Storia Contemporanea - L'800 - Dispense Mattera (PDF)
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Università degli Studi Roma Tre
Paolo Màttera
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These lecture notes for a contemporary history course cover the 19th century, focusing on industrial revolutions and the rise of mass society. The document explains the characteristics of the Ancien Régime and provides an overview of the political, administrative, religious, and cultural context of the era preceding the French Revolution. The notes provide details on aspects such as the economic structure and social hierarchy of this period.
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L’Ottocento Le rivoluzioni industriali e l’avvento di società e politica di massa Dispense del corso di Storia Contemporanea Università degli Studi Roma Tre Dipartimento di Studi Umanistici Prof. Paolo Màttera Capitolo I Prima...
L’Ottocento Le rivoluzioni industriali e l’avvento di società e politica di massa Dispense del corso di Storia Contemporanea Università degli Studi Roma Tre Dipartimento di Studi Umanistici Prof. Paolo Màttera Capitolo I Prima dell’Età contemporanea: uno sguardo sull’Antico Regime Le caratteristiche di quella che viene chiamata “Età Contemporanea” affondano le proprie radici nelle profonde trasformazioni del periodo a cavallo tra fine ’700 e inizio ’800. Per meglio comprendere la portata della svolta che maturò allora, può risultare utile gettare uno sguardo veloce sulla realtà precedente, che in quella mede- sima fase storica fu abbattuta da un lungo ciclo di rivoluzioni. È una realtà complessa che si era formata nel corso di secoli e che in sede storica ha ricevuto una denomina- zione precisa: “Antico Regime”. L’Antico Regime La definizione di Antico Regime si impone durante la Rivoluzione francese. Nei Cahiers de doléances redatti dalle assemblee che inviarono i loro delegati agli Stati Generali nel 1789, si parla di ancien régime per opporre confusamente la situazione esistente da cambiare al nuovo regime che si attende. Il termine fu portato al livello di concetto storiografico dalla grande opera di Aléxis de Tocqueville, L’Antico regime e la Rivoluzione. Da allora è entrato in uso per indicare i caratteri politici, ammini- strativi, religiosi e culturali dell’epoca precedente la Rivoluzione francese. Concetto nato dunque in Francia, quello di “Antico Regime” è stato esteso poi all’insieme degli Stati e delle Società europee dell’epoca compresa tra la fine del Medioevo e le due rivoluzioni che trasformarono la realtà sociale (Rivoluzione industriale) e politica (Rivoluzione francese). E allora: quali erano i caratteri fondamentali del cosiddetto Antico Regime? Economia: il retaggio dell’agricoltura feudale1 Nel Settecento ancora si viveva, si moriva, si lavorava, si viaggiava in maniera non così diversa dal tardo Medioevo. Il lavoro risultava faticoso e spesso lento, perché nelle botteghe artigiane si lavorava con i congegni manuali e nelle campagne con la trazione animale. L’attività economica principale era l’agricoltura. La grande maggioranza degli uomini e delle donne lavorava infatti la terra persino se abitava nelle città; e, soprat- tutto in Europa, si coltivava il grano, che costituiva la base dell’alimentazione. Tutta- via, anche se erano in tanti a lavorarla, la terra aveva una produttività piuttosto bassa, per almeno due ordini di motivi. In primo luogo la rotazione: i terreni non potevano produrre tutti gli anni, ma dovevano essere lasciati a riposo. In ogni villaggio la terra 1 Il testo di questo paragrafo è prevalentemente frutto della sintesi da Adriano Prosperi, Paolo Viola, Storia Moderna e Contemporanea, Vol. II, pp. 185-186 e 193 e seguenti. Per ulteriori indicazioni, vedere la biblio- grafia di riferimento alla fine del capitolo. 2 coltivabile veniva perciò suddivisa in due o tre zone equivalenti, opportunamente sfasate nella produzione agricola, in modo che tutti gli anni venisse garantita la pro- duzione; così però almeno un terzo dei terreni doveva restare inutilizzato, riducendo di molto la produzione. Per di più – ecco il secondo motivo della bassa produttività – non si poteva nemmeno destinare tutta la terra alla rotazione delle coltivazioni, perché bisognava dedicare aree piuttosto vaste, molto superiori a quelle lasciate a ri- poso, all’allevamento del bestiame; altrimenti sarebbero mancati la carne, il latte e la forza motrice per gli aratri e i carri. Bisognava infine salvaguardare il bosco, perché il legname era indispensabile per costruire case e attrezzi; e con la legna ci si riscaldava, si cucinava e si alimentavano forni e fucine. Insomma: molti campi intorno ai villaggi venivano, per un motivo o per un altro, esclusi dalla coltivazione. E quelli coltivati rendevano a loro volta poco; né giungevano in aiuto i fertilizzanti che, tutti di origi- ne animale, non potevano aumentare più di tanto la produttività. Si viaggiava a piedi, a cavallo e a vela, con le distanze che risultavano perciò enor- mi. Sicché la maggioranza delle persone non viaggiava mai, anzi: molti erano coloro che nascevano, trascorrevano tutta la vita e morivano nel medesimo luogo; che era poi il posto dove erano spesso nati, vissuti e morti i genitori, i nonni e i bisnonni, per generazioni. Queste difficoltà nelle vie di comunicazione incidevano anche sulle atti- vità economiche. I trasporti erano così difficili, lenti, al passo del cavallo o del mulo, su strade insicure, sconnesse e rese ancor più precarie dalle piogge, che solo merci di grande valore potevano essere gravate del costo di un viaggio al di fuori di un ambito locale. Sicché nei limiti del possibile tutto doveva essere prodotto vicino ai luoghi di consumo, altrimenti i prezzi sarebbero cresciuti oltre le possibilità di assorbimento del mercato. Facevano eccezione i prodotti di gran lusso, il cui prezzo era già talmen- te alto che il trasporto non incideva. Erano ad esempio i tessuti di seta di Lione, le lame di Toledo e le spade di Sheffield, i violini di Cremona, i vetri e gli specchi di Venezia, le porcellane di Limonges. Tutti manufatti creati nelle botteghe artigiane, il cui numero stava notevolmente crescendo. Nel variegato mondo dell’artigianato la divisione del lavoro risultava netta: non era facile passare da un’attività all’altra, né investire in ambiti differenti. I lavoratori di uno specifico settore venivano inquadrati in corporazioni, nelle quali si entrava con difficoltà e che spesso controllavano il territorio: un quartiere, una strada in cui si affollavano le botteghe della stessa specialità. Quando si trattava di mestieri più prestigiosi non si parlava più di corporazioni ma di compagnie o corpi. Ognuno di questi corpi aveva una sua collocazione nella società, un suo posto nelle processioni religiose, un rango riconosciuto da un particolare statuto e una particolare sistema- zione legislativa. Si trattava insomma di un’organizzazione in gruppi chiusi. E tale assetto non era affatto un’eccezione, bensì il ri%esso della più ampia organizzazione dell’intera società. La società2 Gli uomini e le donne di Antico Regime non pensavano a se stessi come persone isolate, come individui dotati di diritti e destini parimenti individuali. Bisogna inve- 2 Il testo di questo paragrafo è la sintesi da Eric Hobsbawm, L’età delle rivoluzioni, Saggiatore, Marc Bloch, La società Feudale, Einaudi, Adriano Prosperi, Paolo Viola, Storia Moderna e Contemporanea, Einaudi, Vol. I. Per ulteriori indicazioni, vedere la bibliografia di riferimento alla fine del capitolo. 3 ce immaginare la società dell’epoca come un insieme gerarchizzato di gruppi, ognuno dotato di una propria identità, di un posto ben precisato (e diverso da quello degli altri) nel tessuto sociale, di un suo rapporto col potere, di diritti e doveri particolari. Le origini di questo assetto risalivano al Medioevo, quando il monaco Aelfric, scri- vendo al Vescovo di York in Inghilterra, aveva esposto la sua idea di società, divisa in tre gruppi: quelli che combattono, quelli che pregano e quelli che lavorano. Era un’idea semplice e di grande efficacia, destinata a consolidarsi nel tempo, che divi- deva la società in base alle funzioni che ciascun gruppo svolgeva. C’erano coloro che dovevano impugnare le armi per proteggere le città e i paesi: i cavalieri in armi che divennero la nobiltà. C’erano poi coloro che dovevano intercedere presso Dio e pro- teggere gli altri con la preghiera: il clero. C’erano infine coloro che dovevano lavorare per produrre i beni necessari a mantenere e sfamare chi li proteggeva con le armi e la preghiera: erano i contadini e gli artigiani, i quali ben presto in Francia assunsero la denominazione destinata a grande fortuna, il “Terzo Stato”. La società di Antico Regime non era dunque composta da individui, bensì suddivisa in gruppi, definiti ordini, oppure ceti o stati. A ciascuno di questi gruppi apparteneva un insieme di individui, e a ciascun gruppo venivano assegnati un posto ben preciso nella scala sociale e un quadro normativo peculiare. Sicché ogni persona non aveva una collocazione nella società in base alle proprie qualità individuali, ma in base al gruppo cui apparteneva. A funzioni diverse per ciascun ordine, corrispondevano infatti leggi diverse, con diritti e doveri differenti. I tre ordini non avevano pari dignità. Al vertice stava la nobiltà, che godeva di ampi privilegi, accumulava immense ricchezze, con lo sfrutta- mento dei contadini, e veniva esentata dal pagamento delle tasse. Simili risultavano le prerogative dell’Alto Clero, cui si poteva accedere solo se di origine nobiliare. In fondo alla piramide stavano tutti gli altri: la grande maggioranza della popolazione. Un aggregato molto composito ed eterogeneo, cui appartenevano i contadini, ma col passare del tempo anche professionisti (avvocati, procuratori, notai, medici), nonché commercianti, uomini d’affari e artigiani. Su questo strato in fondo alla piramide gravavano tutti i pesi, a partire dalle tasse. Per di più, a ciascun gruppo corrispondeva anche una differente amministrazio- ne della giustizia. Mentre per i membri del Terzo Stato erano previste pene spesso severissime, anche a fronte di reati relativamente modesti, i nobili potevano essere giudicati solo dai loro pari e a loro carico erano previste spesso pene molto più blan- de. Oggi in tutti i tribunali campeggia una scritta: “La Legge è Uguale per Tutti”. E sul piano formale è senz’altro così. Ebbene: in Antico Regime era esattamente il contrario; la legge era diversa e valeva in modo differente per gli individui, in base al rispettivo gruppo di appartenenza. Come si entrava negli ordini? In base alla nascita. Ogni ordine era separato dagli altri da precise barriere giuridiche: si nasceva e si moriva nobili; si nasceva e si moriva appartenenti al Terzo Stato. Per secoli infatti i nobili riuscirono a godere di una legit- timazione al potere molto forte. Per comprendere questo fenomeno bisogna ricorda- re dell’importanza che, in un mondo molto più esposto all’imprevisto e al rischio, avevano alcune qualità umane come la forza fisica, il coraggio e l’abilità di battersi. Alle origini di questo sistema sociale stava l’idea che la guida di un “capo”, con potere e privilegi, veniva accettata perché egli proteggeva e difendeva gli altri grazie alle sue qualità: era il più forte, il più coraggioso, il più abile, il guerriero più capace. I privile- 4 gi riconosciuti e le tasse pagate erano, almeno formalmente e alle origini, il “prezzo” pagato al “signore” in cambio della sua protezione. L’archetipo di questo rapporto era il feudo, la cui impostazione formale e – per così dire – psicologica è stata magi- stralmente descritta da Marc Bloch: Essere «l’uomo di un altro uomo»: nessuna alleanza di parole era più diffusa di questa nel vo- cabolario feudale. Comune ai dialetti romanzi e germanici, serviva a esprimere la dipendenza personale […]. Il Conte era «l’uomo» del Re, il servo quello del signore del villaggio. Questi vincoli presentavano una loro precisa