Ipertensione Arteriosa - PDF

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Bruno Trimarco, Carmine Morisco

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ipertensione arteriosa fisiopatologia endotelio salute

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Questo documento esplora la fisiopatologia dell'ipertensione arteriosa, concentrandosi sui meccanismi di regolazione della pressione arteriosa, inclusi il sistema barocettivo, renina-angiotensina-aldosterone, la funzione endoteliale, e l'insulino-resistenza. Analizza il ruolo dell'endotelio e dei fattori di stress ossidativo nella patogenesi dell'ipertensione.

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CAPITOLO 3 Bruno Trimarco Carmine Morisco Ipertensione arteriosa Definizione e classificazione L’ipertensione arteriosa è una malattia caratterizzata dall’aumento stabile dei valori di pressione arteriosa sistolica e diastolica al di sopra di 140 mmHg e 90 mmHg, rispe...

CAPITOLO 3 Bruno Trimarco Carmine Morisco Ipertensione arteriosa Definizione e classificazione L’ipertensione arteriosa è una malattia caratterizzata dall’aumento stabile dei valori di pressione arteriosa sistolica e diastolica al di sopra di 140 mmHg e 90 mmHg, rispettivamente. La pressione arteriosa può essere classificata in: pressione arteriosa ottimale, normale, normale-alta, ipertensione di grado I, ipertensione di grado II, ipertensione di grado III, ipertensione sistolica isolata (Tabella 3.1). Può anche essere classificata in normale, pre-ipertensione, ipertensione di grado I, ipertensione di grado II (Tabella 3.2). In base alle cause, l’ipertensione arteriosa può classificarsi come: essenziale, laddove non sono identificabili le cause, e secondaria, se sono identificabili specifiche cause. L’ipertensione essenziale costituisce il 90% dei casi di ipertensione. Fisiopatologia In condizioni fisiologiche, la pressione arteriosa viene mantenuta costante attraverso il funzionamento integrato di diversi meccanismi neuro-ormonali. Questi regolano l’omeostasi pressoria principalmente attraverso il controllo della gittata cardiaca, delle resistenze periferiche e dell’equilibrio idroelettrolitico. La pressione arteriosa (PA) è data dal prodotto della gittata cardiaca (GC) per le resistenze periferiche (R): PA = GC × R. Numerosi meccanismi sono preposti al controllo di questi due parametri, ed è da tener presente che tutti agiscono in maniera integrata. Pertanto risulta complesso attribuire l’eziopatogenesi dell’ipertensione a uno specifico meccanismo. Sistema barocettivo I barocettori arteriosi sono dei trasduttori di forza presenti nelle pareti dei grandi vasi (carotidi, arco dell’aorta) che vengono attivati e disattivati dall’aumento e dalla diminuzione della pressione arteriosa, rispettivamente. L’attivazione dei barocettori determina una risposta riflessa di tipo vagale con conseguente vasodilatazione periferica. Al contrario, la disattivazione dei barocettori evoca una risposta riflessa di tipo simpatico risultante in una vasocostrizione periferica e in un incremento dell’inotropismo. Il ruolo fisiologico dei barocettori è quello di contribuire alla fine regolazione delle riposte pressorie immediate, quali per esempio il mantenimento della pressione arteriosa costante nel passaggio dalla posizione clinostatica a quella ortostatica. In questo caso, il cambiamento di posizione determina una caduta verso il basso, per effetto della forza di gravità, del volume ematico con conseguente diminuzione della pressione arteriosa in corrispondenza dell’arco aortico e delle carotidi. In questa circostanza, i barocettori arteriosi vanno incontro a disattivazione con conseguente incremento dell’attività del sistema nervoso simpatico; ciò determina aumento delle resistenze periferiche e della gittata cardiaca impedendo la caduta della pressione arteriosa. Esistono numerose evidenze sperimentali che dimostrano come una alterazione della sensibilità dei barocettori arteriosi possa comportare un aumento del tono simpatico con conseguente incremento della pressione arteriosa. Sistema renina-angiotensina-aldosterone Il sistema renina-angiotensina-aldosterone è un sistema ormonale caratterizzato da una cascata peptidica attivata mediante clivaggio enzimatico che riveste un ruolo di primo piano nel controllo dell’omeostasi pressoria, in quanto regola sia le resistenze periferiche sia il bilancio idroelettrolitico. Il substrato del sistema renina-angiotensina è l’angiotensinogeno, una proteina sintetizzata dal fegato, che è trasformata in angiotensina I dall’enzima renina, prodotto dall’apparato iuxta-glomerulare del rene. L’angiotensina I è trasformata in angiotensina II dall’enzima di conversione. L’angiotensina II – regolando il tono vascolare, il rilascio di aldosterone e di vasopressina, il tono del sistema nervoso autonomo, il filtrato glomerulare e il flusso ematico renale – è il vero effettore del sistema renina-angiotensina. Allo stato attuale sono stati individuati quattro recettori dell’angiotensina II (AT1A, AT1B, AT2, AT4). L’aldosterone è un ormone mineralcorticoide prodotto dalla corticale del surrene. Al controllo della sintesi di aldosterone sono preposti l’angiotensina II, il K+ e l’ACTH. Nella cellula, l’ormone si lega al proprio recettore nel citosol, il complesso ormone-recettore trasloca dal citosol al nucleo dove modula l’espressione di geni e la traslazione di proteine che regolano il riassorbimento di sodio e l’equilibrio idroelettrolitico. Tabella 3.1 Classificazione della pressione arteriosa secondo le linee guida ESH/ESC Tabella 3.2 Classificazione della pressione arteriosa* Funzione endoteliale Le cellule endoteliali svolgono un ruolo importante in molti processi fisiologici ed