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Medieval History Papal History European History

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This document discusses the Avignon Papacy, also known as the Babylonian Captivity of the papacy. It details the move of the papacy from Rome to Avignon in France, and the period of French influence. It also explores the political and social contexts. Specific keywords include Medieval History, Papal History, European History

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Cattività avignonese II Papato ad Avignone e il potenziamento della Curia. Poco dopo la morte di Bonifacio VIII, Filippo il Bello riuscì a ottenere l'elezione a papa del vescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, che prese il nome di papa Clemente V. Nel 1309, cedendo alle insistenze del re, Clemente...

Cattività avignonese II Papato ad Avignone e il potenziamento della Curia. Poco dopo la morte di Bonifacio VIII, Filippo il Bello riuscì a ottenere l'elezione a papa del vescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, che prese il nome di papa Clemente V. Nel 1309, cedendo alle insistenze del re, Clemente V trasferì la sede del Papato in Francia, ad Avignone, dove la Curia rimase fino al 1377. Questo periodo fu chiamato in Italia "cattività avignonese" (cioè prigionia ad Avignone) per richiamare l'esilio degli Ebrei a Babilonia, ma non fu affatto un periodo negativo per il Papato. Infatti, nonostante il governo papale subisse pesanti condizionamenti da parte della monarchia francese (i sette papi che si succedettero in questo periodo furono tutti francesi, e così anche 112 cardinali su 134 da loro nominati), durante la permanenza ad Avignone continuò il processo di potenziamento amministrativo della Curia pontificia. Venne definendosi una Curia organizzata in cinque grandi uffici: la Cancelleria apostolica, che gestiva il patrimonio ecclesiastico e assegnava i benefici; la Camera apostolica, che gestiva le finanze e organizzava la corrispondenza; la Dataria, che esaminava le suppliche e le concessioni di grazia; la Sacra penitenziera, ovvero il tribunale religioso; e infine la Sacra rota, cioè il tribunale civile. Quando il papa tornò a Roma, il successo dello Stato pontificio moderno si fondò anche su questa organizzazione amministrativa assunta dalla Curia nel periodo avignonese. La città di Avignone trasse molto profitto da questa situazione; vi fu costruito un magnifico palazzo papale, splendido per l'architettura in stile gotico e per gli affreschi realizzati da grandi pittori come il senese Simone Martini. Tuttavia, le ingenti spese per potenziare la Curia e mantenere il tenore di vita lussuoso spinsero il papa a dipendere sempre più dai prestiti finanziari: a partire da Bonifacio VIII, il pontefice volle presentarsi sempre più come il rappresentante di un grande potere pubblico, ricco e sfarzoso, in tutto simile a un monarca laico. Per questo continuo bisogno di denaro, si diffusero presso la Curia pratiche spirituali che potevano facilmente nascondere finalità economiche, come la vendita delle indulgenze. Si levarono così ben presto nuove voci di protesta tra i fedeli. Da un lato, grandi intellettuali come Dante, Petrarca e Caterina da Siena chiesero con insistenza il ritorno del Papato a Roma, ritenuta dai pensatori italiani la sua unica sede possibile. Dall'altro, guadagnarono sempre più terreno movimenti pauperistici locali, che assunsero con il tempo una dimensione di tipo nazionale. In Inghilterra, il teologo John Wyclif (ca 1330-1384) propugnò un ritorno allo spirito del Vangelo, criticando non solo la ricchezza generale della Chiesa, ma anche la sua stessa organizzazione gerarchica, in quanto riteneva che ogni fedele dovesse obbedire solo alla parola di Dio. Sebbene dichiarate eretiche nel 1382, le sue idee si diffusero e ispirarono il movimento dei lollardi (dall'olandese lollaerd, "chi prega mormorando") e le predicazioni del teologo boemo Jan Hus. Lo Scisma d'Occidente e il concilio di Costanza Nel 1377 papa Gregorio XI riportò la Curia a Roma, ma il potere dei sostenitori di una sua permanenza presso Avignone era ancora ampio: alla morte precoce del pontefice, l'anno successivo, si aprì una grave crisi. Gli ecclesiastici francesi, infatti, non si rassegnarono facilmente alla perdita della sede papale e, non riconoscendo il nuovo papa Urbano VI (il napoletano Bartolomeo Prignano), nominato a Roma, elessero un antipapa francese, Clemente VII, che si stabilì ad Avignone. La situazione era precipitata e una grave frattura, nota come Scisma d'Occidente, si era aperta nella Chiesa. Iniziò una lunga fase di conflitto, che complicò il quadro politico generale: per circa quarant'anni si ebbero contemporaneamente due papi, due sedi papali, due Curie distinte, una a Roma e l'altra ad Avignone. Le monarchie europee furono costrette a schierarsi con l'uno o l'altro pontefice: con il papa romano l'Impero germanico, l'Italia centro-settentrionale, l'Inghilterra, il Portogallo, l'Irlanda e i regni dell'Europa orientale; con il papa francese la Francia, la Spagna, il regno di Napoli, la Scozia. Per tentare di sanare la frattura si decise di convocare un concilio, che si tenne nel 1409 a Pisa: i due papi in carica furono destituiti e fu nominato un nuovo pontefice, Alessandro V; in realtà essi rifiutarono di dimettersi e così si ebbero contemporaneamente tre papi. Il concilio di Pisa non riuscì dunque a risolvere lo Scisma. Il