reciprocità: da una parte la prote- zione assicurata dal Signore, dall’altra la dipendenza, la fedeltà e l’obbedienza. Per comprenderne le ragioni bisogna risalire alla fase profonda del Medioevo e al crollo dell’Impero romano, con le sue articolate strutture giuridiche. Così argomenta an- cora Bloch: Né lo Stato né la famiglia potevano più offrire una protezione sufficiente. La comunità rurale non aveva la forza che per la sua polizia interna; quella urbana esisteva appena. Il debole pro- vava ovunque il bisogno di affidarsi a chi fosse più potente di lui. Il potente, a sua volta, non poteva mantenere il proprio prestigio o la propria ricchezza, né conservare la propria sicurezza, se non procurandosi, con la persuasione o la costrizione, l’appoggio di “inferiori” obbligati ad aiutarlo. Un rifugiarsi verso il capo, da un lato; dall’altro, prese di comando spesso brutali. E poiché le nozioni di debolezza e di potenza sono sempre relative, in parecchi casi lo stesso uomo diventava simultaneamente il dipendente di uno più forte e il protettore di più umili. In- cominciò in tal modo a costituirsi un vasto sistema di relazioni personali, in cui fili intrecciati andavano da un piano all’altro dell’edificio sociale. [Bloch, ed. 1993, pp. 171-174] Perciò, alle sue origini e nella sua impostazione di fondo, la società di antico regi- me era una società che si intendeva statica, dove le appartenenze, stabilite per nascita, dovevano risultare fissate per tutta la vita. Attenzione, però: era così alle origini e nell’impostazione di fondo. Non bisogna immaginare l’Antico Regime come una società completamente immobile, con distan- ze insormontabili e senza la minima possibilità di ascesa sociale. Al contrario: sulla grande massa dei contadini cominciò a formarsi, e si consolidò progressivamente tra il ’600 e il ’700, un “ceto di mezzo”, una borghesia di mercanti, di artigiani, di funzio- nari, di avvocati e addetti ai servizi dello Stato: «L’ascesa dei ceti medi fu un fenome- no indiscutibile nell’Europa del XVI secolo […] quello a cavallo del Cinquecento e del Seicento fu un periodo di rapida mobilità sociale» [Kamen, 1983, p. 231]. Molti documenti e testimonianze riferiscono che nell’Italia Centro-settentrio- nale già dal XVI secolo una nuova pratica di consumi e di acquisti si stava diffonden- do presso i ceti emergenti di mercanti e funzionari. Come lo sappiamo? I testamenti possono essere una fonte di informazione molto interessante. Gli artigiani di Genova lasciavano in eredità portate di posate e cucchiai d’argento e possedevano in numero crescente letti con materassi più comodi (che quindi tenevano a trasmettere agli ere- di), nonché lenzuola e biancheria. A Siena nel 1533 un modesto locandiere possede- va una camera da letto con un materasso di piume (che per l’epoca risultava un lusso), grandi tende e un intero baule di trapunte decorate e oggetti per la casa, nonché un ricco guardaroba con diciassette camicie. Un secolo dopo, nei Paesi Bassi era ormai prassi comune che mercanti e artigiani possedessero orologi, tappeti, tende, piatti di porcellana e un numero crescente di libri. Nel 1717 la casa di un sarto di Prisengracht 5 sfoggiava cinque quadri, terracotte di Delft, tende di pizzo, due dozzine di sedie, due completi di biancheria e numerosi libri. Ancora più vistoso fu il cambiamento in Inghilterra. Nel XVII secolo nessuna famiglia di Londra aveva servizi di porcellana. Nel 1725 il 60% degli inventari familiari riportava sevizi e utensili per il tè e il caffè. Potrebbe sorgere l’obiezione che gli inventari siano una fonte poco esauriente, per- ché non tutte le famiglie li hanno trasmessi. In supporto arrivano le parrocchie, le quali compilavano precisi registri delle famiglie indebitate che stipulavano contratti di protezione e assistenza in caso di insolvenza. Ebbene: praticamente tutti i registri rivelano che nel ’700 era ormai comune possedere materassi in piume, ricambi di biancheria e dei guardaroba molto più forniti, con numerose camicie e bottoni ele- ganti [Shama, 1993; Goldthwaite, 2009; Trentmann, 2017] In una società concepita come statica si stavano perciò mettendo in moto dei meccanismi di mobilità sociale, sia verso l’alto che verso il basso. Non bisogna per- ciò nemmeno cedere alla tentazione semplicistica di immaginare la realtà dell’Antico regime come quella di una società di diseguaglianza estrema, dove pochi “Signori” prosperavano nella ricchezza a spese di una pletora di poverissimi, isole di lusso in un mare di povertà. D’altro canto, non mancavano i casi di nobili che avevano dila- pidato i propri averi e faticavano a sostenere il proprio stile di vita lussuoso. In più, la nobiltà stava perdendo l’antica legittimazione, perché i suoi rappresentanti avevano progressivamente abbandonato la vocazione guerriera, di origine feudale, per trasfor- marsi in cortigiani, incipriati e imparruccati, che pretendevano di conservare i propri privilegi senza più offrire il servizio che li aveva giustificati ed era loro richiesto: quel- lo delle armi. Cosa impediva allora un cambiamento più profondo? Perché gli impulsi al di- namismo non soppiantavano l’antica impostazione statica? Risposta: a causa del complesso sistema giuridico, di norme e regole, che si era stratificato nel tempo a sancire i privilegi della nobiltà e la subordinazione del Terzo Stato. Si verificava- no invero dei casi di ricchi commercianti o funzionari che accumulavano grandi ricchezze e riuscivano a comprare un titolo nobiliare: alla nobiltà “di spada” dalle antiche origini guerriere, si aggiungeva così la nobiltà “di toga”. E spesso i governi, per riempire le casse dello Stato, avevano fatto ricorso alla vendita dei titoli. Ma non si trattava certo di una pratica aperta a tutti. Anzi: per la maggioranza della popo- lazione v’erano ben poche possibilità di modificare la propria posizione sul piano giuridico. I vistosi cambiamenti della condizione materiale permettevano certo di migliorare il tenore di vita, ma non consentivano di mutare la propria posizione fiscale e gli obblighi verso la nobiltà. Ancora peggio era per i contadini, per i quali spesso ogni forma di ascesa sociale o di miglioramento delle condizioni era al di fuori persino dell’orizzonte mentale. L’atteggiamento individualista era considera- to ribelle e il cammino verso la valorizzazione delle risorse personali guardato con sospetto. L’impianto giuridico dell’Antico Regime concepiva il cambiamento come un fatto negativo. Ognuno riceveva il suo posto dalla nascita e doveva trovare la sua collocazione in tale sistema. A gestire questo difficile equilibrio tra l’originaria impostazione statica e i crescenti impulsi al dinamismo stava un’apposita organizzazione dello Stato e della politica. 6 Le forme di Stato e della politica in Antico Regime3 La costruzione dello Stato moderno si è sviluppata con un processo di progressi- va concentrazione del potere nelle mani dei sovrani. Una serie di prerogative – sulle tasse, sull’esercito e sulla giustizia – che nel corso dei secoli erano stati assegnati ai villaggi, alle parrocchie e soprattutto ai feudi dei nobili, in età moderna furono pro- gressivamente – e faticosamente – concentrati nelle mani del potere centrale e dello Stato. L’esito di questo processo non fu però univoco, bensì duplice, con due soluzio- ni differenti: lo Stato assoluto e la Monarchia parlamentare. La prima formula fu realizzata nella Francia del ’600, durante i regni di Luigi XIII (con l’iniziativa del Cardinale Richelieu) e soprattutto sotto Luigi XIV. All’ini- zio del secolo la nobiltà aveva in realtà tentato di opporsi alla concentrazione del po- tere nelle mani del Re, imponendo nel 1614 la convocazione di un’antica assemblea medievale: gli Stati Generali, che riunivano i rappresentanti dei tre ordini (la nobiltà, il clero e il Terzo Stato); ma i contrasti fra gli ordini e all’interno di ciascun ordine resero inefficace l’assemblea, che fu sciolta e non sarebbe stata più convocata per un secolo e mezzo, fino al 1789, quando poi sarebbe scoppiata la Grande Rivoluzione. La debolezza delle assemblee e degli Stati Generali permise quindi alla monarchia di rafforzarsi progressivamente, fino alla istituzione dello Stato assoluto (o Monarchia assoluta). Cosa vuol dire? La monarchia era absoluta legibus: sciolta dalle leggi. Non perché fuori della legge, ma perché superiore alla legge, fonte suprema del diritto, del- la decisione, della iniziativa legislativa. La seconda formula – la Monarchia Parlamentare – fu invece realizzata in In- ghilterra. Anche lì la monarchia si adoperò per sottrarre il potere in materia di tasse e giustizia agli organi locali e ai feudi sparsi sul territorio; e in gran parte vi riuscì. Rag- giunto il primo obiettivo, il Re cercò quindi di concentrare il potere anche al vertice dello Stato. Ma lì trovò l’opposizione delle assemblee dei nobili e delle città: rispetti- vamente la Camera dei Lords e la Camera dei Comuni, che si rivelarono ben più forti degli Stati Generali francesi. E così, nel corso del ’600, proprio mentre in Francia si consolidava l’assolutismo, in Inghilterra si verificavano due rivoluzioni (negli anni ’40 del secolo e nel 1688) che portarono a una coabitazione fra il Re e il Parlamento (composto appunto dalle Camere dei Lords e dei Comuni). Il Parlamento approvava in esclusiva le leggi: aveva conquistato il potere legislativo. Aveva in tal modo preso forma un principio fondamentale: la divisione del potere, che tanto avrebbe affascina- to filosofi come Montesquieu. Ma il caso inglese era rimasto per il momento isolato. Tra Stato assoluto e Monar- chia parlamentare, in Antico Regime prevaleva senz’altro Lo Stato assoluto. Vincitore in Francia, l’assolutismo si era imposto in Spagna e si affermò anche nei tre nuovi grandi pilastri dell’Europa centrale e Orientale: Prussia, Austria e Russia. Lo Stato assoluto (o Monarchia assoluta) divenne quindi la formula dominante. Il Re era sovrano per diritto divino ed era una figura sacra. Ogni autorità emanava da lui e ciò conferiva all’in- tero edificio dello Stato coesione e solidità. Il potere centrale occupava tutti gli spazi di quelli periferici, facendone gli ingranaggi subalterni di un potere che veniva gestito dal vertice. Al re spettava l’incarico di governare, di emanare leggi e di fissare i termini di amministrazione della giustizia: tutto il potere era concentrato sostanzialmente nella 3 Per i testi sui quali è costruito il paragrafo, vedere la bibliografia in fondo al capitolo. 