eseguono una grande quantità di funzioni, come il trasporto di H2O e soluti, la regolazione dei lipidi plasmatici, la partecipazione a reazioni infiammatorie e immunologiche, il mantenimento della fluidità del sangue e l’aggiustamento del calibro dei vasi sanguigni a diverse condizioni emodinamiche e ormonali. L’endotelio è uno degli organi più importanti tra quelli che partecipano alla regolazione dell’omeostasi pressoria. Numerosi fattori di derivazione endoteliale possono sensibilmente antagonizzare la contrazione e proliferazione delle cellule della muscolatura liscia vascolare e la funzione delle piastrine. Tali fattori includono l’ossido nitrico, la prostaciclina e un fattore iperpolarizzante di derivazione endoteliale. Inoltre, le cellule endoteliali sono in grado di liberare sostanze ad azione opposta, a effetto vasocostrittore, proaggregante e promitogeno come il trombossano A2, la prostaglandina H2, l’endotelina-1 e l’angiotensina II. L’ipertensione arteriosa è associata a disfunzione endoteliale. Non è ancora del tutto chiaro se la disfunzione endoteliale preceda lo sviluppo dell’ipertensione arteriosa o se sia la conseguenza dell’elevazione dei valori pressori. La prima ipotesi è sostenuta dall’osservazione che soggetti normotesi con familiarità per ipertensione arteriosa mostrano una vasodilatazione endotelio-dipendente più attenuata rispetto a controlli senza storia familiare. Nei ratti spontaneamente ipertesi, utilizzati come modello per lo studio della patogenesi dell’ipertensione arteriosa, la disfunzione endoteliale inizia a essere già evidente prima dell’instaurarsi di valori elevati di pressione arteriosa. In questi animali è possibile osservare un’alterata risposta endotelio-dipendente caratterizzata da una ridotta vasodilatazione, sebbene il rilascio dell’ossido nitrico risulti aumentato. Lo studio delle arterie coronarie isolate di questi ratti ha documentato un aumento dell’ossido nitrico sintetasi, enzima deputato alla sintesi dell’ossido nitrico, e un incremento dell’ossido nitrico. L’alterata risposta endotelio-dipendente, più che a una riduzione di sintesi di ossido nitrico, potrebbe essere dovuta all’eccessiva produzione di anione superossido, che inattiva l’ossido nitrico combinandosi ad esso, oppure alla presenza di un’attività superossido dismutasica minore rispetto a quella esistente nelle cellule endoteliali di animali normotesi. Nell’uomo, il ruolo chiave dello stress ossidativo nell’alterare la vasodilatazione endotelio-dipendente è confermato dal fatto che la somministrazione di agenti antiossidanti, quali la vitamina C in pazienti ipertesi, migliora la funzione endoteliale a livello dei vasi epicardici e del circolo periferico in risposta all’acetilcolina. L’ossido nitrico e l’anione superossido esercitano effetti opposti non solo sul tono vascolare, ma inibiscono e attivano rispettivamente quei meccanismi – quali la proliferazione e la migrazione delle cellule muscolari lisce vasali, l’aggregazione piastrinica, l’adesione dei monociti e l’espressione delle molecole di adesione – che sono coinvolti nella patogenesi degli eventi trombotici e delle lesioni aterosclerotiche. Pertanto, un’alterazione del bilancio tra ossido nitrico e anione superossido può non solo modificare il tono vascolare, ma assumere un ruolo preponderante nella genesi degli eventi cardiovascolari quali infarto del miocardio e ictus cerebrale. Tra le molteplici funzioni dell’ossido nitrico vi è anche quella di modulare la sintesi dell’endotelina-1, potente vasocostrittore biologico. In condizioni fisiologiche, questo peptide causa vasocostrizione agendo sui recettori ET-A ed ET-B presenti sulle cellule muscolari lisce e contemporaneamente attiva la produzione di ossido nitrico tramite la stimolazione dei recettori endoteliali ET-B. Nei pazienti affetti da ipertensione arteriosa la ridotta biodisponibilità di ossido nitrico fa sì che l’effetto di vasocostrizione indotta dall’attivazione dei recettori ET-B non sia più controbilanciato dalla produzione di ossido nitrico. Allo stesso modo, l’angiotensina II, agendo sui recettori AT1 e AT2, può modulare rispettivamente l’attivazione e l’inattivazione di NAD(P)H-ossidasi e di ossido nitrico. Insulino-resistenza L’insulino-resistenza è definita come una ridotta risposta biologica dei tessuti alla stimolazione insulinica e gioca un importante ruolo nella patogenesi del diabete mellito. Esistono chiare evidenze sperimentali ed epidemiologiche che l’insulino-resistenza svolge un ruolo di primo piano nella patogenesi dell’ipertensione arteriosa e, in generale, nel determinismo degli eventi cardiovascolari. Per esempio, in soggetti normali l’insulina evoca un incremento dell’attività simpatica e allo stesso tempo è capace di ridurre l’effetto vasocostrittivo che risulta da tale attivazione. D’altra parte, nei pazienti ipertesi l’insulina evoca un’attivazione simpatica tre volte maggiore rispetto a quella indotta nel soggetto normale, mentre risulta indebolita la sua azione vasodilatatrice. Tale meccanismo è coinvolto nell’alterazione delle resistenze vascolari periferiche, che contribuiscono ad aumentare i valori di pressione arteriosa. È possibile quindi che, nel paziente affetto da ipertensione arteriosa, l’iperinsulinemia secondaria a insulino-resistenza sia responsabile dell’abnorme attivazione del sistema nervoso simpatico, risultando in un incremento delle resistenze periferiche. Il ruolo chiave dell’insulino-resistenza nella patogenesi dell’ipertensione è stato ulteriormente supportato dall’evidenza sperimentale che, nelle sezioni di aorta di ratti spontaneamente ipertesi, la resistenza all’azione vascolare dell’insulina è già presente all’età di cinque settimane, prima dell’aumento dei