concilio decisivo si svolse nel 1414 a Costanza e fu convocato dal re di Germania Sigismondo di Lussemburgo: nel corso di tre anni di lavori, i tre papi in carica furono deposti e fu eletto come unico pontefice Martino V (al secolo Oddone Colonna, 1417-1431). Con Martino V si ricompose, almeno formalmente, la frattura dell'unità spirituale, politica e amministrativa consumatasi nel mondo cattolico europeo. La sede del Papato divenne definitivamente Roma; tornato in Italia, il papa si dedicò ad aumentare e consolidare il controllo e l'amministrazione dei territori della Chiesa diventando sempre di più un "sovrano pontefice". La crisi dell'Impero II "grande interregno" Con la scomparsa di Federico II nel 1250 e dei suoi discendenti Manfredi e Corradino, morti nel tentativo di mantenere il controllo dell'Italia meridionale, la dinastia degli Hohenstaufen si esaurì. Nel cuore del regno di Germania, quindi, si aprì una lotta per il potere. Il periodo che va dal 1254 al 1273 è noto come "grande interregno": il trono imperiale rimase vacante, mentre si aprirono aspri scontri dinastici per la successione. Durante questi venti anni, a causa della mancanza di un re, in Germania si consolidarono quelle autonomie già nate sotto gli ultimi imperatori svevi, che avevano trascurato il regno tedesco perché occupati in territorio italiano a lottare contro il papa e i Comuni. Vescovi, signori, feudatari e città, dunque, a loro volta entrarono in aperto contrasto per espandere la propria influenza territoriale. Il periodo di interregno si concluse con l'elezione di un esponente della casa degli Asburgo, Rodolfo d'Asburgo (1273-1291). Rodolfo I si disinteressò dell'Italia e pose le basi per una politica volta alla "germanizzazione" dell'Impero: anche se non fu mai ufficialmente incoronato dal papa, egli ristabilì il potere regio in Germania, cercando di porre un freno alla frammentazione territoriale tedesca ed estendendo la propria area d'influenza alle regioni austriache, che divennero la base territoriale del futuro potere della dinastia asburgica. Nel 1291, per contrastare l'ambizione espansionistica dell'Impero, all'interno dei territori degli Asburgo tre regioni di montagna (i "cantoni" di Uri, Unterwalden e Schwyz) si legarono in un patto di autogoverno, a cui nel corso del XIV secolo si unirono altre città e regioni. Tale patto fu il nucleo della futura Confederazione svizzera, la cui indipendenza fu definitivamente riconosciuta dagli Asburgo, dopo numerosi conflitti, con la pace di Basilea nel 1499. Le discese in Italia di Enrico VII e Ludovico IV Con la morte di Rodolfo d’Asburgo e del suo successore Alberto I, il titolo imperiale passò a Enrico (o Arrigo) di Lussemburgo (1308-1313). Egli volle tentare di riottenere, dopo tanto tempo, l'investitura imperiale a Roma e rivolse la sua attenzione all'Italia. Sperava di restituire all'Impero la grandezza del passato e di ricondurre all'obbedienza i Comuni italiani, riportando la pace fra guelfi e ghibellini. Nel 1310 discese nella penisola; la spedizione, tuttavia, portò a un inasprimento delle lotte. Il re fu coinvolto nel gioco delle fazioni: si mise a capo dei ghibellini e solo nel 1312, in mezzo a mille difficoltà, riuscì a farsi incoronare imperatore a Roma. Costretto a continue battaglie durante la sua permanenza in Italia, morì all'improvviso a Buonconvento, nei pressi di Siena, nel 1313. Non meglio andarono le cose al suo successore Ludovico IV di Baviera, detto "il Bavaro" (1328-1347). Egli discese in Italia due volte, nel 1323 e nel 1327. Durante la prima spedizione nel 1324 Ludovico, schieratosi contro papa Giovanni XXII, fu scomunicato; riuscì a farsi incoronare imperatore sul Campidoglio nel 1328, a seguito della seconda spedizione. Tuttavia, si trattò di una legittimazione assai debole: l'incoronazione non fu sancita dal papa ma da rappresentanti della nobiltà romana, interessati a sfruttare la figura dell'imperatore per le proprie lotte di potere interne alla città. Tale atto ebbe comunque un importante significato simbolico: l'imperatore dimostrava in tal modo di non aver più bisogno della legittimazione papale. L'incoronazione imperiale condotta dagli esponenti del popolo romano era in sintonia con la riflessione di Marsilio da Padova, un intellettuale italiano autore del trattato intitolato Defensor pacis (1324). In esso egli affermava che l'origine dell'Impero non era divina ma naturale, e che il suo scopo era la difesa della pace (da cui il titolo dell'opera); inoltre, secondo Marsilio, qualsiasi autorità suprema, sia quella imperiale, sia quella papale, era legittimata solo dal consenso dei cittadini e delle loro rappresentanze. Tali teorie diedero adito a dure polemiche; nel 1338 Ludovico IV convocò una dieta a Rhens: vi si stabilì che il titolo imperiale spettava di diritto al re di Germania ed era sottoposto solo all'approvazione dei principi elettori, ovvero dei grandi nobili tedeschi. Tuttavia, nel 1346, proprio i principi elettori tedeschi decretarono la deposizione di Ludovico IV, insospettiti dall'ampliamento dei suoi territori operato per mezzo di politiche matrimoniali che sembravano ammiccare a una possibile, futura, ereditarietà della carica. La Bolla d'oro I principi elettori scelsero come successore di Ludovico il Bavaro Carlo di Lussemburgo, che nel 1355 divenne imperatore con il nome di Carlo IV. Nel 1356 egli emanò un importante documento, la Bolla d'oro, che pose fine alla questione della successione imperiale: l'elezione dell'imperatore era affidata a sette principi, chiamati "grandi elettori", quattro laici (il re di Boemia, il duca di Sassonia, il conte del Palatinato e il margravio di Brandeburgo) e tre ecclesiastici (gli arcivescovi di Colonia, Magonza e Treviri). Il documento sancì definitivamente, oltre al principio dell'elettività dell'imperatore, il processo di "germanizzazione" dell'Impero, di cui Rodolfo I d'Asburgo aveva posto le basi: d'ora in avanti solo notabili del territorio di area germanica avrebbero scelto la persona alla quale affidare la guida dell'Impero germanico. Divenne chiaro che gli imperatori tedeschi non sarebbero più riusciti a imporre la propria autorità senza compromessi, ma sarebbero stati costretti a mediare costantemente con le grandi dinastie nobiliari. La Guerra dei Cent’anni Le premesse della guerra: problemi di successione, ma non solo Intorno alla metà del Trecento, le ambizioni di espansione territoriale delle monarchie europee portarono a una serie di scontri e contese. Questo periodo di scontro aperto, che si abbattè con violenza sulle popolazioni europee, finì tuttavia per portare con sé un nuovo ordine politico, con assetti ed equilibri di potere che si rivelarono, nei vari casi, piuttosto duraturi. Era in atto un processo di trasformazione che avrebbe portato alla nascita degli Stati nazionali. Tra le prime protagoniste di tale processo vi furono la Francia e l'Inghilterra, che si scontrarono in un lunghissimo ed estenuante conflitto noto con il nome di guerra dei Cent'anni, perché durò, sia pure con qualche interruzione, cento anni, dal 1337 al 1453. In Francia questa trasformazione era in atto già dal tempo della vittoria di Filippo II Augusto a Bouvines (1214) sull'Inghilterra, che aveva reclamato il possesso di molte regioni nel territorio continentale. Malgrado la vittoria di Filippo II, i sovrani inglesi avevano mantenuto nel sud-ovest della Francia il territorio della Guienna (la cui capitale era Bordeaux). Per questo motivo il re d'Inghilterra si trovava nella condizione di vassallo del re di Francia, il quale utilizzava lo strumento feudale per aumentare ed estendere il controllo politico sui territori francesi. Gli squilibri politici tra Francia e Inghilterra rimanevano instabili, e quindi potenzialmente pericolosi, in quanto il re inglese si rifiutava di prestare omaggio al re francese. Ad aggravare la fragilità delle relazioni tra i due regni, intorno alla metà del XIV secolo si aggiunse il problema della successione al trono francese. Nel 1328 infatti il re di Francia Carlo IV, ultimo rappresentante della dinastia dei Capetingi, morì senza lasciare eredi diretti. Si accese subito uno scontro tra i nobili francesi e il re d'Inghilterra Edoardo III (1327-1377), che avanzava pretese sulla corona di Francia in quanto figlio della sorella di Carlo IV, Isabella. I dignitari francesi, riuniti in assemblea, elessero invece re un cugino di Carlo IV, Filippo VI di Valois (1328-1350) perché erano preoccupati dell'interesse del sovrano inglese per i territori francesi, che contrastava con la politica di accentramento monarchico e di ricomposizione territoriale portata avanti fino ad allora dai Capetingi. Gli Inglesi avevano forti interessi economici nella ricca regione delle Fiandre, dove esportavano la lana qui lavorata e venduta come merce pregiata. Sostenevano inoltre l'autonomia del ducato francese di Bretagna così come la Francia aveva sostenuto, contro di loro, la battaglia indipendentista della Scozia. Edoardo III rifiutò di prestare omaggio al nuovo sovrano. Nel 1337 sbarcò in Francia, a Calais, intenzionato a rivendicare il trono e si dichiarò re di Francia. Fu l'inizio della guerra. La prima fase del conflitto In un primo momento furono gli Inglesi ad avere la meglio: nel 1346 riportarono una netta vittoria a Crécy; sconfissero nuovamente i Francesi nel 1356 a Poitiers, riuscendo anche a catturare il nuovo re Giovanni II il Buono (1350-1364), che morì prigioniero a Londra. In entrambe le battaglie l'esercito inglese, grazie ai temibili arcieri gallesi, dotati di arco lungo, si dimostrò nettamente superiore a quello francese, che puntava ancora tutto sulla cavalleria pesante. Tra le due battaglie, per qualche anno, la guerra si interruppe: nel 1347 iniziò a diffondersi la Grande Peste, mietendo vittime tra gli eserciti e le popolazioni, già provato dallo stato di guerra tanto in città quanto in campagna. Il conflitto riprese nel 1355 e, a seguito della sconfitta francese a Poitiers, si concluse con la firma della pace di Brétigny (1360), che riconosceva le conquiste di Edoardo III, il quale a sua volta rinunciava alla corona francese. La seconda fase del conflitto L'equilibrio raggiunto con la pace di Brétigny si rivelò però assai precario, e nel 1369 la guerra riprese. In questa seconda fase del conflitto fu la Francia di Carlo V (1364-1380), figlio di Giovanni II, a risultare vittoriosa. Avendo constatato la superiorità militare inglese, Carlo indebolì gli avversari tagliando loro i rifornimenti e praticando azioni di guerriglia: riuscì cosi a recuperare gran parte dei territori perduti. Agli Inglesi rimasero solo alcune città francesi, tra cui Bordeaux e Calais. Le difficoltà della Francia ricominciarono quando intorno al 1390 il nuovo re Carlo VI (1380-1422) iniziò a mostrare i segni di una grave malattia mentale, che lo rese incapace di governare. Di fatto, quindi, governavano il paese due principi tra loro rivali, parenti