7 Monarchia. Inoltre tutta una liturgia monarchica si andava sostituendo a quella eccle- siastica intorno alla persona del re: una cultura rituale dell’apparenza, della magnificen- za, del fasto e del lusso. Le grandi regge europee, la più importante delle quali fu Versail- les, diventarono quasi i nuovi templi della religione civile e del potere monarchico, al cui interno la Chiesa ebbe uno spazio ridotto, mentre i rituali della regalità, della corte circondata dalla grande aristocrazia, occupavano la scena. Gli equilibri internazionali: l’Europa e il Mondo È stato calcolato per approssimazione che nel XVIII secolo il mondo era popo- lato da circa 600 milioni di abitanti. In Europa vivevano poco più di 100 milioni di persone, circa un sesto del totale, quasi tutte concentrate nella parte occidentale del continente. Molto meno popolato risultava il continente americano mentre estrema- mente difficili risultano le stime per l’Africa. L’altra zona abitata densamente (per gli standard dell’epoca) era l’Asia: in India vivevano circa 100 milioni di persone, in Cina poco meno di 200 milioni. Poiché gli uomini tendono ad affollarsi là dove fer- vono le attività e dove trovano maggiori possibilità di sfamarsi, ne deriva che le due zone del pianeta più dinamiche erano per l’appunto l’Europa e l’Asia (quest’ultima con i due poli di India e Cina). E quali erano le relazioni fra queste due aree? Per rispondere alla domanda occorre abbandonare la tipica prospettiva “Euro- centrica”. Per gli indiani, i cinesi e i giapponesi il punto di vista europeo rivestiva ben poco interesse. E per loro la scoperta dell’America non costituiva un evento partico- larmente significativo. Nelle cronache dell’India la comparsa dei portoghesi sulle co- ste del loro paese veniva riportata come un episodio trascurabile; del resto i portoghesi erano apparsi agli indiani come dei miserabili straccioni, sporchi e violenti. Quando Vasco de Gama – in Occidente celeberrimo – si presentò al principe di Calicut, non aveva con sé doni, violando così le regole di etichetta locali; il principe decise di ac- cogliere ugualmente i portoghesi, le cui maniere furono però considerate «brusche e prepotenti», tanto da sconsigliare ulteriori contatti diretti [citato in Parry 1984, p. 129]. Agli occhi dei raffinati principi indiani erano i marinai europei a sembrare dei veri selvaggi. Al punto tale che il cronista Abdul Fazl spiegava che l’imperatore dei Moghul, il principe Akbar, aveva accettato di ricevere un’ambasciata portoghese nella speranza che «quei sondaggi potessero essere lo strumento per civilizzare quella razza selvaggia» [citato in Headrick 2010, p. 75]. Né era stata molto migliore, tempo dopo, l’impressione fatta dagli inglesi, che con il loro colorito pallido sembravano agli indiani deboli e malaticci. Quanto alla Cina, la superba convinzione che dominava la corte imperiale era di essere l’“Impero del Centro”. Quando un’ambasceria britannica guidata dal lord Ge- orge Macartney raggiunse la Cina nel 1793 per ampliare le relazioni commerciali e aprire quelle diplomatiche, l’imperatore Qianlong scrisse al re Giorgio III: «Come il vostro ambasciatore è in grado di vedere da solo, abbiamo già tutto. Non attribuisco valore a oggetti strani e ai vostri prodotti dell’ingegno, e non mi servono i manufatti del vostro paese» [citato in Backhouse e Bland 1914, p. 323]. Per i cinesi l’Europa era una lontana e minuscola realtà, che non suscitava particolare interesse. L’Europa dominava, è vero, le rotte sull’Atlantico, aveva colonizzato il continen- te americano e stava cominciando a sfruttare le risorse dell’Africa, compresi gli uo- mini con il traffico di schiavi. Inoltre, le %otte del Portogallo, poi dell’Olanda e della 8 Gran Bretagna solcavano ormai da tempo le acque dell’Oceano indiano. Ma India, Cina e Giappone conservavano il controllo del proprio territorio e dominavano nelle loro rispettive aree di in%uenza economica e commerciale. Il mondo alla fine dell’An- tico Regime risultava quindi diviso in due zone commerciali: la prima che gravitava sull’Oceano Atlantico e presentava come centro propulsore l’Europa Nord-Occi- dentale; la seconda in Asia e presentava come poli l’India e il Mar della Cina. Benché già ricca e con una crescente potenza militare, l’Europa appariva agli abitanti di buona parte del mondo nulla più che una propaggine, per di più mol- to minuscola, del continente asiatico. Ma lì, in quella porzione piccola delle terre emerse, in quella Europa sempre più dinamica e intraprendente, stavano per partire trasformazioni di portata eccezionale, destinate a cambiare il volto del continente e poi a modificare ampiamente il mondo intero. Queste trasformazioni danno l’avvio a quella che chiamiamo “Età Contemporanea”. 9 Bibliografia di riferimento Il testo di questo capitolo (con le relative citazioni) è stato costruito poggiando preva- lentemente su: M. Bloch, La Società Feudale, Einaudi, Torino, edizione 1993 F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), Einaudi, Torino, 1981 D. R. Headrick, Il predominio dell’Occidente. Tecnologia, ambiente, imperialismo, Il Mulino, Bo- logna, 2010 H. Kamen, Il secolo di ferro. 1550-1660, Laterza, Roma-Bari, 1983 R. Mandrou, Luigi XVI e il suo tempo, Sei, Torino 1990 J. H. Parry, La conquista del mare, Bompiani, Milano, 1984 S. Pollard, La conquista pacifica. L’industrializzazione in Europa dal 1750 al 1970¸Il Mulino Bologna, 1984 A. Prosperi, P. Viola, Dalla rivoluzione inglese alla rivoluzione francese, Einaudi, Torino, 2001 G. Rudè, L’Europa del Settecento. Storia e cultura, Laterza, Bari 1974 F. Trentmann, L’Impero delle cose. Come siamo diventati consumatori, Il Mulino, Bolo- gna, 2017 10 Capitolo II Le radici dell’Età contemporanea: le “rivoluzioni borghesi” (1780-1850) La “Duplice Rivoluzione” Alla fine del XVIII secolo prese il via un processo rivoluzionario che, con onda- te successive, accelerazioni, frenate e svolte repentine, sarebbe durato fino alla metà dell’800. Un grande storico inglese, Eric Hobsbawm, l’ha definita L’età delle rivo- luzioni (“The Age of Revolution”, traduzione italiana: “Le Rivoluzioni borghesi”), le quali – ha aggiunto – provocarono la più grande trasformazione che si sia avuta nella storia umana. Si trattò di due tipi di rivoluzioni differenti, anche se marciarono di pari passo, e per questo si parla anche di “Duplice rivoluzione”. Una fu di natura economica, va sotto il nome di Rivoluzione industriale, e ha come centro l’Inghilter- ra. La seconda è di natura politica e presenta come centri gli Stati Uniti, con la Rivo- luzione americana, e soprattutto la Francia, con (appunto) la Rivoluzione francese. Entrambe hanno prodotto un’irresistibile tendenza all’allargamento: della base pro- duttiva la prima e del consenso politico la seconda. La rivoluzione industriale costruì l’economia del nuovo mondo. La rivoluzione americana e quella francese gli hanno fornito nuove forme di Stato e nuove ideologie. Molti stili di vita ancora oggi diffusi e molte parole che usiamo per descrivere il mondo attuale vennero create o assunsero il loro significato odierno in quel periodo storico: fabbrica, industria, capitalismo, ferrovia, così come liberalismo, nazionalità, giornalismo, ideologia. La civiltà del XX e del XXI secolo è senza dubbio figlia della “Duplice Rivoluzione”, perché molti pro- cessi avviati allora non sono ancora conclusi. L’economia: la Prima Rivoluzione industriale4 I viaggiatori europei che si recavano in Inghilterra all’inizio del XIX secolo rima- nevano colpiti da alcuni fenomeni mai visti prima: il paesaggio era cambiato per la presenza di edifici ignoti, di grandezza inusuale e da cui proveniva un rumore assor- dante, uno sferragliare monotono e continuo; al loro interno si ammassavano molti uomini, donne e anche bambini, tutti affaccendati intorno a macchine molto com- plicate che facevano scorrere fili di cotone. Infine, fatto ancora più strano, quelle macchine non si muovevano grazie a energia animale, ma grazie a congegni con un forno alimentato a carbone da cui provenivano densi getti di vapore. Erano le fab- briche. Ma come si era arrivati a questo spettacolo prodigioso? E perché proprio in Inghilterra? 4 Il testo di questo paragrafo è la sintesi tratta prevalentemente da Robert C. Allen, La Rivoluzione industriale inglese, e Pat Hudson, La rivoluzione industriale. Per gli altri riferimenti si rinvia alla bibliografia indicata alla fine del capitolo 11 L’elemento di forza dell’Inghilterra stava nell’intreccio di una serie di fenomeni che interagivano fra loro. In primo luogo occorre analizzare la “struttura istituzio- nale”. Non è un concetto di immediata comprensione e bisogna prestare attenzione a non fraintenderlo. Per “struttura istituzionale” si intende «una combinazione di regole formali, vincoli informali e i meccanismi sanzionatori» [North, 2006, p. 19]. Sciogliamo questa definizione. In primo luogo, si tratta del sistema di governo e del complesso insieme di leggi che regolano un paese o un’area (le «regole formali»). Non basta però, perché a contare molto è anche la cultura diffusa, vale a dire ciò che in una società si ritiene giusto o sbagliato (i «vincoli informali»), e quindi l’attitu- dine a innovare oppure no, a perfezionare le conoscenze tecniche, ad aumentare i consumi materiali, a sviluppare il commercio e le attività manifatturiere. Tutti com- portamenti che nel XXI secolo possono sembrare ovvi e che invece non lo sono, per- ché in molte società del passato prevalevano priorità di altro tipo. E qui subentrano allora «i vincoli informali e i meccanismi sanzionatori», vale a dire l’attitudine a incentivare certi comportamenti oppure a condannarli, non solo dal punto di vista giuridico, bensì – soprattutto – sul piano sociale e culturale, con le persone comuni che nella loro minuta quotidianità decidono di intraprendere una certa attività, am- mirano chi l’intraprende e sperano che i figli l’intraprendano, oppure – al contrario – disapprovano certi comportamenti, maltrattando ed emarginando chi svolge quelle attività e compie quelle scelte. La presenza di una complessa “struttura istituzionale”, combinata con la colloca- zione geografica e le risorse naturali, permise all’Inghilterra di attivare un processo di accumulazione progressiva che arrivò alla rivoluzione industriale ma che partiva in realtà dai commerci e dall’agricoltura. Il primo passo fu compiuto grazie a un pode- roso aumento degli scambi e del commercio. L’espansione del commercio internazionale Da tempo ormai gli europei affrontavano viaggi lunghissimi (un caso unico: nes- sun altro popolo, in nessuna altra parte del mondo, organizzava spedizioni su scala così vasta e in modo così continuativo come gli europei). La motivazione era prin- cipalmente economica. Si partiva – è vero – anche per desiderio di conoscenza, per spirito d’avventura o per convertire popoli “miscredenti”; ma la motivazione princi- pale restava la ricerca di nuovi prodotti da commerciare per aumentare le proprie ric- chezze. Nei porti principali dell’Europa Occidentale arrivavano quindi spezie, nuovi vegetali, prodotti esotici come il caffè, destinati ad alimentare vere e proprie mode. Un fenomeno crescente, che ha indotto a parlare di rivoluzione commerciale. Si badi: il commercio costituiva ancora un’attività relativamente secondaria in un’economia ancora dominata dall’agricoltura; ma il fatto importante è che lo scambio mercanti- le, una volta introdotto, tende a crescere, avviando così un circolo virtuoso. L’espan- sione dei traffici permise infatti un grande accumulo di ricchezze in una zona molto precisa del mondo: le coste atlantiche dell’Europa, poi soprattutto nel quadrante Nord-Occidentale. Perché proprio lì? La città italiane, che pure avevano in precedenza raggiunto livelli molto alti di ricchezza, avevano patito un duplice svantaggio. In primo luogo la collocazione geografica con i porti che, collocati nel Mediterraneo, non si trova- vano più al centro dei circuiti commerciali più importanti che dopo la scoperta delle Americhe era orientati verso l’Atlantico. E tuttavia questo non fu, come si è a lungo 12 pensato, il fattore decisivo, perché recenti studi hanno mostrato che genovesi e vene- ziani avevano già cominciato a sperimentare rotte che portavano le proprie navi verso i porti delle Fiandre e inoltre i veneziani possedevano vasti e ben organizzati cantieri navali. La vera differenza fu – ancora una volta – data dalla struttura istituzionale, perché le città italiane erano – da un lato – troppo piccole per sostenere spedizioni di quella portata e – in più – “troppo ricche” per sentire l’esigenza di cambiare e lanciar- si in avventure rischiose. Il Portogallo, che nelle spedizioni aveva visto un’imperdi- bile occasione per uscire dalla marginalità, aveva molto ben sfruttato i vantaggi della sua posizione geografica, ma poi aveva subìto un declino provocato – in gran parte – dall’annessione nel 1578 alla Spagna e dalla conseguente perdita di autonomia. A sua volta la Spagna, che aveva costruito un impero potentissimo, vide le potenzialità, offerte dalla collocazione geografica e dal clima, non valorizzate da due aspetti fon- damentali della struttura istituzionale: una monarchia centralizzata che concedeva ben poco spazio ai corpi intermedi e ai gruppi sociali più attivi, nonché una cultura diffusa che incentivava l’accumulazione delle ricchezze e non premiava l’intrapren- denza imprenditoriale [Sulle numerose cause che provocano il declino e poi il crollo di grandi potenze economiche, si può vedere Acemoglu, Robinson, 2013]. Ecco emergere il vantaggio