non sani. L’iperomocistinemia è una condizione potenzialmente molto grave perché favorisce: 1. Aterosclerosi 2. Trombosi venosa Queste due condizioni nello stesso paziente diventano pericolosissime. Le condizioni per le quali l’iperomocistinemia favorisce l’aterosclerosi sono parzialmente state identificate: essenzialmente tende ad aumentare lo stress ossidativo e a favorire quella flogosi che sta alla base dell’insorgenza dell’aterosclerosi. Invece per quanto riguarda la correlazione con la trombosi venosa, sicuramente favorisce la liberazione del fattore tissutale da parte dei monociti e induce la riduzione dell’espressione della trombomodulina, che va ad attivare la proteina C che inibisce la cascata coagulativa. Quindi, al di là dei meccanismi, è importante ricordare che una condizione di iperomocistinemia va a determinare un aumentato rischio di aterosclerosi e di trombosi venosa. Parte incomprensibile nella registrazione da 1.01.27 a 1.01.32. SINDROME DA ANTICORPI ANTI-FOSFOLIPIDI È una malattia autoimmune in cui si producono anticorpi non propriamente contro i fosfolipidi, come si pensava inizialmente, ma contro le proteine che legano i fosfolipidi. Gli anticorpi interferiscono con la cascata coagulativa e si crea una situazione che pare paradossale: mentre in vitro (in provetta) si ha un allungamento dei tempi di coagulazione, in particolar modo dell’aPTT, in vivo si ha una manifestazione di trombosi; questo perché in vitro e in vivo accadono cose diverse e non si riesce a riprodurre in vitro ciò che accade in vivo: in vitro gli anticorpi rallentano la cascata coagulativa, mentre in vivo favoriscono la coagulazione. La sindrome è caratterizzata da eventi trombotici, aborti ricorrenti e piastrinopenia. Da un punto di vista diagnostico questa sindrome si identifica dosando 3 marker diagnostici, cioè 3 anticorpi: l’anticoagulante lupico (LAC), gli anticorpi anti-cardiolipina (aCL) e gli anticorpi anti-beta2- glicoproteina-1 (beta2-GP1). La sindrome può essere primitiva o, più frequentemente, secondaria, infatti può essere associata a lupus eritematoso sistemico. Queste solo le 5 condizioni di trombofilia per le quali riusciamo a definire una diagnosi di laboratorio, purtroppo ne esistono altre per cui si ha trombofilia ma non riusciamo ad identificarle; siamo molto completi nelle diagnosi di emorragia mentre lo siamo meno nelle diagnosi delle trombofilie. A questo punto il prof invita gli studenti a vedere il film “La Favorita”, film in cui Anna Stuart aveva la sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi, aveva infatti avuto 17 gravidanze e 15 aborti. Ovviamente all’epoca la sindrome non si conosceva ma oggi possiamo ipotizzare che essa ne soffrisse. Nella fase finale della coagulazione la trombina attiva il fibrinogeno, il quale è formato da monomeri che da soli non si uniscono perché ancora non hanno rilasciato i fibrinopeptidi. Quando arriva la trombina, attiva il fibrinogeno in monomeri di fibrina, staccando i fibrinopeptidi A (indicati in rosso) e B (indicati in verde); a questo punto i monomeri polimerizzano e si forma il polimero di fibrina che viene stabilizzato dal fattore XIIIa. Alla fine del processo la plasmina disgrega il coagulo e, dalla fibrinolisi, si formano FDP (dalla slide: derivano dall’azione della plasmina indistintamente sul fibrinogeno, sul monomero di fibrina e sul polimero di fibrina instabile), acronimo che sta per prodotto della degradazione della fibrina e del fibrinogeno, e il D- dimero (dalla slide: è un prodotto specifico della degradazione operata dalla plasmina sulla fibrina stabilizzata). I fibrinopeptidi A e B sono importanti a livello di laboratorio, se nel sangue periferico trovo molti fibrinopeptidi A e B significa che c’è molta attività coagulativa, dal momento che dipendono dall’azione della trombina sul fibrinogeno. Se invece trovo molto FDP e D-dimero, significa che c’è molta fibrinolisi e, se c’è molta fibrinolisi, prima c’è sicuramente stata molta coagulazione. Queste sono quindi due espressioni di un’intensa attività coagulativa a livello sistemico e diventano importanti nella diagnosi della CID. CID È l’acronimo di Coagulazione Intravasale Disseminata, condizione in cui trombosi ed emorragia si manifestano contemporaneamente nello stesso paziente, dal momento che le alterazioni delle emorragie e della trombosi coesistono. Questa condizione è difficilissima da diagnosticare e anche difficile da trattare, è associata ad elevata mortalità. La CID parte da un’attivazione sistemica della cascata coagulativa che, in questi pazienti, non viene attivata a seguito di un danno endoteliale, ma viene attivata a livello sistemico, ovvero contemporaneamente in diversi distretti dell’organismo. Le cause principali che portano a questa condizione sono: 1. Danno tissutale massivo: se si ha un danno tissutale diffuso, come fenomeni ischemici in diversi organi, si libera molta tromboplastina che provoca una diffusa attivazione del sistema estrinseco della cascata coagulativa. 