del re, ognuno dei quali era alla testa di un proprio esercito: da una parte Filippo l'Ardito, duca di Borgogna, per cui parteggiavano i Borgognoni, filoinglesi; dall'altra Luigi d'Orléans, sostenuto dagli Armagnacchi, dal nome del loro capofila, duca di Armagnac. Tra le due fazioni si scatenò una guerra civile. Furono anni spaventosi, di massacri e di saccheggi, di villaggi incendiati e di città distrutte. Nelle campagne, bande armate si davano ad assalti e razzie, mentre il passaggio degli eserciti nei campi distruggeva i raccolti. Tumulti e rivolte scoppiarono ovunque. Chi poteva si rifugiava nelle città fortificate, salvo ritrovarsi assediato all'interno delle loro mura. Molta gente di campagna che cercò scampo nelle città mori ugualmente, per il diffondersi delle malattie e per la mancanza di cibo. In questa situazione di estrema fragilità, i Borgognoni chiesero aiuto al re d'Inghilterra Enrico V di Lancaster (1413-1422). Egli andò in loro soccorso e nel 1415 sconfisse la cavalleria francese nella memorabile battaglia di Azincourt. Nel giro di pochi anni, gli Inglesi conquistarono tutta la Francia nord-occidentale, inclusa Parigi, dove Enrico V entrò trionfalmente nel 1417. Con il trattato di Troyes del 1420, il sovrano inglese ottenne in sposa Caterina di Francia, sorella dell'erede al trono (il futuro Carlo VII di Valois) e la reggenza della corona non appena Carlo VI fosse morto. Tuttavia Carlo VI e Enrico V morirono nello stesso anno. La reggenza, di conseguenza, fu assunta dal successore di Enrico V, suo figlio Enrico VI (1422-1471), di appena un anno. Giovanna d'Arco e la riscossa francese Dopo la sconfitta di Azincourt, in seno alla Francia si acuì la spaccatura tra gli opposti schieramenti di coloro che sostenevano la legittimità della reggenza inglese e coloro che la contestavano, poiché vedevano come legittimo erede al trono Carlo di Valois, il figlio di Carlo VI. Carlo possedeva la regione a sud della Loira ed era intenzionato a riconquistare i territori persi a nord. Tuttavia l'esercito inglese incombeva minaccioso verso sud e nella sua avanzata aveva cinto d'assedio la città di Orléans. Cruciale per la riscossa francese in questa fase del conflitto si rivelò la carismatica figura di Giovanna d'Arco, la Pucelle (la pulzella, ossia la ragazza). Figlia di contadini agiati, ma analfabeta, Giovanna era nata nel 1412. I tragici avvenimenti della guerra negli anni della sua infanzia l'avevano segnata profondamente. Intorno ai sedici anni, ebbe una crisi mistica e sentì di avere una missione da compiere, che riteneva fosse ispirata da Dio: doveva salvare Orléans, far consacrare re Carlo di Valois e cacciare gli Inglesi da Parigi e da tutta la Francia. Le voci soprannaturali che, come diceva, sentiva dentro di sé le avevano promesso la vittoria. Essa riuscì a farsi ascoltare da Carlo di Valois e a prendere il comando dell'esercito francese. Rianimate dal suo entusiasmo, le truppe ritrovarono il vigore perduto. Nel 1429 l'esercito francese liberò Orléans dagli Inglesi e Carlo fu consacrato legittimamente re a Reims come Carlo VII (1429-1461). Seguirono molti altri successi militari, ma Giovanna non riuscì a liberare Parigi, che si era schierata con gli Anglo-Borgognoni. Il 24 maggio 1430, la "pulzella d'Orléans" fu fatta prigioniera da un cavaliere borgognone e successivamente ceduta agli Inglesi, i quali pagarono centomila scudi per averla: una somma enorme, che dimostra quanto la giovinetta fosse temuta dagli avversari. Processata come strega, fu bruciata sulla piazza del mercato di Rouen nel maggio del 1431. La sua morte non garantì la vittoria agli Inglesi: nel 1435 Filippo il Buono, duca di Borgogna, si riavvicinò al re di Francia, una scelta che rovesciò l'equilibrio delle forze in campo. Così, nel 1453 gli Inglesi furono respinti e abbandonarono la Francia. L'unico possedimento che rimase loro fu il porto di Calais, in corrispondenza con il punto più stretto del canale della Manica. Nel 1456 re Carlo VII chiese e ottenne la riabilitazione di Giovanna d'Arco: la Chiesa gli concesse che il processo e la sentenza di condanna fossero annullati. Con il tempo fu sempre più chiaro che la giovane aveva contribuito in maniera decisiva all'esito finale della guerra dei Cent'anni, alimentando nella popolazione francese -prima con la sua vita, poi con la sua morte- un nuovo sentimento di coesione interna, di dimensione nazionale: il paese si strinse intorno al re di Francia, che divenne sempre più un simbolo riconosciuto dai sudditi come un'incarnazione della coesione di tutti i ceti sociali. Guerra delle Due Rose Le conseguenze della sconfitta in Inghilterra: la guerra delle Due Rose Se in Francia la guerra dei Cent'anni aveva rafforzato la monarchia e unito i sudditi in un sentimento "nazionale", al contrario in Inghilterra l'insuccesso inglese portò all'aggravarsi di una situazione interna già fragile. Nel corso del conflitto, infatti, la dinastia dei Plantageneti si estinse. Quando nel 1377 salì al trono d'Inghilterra Riccardo II, di soli dieci anni, la reggenza del regno fu assunta da suo zio Giovanni di Gand, duca di Lancaster. Nel 1399 il figlio di quest'ultimo, Enrico, fece deporre il sovrano, suo cugino: approfittando della sua assenza per una spedizione militare in Irlanda, si fece nominare re con il nome di Enrico IV (1399-1413) dando inizio a una nuova dinastia, quella dei Lancaster. Alla morte di Enrico IV e del suo successore Enrico V (il vincitore della battaglia