dell’Inghilterra. La felice collocazione geografica sull’Atlantico permise agli Inglesi di uscire da una marginalità che per secoli li aveva confinati alla periferia Nord del continente: un fattore favorevole che essi però condi- videvano con altre potenze europee. La differenza fu perciò fatta dalla “struttura isti- tuzionale”, che gli altri non avevano. Dal punto di vista politico – delle regole formali – la monarchia inglese era divenuta sempre meno assoluta sin dalla Magna Charta del 1215. In seguito, come si è detto, la consultazione dei nobili e dei commons si era andata progressivamente rafforzando, fino alle rivoluzioni del ’600 che avevano im- posto il controllo del Parlamento sulla legislazione e sulle decisioni in materia fiscale. L’Inghilterra fu per lungo tempo l’unica monarchia parlamentare d’Europa. Lungi dall’essere una debolezza rispetto ai ben più saldi poteri centrali di Francia e Spagna, il sistema parlamentare aveva creato uno stile di governo che ascoltava le richieste dei mercanti, ne valorizzava l’intraprendenza e ne incoraggiava le iniziative imprendi- toriali. Da qui poteva discendere, sul piano culturale e sociale (vale a dire: i “vincoli informali”), l’impulso fortissimo e crescente a potenziare i commerci e le spedizioni navali. Inoltre, essendo uno Regno di dimensioni medie, esso aveva maggiori risorse finanziarie e militari delle città italiane e degli – inizialmente potentissimi – Pae- si Bassi; sicché poteva affrontare efficacemente la competizione delle altre potenze mercantili. L’intero sistema favoriva insomma l’innovazione perché incoraggiava l’attitudine al rischio e le capacità creative. Prendeva così forma un fenomeno che ha molto attirato l’attenzione degli storici: il ruolo di guida nel recente sviluppo econo- mico è stato svolto dalle società più libere, che hanno nel tempo garantito maggiore spazio alle iniziative individuali e agli impulsi verso il cambiamento. I regimi assoluti o dittatoriali, che spesso vengono considerati più “efficienti”, hanno in effetti cono- sciuto lo sviluppo economico, ma grazie a fenomeni imitativi e di acquisizione di tecnologie sperimentate altrove, avviando così processi di crescita che però spesso, proprio per l’intrinseca tendenza di quei regimi alla chiusura, si sono rivelati poco sostenibili sul lungo periodo. Grazie a questo insieme di fattori, l’Inghilterra stava insomma accumulando un notevole vantaggio competitivo: qui c’erano le %otte, le assicurazioni, le compagnie 13 commerciali; quasi un monopolio del mare che permetteva di disporre di materie prime a condizioni più vantaggiose. Con la rivoluzione commerciale cominciavano così a prendere forma le differenze profonde tra le varie aree europee che dovevano portare ad appuntamenti differenziati con gli sviluppi economici successivi. La rivo- luzione commerciale stava infatti per produrre effetti decisivi in agricoltura. I cambiamenti dell’agricoltura La crescita mercantile provocò una forte pressione sull’agricoltura. Gli operatori coinvolti nel commercio erano molti: armatori, marinai, commercianti all’ingrosso e al dettaglio, artigiani. Tutti si stavano arricchendo considerevolmente: sicché ora pote- vano sfamarsi meglio e più abbondantemente. Aumentava così la domanda di prodotti agricoli. Ma da secoli – come si è visto – la resa della terra sembrava fissata da limiti ap- parentemente invalicabili. Si stagliava qui un vincolo agricolo-alimentare: le potenzia- lità di aumento della produzione e della popolazione si infrangevano contro la scarsità di risorse agricole che, superato un certo limite, frenavano e poi fermavano lo sviluppo. Ora c’è però anche una novità. La domanda di prodotti agricoli appare un’inat- tesa opportunità di guadagno per proprietari terrieri molto intraprendenti. A guar- dare verso queste nuove possibilità non erano certo i proprietari appartenenti alla nobiltà, che si accontentavano di vivere di rendita con i grandi guadagni che la terra già offriva. Erano i proprietari di estrazione borghese: costoro guardavano alla terra con uno spirito nuovo, perché non si limitavano a cercare nelle campagne il cibo per sé e per la famiglia, né solo per il mercato del villaggio vicino; cercavano di aumentare sempre di più la loro ricchezza. Erano animati da mentalità imprenditoriale: voleva- no investire per migliorare la resa dei terreni, così da produrre di più, per vendere di più e guadagnare di più. Ma come fare ad accrescere la produttività dell’agricoltura? La risposta fu trovata in Inghilterra. L’occasione per il nuovo ceto di imprendito- ri agricoli era sotto i loro occhi: c’erano le vaste estensioni di terreno improduttivo, i beni comunali, i pascoli, i boschi, tutto affidato alla gestione comune del villaggio. Per gli imprenditori era uno spreco. Il loro pensiero correva al guadagno che si poteva ricavare da quelle terre lasciate all’uso comune. Accelerò allora un fenomeno già esi- stente che si intensificò a ritmo crescente, quello delle recinzioni (enclosures): le terre comuni venivano spartite e trasformate in proprietà private, delimitate da confini precisi, con alti steccati. Perché accadde proprio in Inghilterra e non altrove? Per rispondere occorre ri- chiamare la più volte menzionata “struttura istituzionale”. Sul piano sociale, in Inghil- terra i proprietari terrieri di estrazione borghese erano in numero sempre maggiore e da molto tempo insidiavano il primato della nobiltà, dedita invece alla rendita paras- sitaria. Sul piano politico, questi proprietari borghesi avrebbero potuto ben poco se il governo avesse tutelato gli interessi della nobiltà e dei villaggi, vietando le recinzioni; invece, nel sistema parlamentare inglese, la Camera dei Comuni aveva deputati di estrazione alto-borghese che erano pronti a soddisfare gli interessi dei loro elettori della medesima origine sociale ed erano perciò solleciti a votare leggi a favore delle recinzioni. Emerge anche in questo ambito il vantaggio competitivo dell’Inghilterra, con un sistema politico-istituzionale aperto alle istanze dei settori più dinamici della società. Qui, a differenza che nell’Europa continentale, erano state abbattute molte barriere commerciali e lo Stato non imponeva una fiscalità opprimente per garantire una vita sontuosa alla monarchia e alla sua corte di aristocratici parassitari. 14 Con le recinzioni in Inghilterra la produzione agricola aumentò, soprattutto grazie a un’organizzazione più razionale e alla lavorazione delle terre fino ad allora lasciate incolte. Aumentò anche il rendimento per unità di lavoro perché, proprio grazie allo sfruttamento più razionale, occorrevano meno contadini di prima sul me- desimo appezzamento di terra: nel 1700 un addetto all’agricoltura riusciva col suo lavoro a nutrire in media 1,7 persone, nel 1800 ne sfamava 2,5, con un incremento straordinario del 47%. Infine, ovviamente, aumentarono i profitti dei proprietari. Era una svolta epocale: l’Inghilterra superava il vincolo agricolo-alimentare e così liberava energie produttive fino ad allora represse. La rivoluzione agricola non si li- mitava infatti ad aumentare i prodotti per i mercati di beni alimentari. Sortiva effetti ben più ampi. Qui – attenzione – si colloca uno dei passaggi più importanti: il legame che col- lega la rivoluzione agricola alla rivoluzione industriale. La rivoluzione agricola aveva infatti creato delle condizioni favorevoli che, abilmente sfruttate, aprirono la strada alla nascita di un sistema economico nuovo. Si stavano formando tre eccedenze, deci- sive per gli sviluppi successivi. Una eccedenza – come detto – di prodotti agricoli: ora potevano essere sfamate molte più persone che non lavoravano la terra direttamente e che abitavano nelle città. Una eccedenza di manodopera: grazie alla maggiore pro- duttività della terra, alcuni contadini non risultavano più necessari a lavorare i campi e vennero espulsi dal mercato del lavoro; secondo calcoli più recenti non si trattava di grandi quantità, ma era quanto basta per spingere molte famiglie a cercare o immagi- nare lavoro in altri settori. Una eccedenza infine di capitali, perché gli imprenditori agricoli, divenuti molto più ricchi, spesso non si accontentavano di godere del nuovo benessere, ma spinti dal desiderio di ulteriori profitti si misero alla ricerca di nuove attività economiche dove investire il denaro guadagnato. La rivoluzione agricola era un decisivo vantaggio competitivo per l’Inghilterra: era quello che viene chiamato il principale “pre-requisito”. Fino al Settecento molti sistemi economici del mondo, soprattutto in Asia con India e Cina, presentavano delle potenzialità di sviluppo che però si erano puntualmente infrante contro una serie di vincoli strutturali. Superato invece il vincolo delle risorse agricole, il sistema inglese si pose sulla strada di uno sviluppo senza precedenti, perché si erano formate tutte le condizioni per la nascita di un nuovo settore economico. La rivoluzione industriale Una delle eccedenze – si è detto – era quella dei capitali. Gli imprenditori agri- coli dovevano ora decidere che uso fare del denaro guadagnato. Potevano (e molti lo fecero) godersi il tenore di vita più alto. Ma potevano anche decidere di orientare questi capitali verso nuovi investimenti in altri settori che offrivano ulteriori oppor- tunità di guadagno. Un mercato in espansione era quello dell’abbigliamento. Infatti, dopo aver sod- disfatto il desiderio di un’alimentazione più abbondante, molti potenziali consuma- tori volevano acquistare vestiti, sia in quantità maggiore che di qualità migliore. E questa domanda crescente spinse gli imprenditori britannici a cercare soluzioni che permettessero di produrre più consistenti quantità di merci a costi (e quindi prezzi) più bassi. In che modo? Esistevano da tempo forme di cosiddetta “proto-industria”, con operai che – spesso nella propria casa e in una dimensione semi-artigianale – produ- 15 cevano tessuti di cotone con dei filatoi a mano forniti dal loro datore di lavoro. Le potenzialità di questi filatoi risultavano tuttavia molto limitate e non bastavano cer- to per soddisfare la domanda crescente. Lo sviluppo dell’economia inglese rischiava così di infrangersi contro una nuova barriera, un vincolo tecnologico che impediva di aumentare la produzione di manufatti oltre una certa soglia. A risolvere l’impasse sopraggiunse una congiuntura straordinariamente favorevole: il dinamismo e l’in- ventiva della borghesia inglese, infatti, non creava solo imprenditori ma anche ge- niali inventori, dotati di ingegnosità e spirito di iniziativa. Grazie a loro si realizzò un’eccezionale sequenza di innovazioni decisive, che portò infine all’invenzione più importante: il filatoio meccanico, opera di Richard Arkwright, un barbiere che, sebbe- ne semianalfabeta, era dotato di una geniale attitudine alla meccanica e, sviluppando altri precedenti prototipi, arrivò a perfezionare un modello per l’epoca rivoluziona- rio (diventando così ricchissimo: un perfetto esempio di self made man). Il vincolo tecnologico veniva superato e si apriva la via verso la produzione di una quantità molto più elevata di tessuto. Ma come alimentare queste nuove macchine? Le fonti di energia tradizionali di origine animale (come i buoi che trainavano gli aratri) o naturale (come il vento o l’acqua che alimentavano i mulini) non potevano essere applicate ininterrottamente alle macchine: se un fiume andava in secca il mulino si fermava. Era una barriera che da millenni frenava lo sviluppo umano. La possibilità di aumentare la produzione incontrava così un nuovo – e potenzialmente decisivo – ostacolo: un vincolo energe- tico che rischiava di vanificare gran parte delle invenzioni tecniche. Ed ecco allora la grande invenzione: la macchina a vapore, ideata dall’ingegnere scozzese James Watt e alimentata da una caldaia. L’invenzione è di portata eccezionale. Le potenzialità produttive dell’umanità, che incontravano una barriera apparentemente invalicabile nella disponibilità di energia da applicare alle macchine, ora non sembrano trovare più