Storia della filosofia antica PDF
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2010
Giuseppe Cambiano
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This book, by Giuseppe Cambiano, is a comprehensive textbook on the history of ancient philosophy. It covers the topic from its origins to the Neoplatonic and Christian periods. The author explores key figures and ideas in ancient Greek philosophy.
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Manuali di base 22 Giuseppe Cambiano Storia della filosofia antica Editori Laterza © 2004, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2004 Quinta edizione 2010...
Manuali di base 22 Giuseppe Cambiano Storia della filosofia antica Editori Laterza © 2004, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2004 Quinta edizione 2010 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel novembre 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-7325-3 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Indice del volume 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 3 1.1. La filosofia e l’Oriente 3 1.2. Il naufragio della letteratura filosofica antica 7 1.3. La Ionia e la nascita della filosofia 8 1.4. Il sapere di Eraclito 13 1.5. La vita pitagorica e il sapere dei numeri 15 1.6. I limiti del conoscere umano 20 1.7. Eleatismo: rivelazione e ricerca 22 1.8. Empedocle: la natura e la salvezza 27 2. Atene e la pluralità dei mondi 30 2.1. La molteplicità delle culture 30 2.2. Anassagora e il potere dell’intelligenza 31 2.3. Il clima e le differenze tra gli uomini 34 2.4. Protagora: il sofista, le credenze e la città 36 2.5. Gorgia: il retore, il linguaggio e le emozioni 39 2.6. Il contrasto fra «nomos» e «physis» 41 2.7. Gli atomisti e l’infinità dei mondi 43 2.8. L’autonomia delle scienze e la medicina 47 3. Socrate e la nascita del filosofo 50 3.1. La vita 50 3.2. Aristofane e la letteratura socratica 51 3.3. Il Socrate di Senofonte 53 3.4. Socrate, la città e le leggi 55 3.5. Il metodo d’indagine di Socrate 56 3.6. Altre immagini del socratismo 58 Indice del volume VI 4. Platone e l’Accademia 62 4.1. La vita 62 4.2. Gli scritti e la loro forma letteraria 63 4.3. Dialogo e scrittura 65 4.4. La filosofia e la reminiscenza 68 4.5. Le idee e l’immortalità dell’anima 70 4.6. Il filosofo e la città 73 4.7. L’educazione, la poesia e la conoscenza 76 4.8. I gradi della conoscenza e l’idea del bene 77 4.9. Il mito della caverna e l’utopia 80 4.10. L’anima 82 4.11. I nomi, le percezioni e le opinioni 83 4.12. I rapporti tra le idee e le cose sensibili 85 4.13. Sommi generi, essere e non essere 87 4.14. Sviluppi della dialettica: definizione, predicazione e verità 89 4.15. La fabbrica divina dell’universo 91 4.16. La vita buona 93 4.17. Il politico e le leggi 94 4.18. Le dottrine orali e l’Accademia platonica 97 5. Aristotele 99 5.1. La vita 99 5.2. Gli scritti e la scuola 100 5.3. La ricerca del sapere 102 5.4. Il linguaggio della verità 104 5.5. Il sillogismo e la scienza come dimostrazione 106 5.6. I princìpi della scienza e l’intelletto 109 5.7. La dialettica e la retorica 111 5.8. Le scienze e i loro oggetti: teoretiche, pratiche e poietiche 113 5.9. La scienza dell’essere e le sostanze 115 5.10. Il problema del mutamento e le cause 118 5.11. Il cosmo e la divinità 121 5.12. Il mondo del vivente 124 5.13. L’anima 126 5.14. La politica 129 5.15. La vita etica e la vita teoretica 132 6. Le filosofie dell’età ellenistica 137 6.1. L’ellenismo e il sapere scientifico 137 6.2. Scuole filosofiche e filosofi itineranti 142 6.3. Le filosofie e la «polis» 143 6.4. Epicuro: la serenità e la conoscenza 145 6.5. Epicuro: la natura e gli dèi 147 6.6. Epicuro: la terapia filosofica e la ricerca del piacere 150 6.7. Lo stoicismo: i protagonisti 153 6.8. Il sapiente stoico e l’unità della filosofia 154 6.9. Lo stoicismo: conoscere e argomentare 156 6.10. Lo stoicismo: l’universo e la divinità 160 6.11. Lo stoicismo: la natura dell’uomo, la virtù e le passioni 162 6.12. Lo stoicismo: la libertà e la città cosmica 164 6.13. Il Peripato 166 6.14. L’Accademia scettica 168 Indice del volume VII 7. Il dominio di Roma e la filosofia 171 7.1. L’incontro di Roma con la filosofia greca 171 7.2. I nuovi filosofi 174 7.3. Gli stoici: il potere e la libertà 178 7.4. Alternative allo stoicismo: Plutarco e le riprese dello scetticismo 182 7.5. Galeno: medicina e filosofia 186 7.6. Il ritorno di Aristotele 189 7.7. Le aspirazioni al divino e il platonismo 190 7.8. L’Oriente e il mondo giudaico di fronte alla filosofia 193 7.9. Cristianesimo e filosofia 195 8. Le trasfigurazioni del platonismo 201 8.1. Plotino e il neoplatonismo 201 8.2. Plotino: dal sortilegio del mondo al vero io 204 8.3. Plotino: l’Uno e l’emanazione 206 8.4. Plotino: il ritorno all’Uno 209 8.5. Porfirio e l’attacco ai cristiani 211 8.6. Clemente Alessandrino: la scuola del cristiano 213 8.7. Origene: vita e opere 214 8.8. Origene: filosofia e teologia 216 8.9. Il trionfo della filosofia cristiana e le eresie 218 8.10. Gregorio di Nissa 220 8.11. Neoplatonismo e paganesimo 222 8.12. Proclo e la sistemazione del neoplatonismo 225 8.13. Persistenze del neoplatonismo ad Oriente 227 9. Agostino e le due città 230 9.1. Monaci, vescovi e traduttori 230 9.2. Agostino: vita e opere 232 9.3. Il problema del male 236 9.4. Ricerca della verità e interiorità 238 9.5. Illuminazione e dialogo con Dio 239 9.6. Il problema del tempo 241 9.7. L’anima e la Trinità 243 9.8. La predestinazione e la grazia 244 9.9. Le due città e la storia 247 Glossario 251 Bibliografia 283 Indice dei nomi 307 Storia della filosofia antica 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 1.1. La filosofia e l’Oriente La parola filosofia è di origine greca e significa letteralmente ‘amore del sa- pere’. È una parola che contiene dentro di sé una molteplicità di problemi che hanno attraversato per molti secoli la cultura occidentale sino a oggi. In primo luogo, essa può indicare che il sapere è qualcosa che è già posseduto e proprio per questo rappresenta un oggetto di amore, ma può anche indicare che questo sapere non è ancora posseduto e proprio per questo viene ricercato. Ma in che cosa consiste il sapere da salvaguardare o da ricercare? Occorre conoscere tut- to o soltanto le cose più importanti, che possono anche essere poche, ma deci- sive? In quest’ultimo caso quali sono i criteri in base ai quali decidere sulla ri- levanza delle cose da conoscere? Si tratterà allora di rintracciare le ragioni o gli obiettivi che consentano di mostrare quali siano le cose più importanti da co- noscere. E le questioni che si possono aprire non riguardano soltanto i conte- nuti del sapere, perché ci si può anche chiedere quali siano le strade e gli stru- menti che consentono di acquisire il sapere e se essi siano riconducibili a uno solo o siano molteplici a seconda degli ambiti diversi di ricerca, quali per esem- pio l’universo fisico o l’agire morale o politico dell’uomo. Proseguendo lungo questa strada diventa anche possibile chiedersi che cosa voglia dire in generale conoscere e sapere. Posto poi che alcune aree di questo sapere siano state ac- quisite, si tratta anche di individuare quali siano i modi migliori per comuni- carne la conoscenza ad altri. La filosofia viene in tal modo a costruirsi e confi- gurarsi nel corso del tempo come un emergere continuo di questioni e di per- Storia della filosofia antica 4 ché. Affrontare una moltitudine di questi problemi o anche soltanto alcuni di essi può impegnare un’intera vita e infatti i filosofi, soprattutto nell’antichità, si sono posti la questione di quale sia il tipo di vita che occorre condurre per po- ter ricercare ed eventualmente trovare e trasmettere questo sapere. Partendo di qui i filosofi antichi giunsero a costruire la propria identità come quella di un tipo di uomo caratterizzato dal modo particolare di vita che egli conduce e che lo differenzia da quello degli altri uomini. Anche le culture del Vicino Oriente e dell’Egitto, con le quali confinava il mondo greco, giunsero a elaborare forme di sapere, concernenti gli astri, i cal- coli, la terapia dei malati, le previsioni del futuro. Esse conservarono mediante la scrittura su tavolette di argilla o su papiri questo sapere accumulato dalla tra- dizione per generazioni. Sotto il re assiro Assurbanipal, che regnò dal 668 al 629 a.C., si pervenne addirittura alla costituzione di una vasta biblioteca. Il compi- to della scrittura era conferito agli scribi, i quali sin da giovani venivano adde- strati allo studio dell’arte dello scrivere, alla conoscenza del vocabolario e dei contenuti del sapere, in una sorta di scuola, chiamata nel mondo mesopotami- co ‘casa delle tavolette’. Si trattava di giovani delle classi alte, i quali entravano in tal modo in possesso di quel sapere specialistico, che li abilitava all’esercizio delle funzioni amministrative e religiose, legate al palazzo del re. Lo scriba tra- scriveva racconti concernenti le relazioni degli dèi con gli uomini. Uno dei mo- delli fondamentali nei quali il sapere era registrato per iscritto era il catalogo: elenchi di soluzioni date a problemi di calcolo, della stessa difficoltà o di com- plessità crescente, oppure elenchi di osservazioni di malati con l’indicazione dell’esito futuro delle malattie e talora anche di mezzi terapeutici. Il modello del catalogo aveva il vantaggio di poter essere continuamente integrato e accre- sciuto. Nelle tavolette di contenuto divinatorio o medico, le quali miravano a fornire indicazioni sul futuro, faceva la propria comparsa un modulo di ragio- namento, che avrebbe avuto ampia applicazione anche nelle prime fasi del pen- siero greco. Questo modulo è esprimibile mediante la formula: ‘se..., allora...’