di Azincourt), l'ascesa al trono di Enrico VI, all'età di un anno, pose le basi per una lotta di potere tra i Lancaster e gli York, un'altra nobile casata inglese. Enrico VI soffrì di gravi malattie mentali, che influirono non poco sulle sorti degli Inglesi nella guerra, per questo nel 1454 fu nominato suo protettore Riccardo, duca di York. Gli York si ribellarono all'inefficienza del governo dei Lancaster ed ebbe così inizio un conflitto sanguinoso chiamato "guerra delle Due Rose", perché i Lancaster avevano come stemma una rosa rossa, gli York una rosa bianca. La guerra durò per ben trenta anni, dal 1455 al 1485, e si concluse con il trionfo di un terzo casato, la famiglia dei Tudor, imparentata con entrambi i contendenti. Dopo la guerra delle Due Rose, la corona inglese, sotto la guida del nuovo re Enrico VII Tudor (1485-1509), riusci a ritagliarsi uno spazio politico ed economico autonomo rispetto al continente europeo. L'Inghilterra trovò una nuova coesione interna e iniziò una politica di consolidamento e di progressivo espansionismo commerciale e militare che, a partire dal Cinquecento, la renderà una delle maggiori potenze europee. Le Signorie cittadine italiane Un sistema di governo alternativo Dalla fine del Duecento, in molti Comuni italiani si iniziò a sentire l'esigenza di sperimentare un regime politico alternativo a quello basato sul governo delle istituzioni comunali tradizionali (podestà, capitano del popolo, consigli cittadini. Questa necessità nasceva dal bisogno di risolvere i problemi che affliggevano la città alle prese con la crisi economica del tardo Medioevo, con le continue tensioni politiche interne dovute alle lotte tra le fazioni oltre che con una crescente rivalità territoriale con i Comuni vicini. I cittadini trovarono una soluzione in alcuni casi attraverso il prolungamento delle cariche di podestà e di capitano del popolo oltre i termini previsti dalla legge, talvolta addirittura a vita; in altri, dando la città "in Signoria" per un tempo prestabilito a un personaggio dotato di grande personalità e prestigio, talvolta esponente di una potente famiglia. Si sperava che affidare per un periodo più lungo il governo a una sola persona avrebbe garantito una certa stabilità alla città. Iniziò così un processo di "personalizzazione" della politica per cui nei Comuni si andò diffondendo sempre più un'organizzazione di matrice autoritaria e personale. La Signoria nacque, dunque, nella maggior parte dei casi per volontà di tutti i cittadini e fu legittimata dalle istituzioni comunali. Questo sistema di governo della città divenne sempre più diffuso nell'Italia centro-settentrionale nel corso del Trecento; non si contrapponeva in maniera netta al Comune, poteva anche sovrapporsi ad esso senza stravolgerne il funzionamento e si basava sulla guida di una forte personalità o di una potente famiglia. Vi furono Signorie cittadine "di popolo", in cui il signore si presentava come leader del populus e utilizzava le istituzioni del Comune popolare per affermare la propria supremazia (è il caso dei Della Scala a Verona); oppure Signorie in cui il signore era un capofazione che aveva consolidato il proprio potere a capo dei guelfi o dei ghibellini (i Visconti a Milano). Ma non sempre la Signoria nasceva legittimamente come forma alternativa al Comune: in alcuni casi il signore era un condottiero, un nobile guerriero che si era impadronito con la violenza di una o più città (così Braccio da Montone, che nel 1416 conquistò Perugia e altre città nell'Italia centrale). Anche nelle città in cui non si affermarono le Signorie, come ad esempio Genova, Venezia e in un certo senso Firenze, nel corso del XIV secolo si assistette comunque a una concentrazione del potere che sfociò in un sistema nettamente oligarchico: il governo, cioè, rimase nelle mani di un ristretto numero di famiglie di borghesi ricchi che si spartivano le cariche e se le trasmettevano di padre in figlio. Dalla Signoria urbana al principato Nel Trecento la fase di crisi dei poteri universali e l'inasprimento dello scontro tra guelfi e ghibellini lasciarono ampi margini di manovra politica al signore. Alcuni processi legati alla formazione di poteri personalistici divennero dunque irreversibili: il signore iniziò a decidere autonomamente in merito alla durata di cariche pubbliche e a legiferare. Il rapporto con le istituzioni cittadine cambiò. Perseguendo l'obiettivo di rafforzare la propria autorità nei confronti di ogni antagonista, il signore trasformò il sistema di governo comunale creando nuovi organi posti direttamente sotto il suo controllo, come le cancellerie o gli archivi; allo stesso tempo svuotò di potere le istituzioni consiliari e abolì gli uffici comunali. Dal punto di vista militare, sostituì le milizie cittadine con le compagnie di mercenari, che già erano state ampiamente utilizzate dai Comuni: l'esercito era adesso al soldo diretto del signore, che stipulava con il condottiero della compagnia un vero e proprio contratto. Per rafforzare il prestigio proprio e della propria dinastia e propagandarne un'immagine positiva, inoltre, il signore trasformò la propria corte in un raffinato centro di cultura e promosse l'architettura, la letteratura e le arti figurative. Con il tempo, tuttavia, egli non si accontentò più dell'appoggio dei cittadini, ma volle che il suo ruolo fosse legittimato dall'imperatore o dal papa. Ciò avvenne con la carica del vicariato: divenendo vicario dell'imperatore o del