2. Danno endoteliale esteso: danno che avviene diffusamente in tutto il distretto cardiocircolatorio e che attiva il sistema intrinseco della coagulazione. Il prof si è concentrato solo sui primi due punti delle condizioni che possono scatenare una CID, in quanto sono le più frequenti. Le manifestazioni cliniche saranno: trombi intravascolari, occlusioni vascolari, danni ischemici e infarti. Attivando così diffusamente la cascata coagulativa si vanno a consumare tutti i fattori della coagulazione contemporaneamente, si avrà quindi emorragia. L’emorragia è favorita sia perché vengono consumati i fattori della coagulazione, sia perché la plasmina, che si attiva per favorire la fibrinolisi, agisce sulla fibrina, sul fibrinogeno e sugli altri fattori della coagulazione, dando fibrinolisi e proteolisi dei fattori; il paziente non avrà dunque più fattori circolanti e il fegato ci metterà giorni/ore a ripristinarli. La patologia si innesca quindi come un evento trombotico, per poi arrivare ad una fase emorragica. [Dalla sbobina dell’anno scorso: E un meccanismo complesso che determina, da un punto di vista teorico, prima la trombosi e poi l’emorragia, ma i due fenomeni possono spesso coesistere e possono mettere in difficoltà il clinico nella diagnosi, ma soprattutto nella terapia contemporanea, poiché se si cura una si favorisce l’altra, quindi l’approccio terapeutico è estremamente complesso.]. Le cause della CID da liberazione di fattore tessutale (attivazione della via estrinseca): · Incidenti ostetrici: è la causa più frequente di tutte (30% dei casi totali), l’ostetrico è il collega che più di ogni altro conosce a fondo la CID. · Neoplasie: possono mandare in circolo sostanze come la tromboplastina e possono attivare in diversi punti la cascata coagulativa. · Danno tessutale esteso · Sepsi da batteri gram-negativi: l’endotossina induce la liberazione da parte dei monociti del fattore tissutale. Le cause della CID da danni estesi endoteliali (attivazione delle piastrine e della via intrinseca): · Immunocomplessi circolanti: aderiscono all’endotelio e circolano in tutti i distretti. · Infezioni batteriche: causano endotelite diffusa che attiva la coagulazione. · Colpo di calore, ustioni · Shock · Vasculite, anossia, acidosi: tutte condizioni che causano la sofferenza delle cellule endoteliali. La CID può essere causata anche dal veleno della vipera di Russel, che attiva direttamente il fattore X, mentre altri veleni attivano il fattore II e, se non trattati, sopraggiunge la morte per CID. Anche nei casi di pancreatite acuta la tripsina in circolo può attivare direttamente i fattori X e II. Le forme cliniche della CID: · Forme acute: prevalgono le forme emorragiche. · Forme subacute: caratterizzate da sintomi ischemici. · Forme croniche: forme asintomatiche dove solo il laboratorio può rilevare un’alterazione della coagulazione e quindi prevedere l’evoluzione in forme acute e subacute. Diagnosi di laboratorio della CID: Il laboratorio può, in primis, inquadrare una condizione asintomatica e poi, dato un quadro clinico, verificare se in quel momento è prevalente la fase trombotica o quella emorragica. Gli indici del sistema della coagulazione e del sistema fibrinolitico, che suggeriscono molti eventi coagulativi, sono: aumento dei fibrinopeptidi A e B, aumento degli FDP e del D-dimero, diminuzione dell’antitrombina III. Sono valori che indicano che in quel momento si ha coagulazione diffusa; il D-dimero è il parametro con più elevato valore predittivo negativo, ovvero se è alto questo valore, non può non essere CID. Quando si ha la fase emorragica si registra: diminuzione dei fattori della coagulazione, diminuzione di fibrinogeno (ipofibrinogemia), allungamento di PT e aPTT, piastrinopenia. Il laboratorio serve quindi soprattutto per caratterizzare la fase, e indirizzare il clinico verso la terapia migliore; i dati di laboratorio vanno però contestualizzati allo stato del paziente, in quanto la situazione può cambiare repentinamente. Riassumendo i parametri di laboratorio nei principali disordini dell’emostasi: EMOSTASI PRIMARIA Trombocitopenie: il numero di piastrine è basso e il tempo di sanguinamento allungato, mentre PT e aPTT sono normali. Trombocitopatie: - Bernard-Soulier: il numero di piastrine è basso ma è un’eccezione, il tempo di sanguinamento allungato e PT e aPTT sono normali. - Von Willebrand: il numero delle piastrine è normale, il tempo di sanguinamento allungato, il PT normale e l’aPTT allungato, dal momento che è un fattore che protegge il fattore VIII, si avrà dunque anche un deficit funzionale del fattore VIII. - Glanzmann: il numero di piastrine è normale, il tempo di sanguinamento allungato, il PT e l’aPTT normali. EMOSTASI SECONDARIA: Ereditarie: -Emofilia A e B: il numero di piastrine è normale, il tempo di sanguinamento e il PT sono normali, aPTT è allungato. Acquisite: - Deficit epatico: il numero di piastrine e il tempo di sanguinamento sono normali e saranno allungati il PT e l’aPTT. - Deficit vitamina K: stessi valori del deficit epatico. - CID: la sua caratteristica è che tutti gli indici di laboratorio sono alterati, il numero delle piastrine è basso, il tempo di coagulazione sarebbe variabile, ma solitamente in presenza di CID si preferisce indagare altri parametri, infine PT e aPTT sono allungati.