. Nella parte introdotta dal ‘se’ sono formulate osservazioni su eventi riguardan- ti astri o comportamenti di animali o contenuti di sogni. Questi dati sono con- siderati segni di ciò che avverrà in futuro. Il sapere dell’indovino e del medico consiste nella capacità, fondata sul sapere accumulato da generazioni, di inter- pretare eventi del presente come segni per la previsione del futuro. Ciò richie- de di stabilire correlazioni costanti tra cose o eventi diversi. L’acquisizione e l’elaborazione di forme di sapere non sono dunque una pre- rogativa del solo mondo greco, come non lo sono l’elaborazione e la conserva- zione scritta di esso. Gli antichi stessi, sin dai tempi di Platone e di Aristotele, si posero la questione se la filosofia avesse avuto origine in Grecia oppure più remotamente presso altre civiltà. Spesso le risposte che indicavano la nascita della filosofia in Egitto, in Persia, o addirittura in India o presso le popolazioni celtiche del Nord o tra gli ebrei, non erano guidate da una reale conoscenza di 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 5 queste culture e delle loro lingue. Si trattava invece di tentativi di conferire ve- neranda antichità a proprie dottrine: il passato era visto come garanzia della ve- rità delle proprie tesi e delle proprie credenze. Molti altri preferirono, al con- trario, scorgere nella filosofia una prerogativa essenzialmente greca. Forme di sapere erano esistite anche in Oriente, ma solo in Grecia il sapere stesso era di- ventato oggetto d’indagine e perno intorno al quale costruire una forma di vita superiore a ogni altra. Lo stesso problema si è riproposto anche agli studiosi moderni. Le diffe- renze con le civiltà orientali sono state individuate soprattutto su due piani. In primo luogo, la diversa configurazione politica. Le civiltà orientali erano vaste monarchie; il centro del potere, insieme politico, religioso ed economico, era il palazzo-tempio del monarca. Sembrerebbero un’eccezione le città indipenden- ti dei Fenici, situate sulle coste del Libano attuale, ma anch’esse erano rette da una forma di governo monarchico. Nel palazzo del re si prendevano le decisio- ni e in esso il sapere era elaborato e conservato. Anche la Grecia ha conosciuto una forma di civiltà accentrata intorno al palazzo: la civiltà micenea, che tutta- via crollò tra il XIII e il XII secolo a.C. Qualche secolo dopo la Grecia appare costellata da una molteplicità di città politicamente indipendenti, rette da for- me di governo aristocratico, nelle mani dei proprietari delle terre. Il potere non è più rappresentabile come una piramide avente al vertice il monarca; esso ap- partiene a un gruppo, anche se ristretto, d’individui. In queste nuove circo- stanze le decisioni richiedono di essere prese in seguito a uno scambio più arti- colato di pareri e discussioni. Si apre uno spazio maggiore per l’individuo. Non a caso i primi pensatori greci proverranno in gran parte da famiglie aristocrati- che e di possidenti. L’apertura di un nuovo spazio per la riflessione e la parola produce effetti anche sui modi nei quali il sapere è perseguito ed elaborato. Questo lavoro è reso possibile anche da alcune peculiarità della lingua gre- ca. Diversamente da altre lingue, per esempio dal latino, essa dispone, come l’i- taliano, dell’articolo determinativo, il quale permette di sostantivare aggettivi e verbi e quindi di coniare espressioni come ‘il bello’ o ‘l’essere’. Attraverso que- ste formazioni verbali diventa possibile formulare concetti generali e raggiun- gere livelli di astrazione, che resteranno una costante essenziale nell’intera sto- ria della filosofia occidentale. In questo orizzonte, osservazione e riflessione sul- le cose e sugli eventi si saldano inscindibilmente al lavoro sulla lingua, alla ri- cerca dei modi più adeguati di formulare ed esporre i contenuti del sapere. Ri- spetto al monolitismo della tradizione o delle tradizioni si apre dunque un mar- gine più ampio per esprimere una molteplicità di punti di vista ed escogitare ri- sposte alternative ai problemi più disparati. Lo scritto, con il sapere depositato in esso, non si presenta più come un prodotto anonimo – come avviene per lo più nelle culture orientali –, ma appartiene in prima istanza a chi lo ha compo- sto. Nasce di qui l’esigenza di apporre un sigillo al proprio scritto mediante l’u- so della prima persona e spesso l’indicazione del nome dell’autore e del suo luo- Storia della filosofia antica 6 go di origine al principio di esso. Emblematico è l’inizio dello scritto dello sto- rico Ecateo di Mileto: «Ecateo di Mileto così dice: queste cose io le scrivo co- me a me sembrano vere, perché i racconti degli Elleni mi paiono molteplici e ri- dicoli». Un secondo punto di differenziazione tra la cultura greca e le altre è stato ravvisato dagli studiosi moderni sul piano delle credenze religiose. Diversa- mente da quanto avviene presso gli ebrei o tra i Persiani con l’Avesta (attribui- to a un personaggio forse leggendario, Zoroastro), la Grecia non conosce un li- bro sacro, attraverso il quale imporre in maniera vincolante una serie di cre- denze e pratiche cultuali. Né la sua tradizione religiosa è caratterizzata da un complesso di credenze e pratiche fortemente unificato intorno a un unico cen- tro del potere, insieme sacrale e politico, localizzato nel palazzo-tempio del mo- narca. Pur muovendosi entro un universo di divinità riconoscibili da tutti i Gre- ci, ciascuna città seleziona e accentua elementi particolari di questo universo per caratterizzare la propria specificità anche sul piano religioso. Ciò vale sia per i riti, sia per i miti. Da tempo, nel corso di generazioni, si era venuto costi- tuendo un vasto repertorio di racconti concernenti le divinità e i loro rapporti con gli uomini. Attraverso questi racconti trovavano espressione visioni del mondo e della posizione degli uomini in esso, non sempre immediatamente compatibili l’una con l’altra. Omero e poi Esiodo con i loro poemi avevano con- tribuito, soprattutto il secondo, a mettere ordine e coerenza in questo vasto pa- trimonio di miti. Ma la molteplicità di questi, priva di carattere rigido e vinco- lante, lasciava anch’essa spazio ad altri discorsi, attraverso i quali costruire im- magini diverse o, comunque, indipendenti dai miti stessi. Non di rado la vicenda della prima filosofia greca è stata descritta come un passaggio dal mito al logos, ossia alla ragione interamente dispiegata. Ma è ana- cronistico proiettare su questa lontana situazione storica il contrasto moderno fra religione e scienza. In primo luogo, perché le pretese del mito erano forse meno forti delle pretese delle religioni moderne sul piano delle credenze e del- le concezioni del mondo. Soltanto nella seconda metà del V secolo a.C. ad Ate- ne i discorsi sulla natura e sugli dèi, formulati da alcuni filosofi, saranno avver- titi come pericolosi e daranno luogo a processi per empietà contro i loro auto- ri. Ma le motivazioni di questi processi poggiavano non tanto sulla contrappo- sizione tra una verità proveniente dalla divinità e una pretesa verità formulata dagli uomini, quanto sulla denuncia della pericolosità etica e politica di queste nuove dottrine. In secondo luogo, occorre ricordare che la categoria generale di ‘mito’, come tipo di discorso privo di quei caratteri di stabilità e certezza che caratterizza la ‘scienza’, fu elaborata esplicitamente per la prima volta forse da Platone. Non di rado i pensatori antecedenti – e del resto Platone stesso – ri- corrono a forme stilistiche, immagini e talora contenuti propri dei racconti mi- tici. Ciò non significa che essi non elaborassero forme e tecniche di pensiero di- verse da quelle che si esprimevano nei racconti mitici, bensì che non sempre la 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 7 diversità tra questi modi espressivi era concepita esplicitamente come un con- trasto totale. 1.2. Il naufragio della letteratura filosofica antica L’attività filosofica, dalle origini sino alla tarda antichità, trova nella parola e nella comunicazione orale un veicolo fondamentale per costruire le proprie dottrine e trasmetterle. Ma accanto a essa la scrittura rappresenta ben presto un importante strumento ausiliario. Sfortunatamente nessuno scritto di filosofo antecedente a Platone e Senofonte, ossia ad autori del IV secolo a.C., è perve- nuto integralmente sino a noi. Dei testi scritti nei due secoli precedenti abbia- mo soltanto le informazioni ricavabili dagli scritti di autori posteriori e talvolta qualche citazione, che gli studiosi moderni chiamano «frammenti». Spesso que- ste citazioni non sono ricavate direttamente dai testi originari, bensì da altri te- sti che a loro volta le riportano, per cui non si è mai sicuri – dati questi filtri suc- cessivi – di trovarsi di fronte a citazioni letterali, che riportino fedelmente il lin- guaggio usato dai vari autori. Inoltre, questi frammenti facevano parte di un contesto ormai perduto insieme con la totalità dello scritto originario e spesso ignoto anche a questi autori posteriori. Non è raro che questi elementi sparsi fossero inseriti in nuovi contesti problematici, estranei ai problemi propri del- l’autore del frammento. In questa situazione occorre avvertire che ogni rico- struzione moderna del pensiero dei primi filosofi, per quanto attenta e critica- mente condotta, non può mai sfuggire a un ampio margine d’incertezza. In assenza dei testi originari, un’immagine delle prime fasi della filosofia si è imposta nella cultura occidentale: quella presentata da Aristotele nei suoi scritti. Uno degli aspetti propri della tecnica d’indagine filosofica, messa in ope- ra da Aristotele, consiste nel discutere, rispetto ai problemi presi via via in con- siderazione, le soluzioni offerte dai pensatori precedenti o contemporanei a lui. Ciò gli consente sia di precisare meglio la propria soluzione, sia di mettere in ri- lievo la superiorità della propria impostazione. Ma il punto di partenza di que- ste discussioni è dato dai problemi posti da Aristotele stesso e soprattutto dal- le categorie concettuali con le quali egli li pone ed esamina. Ciò appare confer- mato dal testo più celebre in questo senso, il libro primo della Metafisica. Il pro- blema affrontato in esso è quale sia la forma più alta di sapere. Essa è indicata da Aristotele nella conoscenza delle cause e dei princìpi, ossia del perché le co- se sono quello che sono e nel modo in cui sono. Entro questo quadro generale Aristotele trova una collocazione per i vari au- tori della tradizione filosofica rispetto al suo problema e ciò gli consente anche di collegarli tra loro. Egli asserisce che i primi a condurre indagini filosofiche furono quelli che egli denomina physiologoi, ossia studiosi della natura. Sulla li- Storia della filosofia antica 8 nea di Aristotele, un suo allievo, Teofrasto, compose uno scritto sulle opinioni dei ‘fisici’, ossia di quelli che siamo stati abituati dalla storiografia filosofica mo- derna a chiamare con il termine inadeguato di ‘presocratici’: come se un auto- re si potesse definire solo in base al fatto di essere esistito prima di qualcun al- tro, nella fattispecie Socrate, e non per ciò che lo caratterizza in proprio o lo ac- comuna a suoi contemporanei. Da quest’opera di Teofrasto, attraverso rielabo- razioni, riduzioni e integrazioni successive, si formò un tipo di letteratura che noi chiamiamo «dossografia», letteralmente ‘scrittura di opinioni (doxai)’. Si tratta di repertori di problemi, seguiti dall’esposizione assai concisa delle opi- nioni formulate da vari autori in risposta a essi. Queste opinioni sono sgancia- te sia dal contesto entro il quale erano state formulate, sia da una successione cronologica rigorosa di esse. Gli storici moderni, sottovalutando i caratteri di questo tipo di materiale e soprattutto gli obiettivi che erano propri della trattazione aristotelica, hanno spesso preso alla lettera questa documentazione. Ne è emersa la concezione se- condo cui la prima fase della filosofia greca sarebbe stata dominata da un pro- blema: la physis, la natura, nel senso di ciò che dà luogo alla generazione e for- mazione delle cose. In realtà, il mondo antico non ha conosciuto la storia della filosofia nel significato moderno di ricostruzione dei caratteri e dei contenuti delle singole filosofie nella loro globalità e nella loro successione cronologica. Aristotele non era preoccupato da questo tipo di problemi: a lui interessava in primo luogo discutere gli altri filosofi alla luce delle proprie categorie concet- tuali. È molto probabile che il cosmo e la natura, nella molteplicità delle loro manifestazioni, fossero d’interesse rilevante per la riflessione dei primi filosofi, ma, come cercheremo di vedere, il panorama è forse più variegato. Se non altro emerge ben presto anche la questione della possibilità di acquisire la cono- scenza per mezzo degli strumenti di cui l’uomo può disporre, sensazioni o for- me di ragionamento. Né è assente l’attenzione per il mondo umano, gli ambiti della politica, della condotta morale, delle attività tecniche. Non di rado, anzi, questi contesti forniscono importanti suggerimenti anche per l’indagine sulla natura, consentendo di istituire paralleli, similitudini e analogie. 