papa, infatti, il signore svincolava il proprio potere dall'approvazione dei cittadini, in quanto gli veniva riconosciuto da un'autorità ben superiore. Il signore ricevette cosi un titolo nobiliare (duca, marchese o principe) che, proprio in quanto approvato, almeno formalmente, da uno dei massimi poteri universali diveniva ereditario. Se inizialmente la creazione di dinastie originate da signori cittadini, il cui potere era trasmesso in via ereditaria ai figli, era stata sporadica, dalla metà del Trecento divenne una costante: le Signorie cittadine si trasformarono in principati territoriali. Gli Stati regionali: Milano, Venezia, Firenze Dalla frammentazione alla ricomposizione Nel Trecento la situazione politica della penisola italiana si presentava molto frammentata. L'Italia centro-settentrionale era caratterizzata da una folta schiera di Comuni e Signorie cittadine, molto dinamici e in competizione tra loro per l'espansione territoriale: fra i più potenti c'erano Milano, Venezia, Genova, Firenze, Siena. Al centro, si estendeva lo Stato della Chiesa, caratterizzato dalla presenza di un insieme composito di realtà: il trasferimento del papato ad Avignone, infatti, aveva fatto riemergere al suo interno i potentati locali. L'Italia meridionale era suddivisa tra gli Angiò e gli Aragonesi: i primi governavano il regno di Napoli, i secondi il regno di Sicilia. Nella fascia alpina e subalpina, invece, si trovavano Signorie di stampo feudale: a nord-ovest il marchesato di Saluzzo, il marchesato di Monferrato e la contea di Savoia; a nord-est il vescovado di Trento e il patriarcato di Aquileia. Tra XIV e XV secolo, l'assenza di poteri centrali che garantissero un equilibrio politico, come in passato avevano fatto l'Impero e il Papato, rese i vari poteri locali più potenti, desiderosi di rafforzarsi e di espandersi territorialmente. Tale tendenza all'espansionismo li vide contrapporsi in frequenti guerre. Alla fine, tuttavia, si giunse a una ricomposizione territoriale: nonostante l'Italia rimanesse un mosaico di realtà politiche locali, si affermarono tre grandi Stati regionali (Milano, Venezia e Firenze), che assimilarono i poteri territoriali circostanti alla loro giurisdizione, non necessariamente per via militare. Nessuno di questi Stati territoriali, tuttavia, riuscì a prevalere sugli altri, poiché ogni volta che uno di essi si espandeva troppo, gli altri si coalizzavano per fermarlo. Il ducato di Milano Nel XIII secolo Milano era un centro economicamente molto vivace e prospero, fondava la sua ricchezza su un intenso sfruttamento agricolo del territorio e sulla produzione tessile e metallurgica. La sua popolazione, che alla fine del secolo superava i 100.000 abitanti, era riunita in associazioni politiche legate ai commerci e alla produzione artigianale. Le vicende politiche della città furono a lungo caratterizzate dalla lotta tra le famiglie dei Della Torre, guelfi, e dei Visconti, ghibellini. Dopo aver primeggiato sui Della Torre nella battaglia di Desio del 1277, lo scontro per il potere tra le due famiglie ebbe fine nel 1311, quando i Visconti furono riconosciuti vicari imperiali da Enrico VII. Iniziarono così a consolidare la propria Signoria sulla città, avviandone l'espansione territoriale: l'arcivescovo Giovanni, signore di Milano dal 1349 al 1354, conquistò Bellinzona al di là delle Alpi, nell'attuale Svizzera, varie città dell'Emilia e soprattutto Genova, guadagnando così uno sbocco sul mare. La massima estensione territoriale di Milano si ebbe con Gian Galeazzo Visconti, che governò la città dal 1385 al 1402, ottenendo nel 1395 dall'imperatore Venceslao IV di Lussemburgo il titolo ereditario di duca. Esperto militare, sotto la sua guida il ducato di Milano si ampliò ulteriormente con la conquista di parte del Veneto, dell'Emilia e dell'Umbria. Gian Galeazzo si spinse fino in Toscana, arrivando a minacciare la stessa Firenze ma nel 1402 la morte sopraggiunse a interromperne l'opera di conquista. Venuto a mancare Gian Galeazzo, i territori del ducato di Milano si restrinsero alla sola attuale Lombardia, ridimensionati soprattutto per l'intervento a est di Venezia e a sud di Firenze e dello Stato della Chiesa, mobilitati per contenerne il pericoloso espansionismo. Il figlio di Gian Galeazzo, Filippo Maria, che guidò il ducato dal 1412 al 1447, riprese una politica d'espansione ma nel 1427 fu sconfitto a Maclodio, vicino Brescia, dall'esercito veneziano guidato da un grande condottiero, il Carmagnola. Filippo Maria fu l'ultimo duca della dinastia dei Visconti, che dopo la sua morte si estinse. Dopo una breve parentesi repubblicana, il potere fu conquistato nel 1450 da Francesco Sforza, un condottiero che nel 1441 aveva sposato Bianca Maria Visconti, figlia di Filippo Maria. Con lui ebbe inizio a Milano una nuova dinastia signorile destinata a governare il ducato, con alterne vicende, fino al 1535. La Repubblica di Venezia Tra le realtà politiche che animavano la penisola, Venezia conservò un ordinamento repubblicano. Il Gran Consiglio, massimo organo della Repubblica, assunse tuttavia un carattere sempre più oligarchico: nel 1297. Infatti, con la riforma chiamata Serrata del Maggior Consiglio, fu deciso un restringimento dei requisiti di accesso al Gran Consiglio, in base al quale solo le famiglie iscritte al Libro d'Oro potevano farne parte. Tale irrigidimento si sviluppo ulteriormente con l'istituzione, nel 1310, del Consiglio dei Dieci, che limitò sempre di più il potere