ostacoli: la macchina a vapore permetteva la produzione artificiale di energia. Il vincolo energetico veniva superato e si apriva la strada a uno sviluppo impetuoso. Tutto bene dunque? Non ancora. Per azionare la macchina a vapore servivano enormi quantità di combustibile per accendere la caldaia. E per produrre un numero sempre più elevato di tessuti servivano eccezionali quantità di cotone, così tanto che non sarebbe bastata tutta la terra coltivabile della Gran Bretagna. Si poneva così un ultimo ostacolo: il vincolo delle materie prime. Per il combustibile non si poteva usare come al solito la legna, perché non era adeguatamente efficace e perché comunque non sarebbero stati sufficienti i boschi esistenti. Per sua fortuna l’Inghilterra godeva di un altro vantaggio: le miniere di carbone. Il cotone invece andava cercato altro- ve. E la soluzione fu trovata nelle enormi praterie del Nord America, dove sorsero immensi campi di cotone pronti a rifornire gli imprenditori inglesi. Ecco l’ulterio- re e definitivo vantaggio competitivo dell’Inghilterra (e poi dell’Europa): il Nuo- vo Mondo, che permetteva di trovare fuori dai confini europei le risorse necessarie allo sviluppo economico. A coltivare e raccogliere il cotone nelle grandi piantagioni in America c’erano gli schiavi deportati dall’Africa. Il grande sviluppo economico dell’Inghilterra e poi dell’Europa doveva quindi moltissimo a questa manodopera ridotta forzatamente al lavoro servile: un dato al quale molti studi sulle origini della rivoluzione industriale non hanno sempre dato il suo effettivo peso. Lo sviluppo tecnologico, con la proiezione artificiale di energia, combinato con la disponibilità di carbone, insieme con tutti gli altri punti di forza del sistema ingle- 16 se, sortivano così un effetto cumulativo, permettendo all’economia inglese di decol- lare. Si innescava infatti un circolo virtuoso. Gli imprenditori si orientavano ora verso le nuove attività manifatturiere: potevano farlo, perché avevano accumulato capitali da investire e trovavano le innovazioni tecnologiche che permettevano di realizzare grandi profitti. Si mettevano perciò alla ricerca di manodopera da impiegare nell’atti- vità produttiva: e ancora potevano farlo, perché trovavano i contadini espulsi dall’a- gricoltura e gli artigiani della proto-industria. Certo, queste masse di lavoratori, che dalle campagne si trasferivano alle città, dovevano sfamarsi: e potevano infine farlo, perché le eccedenze di prodotti agricoli venivano vendute sui mercati urbani. Diventava così possibile produrre nuovi vestiti di cotone, che potevano essere venduti in grande quantità grazie – come detto – all’aumento della domanda. La produzione di stoffe inglesi a fine ’700 era infatti ancora differenziata. C’erano i tra- dizionali prodotti di lana, più a buon mercato che nel passato. Ma soprattutto c’e- rano i nuovi tessuti economici di cotone, di qualità molto inferiore ma anche – ed è cruciale – di prezzo molto inferiore rispetto al passato. L’idea dirompente che sta alla base della Rivoluzione industriale è che si guadagna molto di più producendo tante merci di poco valore che poche merci di grande valore. Mentre per secoli l’ar- tigianato aveva creato beni di lusso per un mercato ristretto, allo scopo di ottenere un buon guadagno da ogni pezzo venduto, l’industria britannica produceva ora una grande quantità di merci di scarso valore, realizzando un profitto unitario minimo e puntando sulla quantità. Quello che non si guadagnava più sul singolo bene ad alto prezzo, veniva ora guadagnato (in misura anche maggiore) vendendo molti beni a basso prezzo. È la logica del capitalismo industriale, che da allora non è cambiata: produrre di più, per vendere di più, per guadagnare di più. Cambiano i prodotti, ma la logica resta la stessa. Allora erano i filati di cotone, oggi possono essere i microchip per gli smartphone: il ragionamento alla base resta il medesimo. Gli imprenditori hanno perciò la convenienza a concentrare le macchine in un unico luogo, perché così un numero ridotto di motrici può essere collegato a un mag- gior numero di telai. I lavoratori possono inoltre essere meglio controllati. E così nascono nuove unità produttive: le fabbriche. Per economizzare i costi di produzione le nuove fabbriche vengono poi concentrate nelle medesime aree industriali, dotate di precisi vantaggi: sono vicine a un porto, per trasportare più velocemente le merci; oppure sono vicine a distretti carboniferi, per procurarsi il minerale necessario ad alimentare le macchine a vapore. In Inghilterra si stava insomma realizzando un circolo virtuoso del tutto peculia- re, per cui nascevano delle pressioni, che rischiavano però di infrangersi contro dei vincoli, i quali venivano superati, creando nuove possibilità, a loro volta a rischio di infrangersi contro altri vincoli, che venivano ancora una volta superati, dando vita a un sistema di interdipendenze economiche molto complesso che – come ha notato lo storico D. S. Landes (nel libro “Prometeo Liberato”) – si sviluppa secondo una precisa dinamica di “botta e risposta”. Grazie a questo eccezionale circolo virtuoso, si stava realizzando la Prima rivolu- zione industriale. Tutti gli studiosi dell’economia concordano: è la più grande trasformazione co- nosciuta dall’umanità dai tempi della “rivoluzione neolitica”. Allora, circa nell’11.000 AC, in modi e tempi diversi nelle varie parti del pianeta, l’uomo “scoprì” l’agricoltu- 17 ra, passò dalla vita nomade alla vita stanziale e avviò un processo di progressiva strati- ficazione della società. Nacquero così le città, la cultura scritta, la politica, la filosofia, il diritto, l’organizzazione sacrale e militare del potere. Da allora si erano poi avvi- cendate innumerevoli civiltà, molto diverse e spesso in con%itto fra loro. Ma l’attività economica principale era rimasta sempre la stessa: l’agricoltura. Benché ci fossero – è ovvio – i commerci e molte altre attività da cui le persone traevano sostentamento, la grande maggioranza degli uomini era dedita alla coltivazione della terra. Ma tutte le società agricole presentavano un duplice limite: a) la tecnologia e b) la disponibilità di energia per la produzione. Questi limiti ponevano un “tetto” alla produzione, per cui oltre un certo livello nessuna civiltà era mai riuscita ad andare. A partire dal XVIII e XIX secolo, dopo decine di migliaia di anni, sta invece emergendo una nuova attività economica: l’industria. È destinata ad acquistare il primato rispetto all’agricoltura, con effetti travolgenti sulla vita e le condizioni degli uomini. Entrambi i limiti delle società agricole vengono superati. Si apre una fase di “creatività tecnologica” che ha radicalmente modificato il modo di produrre beni e servizi. E la disponibilità di energia aumenta in misura esponenziale: da allora la pro- duzione di energia, la scoperta di altre fonti e il migliore utilizzo di quelle tradizionali si sono sommati fornendo una quota di energia pro-capite sempre maggiore. Basti un dato: in due secoli la popolazione mondiale è aumentata di 6 volte, ma la produzio- ne di energia non è aumentata di sole 6 volte, anzi: molto di più, si è moltiplicata di circa 18-20 volte. E così ogni essere umano del XXI secolo dispone di una quantità di energia per i suoi consumi e la sua vita quotidiana incomparabilmente superiore a quella dei suoi antenati di appena due secoli fa. Con la Rivoluzione Industriale per la prima volta nella storia dell’umanità – ha osservato Eric Hobsbawm – vennero spezzate le catene che imprigionavano le capa- cità produttive delle società umane che, da allora in poi, furono in grado di persegui- re un costante, rapido e, fino ad oggi, illimitato incremento dei beni di consumo e dei mezzi di produzione. Esiste un dato a sottolineare meglio degli altri la straordinarietà del cambia- mento: l’aumento della popolazione. Fino all’età industriale l’andamento della po- polazione umana aveva assunto il tipico andamento da profilo di montagna alpina: crescite e crolli, con picchi e improvvisi avvallamenti. La produttività dell’economia agricola permetteva di sfamare circa 700-800 milioni di uomini: quando si raggiun- geva quella cifra le risorse della terra subivano una pressione troppo forte e da qual- che parte scoppiava una carestia, cui seguivano immancabilmente delle epidemie che colpivano persone già debilitate dalla denutrizione e che facevano crollare il numero di abitanti. Nell’economia industriale tutto questo non accade, perché da allora si è messo in moto un meccanismo differente. Il miglioramento del tenore di vita, la meccanizzazione dell’agricoltura, la disponibilità di vestiti meglio confezionati, la diffusione dell’igiene, permettono alla popolazione (prima europea, poi in altre parti del mondo) di aumentare secondo un ritmo che non viene interrotto da alcuna grave crisi di mortalità. Gli storici definiscono questo fenomeno transizione demografica. Nell’economia preindustriale l’abbinamento era: alta natalità e altissima mortalità. Nell’economia industriale l’abbinamento è: tassi meno alti di natalità con tassi molto bassi di mor- talità. Si nasce di meno, si muore di meno e si vive di più. Perciò, fino al ’700 la po- polazione mondiale non aveva mai superato la quota di 700-800 milioni di persone; 18 dopo la rivoluzione industriale si è arrivati ben presto a un miliardo, poi nel XX secolo addirittura a sei miliardi. E non ci si è fermati ancora. Uno sviluppo lineare illimitato? Ovviamente no: una buona parte della popola- zione mondiale non ne ha ancora potuto beneficiare. E intanto si pone il problema delle risorse naturali del pianeta, che – secondo molti osservatori – questo modello di sviluppo fondato sul consumo rischia di portare ad esaurimento: se tutti gli abitan- ti della terra adottassero gli stessi ritmi di sviluppo e di consumo di Europa e Nord-A- merica, le risorse del globo rischierebbero di non bastare. Problemi che però all’epo- ca non ci si poneva. Resta il fatto storico: nessuna società precedente era stata capace di strappare il freno imposto alla produzione da una struttura sociale preindustriale, da una scienza e una tecnica insufficienti e dalle conseguenti periodiche carestie. Intanto stava prendendo forma un ulteriore processo rivoluzionario, questa volta in ambito non economico bensì politico. La politica: Rivoluzione americana e Rivoluzione francese 1776: in Gran Bretagna James Watt inventa la macchina a vapore. 1776: dall’al- tro lato dell’Atlantico viene firmata la Dichiarazione di Indipendenza che accende la rivoluzione americana e darà vita agli Stati Uniti d’America. Lo stesso anno, due avvenimenti rivoluzionari: solo una coincidenza? In realtà gli esponenti dei ceti emergenti e più dinamici, che già in Inghilterra sta- vano realizzando la rivoluzione industriale, ovunque erano sempre più insofferenti alle barriere giuridiche di Antico Regime, che definivano la collocazione delle persone in base alla nascita e ostacolavano la mobilità sociale. Loro ambivano invece a liberare ogni individuo dalle pesanti catene che ne impedivano l’ascesa nella società. E imma- ginavano un mondo dinamico, dove gli uomini sarebbero emersi grazie al loro talento individuale e dove la gerarchia sociale sarebbe stata definita dal merito, non dalla na- scita. Si moltiplicavano perciò le istanze per un profondo cambiamento delle strutture politiche e istituzionali. Istanze che però si infrangevano contro le strenue resistenze dei ceti privilegiati e dei poteri costituiti. Finché non si giunse al punto di rottura. La rivoluzione americana: il principio della divisione del potere Il primo moto rivoluzionario in ordine di tempo fu in Nord America. Da un punto di vista strettamente geografico fuori quindi dall’Europa. Ma di origine e cul- tura europea ne erano i protagonisti, tanto che l’episodio può essere inserito a pieno titolo entro le “Rivoluzioni borghesi”. Tutto nacque per una ragione apparentemente banale: un aumento delle tasse sulle colonie del Nord America deciso dal governo e dal re di Londra. Nella capitale inglese pensavano di trattare con rozzi e ubbidienti coloni. Invece in Nord America c’erano raffinati intellettuali e vivaci imprenditori, i quali obiettarono: le tasse vengono decise a Londra, ma noi non possiamo eleggere alcun deputato nel Parlamento britannico, dove perciò nessuno tutela i nostri inte- ressi. E noi – continuavano i coloni – non vogliamo essere sudditi passivi, ma citta- dini attivi. Da qui uno degli slogan più famosi ed efficaci della storia: No taxation without representation (nessuna tassa senza rappresentanza parlamentare). Da Lon- dra giunse però un atteggiamento di chiusura che provocò una rivolta, cui seguirono la Dichiarazione di Indipendenza degli americani, una lunga guerra vinta dai coloni, che infine proclamarono la fondazione degli Stati Uniti d’America. 