1.3. La Ionia e la nascita della filosofia La figura del filosofo si forma lentamente in Grecia. Soltanto nel IV secolo a.C., con la costituzione di vere e proprie scuole che si pongono come obietti- vo non soltanto la costruzione e la discussione di teorie, ma anche la formazio- ne di un nuovo tipo di uomo, caratterizzato da una forma di condotta che lo di- stingue dagli altri uomini, si può dire che nasca in senso pieno la figura del fi- losofo. In precedenza i confini tra il filosofo e il sapiente, ossia colui che si pre- 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 9 senta come possessore a pieno titolo di un sapere e non di rado di un sapere to- tale, sono labili. In questo senso gli antenati, ma anche i contemporanei dei pri- mi filosofi-sapienti sono i poeti e gli indovini. I poeti, che recitavano i loro ver- si durante i banchetti nelle case dei potenti o durante le feste, si presentavano agli ascoltatori come ammaestrati dalla divinità e dalla Musa. La Musa, figlia di Mnemosyne, la Memoria, è garante della veridicità di quanto il poeta epico can- ta, come se egli fosse stato presente agli eventi che narra o li avesse uditi rac- contare da qualcuno. Vista e udito, che sarebbero diventati le fonti e i criteri d’informazione per l’opera dello storico – in Erodoto come in Tucidide –, sono qui sostituiti dall’ispirazione divina. Il sapere del passato è l’ambito al quale il poeta può accedere grazie all’aiuto della divinità. In Esiodo questo dominio si allarga anche alle altre due dimensioni del tempo, il presente e il futuro, ricol- legandosi al sapere che già in Omero aveva caratterizzato un’altra figura di sa- piente, l’indovino. Ma il sapiente è anche colui che è in grado di enunciare mas- sime per i suoi simili, sull’esempio del dio di Delfi, Apollo, il quale dà i suoi re- sponsi alle domande degli uomini e formula inviti e comandi come il celebre «conosci te stesso». La massima è l’espressione in forma concisa ed emblema- tica – spesso sotto forma di comando – di una regola per condurre bene la pro- pria vita nei rapporti con gli dèi, con gli altri uomini e con se stessi. Nel V se- colo a.C. è ormai diffusa l’immagine, in buona parte leggendaria, dei cosiddet- ti Sette Sapienti, ai quali è attribuito un buon numero di massime ormai tradi- zionali. Non è un caso che colui che Aristotele avrebbe indicato come il primo filosofo, ossia Talete, sia annoverato tra questi sapienti. Perché i primi passi della filosofia sono stati compiuti nelle colonie della Io- nia, ossia in città situate sulla costa dell’attuale Turchia – Mileto ed Efeso – e sulle isole prospicienti a essa, come Samo? Le città del continente greco, lonta- ne dal contatto ravvicinato con altre popolazioni, pur andando incontro a crisi di carattere politico ed economico, erano forse più vincolate all’orizzonte co- smico e religioso tradizionale. Maggior dinamismo sembra invece caratterizza- re le aristocrazie delle città coloniali, costrette per certi versi a ricominciare da capo, non soltanto a riprodurre il mondo originario da cui provengono. D’altra parte, il problema della propria identità e posizione nell’universo è più acuta- mente avvertibile in zone di confine, a contatto con costumi e credenze diver- si. Un modo per risolverlo può essere rintracciato nella ricerca di ciò che rende il mondo, nonostante la varietà dei suoi aspetti e delle sue trasformazioni, una totalità unitaria e ordinata. Aristotele presenta la figura di Talete orientata in questa direzione. Talete nacque e visse a Mileto tra il VII e il VI secolo a.C. Molto probabil- mente egli non scrisse alcuna opera. Per Platone egli era stato abile nell’escogi- tare espedienti tecnici. Erodoto gli attribuisce il progetto e l’esecuzione di un canale per deviare un fiume dal suo corso e farlo rientrare più avanti nel suo al- veo, ma anche la predizione di un’eclisse di sole (quella avvenuta nel 585 a.C.), Storia della filosofia antica 10 nonché le capacità di abile consigliere politico. Autori più tardi fanno risalire a Talete la dimostrazione di alcuni teoremi di geometria, ma è difficile che si trat- tasse già di vere e proprie dimostrazioni: per esempio, la proposizione che il cer- chio è dimezzato dal diametro era probabilmente provata in maniera intuitiva attraverso la sovrapposizione delle due metà. Così è difficile che la previsione dell’eclisse fosse dovuta a calcoli precisi, di cui allora non era in possesso nep- pure la più evoluta astronomia babilonese. Le questioni matematiche al centro degli interessi di Talete sono problemi di calcolo e misurazione: il calcolo del- l’altezza delle piramidi o della distanza delle navi in mare. Su questo piano egli trovava cospicui antecedenti nella tradizione della cultura babilonese. Già nel V secolo a.C. Talete appare con i tratti leggendari ed emblematici del sapiente universale. Nel dibattito del IV secolo a.C. sulla superiorità della vita teoretica o di quella attiva egli potrà essere assunto a rappresentante di en- trambe. In questo quadro si formano aneddoti sulla figura di Talete. Nel Teete- to Platone racconta che Talete per contemplare il cielo, cadde in un pozzo e fu deriso da una schiava della Tracia, mentre Aristotele nella Politica racconta che Talete, grazie alle sue conoscenze astronomiche e meteorologiche previde un abbondante raccolto di olive, fece incetta dei frantoi e, in questa situazione di monopolio, ricavò ingenti guadagni. Lo stesso Aristotele può ormai solo con- getturare sulle ragioni che potevano aver condotto Talete a sostenere la tesi che principio di tutte le cose è l’acqua. L’importanza dell’acqua per i processi della vita e della riproduzione è ovvia, ma sullo sfondo non è forse assente il ricono- scimento dell’importanza del mare per Mileto e il mondo delle colonie greche, nonché dei fiumi per le civiltà dell’Egitto e della Mesopotamia. Anche la tradi- zione mitica, con Omero, aveva già fatto di Oceano e Teti i progenitori del mon- do. La tesi dell’acqua principio delle cose non contrasta con i racconti mitici, anche se l’acqua non è espressamente identificata con la divinità. L’altra pro- posizione attribuita a Talete, secondo cui tutto è pieno di dèi, è compatibile con uno dei presupposti centrali delle concezioni mitiche. Talete non fu a capo di una scuola in senso istituzionale, con insegnamento regolare e gruppi di allievi, i quali conducano vita comune col caposcuola, ma non si può escludere che Anassimandro, anch’egli nato a Mileto forse nel 610 a.C. e morto verso la metà del VI secolo, ne conoscesse l’insegnamento. Anas- simandro compie il passo decisivo di scrivere un’opera in prosa, che sarà poi in- titolata in epoca più tarda Sulla natura. La poesia cessa di essere l’unico veico- lo o, comunque, il veicolo per eccellenza per trasmettere le conoscenze sull’u- niverso e sugli uomini. La prosa, anche se non del tutto emancipata dalle for- me del linguaggio poetico, consente di articolare meglio il proprio pensiero, senza essere impacciati dai vincoli del metro. Ma Anassimandro è anche il pri- mo a disegnare in Grecia una carta geografica del mondo allora conosciuto e a introdurre un orologio solare. In tal modo, spazio e tempo diventano entità de- scrivibili e misurabili; l’universo e il tempo in cui si scandisce la sua vicenda pos- Apollonia Calcedone Abdera Napoli Stagira Lampsaco Elea Taranto M AC E D O N I A Troia Metaponto IA Asso EC Apollonia Sibari GR MARE A Mitilene N EGEO Pergamo M AG L E S BO Crotone Clazomene Colofone Delfi CHIO Priene ATTICA Efeso Atene SAMO IO Mileto Elide Megara NI Alicarnasso A Olimpia SICILIA COS PELOPONNESO Lentini Sparta Cnido Agrigento Siracusa RO D I MELO C R E TA MARE MEDITERRANEO Cirene Città di nascita e sedi dell’attività dei primi filosofi greci. Storia della filosofia antica 12 sono essere ricompresi in una prospettiva unitaria. Ma, diversamente da Tale- te, Anassimandro non ravvisa più in un elemento immediatamente osservabile il principio costitutivo dell’universo. Egli compie un passaggio da ciò che è vi- sibile a ciò che non lo è, giungendo mediante un ragionamento a riconoscere che il principio non può essere una delle entità visibili, ma deve essere un’en- tità dalla quale tutte quelle visibili, anche l’acqua, scaturiscono. Egli chiama questo principio apeiron, che significa letteralmente ‘privo di li- miti’, e lo colloca alla periferia dell’universo sferico. Al centro dell’universo è invece la terra, di forma cilindrica, equidistante in perfetto equilibrio dalla pe- riferia e pertanto non bisognosa di alcun sostegno. Dall’apeiron si generano tut- te le cose e, in primo luogo, i contrari, caldo e freddo, secco e umido. Ogni co- sa, presente nell’universo e formatasi dall’apeiron, è caratterizzata dal limite; ciascuna di esse, infatti, è un limite rispetto alle altre. Un tardo commentatore neoplatonico di Aristotele, Simplicio, attribuirà ad Anassimandro l’affermazio- ne che da dove gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secon- do necessità, poiché «essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’in- giustizia secondo l’ordine del tempo». È probabile che le parole tra virgolette risalgano allo stesso Anassimandro e costituiscano dunque il più antico testo della letteratura filosofica greca. È possibile che l’ingiustizia, che dev’essere espiata necessariamente attraverso la distruzione di ogni singola cosa secondo un ordine temporale, consista proprio nella limitazione reciproca tra le cose. È interessante che per chiarire questa vicenda cosmica Anassimandro ricorra alla similitudine con ciò che avviene nel mondo umano, dove i rapporti sono rego- lati dalla pena per le ingiustizie commesse. La stessa formazione degli esseri viventi e dell’uomo era oggetto d’interesse da parte di Anassimandro, che ravvisava nell’uomo un essere formatosi nel ven- tre di pesci o di esseri simili a pesci. Nel riconoscimento dell’importanza cen- trale dell’acqua per la genesi della vita Anassimandro probabilmente si colle- gava all’insegnamento di Talete. A Mileto nacque anche Anassimene, vissuto nella seconda metà del VI se- colo. Anch’egli scrisse in prosa un’opera successivamente intitolata Sulla natu- ra. Anassimene torna a ravvisare il principio di tutte le cose in un elemento de- terminato, l’aria, la cui importanza è immediatamente riscontrabile nell’espe- rienza comune, soprattutto per quanto riguarda i fenomeni della vita. Dalla fun- zione della respirazione nella vita umana egli inferisce un’analoga funzione del- l’aria per l’universo. E per spiegare la formazione delle cose dall’aria egli intro- duce, in base all’osservazione del fenomeno dell’evaporazione e di altri feno- meni, la condensazione e la rarefazione. Ciò permette d’interpretare le cose co- me gradi diversi di densità di quell’unica componente originaria, che è l’aria. Il mondo nella varietà delle sue trasformazioni può così essere ricondotto a un’u- nica entità originaria omogenea. 