valori di pressione arteriosa. Ciò indica che, in questo tipo di ratti, la resistenza vascolare all’azione insulinica è specifica e non correlata all’iperinsulinemia o all’iperglicemia compensatoria e che probabilmente è conseguenza di una predisposizione genetica. Ulteriori studi effettuati su topi geneticamente modificati supportano il ruolo meccanicistico delle anomalie del segnale insulinico a livello recettoriale o postrecettoriale nella patogenesi dell’ipertensione arteriosa. In particolare, è stato dimostrato che topi transgenici, eterozigoti per l’ablazione del recettore dell’insulina (IRKO) mostrano valori di pressione arteriosa sistolica maggiori rispetto agli animali di controllo wild type. L’aspetto più interessante di questo modello animale è che sono presenti alterazioni della funzione endoteliale associate a un’integrità del metabolismo glucidico e lipidico. Infatti, questi animali mostrano livelli di glucosio ematico a digiuno, di insulina, di trigliceridi e di acidi grassi liberi simili a quelli dei topi di controllo; al contrario presentano compromissione, a livello dell’endotelio aortico, dell’attivazione dell’enzima della ossido nitrico sintetasi indotta dall’insulina. Ciò indica che la condizione di insulino- resistenza non necessariamente si associa ad alterazioni del metabolismo glucidico, ma in alcuni casi può essere selettivamente localizzata a un organo o a un distretto, e che non sempre gli effetti deleteri dell’insulino- resistenza sono mediati dalla conseguente iperinsulinemia. Il ruolo chiave svolto dall’insulina nella regolazione della pressione arteriosa è stato corroborato da un altro studio che ha esplorato il fenotipo di topi transgenici caratterizzati dall’ablazione (knock-out) del gene che codifica per il substrato del recettore insulinico (IRS-1). Questi animali sono caratterizzati da aumentati valori di pressione arteriosa sistolica e diastolica; inoltre mostrano una riduzione della vasodilatazione endotelio-dipendente rispetto agli animali di controllo. In un ulteriore modello di animale transgenico caratterizzato da knock-out selettivo del recettore insulinico a livello endoteliale (VENIRKO), è stato dimostrato che il recettore insulinico gioca un ruolo di primo piano nel mantenimento del tono vascolare e nell’espressione genica della forma endoteliale dell’enzima ossido nitrico- sintetasi, deputato alla sintesi di ossido nitrico. I risultati di questi studi consentono di affermare che le anomalie della funzione del recettore insulinico o del suo substrato determinano un’alterazione dell’omeostasi pressoria indipendentemente dal controllo glicemico e dai livelli plasmatici di insulina. Pertanto, è ragionevole considerare l’insulino-resistenza vascolare una condizione che gioca un ruolo chiave nella patogenesi dell’ipertensione arteriosa. Evidenze sperimentali indicano che il fenomeno dell’insulino-resistenza è tessuto-specifico e che il meccanismo patogenetico che ne è responsabile dipende dal tipo di stimolo. Pertanto, le alterazioni del segnale insulinico secondarie a difetto recettoriale o postrecettoriale in tessuti diversi da quello muscolare, adiposo o epatico non conferiscono insulino-resistenza sistemica e non compromettono l’omeostasi glucidica. A tal proposito, è da sottolineare che esistono dati discordanti in modelli animali di ipertensione arteriosa circa l’associazione tra ipertensione arteriosa e insulino-resistenza sistemica. Per esempio, insulino-resistenza sistemica è stata riscontrata in animali da esperimento con ipertensione geneticamente determinata, come i ratti obesi Zucker e quelli Goto-Kakizaki. D’altra parte, è stato riscontrato che i ratti spontaneamente ipertesi hanno una normale sensibilità all’insulina nel muscolo scheletrico rispetto ai ratti normotesi, mentre hanno una ridotta sensibilità all’insulina a livello cardiaco e a livello vascolare. Va specificato che i ratti del ceppo Zucker e quelli Goto-Kakizaki, in associazione all’incremento dei valori di pressione arteriosa, presentano obesità e diabete mellito, rispettivamente, due condizioni associate alla presenza di insulino- resistenza sistemica. Al contrario, i ratti spontaneamente ipertesi presentano solo un incremento dei valori pressori. Questi dati consentono di ipotizzare che la malattia ipertensiva, di per sé, è caratterizzata da insulino-resistenza a carico dell’apparato cardiovascolare. Quando l’ipertensione si associa a diabete mellito e/o a obesità, evenienza peraltro molto comune, all’insulino- resistenza vascolare si associa quella sistemica, che trova il suo principale meccanismo patogenetico in una compromissione della sensibilità insulinica a livello del distretto muscolare scheletrico. Comunque, se si parte dall’assunto che l’insulino-resistenza costituisce il principale meccanismo patogenetico del diabete mellito, la migliore dimostrazione che l’insulino-resistenza gioca un ruolo chiave nella patogenesi dell’ipertensione arteriosa è rappresentata dall’elevato rischio di sviluppo di diabete mellito nei soggetti ipertesi. Fattori genetici L’ipertensione arteriosa è una malattia alla cui eziopatogenesi concorrono fattori ambientali e genetici. Allo stato attuale, comunque, non sono state individuate alterazioni genetiche responsabili dello sviluppo dell’ipertensione essenziale, ma sono state identificate delle forme monogeniche o mendeliane di ipertensione arteriosa. In queste rare forme, l’eziopatogenesi dell’ipertensione è attribuibile a una singola mutazione genica. La maggior parte di queste mutazioni è appannaggio dei meccanismi di riassorbimento del sodio e di forme familiari di feocromocitoma. Le principali forme di ipertensione monogenica associate a iperplasia surrenalica congenita sono