19 A base del nuovo Stato i fondatori posero allora una Costituzione, tuttora in vigore, che stabiliva un sistema di attribuzione dei poteri molto preciso. Il potere ese- cutivo viene affidato a un Presidente, eletto ogni quattro anni, che nomina il governo; il potere legislativo appartiene a un Congresso bicamerale, formato da Camera e Se- nato; il potere giudiziario è infine attribuito alla magistratura e regolato dalla Corte Suprema. Si affermava così il principio che il potere non doveva essere concentrato – come avveniva nelle monarchie assolute – bensì diviso tra organi differenti. Era il principio del sistema costituzionale e della divisione del potere, alla base dei moderni sistemi liberali: un modello che avrebbe trovato presto molti ammiratori. La Rivoluzione Francese: il significato di lungo periodo La Costituzione degli Stati Uniti è del 1788. Intanto, al di qua dell’Atlantico, la Francia era in fermento. La Monarchia francese, che era stata una delle grandi po- tenze d’Europa, mostrava gravi segni di fragilità. Non favoriva l’ascesa sociale delle persone più dinamiche, perché i persistenti privilegi di origine feudale continuavano ad assegnare a ogni ceto una precisa collocazione nella società e verso lo Stato; que- sta posizione era come un posto a teatro, migliore per alcuni, peggiore per altri, in una gerarchia ben definita, e coloro che volevano cambiare posto non potevano, pur avendone magari i mezzi. Per di più l’assolutismo veniva accusato di “dispotismo” per indicare che stava piegando tutti all’arbitrio del sovrano e calpestava le garanzie legali. Ormai erano molti coloro che avevano accumulato i requisiti di ricchezza e di educazione per salire nella scala sociale ed entrare nella élite; la porta restava però chiusa, per la tenace resistenza della nobiltà e per la sordità della monarchia assoluta. Così, al pari delle faglie telluriche, che dopo aver accumulato energia la scaricano con un terremoto tanto più violento quanto maggiore è la resistenza incontrata, così in Francia il contrasto fra le spinte al cambiamento e l’opposizione dei conservatori aveva portato la tensione al culmine, fino a sfociare nel 1789 in una rivoluzione di straordinaria veemenza. Le vicende della Rivoluzione francese, già dai contemporanei chiamata la “Grande Rivoluzione”, sono lunghe e particolarmente complesse. In questa sede non conta se- guirne gli sviluppi. Ciò che invece conta è il suo straordinario impatto, sia per quanto essa distrusse, sia per quanto costruì. La rivoluzione francese distrusse un sistema sociale fondato sugli ordini, ai quali si apparteneva per nascita, e un sistema politico-istituzionale che riconosceva il di- ritto divino dei re, tutelava i privilegi dei nobili e riconosceva le differenze davanti alla legge. Al loro posto la rivoluzione pose le basi di un sistema sociale formato da individui, la cui posizione sociale non dipendeva dalle condizioni di nascita, e un si- stema politico-istituzionale costruito intorno a una Costituzione, in cui la sovranità del re per diritto divino veniva sostituita dalla sovranità del popolo da esprimere col voto, da cui discendeva un sistema giuridico fondato sui diritti di tutti gli uomini, sull’eguaglianza davanti alla legge e sulla libertà personale. Gli studiosi perciò concordano: la Rivoluzione francese ha gettato le basi della società attuale. Se l’economia del mondo contemporaneo scaturì soprattutto dall’in- %uenza della Rivoluzione industriale, la politica e le ideologie scaturirono dalla Ri- voluzione francese. La Gran Bretagna fornì al mondo il modello per la costruzione delle ferrovie e delle fabbriche, nonché tutto l’armamentario che fece crollare le tra- dizionali strutture economiche del mondo, europeo e non-europeo. La Francia infu- 20 se nella sua rivoluzione ideali tanto potenti da accendere i cuori e le menti dei popoli di tutta l’Europa; fornì alla maggior parte del mondo il vocabolario e le finalità della politica liberale e democratico-radicale; fornì infine a moltissimi paesi i codici giuri- dici, il modello di un’organizzazione tecnica, il sistema metrico-decimale. La Grande Rivoluzione si diffonde: Napoleone Napoleone ne fu a suo modo il figlio. Allievo ufficiale originario di un ramo ca- detto, quando studiava alla scuola militare di Parigi, prima della Rivoluzione, il gio- vane Napoleone Bonaparte sapeva che col sistema vigente la sua carriera si sarebbe fermata al grado di sottoufficiale. Invece la Rivoluzione, aprendo la strada al merito individuale, gli permise di diventare Generale. Poi addirittura di assumere la guida del governo: un fatto impensabile pochi anni prima. Napoleone rappresentava per- ciò il semplice cittadino che, da solo e grazie ai propri meriti, saliva tutti i gradini della scala sociale, fino ad arrivare al vertice. Della Rivoluzione Napoleone fu anche l’esecutore. Dal suo avvento al potere, nel giro di pochi anni la Francia ebbe il Codice Civile, che raccoglieva e sistematizzava tutte le nuove leggi sui diritti individuali, diventando un modello in tutto il mon- do borghese non anglosassone. Il codice confermava la scomparsa dell’aristocrazia feudale e adottava i principi affermati dalla rivoluzione: l’eguaglianza degli indivi- dui davanti alla legge e la libertà individuale di coscienza e di lavoro. Un’attenzione molto particolare era dedicata – non a caso – a razionalizzare le norme sul diritto di proprietà e sulle forme dei contratti, così da tutelare sul piano giuridico le attivi- tà economiche dei singoli individui più intraprendenti. Sempre al fine demolire gli antichi privilegi aristocratici e per avvantaggiare gli individui di estrazione borghe- se, il codice modificava il diritto ereditario: fino ad allora le famiglie aristocratiche avevano lasciato l’intera proprietà al primogenito (o comunque a uno solo dei di- scendenti) così da mantenere intatti gli enormi possedimenti di terra alla base della loro ricchezza e del loro potere; invece il codice napoleonico introdusse l’obbligo di distribuire l’eredità a tutti i discendenti. La conseguente suddivisione della proprietà terriera sortì un duplice effetto: gli appezzamenti sempre più piccoli riducevano – qui è il primo effetto – la ricchezza e l’in%uenza dei singoli aristocratici, che si disin- teressavano alla gestione della terra e la vendevano, consentendone l’acquisto – e qui è il secondo effetto – da parte di cittadini di origine non nobile che potevano creare aziende agricole più moderne e in tal modo soddisfare le loro aspirazione di ascesa sociale e aumento del benessere. Napoleone fu però un esecutore della rivoluzione solo parziale, perché i principi della divisione del potere e del sistema costituzionale-liberale furono sacrificati in nome dell’Impero. Ma furono pochi a dolersene, perché la maggioranza della bor- ghesia francese, stanca dei continui sussulti della rivoluzione e desiderosa di stabilità, preferiva curare i propri affari privati difesi dal Codice Civile. Con Napoleone il mondo borghese ebbe anche il suo mito secolare. I grandi e famosi riformatori del passato erano già in partenza re – come Alessandro Magno – o patrizi – come Cesare. Napoleone invece era nell’immaginario collettivo il “piccolo caporale” che era divenuto sovrano di tutto il continente solo grazie al suo talento individuale. Da allora in poi ogni giovane intellettuale divoratore di libri (come era stato Napoleone in gioventù) poteva sognare di raggiungere le mete più alte grazie 21 alle sue sole doti. Ogni uomo d’affari aveva un nome da dare alla propria ambizione: diventare il “Napoleone della finanza” o “dell’industria”. E gli uomini comuni si esal- tavano nel vedere – fatto davvero strabiliante a quei tempi – uno di loro diventare più grande di chi era nato per portare la corona. Ma non basta: Napoleone con le sue conquiste diffuse ovunque i valori rivolu- zionari. All’apice della loro potenza, nel 1810, i francesi governavano direttamente o indirettamente l’Europa. In tutti questi territori le istituzioni della Rivoluzione Francese e dell’Impero Napoleonico vennero attuate o prese a modello dell’ammini- strazione locale: si abolì ufficialmente il feudalesimo e si adottarono i codici giuridici francesi. Innovazioni che si mostrarono spesso quasi irreversibili. Il Codice Civile napoleonico rimase e costituì infatti la base della giurisprudenza locale – ad esempio – in Belgio e nella Renania (anche dopo la sua annessione alla Prussia); a sua volta il feudalesimo non venne più formalmente ripristinato in nessun posto. Le trasformazioni delle leggi e delle istituzioni potevano infine apparire addi- rittura poca cosa in confronto alla conseguenza più profonda e duratura degli anni napoleonici: la trasformazione della mentalità collettiva e dell’atmosfera politica. Quando scoppiò la rivoluzione a Parigi nel 1789, gli altri governi europei la conside- rarono con un certo distacco, preoccupandosene all’inizio relativamente poco. Nel 1815 il clima era invece completamente mutato. Dall’Andalusia a Mosca, dal Baltico all’Italia, ovunque i soldati francesi avevano propagato l’universalità della loro rivo- luzione. Le dottrine e le istituzioni che portavano con sé insieme a Napoleone, erano dottrine – appunto – universali, valide per ogni uomo in ogni terra. L’espressione forse più efficace della portata di questo cambiamento viene da un semi-sconosciu- to patriota greco, che raccontava: «La rivoluzione francese e le gesta di Napoleone hanno aperto gli occhi al mondo. Prima le nazioni non sapevano nulla e i popoli pensavano che i re fossero del dèi in terra e che quindi tutto ciò che facevano fosse necessariamente fatto bene. Ora, con i cambiamenti che si sono prodotti, governare i popoli è invece ben più difficile» [in Hobsbawm, 1988, p. 131] Le guerre napoleoniche non portarono però solo innovazioni ed entusiasmo. Anzi: oltre alla comprensibile opposizione degli aristocratici, tanti anni di periodi- che guerre stavano portando i popoli europei allo sfinimento. Il cammino iniziato con la Grande Rivoluzione si rilevò quindi un cammino lungo e accidentato, che parve addirittura interrompersi all’inizio del XIX secolo, quando la sconfitta di Na- poleone riportò sui rispettivi troni gli antichi monarchi assoluti. La Restaurazione: un ritorno al passato? Sull’Europa del 1815 soffiava un vento di reazione. Lo shock della rivoluzione e delle guerre di Napoleone aveva provocato un contraccolpo molto forte, che sem- brava in grado di annullare i recenti cambiamenti. Erano molti gli intellettuali e gli osservatori che stavano compiendo un percorso di ripudio dei principi rivoluzionari e di rivalutazione della tradizione, fino all’apprezzamento dei regimi monarchico– autoritari. Già nel 1790 l’inglese Edmund Burke, con le sue Riflessioni sulla rivoluzione francese, aveva condannato il rovesciamento dell’ordine costituito in nome di astratti principi di libertà e uguaglianza e della pretesa di costruire una nuova legalità. An- cora più radicale era l’analisi a tinte apocalittiche del conte Joseph De Maistre (Sul 22 Papa, pubblicato nel 1819); egli negava che le istituzioni derivassero da un contratto liberamente stretto fra uomini e insisteva invece che si fondavano su un ordine na- turale fissato da Dio. In quest’ottica la rivoluzione