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 13 1.4. Il sapere di Eraclito Mileto non è l’unico centro della Ionia dove si pongono i germi della rifles- sione filosofica. A Efeso vive tra il VI e il V secolo a.C. Eraclito, discendente da antica famiglia regale. Estraniatosi dalla vita politica della città, egli si scaglia contro i suoi concittadini perché hanno esiliato, forse dopo un rivolgimento de- mocratico, Ermodoro. Secondo la tradizione egli avrebbe depositato il libro da lui scritto in prosa nel tempio di Artemide della sua città. Questo gesto esprime la volontà di una conservazione sacrale di esso. Da una parte il tempio, in un’e- poca priva di biblioteche, è l’unico luogo che possa garantire una vera conser- vazione; ma dall’altra esso è anche l’unico luogo che Eraclito ritiene appropria- to ad accogliere il suo scritto. Egli nutre, infatti, grande sfiducia nella possibilità che il messaggio da lui consegnato allo scritto possa essere compreso dalla mag- gior parte degli uomini. Ciò dipende dai contenuti di esso, lontani dalle espe- rienze della vita comune, ma anche dal linguaggio e dalla forma, nei quali que- sti contenuti sono espressi. La tradizione antica avrebbe descritto fedelmente ciò che Eraclito intendeva essere, definendolo il pensatore oscuro per eccellen- za. Già Aristotele noterà la difficoltà di decidere se nello scritto di Eraclito al- cune espressioni si collegano a quanto precede o a quanto segue. La difficoltà investe persino gli accenti: così il termine greco bios, letto bìos significa ‘vita’, ma letto biòs significa ‘arco’ (il quale procura la morte, dice Eraclito). Non è infre- quente nei frammenti di Eraclito, di non molto superiori al centinaio, il ricorso alle ambivalenze di significati dei termini. Nelle parole è possibile rintracciare il significato delle cose, il quale sfugge alla maggior parte degli uomini. Il punto di partenza del libro di Eraclito, intitolato anch’esso successiva- mente Sulla natura, è il logos. La tradizione ci ha conservato le parole iniziali del libro: «Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia pri- ma di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano secondo questo logos, essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parole e in opere tali quali sono quelle che io spiego, distinguen- do secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è. Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo». Il termine logos ha qui una molteplicità di significati: in primo luogo il discorso, ma anche la ragione o spiegazione che è enunciata me- diante il discorso, la quale a sua volta è anche la ragione del tutto; in secondo luogo, il logos è anche il discorso che Eraclito consegna al proprio scritto, che in questo senso si presenta come espressione adeguata del logos cosmico. Que- sto è comune a tutti gli uomini, ma essi non sono in grado di comprenderlo, per- ché restano rinchiusi nel loro orizzonte privato. Eraclito li paragona a coloro che dormono in contrapposizione a coloro che sono desti: per questi ultimi il mondo è unico, così come la legge è unica per tutti i membri della città. Anche Storia della filosofia antica 14 sul piano politico Eraclito tende a contrapporre l’uno ai molti, la qualità ari- stocratica al potere arbitrario dei più. Ciò vale per tutti gli aspetti della vita uma- na. Anziché fondarsi sul logos comune, gli uomini prestano credito ai poeti e a quanti si vantano della loro polymathìe, ossia a quanti affermano di aver appre- so e quindi di sapere molte cose. Il libro di Eraclito, con il sapere che esso con- tiene, è dunque anche un libro polemico. Tra i bersagli della sua critica com- paiono Omero ed Esiodo, ma anche Ecateo di Mileto e due sapienti che aveva- no lasciato la Ionia per l’Italia meridionale, Pitagora e Senofane. In tal modo Eraclito si oppone alle punte più avanzate della cultura a lui antecedente. Il sa- pere molte cose, a suo avviso, non insegna ad avere intelligenza, che è invece le- gata alla profondità dell’anima. L’anima infatti è caratterizzata, secondo Eracli- to, da un logos talmente profondo che non può essere percorso sino a raggiun- gerne i confini. Si comprende come Eraclito potesse indicare come contrasse- gno positivo del proprio messaggio, sulla scorta del precetto delfico ‘conosci te stesso’, il fatto di aver indagato se stesso. Non si tratta di un puro e semplice ri- piegamento nell’individualità, bensì del tentativo di rintracciare le connessioni tra il logos che contrassegna la propria anima e il logos comune universale. Ma qual è il contenuto del logos comune, di cui il libro di Eraclito con il suo linguaggio è manifestazione visibile? Tesi centrale è che il mondo non è il pro- dotto di dèi o uomini, ma un ordine universale unico ed eterno. Eraclito lo iden- tifica con il ‘fuoco sempre vivente’. Con il riferimento al fuoco, Eraclito non in- tende soltanto introdurre una variazione rispetto alla tesi, tradizionalmente at- tribuita agli Ionici sin da Aristotele, dell’unicità del principio di tutte le cose. Egli intende piuttosto insistere sulla peculiarità di comportamento del fuoco, che si accende e si spegne regolarmente secondo una misura, come appare an- che dal sole, che ora brilla e ora si spegne. La vicenda cosmica in tutti i suoi aspetti e nelle sue incessanti trasformazioni è infatti regolata da una misura. La mobilità del tutto non è un divenire casuale o disordinato, ma è regolata se- condo precisi ritmi. Eraclito sostiene che non si tratta soltanto della successio- ne di un opposto all’altro, del giorno alla notte, della vita alla morte e così via. La guerra assurge a simbolo e insieme regola di tutto ciò che avviene nell’uni- verso. In un celebre frammento egli afferma che «polemos (la guerra) è padre di tutte le cose, di tutte re e gli uni rivela dèi e gli altri uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi». L’universo è caratterizzato da un’armonia nascosta, superiore all’armonia visibile: essa consiste nell’unità e identità degli opposti in tensione tra loro. Anche per Eraclito dunque la ricerca dell’unità, al di sotto della appa- rente dispersione e molteplicità di ciò che appare ai più, è l’obiettivo primario. Egli afferma infatti che «la natura ama nascondersi». Eraclito nutre fiducia nei sensi e nelle informazioni ricavabili da essi, ma al tempo stesso ritiene che i sen- si da soli non bastino, perché occorre vedere in quali condizioni si trovino co- loro che si valgono di essi. «Per anime barbare – dice Eraclito – i sensi sono cat- tivi testimoni». Il termine «barbaro» era usato per indicare i popoli che parla- 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 15 vano una lingua incomprensibile e a loro volta erano incapaci di comprendere quella greca. Le anime barbare erano dunque incapaci di cogliere il significato nascosto, ma vero, delle cose. La guerra tra gli opposti non è espressione di ingiustizia, come ritengono i più e come aveva sostenuto anche Anassimandro: il divenire di tutte le cose è risultato del perenne conflitto che permea il tutto e si esprime nell’incessante tensione e trasformazione di un contrario nell’altro. Al centro del pensiero era- cliteo è dunque l’unità dinamica degli opposti nel loro perenne contrasto. A co- minciare da Platone, Eraclito è stato sovente considerato il filosofo del diveni- re universale. Ma l’espressione nella quale questa dottrina sarebbe compendia- ta, panta rei, «tutto scorre», in realtà non compare tra i frammenti attribuiti a Eraclito. Essa rappresenta soltanto un aspetto del pensiero di Eraclito, stretta- mente connesso alla concezione dell’identità dinamica degli opposti. Anche i celebri frammenti sul fiume – secondo cui «per coloro che entrano negli stessi fiumi, altre e sempre altre scorrono le acque» e «negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo» – tematizzano sì l’incessante fluire di tutte le cose, ma intendono anche sottolineare la simultaneità e compresenza di sta- ti opposti. Sarà poi Cratilo – un personaggio introdotto da Platone nel dialogo omonimo come sostenitore delle dottrine eraclitee – a porre al centro di queste la tesi del divenire incessante di tutte le cose. 1.5. La vita pitagorica e il sapere dei numeri La ricerca del sapere non è caratteristica delle sole colonie della Ionia. La pressione della Persia e l’imporsi di tiranni in alcune di esse costrinsero talvol- ta alcuni cittadini a trasferirsi altrove. Così fu per Pitagora, nato a Samo, ma co- stretto ad abbandonarla verso il 540-535 a.C. forse a causa della tirannide di Po- licrate, ostile al vecchio dominio degli aristocratici. Egli si recò a Crotone nella Magna Grecia, ove costituì una comunità insieme religiosa e politica, caratte- rizzata da una vita condotta in comune e da forti legami interni. Essa incontrò presto successo presso i ceti aristocratici e i pitagorici acquistarono un peso de- terminante nella vita politica di Crotone e di altre città della Magna Grecia. In occasione di un rivolgimento democratico avvenuto nella vicina Sibari, gli ari- stocratici di Crotone, quasi sicuramente anche su consiglio dei pitagorici, mos- sero guerra a Sibari e la distrussero nel 510 a.C. Ma la stessa Crotone fu in se- guito sconvolta da una rivolta democratica, che sfociò nell’incendio dell’edifi- cio in cui si radunavano i pitagorici, facendone perire alcuni e costringendo gli altri a fuggire. Tra questi fu anche Pitagora che riparò dapprima a Locri e poi a Metaponto, dove morì verso il 497-496 a.C. Verso la metà del V secolo a.C. eb- be luogo una seconda cacciata di pitagorici da varie città dell’Italia meridiona- le. Alcuni si rifugiarono in Grecia, aprendo centri a Tebe e a Fliunte. Di questi Storia della filosofia antica 16 faceva parte