attribuibili a un difetto della 17α-idrossilasi o della 11β-idrossilasi. La sindrome di Liddle è attribuibile a mutazioni dei geni che codificano per le subunità β e γ dei canali subepiteliali del sodio. La sindrome di Gordon o pseudoipoaldosteronismo di tipo 2 è ascrivibile a un difetto del cotrasportatore sodio-cloro. Le mutazioni responsabili di questa sindrome coinvolgono i geni WNK1 e WNK4. L’iperaldosteronismo desametasone-sensibile trova la sua eziologia nella formazione di un gene chimerico, generato durante la meiosi per crossing-over diseguale, formato in parte dal gene CYP11B e in parte dal gene CYP11B2. La sindrome da apparente eccesso di mineralcorticoidi è dovuta a una mutazione del gene che codifica per l’enzima 11β idrossisteroidodeidrogenasi di tipo 2 (11βHSD2). Questa mutazione determina un alterato metabolismo del cortisolo. La sindrome di von Hippel-Lindau è una sindrome neoplastica eredo-familiare caratterizzata dallo sviluppo di numerose neoplasie in diversi organi, tra cui il feocromocitoma. L’eziologia di questa sindrome è ascrivibile a mutazioni del gene oncosoppressoore VHL. La sindrome MEN2 è una sindrome neoplastica eredo-familiare caratterizzata dallo sviluppo di feocromocitoma. Questa sindrome è attribuibile a una mutazione del gene RET, che codifica per un recettore ad azione tirosin-chinasica. Epidemiologia e rischio cardiovascolare Epidemiologia La prevalenza dell’ipertensione arteriosa nella popolazione globale è stimata intorno al 30-45%. Gli studi epidemiologici prevedono un aumento di prevalenza di ipertensione arteriosa nei prossimi anni. Tale fenomeno è attribuibile a: aumento del numero degli anziani; aumento della prevalenza dell’obesità nei Paesi industrializzati; aumento dell’aspettativa di vita dei pazienti ipertesi. Definizione del rischio cardiovascolare Per fattore di rischio si intende una condizione patologica associata in maniera statisticamente significativa all’insorgenza di uno specifico evento clinico, la cui correzione si associa a una riduzione dell’incidenza dell’evento stesso. Studi epidemiologici nel corso degli ultimi 50 anni hanno identificato una serie di fattori di rischio associati all’insorgenza di eventi cardio- e cerebrovascolari. Tali fattori sono stati identificati come fattori di rischio cardiovascolari. Ipertensione arteriosa e rischio cardiovascolare L’ipertensione arteriosa è il più frequente fattore di rischio cardiovascolare presente nei Paesi industrializzati. L’ipertensione arteriosa raddoppia il rischio di evento cardiovascolare e triplica quello per scompenso cardiaco. Esiste una relazione continua e lineare tra valori di pressione arteriosa sistolica, pressione arteriosa diastolica, morbilità e mortalità cardio- e cerebrovascolare. La correlazione tra pressione arteriosa sistolica e rischio di eventi cerebrovascolari è più ripida rispetto a quella relativa agli eventi coronarici; ciò indica il ruolo patogenetico prevalente della pressione sistolica nei confronti della patologia cerebrovascolare. Mediatori del rischio cardiovascolare I meccanismi patogenetici responsabili dell’aumentato rischio cardiovascolare nel paziente iperteso sono riconducibili alla rapida progressione della malattia aterosclerotica, allo sviluppo di ipertrofia ventricolare sinistra e alla compromissione della funzione renale. Lo sviluppo di aterosclerosi è responsabile di gran parte della morbilità e mortalità cardiovascolare precoce che si registra nell’ipertensione arteriosa. Le più frequenti lesioni aterosclerotiche che si rilevano nell’ipertensione sono: Tabella Determinanti del rischio cardiovascolare nel paziente iperteso secondo le linee guida 3.3 ESH/ESC Caratteristiche demografiche e indici di laboratorio Sesso (maschi ˃ femmine) Età Familiarità per eventi cardiovascolari precoci (maschi ˂ 55 anni, femmine ˂ 65 anni) Colesterolo totale ed HDL Acido urico Familiarità per insorgenza precoce di ipertensione arteriosa Diabete mellito Fattori psicosociali ed economici Obesità e sovrappeso Fumo di sigaretta Stile di vita sedentario Insorgenza precoce di menopausa Frequenza cardiaca (valori a riposo > 80 bpm) Danno d’organo subclinico Ipertrofia ventricolare sinistra (all’ecocardiografia e/o elettrocardiografia) Ispessimento intima-media carotideo Malattia renale cronica Microalbuminuria Indice pressorio degli arti superiori/inferiori ˂ 0,9 Velocità dell’onda sfigmica carotido-femorale > 10 m/sec Pressione arteriosa differenziale (nelle persone anziane > 60 mmHg) Retinopatia di grado avanzato (emorragia, essudati, papilledema) Patologie concomitanti Malattia cerebrovascolare (ictus ischemico, emorragia cerebrale, attacco ischemico transitorio) Malattia cardiaca (cardiopatia ischemica, rivascolarizzazione miocardica, scompenso cardiaco) Insufficienza renale Vasculopatia periferica Retinopatia avanzata Fibrillazione atriale ESC = European Society of Cardiology; ESH = European Society of Hypertension. aneurismi miliari delle piccole arteriole penetranti cerebrali, che quando si rompono causano emorragie cerebrali; placche aterosclerotiche, che quando si trombizzano danno luogo a fenomeni ischemici a livello cardiaco e cerebrale; degenerazione della tunica media della parete dell’aorta, che può portare alla formazione e rottura di dilatazioni aneurismatiche. L’ipertrofia ventricolare sinistra è definita come l’aumento della massa del ventricolo sinistro che si realizza nella malattia ipertensiva. Nell’ipertensione arteriosa, la prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra risulta essere del 10% se rilevata mediante elettrocardiogramma, del 30% se rilevata mediante ecocardiogramma. L’ipertensione arteriosa induce danno renale, che consiste in sclerosi arteriolare e ialinosi, sclerosi