per De Maistre era una manife- stazione del male. Solo l’opera della Provvidenza divina avrebbe potuto ricostruire, sulle rovine della rivoluzione, un ordine nuovo fondato sulla comunità cristiana degli stati europei sotto l’egida del papa. In questo quadro un posto di spicco spetta allo svizzero Karl Ludwig von Haller, il cui trattato Restaurazione della scienza di governo, favorì la diffusione della parola Restaurazione come temine usato per contrassegnare l’epoca. Perciò, sebbene una delle potenze vincitrici contro Napoleone fosse la Gran Bre- tagna della monarchia parlamentare, nel continente il clima di conservazione poli- tica induceva a rifiutare i sistemi costituzionali e parlamentari, considerati troppo pericolosi per l’ordine e la tranquillità. Alla conservazione politica si aggiungeva poi la conservazione sociale, che portava a politiche fortemente repressive verso le istanze dei ceti più poveri e dei lavoratori dipendenti addensati nelle città. A definire i nuovi assetti politici dell’Europa furono chiamati i capi di stato e i diplomatici riuniti al Congresso di Vienna dal novembre 1814 al giugno 1815. I cri- teri posti alla base della ristrutturazione del continente furono due: garantire l’ordine internazionale, con l’equilibrio tra le potenze, e garantire l’ordine politico-sociale, col principio di legittimità. Per raggiungere il primo obiettivo le potenze vincitrici Russia, Austria, Prussia e Gran Bretagna, stipularono la “Quadruplice Alleanza”, che impegna- va i firmatari a risolvere con la diplomazia e l’intervento diretto ogni alterazione degli assetti di potere internazionali. Realizzare il principio di legittimità significava a sua volta il ritorno al potere dei sovrani spodestati dalla Rivoluzione francese e da Napole- one, nelle forme di Stato e di governo vigenti prima dell’uragano rivoluzionario. I risultati di queste decisioni furono ambivalenti e contraddittori. L’ordine inter- nazionale fu in effetti garantito con successo. Lo storico ungherese Karl Polany [La Grande trasformazione, 1944] ha notato che il XIX secolo produsse un fenomeno inedito nella storia dell’occidente: un periodo di pace di un secolo (dal 1815 alla grande Guerra del 1914) durante il quale le potenze principali si fecero la guerra “solo” per diciotto mesi, contro i circa 60 anni occupati da guerre nel secolo prece- dente. Forse è eccessivo parlare – come fece Polany – di una “pace dei cento anni”, perché la stabilità degli assetti europei fu scossa da gravi tensioni: guerre di indipen- denza, rivoluzioni e spedizioni coloniali. È tuttavia vero che per un secolo il meccani- smo di equilibrio stabilito a Vienna contribuì a evitare che i con%itti si estendessero, coinvolgendo l’intero continente o sue parti sostanziali. Il prezzo da pagare fu però il sacrificio della libertà e della indipendenza dei popoli. E su questo versante si regi- strarono i risultati meno lusinghieri. Garantire l’ordine politico sociale per i vincitori di Vienna significava ritornare alle Monarchie precedenti alla rivoluzione francese. Il sistema costituzionale e parlamen- tare doveva tornare ad essere l’eccezione: in Gran Bretagna nonché, in forma molto blanda, in Olanda e in alcuni stati della Germania meridionale. Col ritorno alle monar- chie “legittimiste” l’intento, più o meno esplicito, era di spostare all’indietro le lancette dell’orologio e ripristinare la situazione come se la Rivoluzione francese non ci fosse stata, riportando l’Europa agli assetti che vigevano prima del 1789. Ma la Rivoluzione c’era stata e si era diffusa in tutto il continente, producendo mutamenti profondi nella società e nella mentalità degli europei. L’idea di un siste- 23 ma dinamico e aperto al talento aveva fatto breccia nei cuori e nelle menti di molte persone. L’esempio del sistema parlamentare britannico, così come il modello della Rivoluzione o il ricordo di recenti esperienze costituzionali continuavano a esercitare una profonda in%uenza su ampi settori dell’opinione pubblica europea. Molti espo- nenti della borghesia, che si incontravano nei caffè e nei circoli letterari scambiandosi opinioni e letture, sebbene biasimassero alcuni eccessi della Rivoluzione, desiderava- no un assetto istituzionale capace di valorizzare la “società civile” e l’insieme delle sue articolazioni: associazioni private, la stampa, le organizzazioni di tipo politico. Essi consideravano la libertà individuale come un valore primario da difendere, perciò trovavano che i nuovi regimi fossero opprimenti e soffocanti e speravano in forme di governo più aperte, chiedendo il consolidamento o l’introduzione di istituzioni parlamentari, che potessero operare all’interno di “Stati di diritto” – per usare la de- finizione dell’epoca – ovvero di Stati le cui leggi fossero valide nei confronti di tutti e per tutti allo stesso modo, senza privilegi per alcuni ceti. Era soprattutto lo sviluppo economico che rischiava di essere penalizzato dal plumbeo clima di oppressione che sembrava calato sul continente. Il capitalismo commerciale e industriale tendeva infatti verso la libertà di iniziativa e si scontrava con il peso soffocante dei controlli polizieschi. Gli artefici della Restaurazione vo- levano ripristinare l’ordine tradizionale. Ma l’Europa restaurata non sembrava af- fatto stabile, soprattutto perché una parte almeno della sua opinione pubblica non era tranquilla, anzi: desiderava con intensità crescente un cambiamento profondo, in sintonia con il dinamismo dell’economia e della società. Il trentennio successivo al 1815 non fu quindi caratterizzato dall’immobilismo. Al contrario, fu segnato da cambiamenti profondi: in economica la rivoluzione indu- striale si diffuse, cambiando radicalmente gli assetti economico sociali dell’Europa Nord-Occidentale; in politica si verificarono tre ondate rivoluzionarie che tra molte contraddizioni, con spinte in avanti e marce indietro, accelerazioni e rallentamenti, portarono a nuovi ordinamenti giuridico istituzionali. È a questa nuova realtà di metà ’800 che bisogna ora volgere lo sguardo. 24 Bibliografia di riferimento Il testo del capitolo è stato costruito poggiando prevalentemente su: C. Allen Robert, La rivoluzione industriale inglese¸ Il Mulino, Bologna, 2005 Th. Ashton, La rivoluzione industriale, Laterza, Bari 1980 D. Acemoglu, J. Robinson, Perché le nazioni falliscono. Alle origini di prosperità, potenza e povertà, Il Saggiatore, Milano, 2013. C. Bayly, La nascita del mondo moderno, Einaudi, Torino, 2007 L. Bergeron, F. Furet, R. Kosellek, L’età della rivoluzione europea, Feltrinelli, Milano, 1980 E. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi (1789-1848), prima edizione Il Saggiatore, Mila- no 1963, seconda edizione Laterza, Roma-Bari 1988 J. Israel, Una rivoluzione della mente. L’illuminismo radicale e le origini intellettuali della democrazia moderna, Einaudi, Torino, 2011 J. Israel, Il grande incendio. Come la rivoluzione americana conquistò il mondo, Einaudi, Torino, 2018 D. Landes., Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Eu- ropa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1978 P. Hudson, La rivoluzione Industriale, Il Mulino, Bologna, 2002 D. North, Capire il processo di cambiamento economico, Il Mulino, Bologna, 2006 K. Polany, La grande trasformazione, Einaudi Torino 1974 (prima edizione in lingua inglese del 1944) S. Pollard, La conquista pacifica. L’industrializzazione in Europa dal 1750 al 1970¸ Il Mulino Bologna, 1989 P. Viola, L’Ottocento, Einaudi, Torino 2001 E. Wigley, La rivoluzione industriale in Inghilterra., Il Mulino, Bologna, 1992 V. Zamagni, Perché l’Europa ha cambiato il mondo. Una storia economica, Il Mulino, Bologna, 2015 25 Capitolo III Il mondo dopo l’“Età delle rivoluzioni” L’economia industriale si diffonde5 A metà del XIX secolo i viaggiatori che si avventuravano in Europa incontravano rilevanti novità. Fino a pochi decenni prima si viaggiava con carrozze trainate a ca- valli lungo strade sconnesse, maltenute e pericolose, con tempi di percorrenza lunghi e disagevoli. Ora in buona parte dell’Europa Nord Occidentale questo sistema stava per essere progressivamente sostituito da un mezzo nuovo: il treno. Ideato inizialmente per trasportare il carbone dalle miniere inglesi alle fabbriche con le macchine a vapore, a partire dagli anni venti dell’800 il nuovo sistema era stato sperimentato per il trasporto passeggeri, con un successo che, dopo alcune perplessità iniziali, divenne presto travolgente. Tra il 1825 e il 1880 la rete ferroviaria europea pas- sò così da duemila a centomila chilometri, concentrati soprattutto in Gran Bretagna e nell’Europa Nord-Occidentale. I vantaggi del treno erano infatti enormi. La velocità dei viaggi migliorava in modo straordinario: se per andare da Londra a Manchester nel 1790 erano necessari circa 3 giorni, ora bastavano 7-8 ore. E i prezzi risultavano vantag- giosi: la tariffa di terza classe era dieci volte inferiore a quella di una carrozza a cavalli, offrendo anche alle classi popolari la possibilità di affrontare lunghi viaggi. In più, lo sviluppo delle ferrovie alimentava l’economia, perché la richiesta di legno, ferro e ghisa per costruire rotaie, ponti e vagoni faceva aumentare le commesse per le fabbriche si- derurgiche e meccaniche, aprendo nuove prospettive di ricchezza per gli imprenditori. Anche il paesaggio risultava molto cambiato, perché era segnato da grandi fab- briche fumose e rumorose, con enormi macchine a vapore. Inoltre, intorno alle città c’era grandi caseggiati, popolati da un’umanità povera e anneriti dal fumo delle fab- briche. Uno scenario enormemente diverso dal resto del mondo e anche dalla stessa Europa di pochi decenni prima. Cosa stava accadendo? Quello spettacolo aveva una causa ben precisa: la prima rivoluzione industriale si stava sviluppando e diffondendo. A metà dell’800 le potenzialità produttive del pro- cesso di industrializzazione si stavano infatti dispiegando in pieno, tanto che il com- mercio mondiale, già raddoppiato dal 1800 al 1840, aumentò addirittura del 260% fra il 1840 e il 1860. Nel gruppo delle economie industriali stavano così entrando il Belgio, la Francia e la Prussia, oltre che oltreoceano gli Stati Uniti. Si trattava di una grandiosa estensione geografica delle basi produttive e del mercato capitalistici, che stava creando le basi di un’economia industriale mondiale. Il settore tessile continuava ad essere il campo privilegiato dell’innovazione tec- nologica, perché più di ogni altro consentiva l’accesso a un mercato potenzialmente 5 Il testo di questo paragrafo è prevalentemente una sintesi da Alberto Banti, L’età contemporanea, Laterza, Vol. I, pp. 200-208 e da Eric Hobsbawm, Il Trionfo della Borghesia, Laterza, pp. 45-61. 