probabilmente Filolao di Crotone, al quale è attribuita la compo- sizione di uno scritto nel quale vengono esposte le linee fondamentali della dot- trina pitagorica. Ma il pitagorismo non cessò di esercitare la propria influenza nella cultura e nella vita politica della Magna Grecia. A Taranto, ancora nel IV secolo a.C., rivestì per più anni la suprema carica di governo, ossia quella di stra- tego, Archita, con il quale lo stesso Platone fu in rapporti di amicizia. Il nucleo originario dell’insegnamento pitagorico non era affidato allo scrit- to, ma era impartito oralmente. Soltanto tardi, con Filolao e poi con Archita, es- so trovò espressione anche in opere scritte. In questa situazione è difficile indi- viduare i punti salienti dell’insegnamento di Pitagora stesso, che divenne ben presto una figura leggendaria. Pitagora venne considerato dai suoi discepoli au- torità indiscussa. È in ambiente pitagorico che emerge la celebre affermazione: ipse dixit (in greco: autòs epha), intendendo con essa sottolineare che quanto è detto dal maestro è indiscutibile e deve essere necessariamente accolto. I mem- bri della comunità erano vincolati a mantenere il silenzio su quanto apprende- vano. Di qui nacque la leggenda di un pitagorico, Ippaso, ucciso per aver di- vulgato la dottrina dell’incommensurabilità della diagonale col lato del quadra- to. L’insegnamento era forse impartito gradualmente, secondo il modello dell’i- niziazione ai misteri, ossia della pratica religiosa che introduce gradualmente gli adepti alla conoscenza delle verità più alte. Il primo momento era proprio di co- loro che venivano chiamati acusmatici, dal greco akoùsmata (letteralmente ‘co- se ascoltate’), ossia coloro che si limitavano ad ascoltare quanto veniva detto e a seguirlo e che costituivano probabilmente il nucleo originario della comunità pi- tagorica. Si trattava di nozioni concernenti i vari rami del sapere, il cielo come i numeri, delle quali tuttavia non si fornivano ancora le ragioni, ossia il ‘perché’. Ma soprattutto si trattava di precetti che dovevano essere seguiti nella condot- ta della vita: da una sorta di esame di coscienza all’astensione da determinati ti- pi di cibi, come fave o carni. Il momento successivo dell’insegnamento pitago- rico si rivolgeva ai matematici, ossia a coloro che pervenivano alla conoscenza dei mathémata, gli oggetti più alti dell’apprendimento, gli oggetti propri di quel- le che sarebbero diventate le discipline matematiche, l’aritmetica, la geometria, la musica, l’astronomia. Ma questi insegnamenti si ancoravano anche a dottrine riguardanti il destino delle anime, le quali dovevano prepararsi ad accedere a una vita beata, dopo essere passate attraverso una serie di trasmigrazioni, ossia di reincarnazioni. Per questo aspetto il pitagorismo s’inseriva in un’atmosfera religiosa che permeava il mondo delle colonie dell’Italia meridionale. Anche l’orfismo, diffuso in queste zone, poneva al centro delle proprie preoc- cupazioni la questione della sopravvivenza dell’anima nell’aldilà e del suo desti- no di espiazione da antiche colpe. In ambito orfico circolavano libri sacri attri- buiti a personaggi leggendari, quali Orfeo e Museo. Recentemente è stato sco- perto un testo risalente probabilmente al IV secolo a.C. – il papiro detto di Der- veni perché ivi ritrovato nel 1962 –, nel quale si hanno tracce di un commento a 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 17 un poema attribuito ad Orfeo. Negli scritti orfici erano contenute teogonie e co- smogonie, le quali, a differenza della Teogonia di Esiodo, non descrivevano un processo che va dal caos originario all’ordine instaurato da Zeus. Per l’orfismo al- l’inizio esiste un’unità perfetta, l’uovo primordiale o notte, che si scinde e dà luo- go a esseri separati. A ciò dovrà succedere un ciclo di reintegrazioni delle parti nell’unità del tutto: l’orfismo sfocia così in una dottrina della salvezza. A tale sco- po vengono coltivate pratiche di purificazione che devono consentire di liberare l’anima dalla prigione e dalla contaminazione del corpo. Prende così avvio quel- la contrapposizione tra anima e corpo, che avrebbe caratterizzato momenti deci- sivi della riflessione filosofica antica. Una delle pratiche fondamentali dell’orfi- smo consisteva nel vegetarianesimo. Con essa gli orfici si caratterizzavano come gruppo marginale rispetto alla religione ufficiale delle città, nella quale il sacrifi- cio costituiva un momento essenziale per stabilire il collegamento tra il mondo degli dèi e il mondo degli uomini. Senza arrivare a una forma totale di vegetaria- nesimo, l’astensione da certi tipi di carni era fatta propria anche dai pitagorici. Ma per essi la via maestra della purificazione era di tipo intellettuale e avveniva attra- verso un itinerario di approfondimento delle conoscenze matematiche. Aristotele attribuisce ai pitagorici le dottrine secondo le quali i numeri co- stituiscono i princìpi e l’essenza di tutte le cose e le cose imitano i numeri. Per comprendere il significato di esse è necessario tenere conto del modo nel qua- le erano abitualmente compiute le operazioni di calcolo. I Greci si servivano di pséphoi, sassolini mediante i quali i vari numeri erano rappresentati visivamen- te. Con questi numeri figurati è possibile costruire serie, per esempio quella dei numeri quadrati. Infatti, partendo dal primo numero quadrato 4 (cioè 2 x 2), raffigurato con quattro punti applicando lo gnomone, ossia una specie di squadra, si può ottenere il nu- mero quadrato successivo 9 (cioè 3 x 3) in questo modo e poi ossia 16 (che è il quadrato di 4) e così via per i numeri quadrati successivi. Storia della filosofia antica 18 Occorre ricordare che l’aritmetica antica non conosce lo zero. Questo fatto contribuisce a conferire all’uno uno statuto particolare: esso è un’entità indivi- sibile, rispetto alla quale nulla è antecedente. Per i pitagorici esso è dunque, più che un numero come gli altri, la sorgente degli altri numeri. Questi a loro volta si suddividono in due classi fondamentali, pari e dispari, che i pitagorici iden- tificano con l’illimitato e il limite. L’uno o non riceve la qualifica di pari o di- spari oppure è chiamato parimpari, in quanto aggiunto a un dispari genera il pari e aggiunto a un pari genera il dispari: ciò significa che l’uno deve include- re in sé sia il pari, sia il dispari. Il dispari, a sua volta, diviso in due, lascia sem- pre come resto un’unità, che permane come limite, mentre ciò non avviene nel caso del pari, che è pertanto identificato con l’illimitato. Mediante il calcolo con i sassolini i pitagorici dimostrano visivamente alcune proprietà relative a queste classi di numeri: per esempio che pari + pari dà pari, dispari + dispari dà pari e così via. All’interno della serie dei numeri è soprattutto il 10 a rivestire un’im- portanza fondamentale. Esso è la somma dei primi quattro numeri ed è anche una sorta di compendio dell’intero universo, rappresentabile sotto la forma chiamata tetraktys (letteralmente ‘gruppo di quattro’): Come sottolineeranno alcuni allievi di Platone vicini al pitagorismo, all’uno corrisponde il punto, i due punti individuano una linea, tre punti la superficie e quattro il solido. La tetraktys rappresenta dunque la successione delle tre di- mensioni che caratterizzano l’universo fisico, alla quale corrisponde la somma di 1 + 2 + 3 + 4, ossia appunto 10. Si comprende come Filolao potesse soste- nere che il numero è condizione essenziale per conoscere le cose. Egli afferma- va infatti che «bisogna esaminare i compimenti e la sostanza del numero in rap- porto alla potenza che è nel dieci. Perché grande è e perfettissima e onnipoten- te e principio e guida della vita divina e celeste e di quella umana la natura del numero, partecipando della potenza del dieci. Senza di essa tutte le cose sareb- bero illimitate e oscure e incomprensibili. Perché è la natura del numero che fa conoscere ed è guida e insegna a ognuno tutto ciò che è dubbio e ignoto. Nul- la sarebbe comprensibile, né le cose in sé né le loro relazioni, se non ci fossero il numero e la sua sostanza». I numeri consentono di delimitare, ossia di fissa- re dimensioni spaziali, durate temporali, estensioni e altezze di suoni, pluralità di oggetti. Ciò significava per Filolao che le cose stesse hanno il numero, che non è uno schema arbitrario imposto dall’esterno alle cose, ma sono le cose stes- se a manifestare una qualche forma di numero, pari o dispari. Grazie al nume- ro le varie entità diventano contabili e distinguibili dalle altre, non soltanto gra- 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 19 zie alle percezioni che si hanno di esse con i sensi. In ultima analisi ciò signifi- ca che le cose hanno un ordine e una struttura, che trova espressione ed è dun- que conoscibile come numeri e relazioni tra numeri. Tra i numeri, infatti, esi- stono logoi, ossia rapporti e tra i rapporti è possibile rintracciare una propor- zione (in greco analogia), ossia un’uguaglianza di rapporti. In Filolao le rela- zioni tra numeri si configurano come armonia di illimitato e limitante e pertan- to la conoscenza consisterà nella ricerca di questi rapporti o proporzioni esi- stenti nelle cose. Ma è soprattutto Archita a dedicarsi allo studio di vari tipi di proporzione. Un ambito in cui i rapporti e le proporzioni si manifestano con particolare evidenza è quello musicale, dove è centrale la nozione di armonia. Poiché an- che i corpi celesti compiono con i loro movimenti percorsi regolari, esprimibi- li numericamente, i pitagorici giungono a sostenere l’esistenza di un’armonia delle sfere celesti, non afferrabile dall’orecchio umano. Il cosmo dei pitagorici è costituito infatti da un fuoco centrale, paragonato al focolare di una casa, in- torno al quale ruotano la terra, la luna, il sole, i cinque pianeti allora conosciu- ti e il cosiddetto cielo delle stelle fisse. Forse per completare la serie sino a rag- giungere il 10, i pitagorici aggiungono anche l’antiterra, situata tra il fuoco cen- trale e la terra. Il punto rilevante è che la terra viene in tal modo detronizzata, forse per la prima volta, dalla sua posizione di centro dell’universo. Ma nume- ro e proporzione dominano non soltanto su questa scala cosmica, bensì anche all’interno del mondo umano, secondo i pitagorici. Essi sono ai loro occhi lo strumento fondamentale per far cessare la discordia tra gli uomini e instaurare l’armonia tra essi, nei loro rapporti economici e politici, attribuendo a ciascu- no secondo la proporzione geometrica ciò che gli è dovuto in rapporto al suo valore. Il numero e il calcolo riaffermano anche in Archita la loro funzione de- terminante per la vita associata. Come si è visto a proposito della tetraktys, per i pitagorici ciascun numero è dotato di una propria individualità e quindi non tutti i numeri si equivalgono per importanza. I numeri costituiscono una gerarchia di valore e alcuni nume- ri assurgono a simbolo di altre entità, fisiche o concettuali. Per esempio, la giu- stizia, con la quale si attribuisce uguale a uguale, è rappresentabile con il nu- mero 4 o il 9, ossia i quadrati rispettivamente del primo numero pari e del pri- mo numero dispari. E visivamente il quadrato è rappresentabile come la figura avente i lati uguali. Così il 5, somma del primo numero pari con il primo nu- mero dispari, rappresenta il matrimonio. Alla coppia dispari e pari corrispon- de appunto la coppia maschio e femmina. Ad esse si facevano corrispondere al- tre coppie polari di opposti, non solo quella di limite e illimitato, ma anche di uno e molti, destra e sinistra, in quiete e in moto, retto e curvo, quadrato e oblungo, luce e tenebre, buono e cattivo. Questa trama di corrispondenze sim- boliche tra numeri e cose è stata chiamata dai moderni ‘mistica del numero’, ma essa è inscindibile nell’orizzonte pitagorico da quella che a noi appare aritme- Storia della filosofia antica 20 tica in senso ‘scientifico’. È la conoscenza di questo complesso universo di re- lazioni tra numeri e cose che costituisce per i pitagorici il vertice dell’apprendi- mento. 