glomerulare globale focale, fibrosi interstiziale con atrofia tubulare e infiammazione interstiziale cronica. Il danno renale si manifesta con proteinuria, riduzione del filtrato glomerulare fino alla progressione verso l’insufficienza renale terminale. Stima del rischio cardiovascolare nel paziente iperteso La stima del rischio cardiovascolare nel paziente iperteso viene calcolata basandosi: sui valori di pressione arteriosa; sulla presenza di danno d’organo subclinico; sulla presenza di malattie metaboliche; sulla presenza di patologia cardiaca, cerebrale, vascolare e renale; sulla presenza di altri fattori di rischio quali l’età, la familiarità. I determinanti del rischio cardiovascolare nel paziente iperteso sono riportati nella Tabella 3.3. L’algoritmo proposto dalla European Society of Hypertension (ESH) per il calcolo del rischio cardiovascolare nei pazienti affetti da ipertensione a 10 anni è riportato nella Tabella 3.4. La stessa tabella riporta i criteri per l’inizio della terapia antipertensiva e il target pressorio da raggiungere. Diagnosi La valutazione diagnostica del paziente affetto da ipertensione arteriosa deve comprendere: la valutazione della gravità dell’ipertensione arteriosa; la ricerca di eventuali cause di ipertensione secondaria; la ricerca di eventuale danno d’organo asintomatico; la ricerca di patologie cardiovascolari e renali concomitanti. Ciò si realizza attraverso la misurazione della pressione arteriosa, la raccolta anamnestica, l’esame fisico, gli esami di laboratorio e strumentali. La diagnosi di ipertensione viene posta quando risultano alterati i valori pressori misurati per almeno 2 volte in 2-3 occasioni diverse. La misurazione della pressione arteriosa può essere effettuata dal medico, dal personale infermieristico o dal paziente in ambiente ospedaliero, in ambulatorio o a domicilio. Misurazione della pressione arteriosa La pressione arteriosa può essere misurata con sfigmomanometri aneroidi o apparecchiature elettroniche automatiche o semiautomatiche. Gli sfigmomanometri a mercurio, per i limiti legislativi che ne riducono la commercializzazione e il loro utilizzo in strutture pubbliche, sono destinati progressivamente a essere dismessi. La misurazione della pressione arteriosa deve essere eseguita seguendo delle procedure operative standard, al fine di ottenere la massima accuratezza. Le procedure per una corretta misurazione della pressione arteriosa sono le seguenti: il paziente deve rimanere seduto in un ambiente tranquillo, a temperatura normale, per alcuni minuti prima di procedere alla misurazione; devono essere effettuate rilevazioni distanziate almeno di 1-2 minuti e vanno eseguite più misurazioni se le prime risultano essere diverse tra loro > 5 mmHg; bisogna usare misure di bracciali adeguati alle dimensioni del paziente (circonferenza del braccio 22-26 cm, cuffia 12 × 22 cm; circonferenza del braccio 27-34 cm, cuffia 16 × 30 cm; circonferenza del braccio 35-44 cm, cuffia 16 × 36 cm; circonferenza del braccio 45-52 cm, cuffia 16 × 42 cm); è necessario posizionare il bracciale all’altezza del cuore; il bracciale deve essere gonfiato 30 mmHg al di sopra della pressione sistolica; bisogna sgonfiare la cuffia alla velocità di 2-3 mmHg/sec; bisogna usare la fase I e V dei toni di Korotkoff per identificare la pressione sistolica e diastolica rispettivamente; la pressione deve essere misurata a entrambi gli arti, come riferimento si tiene il valore più alto; nei pazienti anziani, nei diabetici e in quelli che assumono terapia antipertensiva, la pressione arteriosa deve essere rimisurata 1 e 5 minuti dopo l’assunzione della posizione ortostatica, per valutare la presenza di ipotensione ortostatica con associata misurazione della frequenza cardiaca per 30 secondi con metodo palpatorio. Ipertensione da camice bianco L’ipertensione da camice bianco è caratterizzata dal costante rilievo, in ambulatorio e/o in ospedale, di valori pressori > 140/90 mmHg, laddove il paziente al di fuori dell’ambulatorio presenta valori < 135/85 mmHg. Ipertensione mascherata L’ipertensione mascherata è caratterizzata dal costante rilievo, in ambulatorio e/o in ospedale, di valori pressori < 140/90 mmHg, laddove il paziente al di fuori dell’ambulatorio presenta valori più alti. Misurazione domiciliare La misurazione domiciliare della pressione arteriosa può essere eseguita da personale medico e/o infermieristico o dal paziente stesso e in tal caso è definita automisurazione. Essa ha la sua utilità, in quanto consente rilievi in giorni e in circostanze diverse, quindi rispecchia una condizione clinica più vicina alla realtà. Allo stesso tempo annulla alcuni dei fattori confondenti la misurazione pressoria come l’effetto “camice bianco”. Nell’automisurazione della pressione arteriosa è importante che: Tabella Algoritmo per il calcolo del rischio cardiovascolare: indicazioni per l’inizio della 3.4 terapia antipertensiva e indicazioni del target pressorio da raggiungere vengano utilizzate solo apparecchiature validate scientificamente; il paziente sia istruito in merito alle procedure standard; come valori soglia di ipertensione vengano considerati > 135/85 mmHg. Monitoraggio della pressione arteriosa Il monitoraggio della pressione arteriosa consiste nella misurazione mediante apparecchiature automatiche nell’arco delle 24 ore. Sebbene tale valutazione fornisca importanti informazioni sul profilo pressorio del paziente nell’arco delle 24 ore, essa non deve essere considerata un’alternativa alle misurazioni sfigmomanometriche per la diagnosi di ipertensione. Il monitoraggio della pressione arteriosa è indicato quando: il medico rileva una notevole variabilità dei valori pressori nell’ambito della stessa visita o in