26 sterminato, potendo per la prima volta offrire un genere di prima necessità a prezzi contenuti. Il cotone era più economico di lana, lino e seta ed era molto adatto ai nuovi macchinari, che permettevano di produrre in poco tempo quantità eccezional- mente superiori di tessuti. La logica di produrre grandi quantità da vendere su merca- ti vasti si stava imponendo a tutti i settori. Anche l’agricoltura ne venne trasformata. Là dove i contadini avevano da secoli coltivato la terra per l’autoconsumo e per il mercato locale del villaggio, ora si diffondevano grandi aziende agricole che produce- vano ciò che il mercato richiedeva. E lo sviluppo dei trasporti col treno e con le navi a vapore permetteva di portare queste merci a destinazioni lontane senza incidere troppo sul prezzo. Naturalmente si trattava di una trasformazione molto graduale e ovunque, anche in Europa, c’erano contadini che lavoravano solo il proprio campo e non compravano né vendevano nulla. Il modello della produzione per il mercato si affiancava così al modello tradizionale, mostrando comunque la capacità di vincere la competizione. Le cause della crescita economica Come si spiega un’espansione così prodigiosa? I paesi definiti second comers op- pure late comers, stavano recuperando lo svantaggio e riuscivano adesso ad “aggancia- re” l’Inghilterra sulla via dello sviluppo industriale. Ciò era accaduto perché si erano attivati meccanismi di imitazione ed emulazione, che richiedevano soprattutto una buona organizzazione della società tale da permettere lo sviluppo dell’imprenditoria e quindi la capacità di acquisire tecniche e pratiche già sperimentate altrove. Inoltre si erano verificati fenomeni di innovazione autonoma che, grazie al mutamento del clima culturale, derivavano da un’attitudine al rischio e una capacità creativa che pri- ma quel paese non aveva in egual misura. Questo esito finale di “agganciamento” è stato in seguito molto studiato anche dagli economisti, utilizzando l’espressione di catching up. Ne discende una constatazione molto rilevante. Non è affatto detto che chi ri- mane indietro non possa recuperare; anzi: a precise condizioni di mutamento del sistema istituzionale e del clima culturale, un paese può recuperare lo svantaggio ac- cumulato e porsi sui binari dello sviluppo economico. D’altro canto, non è affatto detto che chi parte per primo debba conservare la posizione di leadership. Era già successo per le ricche città dell’Italia Medievale e Rinascimentale, che avevano cedu- to alla rapida fiammata espansionistica di Portogallo e Spagna, che a loro volta erano stati scalzati dal prepotente sviluppo dei Paesi Bassi e dell’Inghilterra la quale infine – come vedremo –, nonostante l’enorme vantaggio iniziale avrebbe ben presto perso il primato a vantaggio degli Stati Uniti. Alla luce di questo quadro esplicativo, diventa possibile capire come si sia verifi- cato l’impetuoso sviluppo economico della prima metà dell’800. L’origine, come già era avvenuto in Inghilterra, stava nelle trasformazioni dell’agricoltura che in buona parte dell’Europa presentava ampie potenzialità. I mutamenti istituzionali portati dalla rivoluzione francese e dalle armate napoleoniche permisero infatti di liberare molte energie represse. In Francia l’abbattimento delle barriere feudali e la distri- buzione della terra a una vasta schiera di piccoli proprietari, indusse a modificare le scelte colturali e ad aumentare notevolmente la produzione, tanto da permettere di vendere nel 1850 una quantità di grano molto superiore a quella del 1750. Nei territori dell’attuale Germania (allora divisa in molti Stati) l’abolizione delle istitu- 27 zioni dell’antico regime permise di registrare un aumento dell’80% della superficie coltivata. Perciò, superato il vincolo agricolo-alimentare, anche altre zone d’Europa oltre l’Inghilterra poterono sviluppare il circolo virtuoso che portava allo sviluppo indu- striale. Il meccanismo, come detto, fu di tipo prevalentemente imitativo. L’impulso all’innovazione tecnica venne ulteriormente favorito dai governi, con una legislazio- ne favorevole. La liquidazione giuridica dell’Europa medievale e mercantilista non si limitò infatti alla legislazione feudale. Entro la metà del secolo Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Francia e Germania del Nord revocarono le leggi che ostacolavano il prestito di danaro, permettendo così un’insolita disponibilità di capitali per gli inve- stimenti. Analogamente, venne di gran lunga semplificata, svincolandola dai control- li burocratici, la procedura per la fondazione di compagnie commerciali e industriali. L’abbattimento di tutte queste barriere creò una spinta formidabile verso lo sviluppo economico. Schiere sempre più nutrite di europei decidevano di lanciarsi nell’av- ventura di fondare un’azienda (grande o piccola), di intraprendere dei commerci, di produrre e vendere in mercati sempre più vasti e lontani. Perciò, dopo l’Inghilterra l’industrializzazione si estese ai cosiddetti second co- mers: il Belgio, l’Olanda, la Francia, gli stati tedeschi occidentali, parte della Scandi- navia, i margini settentrionali dell’Italia. Però solo in Belgio si trattò di un processo diffuso. Altrove, soprattutto in Francia e negli stati tedeschi, è meglio parlare di uno sviluppo “a isole”, in un contesto ancora caratterizzato dal prevalere dell’agricoltura e di attività manifatturiere tradizionali, spesso a domicilio. Per vedere la diffusione e la definitiva affermazione dell’industria bisognerà aspettare la seconda metà del secolo con quella che – come si vedrà – sarà chiamata la seconda rivoluzione industriale. In ogni caso, a metà ’800 la geografia dell’industrializzazione europea era già de- finita nelle sue linee di fondo, anche laddove il fenomeno era solo agli albori. In corso di sviluppo era l’Europa Nord-Occidentale, non a caso: è dove più profonde erano state le trasformazioni agrarie. I confini di questa zona in via di industrializzazione scendevano dalla Scandinavia alla Boemia, tagliavano la penisola italiana all’altezza del Po e correvano lungo i Pirenei fino all’Atlantico. La penisola iberica, la metà me- ridionale dell’Italia e l’est Europa ne risultavano per ora esclusi. Pur coi suoi limiti e le sue esclusioni, si trattava comunque di uno sviluppo economico eccezionale. Con una spinta così forte non sorprende perciò che in molte parti del continente, dopo l’Inghilterra, venissero superati il vincolo tecnologico e il vincolo energetico. Ne de- rivò un aumento vertiginoso della domanda di materie prime. A sostegno di questa richiesta giungevano ancora una volta le grandi forniture del Nuovo Mondo, il cui contributo allo sviluppo industriale europeo fu di enorme importanza. Gli industriali del Vecchio Continente avevano bisogno di cotone e di lana per le industrie tessili. Diffusesi le tecnologie adeguate per le fabbriche, avevano poi indotto molti contadini e artigiani proto-industriali a diventare operai delle fab- briche e avevano perciò bisogno di grandi derrate agricole per sfamarli. In entrambi i casi il Nuovo Mondo venne in loro soccorso. Allevare un numero di pecore suffi- ciente per le richieste di lana dei mercati europei avrebbe richiesto oltre 23 milioni di acri nel 1830: più dell’intera superficie coltivabile dell’intera Gran Bretagna. E circa 20 milioni di acri erano necessari per il cotone. L’Europa da sola non ce l’avrebbe mai fatta. Ma lana e cotone arrivavano dalle immense praterie dell’America. È come se il Vecchio Continente disponesse di acri di terra aggiuntivi, ma non sul suo terri- 28 torio. A queste cifre vanno aggiunte le forniture di prodotti agricoli, che attraverso l’Atlantico arrivavano sulle coste europee. Se si sommano le importazioni di lana, cotone e beni alimentari si raggiunge la ragguardevole cifra di oltre 50-55 milioni di acri di terreno, che l’Europa non aveva e che sfruttava in America. Furono quindi anche le risorse del Nuovo Mondo che favorirono lo sviluppo industriale del Vecchio Continente. Ancora una volta – come già fatto per la prima rivoluzione industriale in Inghilterra – va ricordato che la manodopera impiegata nelle grandi piantagioni del Nuovo Mondo era composta dagli schiavi. Lo sfruttamento degli africani deportati e schiavizzati in America ha perciò svolto un ruolo rilevante nel cambiamento degli equilibri economici mondiali e nel fornire ai paesi industriali le materie prime neces- sarie al loro sviluppo Intanto, per favorire i commerci l’innovazione più importante fu il movimento a favore della completa libertà di scambio. I governi, ormai espressione degli interessi della medio-alta borghesia degli affari, riducevano i dazi e abolivano le restrizioni nell’uso delle vie d’acqua internazionali, come il Danubio. L’accordo più importante fu quello raggiunto da Gran Bretagna e Francia con il trattato Cobden-Chevalier, che prevedeva l’abolizione da parte della Gran Bretagna di tutti i dazi sull’importa- zione da merci francesi (ad eccezione dei beni di lusso come brandy e vino), mentre la Francia cancellava il divieto di importazione dei prodotti tessili britannici e(ridus- se, in media del 15%, molti dazi su merci britanniche. Il trattato prevedeva inoltre la(clausola della nazione più favorita: quando uno dei due paesi, Inghilterra o Francia, stipulava un accordo con un terzo paese, la controparte avrebbe automaticamente beneficiato della tariffa più bassa eventualmente accordata con il paese terzo. Poco alla volta questa serie di trattati di libero commercio ridusse notevolmente le barriere doganali tra i paesi più industrializzati, fornendo un ulteriore e definitivo impulso al commercio internazionale. I mercati europei si riempirono così di merci, in quantità mai viste prime. Ma come acquistarle? Ormai in tutto il continente, con grande sorpresa dei viaggiatori stranieri, la moneta era solo di carta: erano bancono- te. Un’innovazione che a persone del XXI secolo può sembrare ovvia ma che all’e- poca suonò rivoluzionaria. Per sostenere il nuovo metodo di pagamento fu infatti necessario instaurare un meccanismo internazionale molto complesso che poggiava sulla convertibilità in oro. Il Gold System o Gold Standard In passato le monete erano state prevalentemente metalliche, formate da leghe di vario genere, con un po’ di oro e un po’ di argento in quantità variabili. E spesso gli Stati per risparmiare avevano diminuito la percentuale dei due metalli preziosi. Inol- tre da secoli circolavano, soprattutto per i grossi pagamenti, le “lettere di cambio”: un commerciante poteva acquistare o vendere una partita di merce su una piazza lontana rivolgendosi a un mediatore che rilasciava la lettera di cambio con la quale ci si impegnava a pagare la cifra pattuita nel luogo dovuto, nella valuta del luogo e in una data definita. Bisognava perciò tener conto di molti parametri: i vari tassi di inte- resse, il valore attribuito nei vari luoghi all’oro e all’argento e il differente valore che avevano quindi le monete. Il sistema appariva insomma molto complicato e pieno di insidie: non si adattava a uno sviluppo impetuoso della produzione e del commercio su scala internazionale. Bisognava perciò creare un sistema unitario e standardizzato: fu trovato nel cosiddetto “Gold System” o “Gold Standard”. I pagamenti si facevano 29 solo con banconote di carta (peraltro molto più leggere e maneggevoli da portare nei lunghi viaggi) che a partire dall’Inghilterra nel 1821 furono dichiarate convertibili in oro: per ogni banconota (magari di cinquanta sterline) esisteva una quantità di oro del medesimo valore (cinquanta sterline) materialmente custodita. Ogni moneta aveva la sua “parità” con l’oro: in teoria ogni privato, se non si fidava della stabilità di una moneta, poteva chiedere in qualunque momento di cambiare le sue banconote in oro. A governare questo sistema stavano delle istituzioni nuove: le Banche Centra- li (non una novità assoluta in realtà: in Inghilterra esisteva dal 1694). Solo a questi istituti lo Stato attribuiva il compito di conservare le riserve auree e di emettere le banconote nelle quantità permesse dalle riserve. L’Europa di metà ’800 risultava insomma irriconoscibile. Diversa da ciò che ap- pariva 50 anni prima. Diversissima dalle altre parti del mondo. Era l’Europa della Prima Rivoluzione industriale. E il suo assetto sociale ne era stato investito con tra- sformazioni di eccezionale profondità Una società radicalmente mutata6 La struttura e le dinamiche della società erano cambiate in modo netto. La so- cietà di Antico regime articolata in ordini, la cui appartenenza era per nascita, era ormai stata sostituita da una società composta da individui che, per effetto delle loro attività, si raggruppavano in classi sociali. La società in cui le differenze erano stabili- te da barriere giuridiche, venne sostituita da una società in cui la collocazione sociale degli individui derivava dalla posizione nel processo produttivo, perciò le differenze erano stabilite soprattutto da parametri economici: la proprietà, il denaro, i macchi- nari industriali. E in teoria ognuno poteva accedere alla proprietà ed arricchirsi, cam- biando così la propria posizione sociale; così come poteva capitare di perdere tutto e precipitare al gradino più basso. Sicché una società statica, dove la posizione sociale veniva sostanzialmente fissata per tutta la vita, fu sostituita da una soc