del doge, capo della città. Nato con finalità difensive, il Gran Consiglio divenne di fatto un organo di consolidamento del potere dell'aristocrazia mercantile, assumendo via via anche compiti di vigilanza sul piano finanziario. Se nel XIII secolo la vocazione di Venezia era tutta marittima e mercantile, nel corso del XIV secolo la Repubblica avviò una politica di espansione sulla terraferma. Al suo vasto "Stato da mar", le colonie commerciali che fin dall'XI secolo gli consentivano di mantenere il controllo sugli scambi in tutto il Mediterraneo e nel mar Nero, alla fine del XV secolo Venezia arrivò ad affiancare un ampio "Stato da tera", inglobando entro i propri confini i territori del Veneto, del Friuli, dell'Istria, della Dalmazia e anche parte della Lombardia. Per difendere il proprio dominio sul mare Venezia si era scontrata con Genova nella decisiva guerra di Chioggia (1378-1381), provocata da un'incursione genovese nell'Adriatico: Genova fu sconfitta, ma Venezia, che pure mantenne tutti i suoi privilegi commerciali, perse alcuni domini. Fu cosi che si convinse della necessità di espandersi nella terraferma. Già nel 1345 il Maggior Consiglio aveva autorizzato i nobili ad acquistare territori nell'entroterra, e questo aveva portato a una prima, limitata espansione verso il Friuli e l'Istria. Fu tuttavia nel Quattrocento che Venezia aumentò enormemente i propri possedimenti, a seguito del conflitto con il ducato di Milano: con la sconfitta di Filippo Maria Visconti a Maclodio, la Repubblica occupò Vicenza, Padova, Verona, l'intero patriarcato di Aquileia, poi Bergamo e Brescia. Nel 1428 la Repubblica di Venezia, detta la Serenissima per la sua stabilità interna, aveva ormai costituito uno Stato regionale di 30.000 km² esteso su parte del Veneto e della Lombardia (fino al fiume Adda) e, verso est, sull'Istria e sulla Dalmazia. Lo Stato territoriale fiorentino Nel XIII secolo Firenze era una città molto popolosa e fiorente, la sua economia si basava sul commercio, l'artigianato e la produzione tessile legata soprattutto alla lana. In città prosperavano numerose compagnie di banchieri che avevano accresciuto la propria importanza concedendo finanziamenti a pontefici e sovrani. A livello politico, Firenze manteneva l'organizzazione comunale così com'era stata istituita nel 1282: il governo era affidato a sei priori, un podestà permanente e un capitano del popolo. In caso di crisi, il governo veniva sospeso e si istituiva la balia, una commissione straordinaria con pieni poteri che, una volta risolta la crisi, veniva sciolta. Dopo l'espulsione dei ghibellini dalla città a seguito della battaglia di Benevento, i guelfi rimasero soli al potere. Le lotte interne al Comune tuttavia non cessarono: a seguito della faida aristocratica che si era scatenata tra le famiglie dei Cerchi e dei Donati i guelfi si divisero in due gruppi, i guelfi bianchi, capeggiati dai Cerchi, e i guelfi neri, capitanati dai Donati. I guelfi neri, nel 1301, riuscirono a prendere il potere grazie al sostegno di papa Bonifacio VIII e di Carlo di Valois, fratello di Filippo IV il Bello re di Francia, ma il loro dominio ebbe breve durata. La storia della città nel XIV secolo fu segnata dall'instabilità politica dovuta a continui mutamenti di regime, per cui Firenze decise di sperimentare la Signoria: il potere fu affidato a figure di prestigio, anche se sempre per periodi ridotti e fra aspre contese. Questa situazione ebbe come conseguenza un restringimento oligarchico nell'accesso al potere; il governo rimase nelle mani di un ristretto numero di famiglie, provenienti dalla nobiltà e dalle fila dei mercanti-banchieri, che si spartivano le cariche pubbliche. Quando la crisi del Trecento colpì Firenze, si abbattè sui settori ai quali la città doveva la sua prosperità acuendone i problemi. Inoltre l'insolvenza del re d'Inghilterra Edoardo III, che aveva ricevuto ingenti prestiti dalle banche fiorentine per finanziare la guerra in Francia provocò la bancarotta dei Peruzzi (1343) e dei Bardi (1346), che ricadde a catena su altre compagnie fiorentine. Ai gravi problemi economici e finanziari si aggiunsero l'epidemia di peste del 1348 e le tensioni sociali che culminarono nel tumulto dei Ciompi nel 1378. Nonostante questo periodo di instabilità, Firenze non aveva rinunciato alle proprie mire espansionistiche: dalla fine del Trecento furono annesse allo Stato fiorentino, a volte con le armi a volte dietro pagamento di somme di denaro, numerose città tra le quali Arezzo (1384), Pistoia (definitivamente nel 1401) e Pisa (1406). Tra le famiglie fiorentine più influenti, due andavano acquistando sempre maggiore autorità in città: gli Albizzi, che operavano nel settore laniero, e i Medici, grandi mercanti e banchieri. Cosimo de' Medici, figlio di Giovanni di Bicci de' Medici, l'artefice delle fortune della famiglia, riuscì abilmente a conquistare sempre maggiore prestigio e potere in città: ne fu alla guida per trent'anni, dal 1434 al 1464, durante i quali, pur mantenendo formalmente in vita le originarie istituzioni comunali trasformò Firenze in una Signoria assegnando tutti i posti chiave del'amministrazione a uomini di sua fiducia. Lo Stato della Chiesa Roma durante il periodo avignonese Durante la permanenza dei papi ad Avignone, si manifestò la natura composita dello Stato della Chiesa. In assenza del papa le città rafforzarono le loro autonomie e i signori ricominciarono a esercitare un potere personale sui propri domini. La