1.6. I limiti del conoscere umano Sarebbe unilaterale considerare unica caratteristica saliente della cultura fi- losofica dell’Italia meridionale tra il VI e il V secolo a.C. la propensione a for- me di sapere iniziatico. Proprio a Crotone nacque e visse in quella stessa epoca Alcmeone. Del suo scritto in prosa è stata conservata la frase iniziale, nella qua- le viene ripreso un antico tema, già presente nei poeti, sulle differenze tra l’uo- mo e la divinità. Alcmeone ravvisa il discrimine fondamentale proprio nella co- noscenza che a ciascuno di essi è dato di attingere. Egli afferma infatti che «del- le cose invisibili e delle cose visibili soltanto gli dèi hanno conoscenza certa (saphéneia); gli uomini possono soltanto congetturare (tekmaìresthai)». La me- tafora di cui Alcmeone si serve per caratterizzare la conoscenza divina è quella della luce: nella condizione divina la conoscenza è uno stato di perfetta chia- rezza, nel quale scompare la distinzione tra cose visibili e cose invisibili. Nella condizione umana invece questa distinzione permane determinante: la cono- scenza si caratterizza in questo caso come passaggio da ciò che è visibile a ciò che non lo è. Ma naturalmente non esiste alcuna garanzia che questo passaggio abbia successo e che quindi anche le cose invisibili possano essere conosciute. Non è chiaro in quali procedimenti argomentativi consistesse, secondo Alc- meone, questo passaggio. Poco dopo l’inizio del suo scritto, Alcmeone precisa- va che l’uomo non dispone soltanto della sensazione, come avviene per gli altri animali, ma anche della capacità di comprendere, ossia di raccogliere e connet- tere le informazioni che provengono dai sensi. Non è da escludere che egli at- tribuisse questa funzione al cervello, considerato organo del pensiero. Forse il congetturare umano consisteva dunque per Alcmeone in inferenze a partire da cose visibili, assunte come segni o indizi (tekméria) di ciò che non può essere direttamente percepito con i sensi. Questa procedura è tipica, come abbiamo visto, della medicina già nelle civiltà orientali. E la tradizione testimonia a pro- posito di Alcmeone un forte interesse per la medicina; talora gli è addirittura attribuito l’uso della dissezione di esseri animati. Il modello analogico era altresì applicato da Alcmeone per definire la salu- te e la malattia: la salute era da lui definita come isonomìa, ossia uguaglianza di diritti e poteri, tra gli opposti che costituiscono il corpo umano, caldo freddo, secco umido e così via; la malattia, invece, consiste nella monarchia, ossia nel dominio di uno di essi. La malattia distrugge la simmetria, il rapporto propor- zionato tra le qualità corporee. Si è voluto scorgere nelle nozioni di simmetria 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 21 e di opposti un debito di Alcmeone verso il pitagorismo. Ma occorre ricordare che gli opposti svolgevano una funzione importante anche nel quadro cosmo- logico di Anassimandro. Forse non a caso Alcmeone, come già Anassimandro, ricorre all’osservazione di ciò che avviene nel mondo umano e alle diverse for- me politiche, per chiarire quanto avviene in un dominio di cose che non ap- paiono immediatamente visibili alla percezione umana, ossia all’interno del cor- po umano. Attenzione al problema dei limiti della conoscenza umana è documentata anche per un’altra figura operante nell’Italia meridionale, ma proveniente an- ch’essa, come Pitagora, dal mondo ionico. Si tratta di Senofane, nato nella pri- ma metà del VI secolo a Colofone, dalla quale si allontanò in seguito alla con- quista persiana, avvenuta verso il 540 a.C. Diversamente da Pitagora però, egli non si stabilì definitivamente in un luogo, ma andò itinerando per varie città della Sicilia e dell’Italia meridionale, esercitando l’attività di rapsodo – consi- stente nel recitare versi propri o altrui davanti ad un pubblico – e criticando il fatto che le città onorassero gli atleti più che i poeti capaci di dare consigli sul buon governo. Tra queste città egli toccò anche Elea; la tradizione successiva, a cominciare da Platone, sembrò considerarlo il capostipite della scuola eleatica. Ma Senofane non è un pensatore legato a una scuola e a una residenza stabile. Morì in tardissima età verso il 480 a.C. Compose vari scritti in versi, alcuni di carattere epico concernenti la fondazione di Colofone e la colonizzazione di Elea, altri invece in metro elegiaco anche di carattere autobiografico. Ma l’uso del verso non corrisponde in Senofane a un allineamento con il sapere della tra- dizione, di cui i poeti erano portatori. Egli anzi conduce una critica serrata dei racconti dei poeti. Il punto cruciale era dato dalla rappresentazione antropomorfica degli dèi. I versi di Omero ed Esiodo non soltanto descrivevano gli dèi come se avessero un aspetto umano, ma attribuivano loro una condotta che anche dal punto di vista umano risulta riprovevole. Il riferimento a popolazioni extra-greche e a un’ipotetica capacità degli animali di disegnare le divinità consentiva a Senofa- ne di mostrare come le rappresentazioni dell’aspetto fisico degli dèi fossero re- lative alle caratteristiche fisiche proprie dei vari animali e delle diverse popola- zioni: per gli Etiopi gli dèi sono camusi e neri, per i Traci sono cerulei di occhi e rossi di capelli. Senofane elabora una sorta di esperimento mentale, immagi- nando come gli animali potrebbero rappresentare i loro dèi, se fossero in gra- do di disegnare. La sua risposta è che li rappresenterebbero simili a sé, come cavalli o buoi e così via. Ciò tuttavia non conduce Senofane ad una negazione della divinità, bensì al tentativo di acquisire una nozione più adeguata di essa. Con Senofane gli dèi stessi erano assunti a oggetto di riflessione e d’indagine: emergeva la teologia, ossia il logos, discorso, sulla divinità (in greco theòs). A ta- le scopo egli adottava procedure, che sarebbero poi state impiegate anche nel- le riflessioni teologiche posteriori. Si trattava non soltanto di negare alla divi- Storia della filosofia antica 22 nità una somiglianza con gli uomini sul piano dell’aspetto e dell’intelligenza, ma anche di descrivere la sua attività in modo da portare al massimo della potenza e della perfezione aspetti propri dell’uomo, benché soltanto entro certi limiti. Senofane giungeva in tal modo a sostenere che il vedere, l’udire e il pensare – funzioni proprie anche dell’uomo – si esplicano in modo diverso nella divinità. Nell’uomo a ciascuna di queste funzioni è preposto un singolo organo; la divi- nità invece esercita ciascuna di esse con tutta se stessa. Per Senofane il dio «tut- to intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode». Ciò conferisce al suo pen- siero una potenza di controllo e di azione sulle cose del tutto assente, invece, negli uomini. Il sapere umano, infatti, è contrassegnato per Senofane da precisi limiti: «Il certo – egli diceva – nessuno mai lo ha colto né alcuno ci sarà che lo colga e re- lativamente agli dèi e relativamente a tutte le cose di cui parlo. Infatti, se anche uno si trovasse per caso a dire, come meglio non si può, una cosa reale, tuttavia non la conoscerebbe. Perché a tutti è dato solo l’opinare». Intanto gli uomini non possono contare su una rivelazione originaria da parte degli dèi, né sul fat- to che gli dèi inviino segni agli uomini: Senofane respingeva la divinazione. Gli uomini possono attingere soltanto ciò che pare migliore, senza avere mai la cer- tezza totale che esso sia veramente tale. Ma la condizione per pervenire a que- sto risultato, anche se mai del tutto certo, è per Senofane una ricerca che si svol- ge nel tempo. A un presunto sapere originario, donato istantaneamente e glo- balmente dagli dèi agli uomini, Senofane contrappone una concezione del sa- pere come frutto di lenta acquisizione. In questo orizzonte egli recupera impo- stazioni fatte valere già all’interno della cultura ionica, indicando nella terra e nell’acqua le matrici dalle quali tutte le cose si sono formate. L’osservazione di fossili gli consentiva di ravvisare nei pesci il più antico genere di esseri viventi. Le divinità, che il mito trovava presenti nella natura, erano espulse da essa: Iri- de, l’arcobaleno, non è che un tipo particolare di nuvola. Probabilmente in ri- sposta a Senofane, ma accogliendone anche il suggerimento, Teagene di Reggio avrebbe cercato poco dopo di difendere Omero, sostenendo che le divinità dei poemi omerici non erano che figurazioni allegoriche di entità e forze naturali. 