visite diverse; si rilevano ambulatorialmente valori pressori elevati in pazienti a basso rischio cardiovascolare; si rileva un’elevata discrepanza tra valori pressori misurati in ambulatorio e a domicilio; il paziente è resistente alla terapia antipertensiva; si sospetta ipotensione ortostatica in particolare nei soggetti anziani e diabetici che assumono terapia antipertensiva; nelle donne in gravidanza con sospetta pre-eclampsia. I valori soglia per porre diagnosi di ipertensione durante monitoraggio pressorio sono: 125-130/80 mmHg per la pressione sistolica e diastolica, rispettivamente (valori diurni: 130-135/85 mmHg, valori notturni: 120/70 mmHg). Anamnesi Le informazioni anamnestiche importanti per l’inquadramento diagnostico del paziente iperteso riguardano l’anamnesi familiare, fisiologica, patologica e farmacologica. Anamnesi familiare Storia familiare di ipertensione arteriosa, dislipidemia, diabete mellito, malattie cardiovascolari precoci. Anamnesi fisiologica Vanno indagate le abitudini alimentari (abuso di liquirizia), l’utilizzo di sostanze voluttuarie (cocaina, anfetamine), l’abuso di alcol, il fumo di sigaretta, lo stile di vita. Anamnesi patologica Occorre prendere in considerazione: la durata della malattia ipertensiva e i valori pressori rilevati in passato, la storia di malattie renali o infezioni delle vie urinarie, di astenia e tetania (iperaldosteronismo), di cefalea, ansia, sudorazione (feocromocitoma), di malattie vascolari, cardio- e cerebrovascolari, diabete mellito, dislipidemie. Anamnesi farmacologica Vanno rilevati sia l’uso di farmaci quali antinfiammatori non steroidei, analgesici, spray nasali, carbenoxolone, cocaina, anfetamine, steroidi, eritropoietina, ciclosporina, contraccettivi orali, sia l’uso di farmaci antipertensivi (efficacia ed effetti indesiderati). Esame obiettivo L’esame obiettivo ha la finalità di rilevare, oltre alla pressione arteriosa, le caratteristiche antropometriche del paziente, la presenza di segni di danno d’organo e di ipertensione secondaria. L’esame obiettivo deve comprendere: la valutazione della frequenza cardiaca, del peso e dell’altezza per il calcolo dell’indice di massa corporea, della circonferenza addominale, della presenza di edemi periferici; la ricerca di segni cutanei di neurofibromatosi e di lesioni ischemiche; la valutazione dei polsi periferici; la valutazione del volume renale alla palpazione; la ricerca di soffi carotidei, addominali e toracici. Tabella Esami di laboratorio e strumentali per lo screening diagnostico dell’ipertensione 3.5 arteriosa Test di routine Determinazione di emoglobina e/o ematocrito Determinazione di glicemia a digiuno Determinazione di colesterolemia totale, colesterolo LDL, colesterolo HDL Determinazione di trigliceridemia a digiuno Determinazione di kaliemia e natriemia Determinazione di uricemia e creatininemia Esame urine: esame microscopico; stick urine per proteinuria, test per la microalbuminuria Elettrocardiogramma a 12 derivazioni Test aggiuntivi basati su anamnesi, esame obiettivo e riscontri dei test di routine HbA1c (se la glicema a digiuno > 5,6 mmol/L (102 mg/dL) o precedente diagnosi di diabete Proteinuria quantitativa (se stick urine positivo); sodiuria e potassiuria e loro rapporto Monitoraggio della pressione arteriosa: ambulatoriale e domiciliare Ecocardiogramma ECG Holter nel sospetto di aritmie Doppler carotideo Ecografia addominale/arterie periferiche Fundus oculi Valutazione estesa Ulteriore ricerca per danno cerebrale, cardiaco, renale e vascolare, obbligatoria nell’ipertensione resistente e complicata Ricerca per ipertensione secondaria quando suggerito dall’anamnesi, dall’esame obiettivo e dal riscontro dei test di routine o aggiuntivi HbA1c = emoglobina glicata. Esami di laboratorio Gli esami di laboratorio hanno la finalità di rilevare la presenza di fattori di rischio metabolici, di danno d’organo, di ipertensione secondaria. Gli esami raccomandati sono: glicemia a digiuno, colesterolemia totale, HDL e LDL, trigliceridemia, kaliemia, uricemia, creatininemia (calcolo del filtrato glomerulare), emoglobina ed ematocrito, esame delle urine con valutazione del sedimento, microalbuminuria. Nella Tabella 3.5 sono riportati gli esami di laboratorio da eseguire nello screening diagnostico dell’ipertensione arteriosa. Esami strumentali Gli esami strumentali hanno la finalità di rilevare la presenza di danno d’organo e di ipertensione secondaria. Ad eccezione dell’elettrocardiogramma, che rientra nei test di routine da eseguire in tutti i pazienti ipertesi, gli esami strumentali vengono eseguiti con esami aggiuntivi quando esiste il forte sospetto di danno d’organo o di condizione clinica associata e ipertensione secondaria (Tabella 3.6). Tabella Ulteriori esami strumentali per la valutazione diagnostica dell’ipertensione 3.6 arteriosa Patologia Esami strumentali Malattia cerebrovascolare Eco-Doppler carotideo, RM, TC cerebrale Malattia cardiovascolare Eco-Doppler cardiaco Malattia renale Ecografia renale, scintigrafia renale Malattia nefrovascolare Eco-Doppler arterie renali, angiografia arterie renali Coartazione aortica Eco-Doppler cardiaco, aortografia Iperaldosteronismo primitivo Scintigrafia surrenalica, TC addome Sindrome di Cushing Scintigrafia surrenalica, TC addome Feocromocitoma Scintigrafia surrenalica, TC addome RM = risonanza magnetica; TC = tomografia computerizzata. Danno d’organo nell’ipertensione arteriosa Gli organi bersaglio dell’ipertensione arteriosa sono: il cuore, i vasi arteriosi, il rene, l’encefalo. Con le metodiche diagnostiche attuali è possibile rilevare la presenza di danno d’organo asintomatico negli organi bersaglio dell’ipertensione. Ciò ha un’importante rilevanza clinica, in quanto