stessa città di Roma, che conservava la struttura comunale, data la lontananza dei funzionari papali, si dedicò all'espansione territoriale nel Lazio, conquistando castelli e centri strategici. Tuttavia la città dovette anche affrontare non poche difficoltà dovute al venir meno di tutte quelle attività legate alla Curia sulle quali basava gran parte della propria fortuna economica. Durante l'assenza del papa, inoltre, Roma fu scossa da una serie di conflitti durissimi tra i baroni, ricchissimi aristocratici e abili combattenti legati alla Curia da un filo diretto: per decenni le famiglie nobiliari più potenti, schierate in fazioni intorno agli Orsini e ai Colonna, si affrontarono in sanguinosi scontri e sommosse. Cola di Rienzo contro i baroni In questo periodo ebbe luogo la parabola politica di Cola di Rienzo (1347-1354). Cola (diminutivo di Nicola) era un notaio di origini umili; dotato di un'ottima abilità oratoria e di una vasta cultura storica, si pose a capo del movimento popolare della città, presentandosi come un novello tribuno della plebe. Preso il potere, Cola riuscì inizialmente a frenare la prepotenza dei baroni e a stabilire nel Comune un governo di stampo popolare, sull'esempio delle altre città dell'Italia centro-settentrionale. Man mano che consolidava la propria autorità, tuttavia, emergeva anche la sua incapacità di gestirla: Cola si procurò in breve tempo molti nemici anche tra il popolo che lo aveva sostenuto; i baroni riuscirono a pilotare contro di lui una sommossa e a cacciarlo dalla città. Nonostante ciò, le sue idee di rilanciare i fasti dell'antica Roma affascinavano molti intellettuali, tra i quali Francesco Petrarca, e riscuotevano successo anche presso la Curia: papa Innocenzo VI pensò di servirsene per preparare il ritorno del Papato a Roma e, nel 1354, inviò nuovamente Cola nella città, dopo averlo nominato senatore, carica che equivaleva a quella del podestà comunale. La fortuna di Cola di Rienzo, tuttavia, durò pochi mesi poiché quello stesso anno fu trucidato dalla folla che tanto lo aveva osannato. Il papa recupera il controllo sullo Stato della Chiesa Al seguito di Cola di Rienzo, Innocenzo VI nel 1354 aveva mandato a Roma il cardinale spagnolo Egidio de Albornoz (1310-1367). Dotato di grandi capacità strategiche, egli riusci in pochi anni a ripristinare l'unità dello Stato della Chiesa sottomettendo Viterbo, l'Umbria, le Marche e la Romagna, dove i signori e i governi locali avevano guadagnato molto terreno, costruendo rocche e dotandosi di guarnigioni. Nel 1357 il cardinale emanò le Costituzioni Egidiane, con cui riordinò la cospicua legislazione dello Stato e suddivise il territorio della Chiesa in cinque province governate da rettori che rispondevano direttamente al papa e da parlamenti regionali periodicamente eletti. Fu poi papa Martino V a riprendere definitivamente il controllo di Roma e dello Stato della Chiesa grazie all'aiuto della sua potente famiglia, i Colonna. Il papa provvide a riorganizzare la gestione del territorio sul quale riscuoteva le imposte, insediando vicari pontifici nelle città e subordinando progressivamente i poteri locali; i Comuni maggiori, tra cui Roma, persero completamente l'autonomia di cui avevano goduto nel Trecento. Lo Stato della Chiesa diventava sempre più una monarchia centralizzata e il papa un "sovrano pontefice", nella cui figura il potere temporale e quello spirituale si compenetravano perfettamente. Il regno di Napoli Dagli Angioini agli Aragonesi Nel sud dell'Italia, la pace di Caltabellotta del 1302 aveva stabilito la separazione fra il regno di Napoli, retto dagli Angiò, e il regno di Sicilia, in mano agli Aragona. Sotto Roberto d'Angiò (1309-1343), il regno di Napoli visse un particolare momento di splendore architettonico e culturale grazie anche alle ingenti somme messe a disposizione dai banchieri fiorentini alla corona. Napoli fu eletta capitale del regno e divenne un centro commerciale di primordine nel quadro mediterraneo. Inoltre, l'attività dei mercanti stranieri favorì la produzione e il commercio interno. Nel 1343 Roberto d'Angiò mori; poiché suo figlio, Carlo d'Angiò, legittimo erede al trono, era morto prima di lui, nel 1343 divenne regina di Napoli sua figlia, Giovanna I. La sua incoronazione però sancì l'inizio di una lunga crisi dinastica nel regno. La dinastia degli Angiò si estinse nel 1435, quando l'ultima regnante angioina morì senza eredi. Ne approfittarono allora gli Aragona: nel 1442 il re di Sicilia Alfonso V, detto il Magnanimo, riuscì a impossessarsi del regno di Napoli e lo unificò al regno di Sicilia. Il re stabilì la propria corte a Napoli e tentò di organizzare il regno sul modello delle monarchie iberiche, appoggiandosi a parlamenti cittadini simili alle cortes spagnole. II Meridione dei baroni Proseguita sotto i suoi successori, tale politica suscitò l'ostilità dei grandi feudatari, che, nel 1485, ordirono contro Ferdinando I d'Aragona la cosiddetta "congiura dei baroni". L'insurrezione fu repressa nel sangue ma, nel corso del XIV secolo, il potere feudale dei baroni si consolidò attraverso nuove concessioni regie e condizionò a lungo e irreversibilmente la vita del Meridione, specialmente nelle campagne, dove i contadini vivevano già in condizioni di estrema povertà. Le debolezze e le contraddizioni che hanno segnato la storia del sud del nostro paese affondano le radici proprio in questo periodo storico.

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