1.7. Eleatismo: rivelazione e ricerca Il tema della ricerca ritorna anche in Parmenide, ma per lui era la divinità stessa a indicare la via che occorre percorrere. Già per questo aspetto risulta fra- gile la posizione che ha inteso legare strettamente Senofane alla scuola eleatica. Forse Parmenide fondò una scuola in senso istituzionale, un’associazione di ca- rattere medico-religioso collegata al culto di Apollo; certo esiste una corrente di pensiero eleatica, la quale ebbe come iniziatore Parmenide e discepoli e so- 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 23 stenitori, quali Zenone e Melisso. Parmenide fu attivo in Elea, colonia greca si- tuata sul versante tirrenico della Magna Grecia – e precisamente nel Cilento – verso il 500 a.C. Nato da famiglia aristocratica, avrebbe contribuito alla legisla- zione della città. Dubbi rimangono invece a proposito di un suo soggiorno in- torno al 450 a.C., in compagnia del discepolo Zenone, ad Atene, dove avrebbe incontrato il giovane Socrate. Egli scrisse un poema in esametri, intitolato poi Sulla natura, del quale ci restano frammenti. Il protagonista di esso è lo stesso Parmenide, il quale racconta in prima per- sona un viaggio da lui compiuto sotto la guida di divinità. Esso lo conduce a va- licare la porta che separa il dominio delle tenebre da quello della luce, dove può accogliere l’insegnamento di una dea. Con questo rivestimento mitico Parme- nide riprendeva il modello dei poeti epici, che attribuivano all’insegnamento della Musa quanto essi cantavano. Il contenuto del loro canto riguardava però in primo luogo eventi del passato, mentre in Parmenide il discorso della dea non è un racconto analogo a quelli esposti nei miti, ma contiene un messaggio su ciò che può e deve essere pensato e detto. Su questa base la dea individua la via di ricerca che Parmenide dovrà percorrere e, accanto a questa, sia la via impossi- bile da percorrere, sia quella percorsa di fatto dagli uomini. Non si tratta più, come era avvenuto nella maggior parte dei pensatori precedenti, di partire da ciò che è visibile e osservabile nel mondo per pervenire a ciò che sfugge ai sen- si. Il punto di partenza della via di ricerca, additata dalla dea a Parmenide, è in- vece radicalmente nuovo: è il dominio di ciò che può essere propriamente det- to e pensato, in opposizione a ciò che non può esserlo. Parmenide prescinde dunque completamente dalla corrispondenza di questo dominio con il mondo dell’esperienza sensibile. Esso non ha bisogno di conferme dall’esterno; ha in- vece una necessità interna. L’avvio è dato dalla disgiunzione: «è o non è». Rispetto a essa non è possi- bile pensare e dire una terza cosa. Parmenide non precisa immediatamente qua- le sia il soggetto grammaticale di «è» e di «non è». Nel primo momento è im- portante sottolineare il carattere necessario di questa disgiunzione, a prescin- dere dal soggetto al quale essa si riferisce. Quale che sia l’oggetto di una auten- tica ricerca, si può solo dire e pensare che è, in quanto assolutamente disgiun- to dal non essere. Successivamente Parmenide indica come soggetti dei due ver- bi «ciò che è» e «ciò che non è». La via consistente nel dire e pensare ciò che è, è quella percorribile; mentre quella che consisterebbe nel dire e pensare ciò che non è non può essere percorsa, perché non è possibile né dire né pensare ciò che non è. I comuni mortali imboccano, invece, una terza via, mescolando in- sieme «è» e «non è». Per esempio, essi parlano di nascere e perire delle cose, ma nascita e morte sono concetti che comportano una mescolanza arbitraria di essere e non essere: nascere vuol dire essere, ma anche non essere prima di es- sere e morire vuol dire non essere, ma anche essere prima di non essere. Il cri- terio per giudicare scorretto il linguaggio comunemente usato dagli uomini non Storia della filosofia antica 24 è la sua corrispondenza a quanto ci è testimoniato dai nostri organi di senso. A questi infatti appaiono oggetti che nascono e muoiono. Ma il verdetto di Par- menide sul linguaggio e sulle opinioni degli uomini, collegate a quel tipo di lin- guaggio, non assume a criterio di giudizio le apparenze fornite dai sensi, bensì il contenuto logico delle parole usate dagli uomini. Essi infatti usano parole, nel- le quali si trova contraddittoriamente mescolato ciò che è disgiunto radical- mente, ossia essere e non essere. I testi di Parmenide che ci sono pervenuti non consentono di affermare che egli identificasse l’essere, di cui egli parla, con un’entità precisa, per esempio la natura o il mondo nel suo insieme o la divinità. Con i termini «è» ed «essere» Parmenide intendeva probabilmente una molteplicità di cose. Dire che qual- cosa è può significare che esso è presente o che esso esiste o che è qualcosa o che è vero. Tutti questi significati sono compresenti nell’essere di Parmenide. Solo ciò che è può essere propriamente pensato e detto e, viceversa, solo ciò che è propriamente pensato e detto, a sua volta è. Ciò comporta un legame neces- sario tra essere, pensiero e linguaggio. Partendo dalla disgiunzione assoluta tra «è» e «non è», Parmenide procede quindi a individuare quali siano le proprietà di ciò di cui si può propriamente pensare e dire che è. Egli introduce a tale sco- po una procedura che resterà essenziale per il ragionamento non soltanto filo- sofico, ma anche matematico. Si tratta della deduzione, ossia del ragionamento che, partendo da proposizioni ammesse come premesse, ricava delle conclusio- ni. In particolare, Parmenide mette in opera una particolare forma di deduzio- ne, consistente nella cosiddetta dimostrazione per assurdo. Essa assume come premesse il contrario di ciò che si vuole dimostrare e ne deduce conseguenze contraddittorie o errate, ma poiché queste conseguenze sono errate, ne risulta che sono errate le premesse a partire dalle quali sono ricavate. Il risultato è che saranno vere le premesse contrarie a quelle errate. Mediante questa forma di ragionamento, Parmenide dimostra che l’essere è ingenerato e imperituro, immutabile, immobile, indivisibile, uno. Per esempio, se si ammette che l’essere muta, ne consegue che esso è ciò che non era prima o non è ciò che era prima. Ma in tal modo si attribuisce a una stessa cosa l’es- sere e il non essere, il che va contro la disgiunzione assoluta tra «è» e «non è», assunta come necessaria all’inizio. Per evitare tale contraddizione, diventa allo- ra necessario concludere esattamente l’opposto, ossia che l’essere non muta. Lo stesso ragionamento può essere applicato per dimostrare quali sono le altre pro- prietà di ciò che è. Per esempio, se si ammette che l’essere è molteplice, occor- re riconoscere che ciascuno di questi molteplici non è gli altri e, pertanto, nuo- vamente è e non è. Dunque ciò che è non può essere molteplice. Tra le proprietà dell’essere Parmenide introduce anche il carattere finito di esso. Infatti se fos- se infinito, sarebbe incompiuto e quindi manchevole di qualcosa; ma se manca di qualcosa vuol dire che non è ciò di cui manca. Anche la nozione di infinito comporta dunque una mescolanza contraddittoria di essere e non essere. Per 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 25 questo Parmenide paragona ciò che è a una sfera compatta, la quale esprime nel modo migliore il carattere di compiutezza e totalità che caratterizza l’essere. Accanto alla delineazione della via di ricerca che occorre percorrere, ossia la via della verità, la dea ritiene importante illustrare a Parmenide anche la via percorsa dalle opinioni degli uomini, le quali sono ingannevoli. A tale scopo provvedeva la seconda parte del poema, della quale ci restano ancor meno ver- si che per la prima parte. L’intento di Parmenide nel delineare questa seconda parte resta problematico. In essa, egli intendeva forse mostrare quale fosse il mi- glior modello di spiegazione del mondo fisico, rimanendo nei limiti di ciò che appare agli uomini. Il mondo fisico appare agli uomini caratterizzato dal na- scere e morire delle cose, ossia dal loro trasformarsi. Ciò presuppone che le co- se siano riconducibili a elementi, i quali danno luogo a combinazioni. Come elementi Parmenide introduce la luce, assimilata al fuoco, e le tenebre, assimi- late alla terra; da essi si formano mescolanze, le quali sono le cose come ap- paiono agli uomini. Per un verso gli elementi sono analoghi all’essere, ma per l’altro le loro mescolanze, in quanto suscettibili di nascere e perire, sono analo- ghe al non essere. Qui si radica l’errore che è al cuore delle opinioni dei morta- li. Su questa base Parmenide elaborava una serie di dottrine cosmologiche, compatibili con il dominio dell’opinione, della doxa, ma non con quello della verità in senso pieno. Dall’azione della luce-fuoco sulle tenebre-terra si genera l’intero mondo della natura. Con il discorso condotto nella seconda parte del poema, Parmenide poneva probabilmente una serie di premesse, che sarebbe- ro state utilizzate dai pensatori successivi, i quali avrebbero riproposto la que- stione dei princìpi dell’universo fisico. Ma era probabilmente anche il primo a sostenere la tesi della sfericità della terra e ad affermare che la luna riceve la sua luce dal sole. Discepolo di Parmenide fu Zenone, nato anch’egli a Elea verso l’inizio del V secolo a.C. Forse venne ucciso per aver partecipato a una congiura contro un tiranno che si era impadronito del governo della sua città. Diversamente dal maestro, Zenone compose il suo scritto in prosa. Il suo intento era in primo luo- go una difesa delle dottrine del maestro dagli attacchi ai quali gli avversari le avevano sottoposte. Per questo aspetto Aristotele chiamerà Zenone inventore della dialettica, intesa come tecnica di discussione a partire dalle premesse am- messe dall’avversario. Per demolire gli attacchi a Parmenide, Zenone ricorre in primo luogo, sulla scia del maestro, alla procedura della dimostrazione per as- surdo. Ma a essa egli affianca un altro importante strumento argomentativo: il regresso all’infinito, da lui applicato in relazione alla divisibilità delle grandez- ze (spazio e tempo). Utilizzando questi due strumenti egli costruisce una serie di argomenti contro la molteplicità e contro il movimento. Essi saranno poi chiamati paradossi, letteralmente proposizioni «contrarie all’opinione» comu- ne, in quanto portano a conclusioni che contrastano con quanto si pensa co- munemente. Contro i sostenitori del movimento, Zenone enuncia quattro ar- Storia della filosofia antica 26 gomenti, affini tra loro. Il più celebre è quello detto di Achille e la tartaruga. Ze- none ipotizza una situazione nella quale Achille (A) e una tartaruga (T) debba- no raggiungere un traguardo (F). Immaginiamo che Achille dia un vantaggio al- la tartaruga. Nel tempo in cui A si muove per raggiungere T, T raggiunge T1; nel tempo in cui A si muove da T per raggiungere T1, la tartaruga si muove da T1 a T2 e così via all’infinito. A T T1 T2 F Il presupposto di questo regresso all’infinito – che genera la conclusione pa- radossale – è che la grandezza – in questo caso lo spazio da percorrere – sia di- visibile all’infinito. Anche Zenone, come già Parmenide, non parte dalla con- statazione empirica che un uomo correndo raggiungerà la tartaruga, ma sotto- pone ad analisi il concetto di movimento. Se si ammette che lo spazio sia un con- tinuo divisibile all’infinito, Achille correndo non riuscirà a raggiungere la tar- taruga in un tempo finito, perché è impossibile percorrere una serie infinita di punti. La conclusione ottenuta mediante questo ragionamento, che conduce al- l’assurdo la nozione di movimento, è che l’essere è immobile, come appunto aveva sostenuto Parmenide. Contro la nozione di molteplicità, invece, Zenone argomenta mostrando che, se i molti sono, devono essere di numero sia finito (cioè tanti quanti sono), sia infinito (in quanto ciascuno di essi è separato dall’altro mediante qualche co- s’altro e così all’infinito). Ma è impossibile che una stessa cosa sia al tempo stes- so finita e infinita. Per evitare questa contraddizione occorre negare l’esistenza del molteplice e quindi concludere, come voleva Parmenide, che