consente un’accurata stima del rischio cardiovascolare nel paziente iperteso. Infatti, la presenza di danno d’organo espone i pazienti ipertesi a un aumento del rischio per eventi cardiovascolari fatali e non, dal momento che è stato dimostrato che il danno d’organo rappresenta un fattore indipendente di rischio cardiovascolare. È importante sottolineare che lo sviluppo delle varie forme di danno d’organo è sotteso dai meccanismi patogenetici comuni. Ciò comporta che spesso il paziente iperteso è portatore contemporaneamente di più forme di danno d’organo (Figura 3.1). Quest’ultimo aspetto, dal punto di vista prognostico, è estremamente importante in quanto è stato dimostrato che i fattori di rischio hanno un effetto additivo tra loro potenziando la probabilità di eventi cardiovascolari. Figura 3.1 Storia naturale dell’ipertensione arteriosa. Nel paziente iperteso, la presenza di danno d'organo asintomatico condiziona il rischio di eventi cardiovascolari (CV). Le varie forme di danno d'organo, dal momento che hanno un'eziopatogenesi comune, spesso coesistono. Danno cardiaco L’ipertrofia ventricolare sinistra (IVS) costituisce una delle manifestazioni più frequenti di danno d’organo nell’ipertensione arteriosa e, allo stesso tempo è un fattore di rischio indipendente per eventi cardiovascolari e cerebrovascolari. Per anni, lo sviluppo di IVS è stato interpretato come la risposta adattativa del ventricolo sinistro al sovraccarico pressorio finalizzata alla normalizzazione dello stress parietale in accordo alla legge di Laplace. Questa interpretazione è stata corroborata dall’evidenza sperimentale che la ridotta risposta ipertrofica indotta dal sovraccarico pressorio determina la comparsa precoce di disfunzione ventricolare sinistra. D’altro canto, l’evidenza che lo sviluppo di IVS si associa a un’aumentata frequenza di eventi cardiovascolari e alla comparsa di disfunzione ventricolare sinistra suggerisce che l’IVS, più che rappresentare un meccanismo di compenso, costituisce una risposta maladattativa. A supporto di questa visione dell’IVS vi è l’attuale classificazione dell’insufficienza cardiaca che pone l’IVS negli stadi iniziali dell’insufficienza cardiaca; ovvero, quella condizione caratterizzata da assenza di sintomi e segni di insufficienza cardiaca e dalla contemporanea presenza di alterazioni strutturali del miocardio. In definitiva, l’IVS e l’insufficienza cardiaca possono essere interpretate come due fasi diverse della stessa patologia. Diagnosi L’IVS viene diagnostica mediante elettrocardiogramma e/o ecocardiogramma. Esistono diversi criteri elettrocardiografici per diagnosticare l’IVS: criterio di Sokolow-Lyon: onda S in V1 + onda R in V5 – V6 > 35 mm; criterio di Cornell: onda S in V3 + onda R in aVL > 28 mm nei maschi e > 20 mm nelle femmine; criterio di Perugia: onda S in V3 + onda R in aVL > 24 nei maschi e > 20 mm nelle femmine e/o segni elettrocardiografici di sovraccarico ventricolare sinistro e/o punteggio di Romhild-Estes ≥ 5 (Tabella 3.7). Tabella Punteggio di Romhild-Estes per la quantizzazione dell'ipertrofia ventricolare 3.7 sinistra Caratteristica elettrocardiografica Punti Presenza nelle derivazioni periferiche di onda R o S ˂ 2 mV, oppure nelle derivazioni 3 precordiali presenza di onda R o S ˃ 3 mV Alterazioni della ripolarizzazione ventricolare con digitale 1 Alterazioni della ripolarizzazione ventricolare senza digitale 3 Presenza di anomalie atriali sinistre 3 Deviazione assiale sinistra oltre –30° 2 Durata del QRS ˃ 90 msec 1 Deflessione intrinsecoide ˃ 50 msec 1 L’ecocardiogramma è dotato di una maggiore sensibilità rispetto all’elettrocardiogramma nell’identificazione dell’IVS. I criteri ecocardiografici di IVS sono diversi, primo fra tutti la presenza di massa ventricolare sinistra indicizzata per superficie corporea > di 125 g/m2 nei maschi e 110 g/m2 nelle femmine. All’ecocardiogramma, la massa ventricolare sinistra viene calcolata utilizzando la formula di Devereux: 0,832 × [(Dtd + SIVtd + PPtd)3 – Dtd3] + 0,6 dove Dtd è il diametro telediastolico del ventricolo sinistro, SIVtd è lo spessore del setto interventricolare in telediastole, PPtd è lo spessore della parete posteriore del ventricolo sinistro in telediastole. Il rapporto tra PPtd e Dtd dà lo “spessore parietale relativo”. In base a questo parametro è possibile distinguere due tipi di IVS: concentrica (> 0,45) ed eccentrica (< 0,45). L’ecocardiogramma consente la stima della funzione diastolica che può essere valutata mediante Doppler dal rapporto tra le onde E ed A del flusso transmitralico. Storia naturale La prevalenza di IVS nei pazienti ipertesi è pari al 10% e al 30% a seconda della metodica utilizzata per la sua rilevazione, elettrocardiogramma ed ecocardiogramma, rispettivamente. L’IVS è un fattore di rischio indipendente per eventi cardiovascolari (triplica il rischio), per morte cardiovascolare (duplica il rischio) e per lo sviluppo di insufficienza cardiaca. L’IVS si associa a un aumento degli eventi cerebrovascolari, a danno cerebrale asintomatico e a compromissione della funzione renale. Patogenesi Lo sviluppo di IVS è un processo multifattoriale che coinvolge fattori genetici (polimorfismi dei geni del recettore tipo 2 dell’angiotensina, dell’aldosterone-sintetasi, dell’α-adducina), emodinamici (aumento della pressione arteriosa, aumento della pressione differenziale, rigidità della parete arteriosa), stimolazione neurormonale (stimolazione dei recettori α- e β-adrenergici, attivazione del sistema renina-angiotensina), fattori di crescita (ormone della crescita, insulina), citochine (TNF-α), radicali liberi dell’ossigeno (Figura 3.2). Anatomia patologica L’esame istologico mostra che l’IVS è caratterizzata da un incremento delle