l’essere è uno. La cosa interessante è che Zenone con queste sue argomentazioni non utilizza- va in prima istanza la disgiunzione tra «è» e «non è», che aveva invece sorretto le dimostrazioni per assurdo di Parmenide. Prendeva invece rilievo il regresso all’infinito, fondato sulla nozione di divisibilità delle grandezze, la quale sareb- be rimasta un presupposto centrale per le indagini geometriche dei Greci. Ma ciò che vale per l’ambito delle grandezze geometriche – per esempio la divisi- bilità all’infinito di una linea – era esteso da Zenone non solo all’ambito dei nu- meri, bensì probabilmente anche al dominio della natura. Il modo comune di rappresentarsi il mondo fisico da parte degli uomini appariva perciò incompa- tibile, anche nelle argomentazioni di Zenone, con il dominio di ciò che può es- sere pensato e detto senza contraddizioni. Il problema dell’infinito è centrale anche in un altro pensatore che si ispira all’insegnamento di Parmenide. Si tratta di Melisso, il quale però non fu origi- nario di Elea, bensì di Samo, l’isola dalla quale anni prima Pitagora si era al- lontanato per stabilirsi in Italia meridionale. Questo fatto mostra che le dottri- ne di Parmenide avevano ben presto cominciato a circolare fuori dalla loro ori- 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 27 ginaria zona geografica, raggiungendo l’altro polo del mondo greco. Nato ver- so il 480 a.C., Melisso partecipò al conflitto che oppose Samo a Mileto e Atene nel 441-439 a.C., comandando la flotta che una volta sconfisse quella ateniese capeggiata da Pericle. Dapprima gli Ateniesi instaurarono a Samo la democra- zia, ma nella primavera del 440 a.C. ebbe luogo una rivolta oligarchica, che tut- tavia ebbe breve durata perché nel 439 Samo dovette cedere. Questi eventi sembrano confermare un’adesione di Melisso all’oligarchia, in conformità al- l’orientamento proprio del maestro di pensiero al quale egli si richiamava, l’a- ristocratico Parmenide. Ma difficilmente egli dovette avere rapporti diretti con Parmenide. Come il suo quasi contemporaneo Zenone, anche Melisso scrisse in prosa un’opera intitolata poi Sulla natura o sull’essere. Secondo Aristotele Melisso avrebbe smarrito la dimensione squisitamente logica dell’essere parmenideo, tendendo a identificarlo con la natura. Melisso pensa l’essere come una sostanza fisica estesa nello spazio e nel tempo. Come per Parmenide, anche per Melisso l’essere è uno, immobile e immutabile, ma mentre di esso, secondo Parmenide, si può dire che è, per Melisso si può anche dire che era e che sarà: l’essere dunque è eterno, nel senso del suo essere infi- nito, senza limiti, anche nel tempo. Analogamente l’essere è infinito anche nel- lo spazio, in quanto non ha confini né può avere nulla fuori di se stesso. E pro- prio in quanto infinito l’essere non può che essere uno, perché se non fosse uno sarebbe limitato da altro. A questi risultati, che modificano su un punto essen- ziale la dottrina parmenidea e che avranno grande importanza anche nelle di- scussioni teologiche, Melisso giunge attraverso la ripresa della tecnica consue- ta della dimostrazione per assurdo. 1.8. Empedocle: la natura e la salvezza Influenzato dal pitagorismo e dall’orfismo, ma al corrente anche delle ac- quisizioni dell’eleatismo, operò nel V secolo a.C., in un’altra zona importante dell’Italia meridionale – la Sicilia – Empedocle. Nato ad Agrigento verso il 490 a.C., pur appartenendo a nobile e ricca famiglia, partecipò alle lotte politiche della sua città schierandosi dalla parte dei democratici e per questo morì forse in esilio nel 425. Ma la sua fama di sapiente, guaritore e abile parlatore valicò la cerchia della sua città e la sua figura assunse presto tratti leggendari. Secondo una tradizione sarebbe morto precipitando nel cratere dell’Etna. Empedocle continuò a ricorrere allo strumento canonico per rivolgersi ad ampi uditori, la poesia. Anch’egli compose in esametri due opere, intitolate da- gli antichi Sulla natura e Purificazioni, di cui restano solo frammenti; un papiro di Strasburgo, recentemente decifrato, ha permesso di aggiungere alcuni versi a quelli già conosciuti. Il veicolo della poesia consente a Empedocle di presen- Storia della filosofia antica 28 tare se stesso direttamente come annunciatore di verità. L’oggetto principale delle sue osservazioni e riflessioni torna a essere il mondo fisico, ma tenendo conto di alcuni dei divieti logici e linguistici posti da Parmenide. Anche per Em- pedocle, infatti, gli uomini parlano erroneamente di nascere e perire delle cose. In realtà, dietro questa vicenda di trasformazioni incessanti, permangono co- stanti e indistruttibili quelle che egli chiama radici e che in seguito saranno chia- mate elementi: terra, acqua, aria, fuoco. Ciò conduce a una modificazione ri- spetto all’orizzonte eleatico: l’ambito di ciò che è, è molteplice. Gli oggetti che cadono sotto i nostri sensi non sono altro che mescolanze delle quattro radici secondo diverse proporzioni, analoghe alle mescolanze dei colori. Empedocle individua due ragioni perché queste mescolanze possano avere luogo. La prima è che le radici siano suscettibili di movimento. Anche per questo aspetto, dun- que, Empedocle si allontana dall’eleatismo. La seconda è che esistano princìpi attivi in grado di produrre le aggregazioni a partire dalle quattro radici e le di- sgregazioni degli oggetti così costituiti. Il nascere e il perire sono prerogative degli oggetti risultanti dalla mescolanza delle quattro radici: essi sono dovuti al- l’azione di due princìpi che Empedocle, attingendo al linguaggio dei racconti mitici, chiama Amore e Odio. Essi operano non soltanto sull’universo nella sua totalità, ma anche su ciascuna delle cose che popolano l’universo. Un aspetto fondamentale della loro azione è che essa avviene nel tempo e secondo gradi di- versi. Quando l’azione dell’Amore prevale nettamente sulla forza contraria, si ha una situazione di pace, che Empedocle – sulla scia di Parmenide – concepi- sce come una sfera compatta e priva di scissioni al suo interno. Quando invece prevale l’azione dell’Odio si ha una scissione tra le quattro radici, la quale ri- chiama il caos della tradizione mitica. Queste sono le situazioni estreme di una vicenda che, secondo l’interpretazione prevalente, percorre due cicli – dal do- minio dell’Amore a quello dell’Odio e viceversa – e che nel suo momento cen- trale è caratterizzata da una compresenza delle due forze opposte. Tale è l’epo- ca attuale, dove secondo Empedocle tende a prevalere il principio disgregato- re dell’Odio. Si comprende come questo quadro cosmologico potesse consen- tire a Empedocle di interpretare anche le vicende degli uomini. Gli esseri viventi, uomini inclusi, non sono che il risultato di questi proces- si di aggregazione e disgregazione determinati dall’Amore e dall’Odio. Prima del costituirsi dei corpi animali e umani, nella forma in cui essi appaiono a noi, si ebbero aggregazioni di carattere mostruoso, le quali tuttavia non sopravvis- sero. Le forme attuali sono, invece, in grado di riprodursi. Empedocle, che la tradizione presenta anche come medico, nutre forti interessi per la compren- sione dei fenomeni del vivente, come la generazione o la respirazione. Gli stes- si processi della percezione e della conoscenza sono da lui spiegati in base all’i- dentità di struttura fisica dell’uomo che conosce e delle cose che sono cono- sciute: sia l’uomo sia le cose presentano una mescolanza delle quattro radici e denunciano la presenza in se stesse dei due princìpi attivi. Gli interpreti antichi 1. Fra Oriente e Occidente. Le origini della filosofia 29 classificheranno questa concezione della conoscenza come conoscenza del si- mile per mezzo del simile: dalle cose emanano effluvi che, penetrando attraver- so i pori, raggiungono l’uomo. Anche l’esercizio del pensiero è collegato alla struttura fisica dell’uomo e precisamente al sangue intorno al cuore, dove av- viene la migliore mescolanza delle quattro radici. Allo stesso modo le capacità dei singoli individui – per esempio nel parlare o nello svolgere lavori manuali e così via – sono riconducibili alle diverse proporzioni in cui avviene la mesco- lanza dei costituenti di tutte le cose. Il tempo svolge una funzione centrale nella cosmologia di Empedocle. Egli vuole rintracciare ciò che permane costante al di sotto della vicenda ciclica del- le aggregazioni e delle disgregazioni. Ciò si integra perfettamente, ai suoi occhi, con la credenza propria della tradizione orfica, condivisa per alcuni aspetti an- che dal pitagorismo, nella trasmigrazione delle anime. Empedocle però non parla di anima, ma più propriamente di un dèmone, che spinto dall’Odio com- mette colpe ed è costretto a compiere un lungo viaggio, che dura millenni e por- ta il dèmone a trasmigrare attraverso vari tipi di corpi viventi. Questa conce- zione conduce al vegetarianesimo e ad opporsi radicalmente al sacrificio. Ucci- dere animali e nutrirsi delle loro carni equivale a una forma di cannibalismo, perché in ogni essere vivente è presente un’anima umana, che sta compiendo il suo ciclo di reincarnazioni. Se durante questo ciclo l’anima ha condotto una vi- ta buona, al termine potrà tornare nella sua condizione divina. Su questo sfon- do Empedocle può proiettare la sua predicazione di salvezza agli uomini, indi- cando le vie della guarigione e della purificazione. In un mondo che gli appari- va in una certa misura sopraffatto dall’Odio, egli additava ai suoi ascoltatori nel- le città della Sicilia, con i suoi versi, ma anche con la sua azione di guaritore e mago, capace di influenzare le forze della natura, le linee di una condotta ca- pace di opporsi all’azione disgregatrice dell’Odio. Empedocle rappresenta il culmine di una tradizione di sapienti che si presentano dotati di un sapere ec- cezionale. Ma nel V secolo a.C. queste figure tendono progressivamente a di- minuire, lasciando spazio a nuovi tipi di pensatori. 2. Atene e la pluralità dei mondi 2.1. La molteplicità delle culture I pensatori del VI secolo a.C., abitatori di colonie a contatto con realtà lo- cali o con grandi imperi, avevano insistito soprattutto sull’unità e unicità del- l’ordine cosmico, dell’essere e – con Senofane – della stessa divinità. La ricerca del V secolo a.C. continua, per certi versi, a mantenere in piedi questo oriz- zonte, ma ad essa si intreccia una crescente consapevolezza della molteplicità e della diversità, che contrassegnano la natura, i popoli, le forme di organizza- zione politica e sociale. Il tentativo persiano di conquistare la Grecia mise di fronte all’angoscioso problema della cancellazione possibile delle proprie tra- dizioni religiose, politiche, culturali. La vittoria finale allontanò questo perico- lo, ma contribuì ad accentuare la contrapposizione tra i Greci e gli altri, i bar- bari. Da una parte ciò portò alla constatazione dell’esistenza di differenze cul- tur