dimensioni dei cardiomiociti secondario all’aumento dei sarcomeri e da deposizione di matrice connettivale interstiziale e perivascolare. Comunque, l’IVS non può ricondursi a un semplice incremento della massa ventricolare sinistra secondario a un’aumentata sintesi di miofibrille, essendo un processo molto più complesso caratterizzato dall’attivazione di un programma genico, in gran parte legato alla re-espressione di geni cardiaci fetali coinvolti nella composizione dei miofilamenti e nella regolazione del metabolismo energetico, e dall’espressione di peptidi ormonali come il fattore natriuretico atriale (ANF, Atrial Natriuretic Factor). A ciò si associa la down regulation di altri geni coinvolti nella regolazione del calcio intracellulare come l’ATPasi Ca2+-dipendente del reticolo sarcoplasmatico [SERCA-2] e/o preposti alla trasduzione di risposte neurormonali come i recettori β1- adrenergici e i recettori M2 muscarinici. Quindi, l’IVS è caratterizzata sia da alterazioni quantitative sia qualitative delle varie componenti della parete ventricolare, come i miocardiociti e la matrice extracellulare. Tali alterazioni spesso costituiscono le basi molecolari per lo sviluppo di disfunzione ventricolare sinistra. Figura 3.2 Meccanismi patogenetici dell’ipertrofia cardiaca. Lo sviluppo di ipertrofia ventricolare sinistra è un processo complesso multifattoriale. Su predisposizione genetica intervengono forze meccaniche, fattori neurormonali, fattori di crescita e mediatori infiammatori. Ciò determina una variazione del fenotipo cardiaco con re-espressione di geni fetali e alterazioni delle proteine strutturali e contrattili. Questa risposta, più che essere considerata di tipo adattativo, è maladattativa dal momento che predispone allo sviluppo di eventi cardiovascolari e allo scompenso cardiaco. AR = Adrenergic Receptor, recettore adrenergico; IGF = Insulin Like Growth Factor; RAS = Renin Angiotensin System, sistema renina angiotensina; TNF = Tumor Necrosis Factor. Fisiopatologia Le alterazioni strutturali dell’IVS compromettono la funzione sistolica e diastolica (prolungamento della fase di rilasciamento ventricolare); ciò comporta un aumento del rischio di scompenso cardiaco. La regressione dell’IVS si associa a una riduzione degli eventi cardiovascolari. Alla regressione dell’IVS contribuisce il controllo della pressione arteriosa e di altri fattori quali l’attivazione neurormonale e la riduzione del peso corporeo. Danno vascolare L’ipertensione arteriosa induce alterazioni funzionali e strutturali delle arterie di grande e medio calibro che predispongono allo sviluppo di lesioni aterosclerotiche. Diagnosi La presenza di danno vascolare viene diagnosticata mediante ultrasonografia nei distretti accessibili (carotidi, aorta addominale, arterie renali, arterie degli arti inferiori). Il distretto maggiormente studiato è quello carotideo. Nelle carotidi, valori del complesso intima-media > 0,9 mm definiscono l’ispessimento parietale, valori > 1,3 mm definiscono la placca aterosclerotica. Il complesso intima- media può essere calcolato: come valore medio dello spessore massimo delle quattro pareti distali della carotide comune e della biforcazione carotidea; come valore medio dello spessore massimo misurato nei dodici segmenti carotidei in corrispondenza della parete distale e prossimale; come singolo valore massimo dello spessore intima-media. La valutazione ultrasonografica fornisce anche informazioni qualitative della placca (lesioni ecolucenti [soft], miste, ecogeniche [hard]). Le lesioni ecolucenti sono caratterizzate principalmente da contenuto lipidico e hanno elevata probabilità di sviluppare trombosi, ulcerazioni ed embolizzazioni. L’indice pressorio arti inferiori-arti superiori è un ulteriore marcatore di danno vascolare (valore soglia < 0,9). Un ridotto rapporto pressorio arti inferiori-arti superiori indica la presenza di malattia vascolare periferica o aterosclerosi avanzata. In caso di placche aterosclerotiche emodinamicamente significative è possibile rilevare all’auscultazione delle carotidi un soffio sistolico. Storia naturale L’ispessimento parietale rappresenta una fase precoce dello sviluppo della malattia aterosclerotica e costituisce un fattore predittivo di infarto del miocardio, di ictus cerebrale o di malattia aterosclerotica clinicamente manifesta. La velocità di progressione del complesso intima-media è pari a 0,06 mm/anno. Patogenesi Lo sviluppo del danno vascolare nei pazienti ipertesi è un processo multifattoriale causato, oltre che dall’aumento dei valori di pressione arteriosa, da altri fattori di rischio quali l’età, il fumo di sigaretta, le alterazioni del metabolismo lipidico e glucidico, l’obesità. Sono stati identificati fattori genetici che predispongono allo sviluppo di danno vascolare quali il genotipo ACE DD. Anatomia patologica La placca aterosclerotica è caratterizzata da: presenza di cappuccio fibroso; un’area popolata di cellule ai lati e al di sotto del cappuccio fibroso (cellule muscolari lisce, monociti-macrofagi, linfociti T); nucleo centrale necrotico (residui cellulari, colesterolo, calcio). Fisiopatologia La formazione e la progressione delle lesioni aterosclerotiche è caratterizzata prevalentemente, nelle fasi iniziali, da fenomeni di disfunzione endoteliale, migrazione di linfociti e monociti/macrofagi e deposizione di LDL nello strato sottoendoteliale. La fase successiva è caratterizzata dalla proliferazione delle cellule muscolari lisce, che migrano nello strato intimale e contestualmente producono nuova matrice extracellulare. Inoltre, fenomeni di morte cellulare determinano la formazione di un nucleo necrotico, che viene circoscritto da un cappuccio di tessuto fibroso. Lo spessore di quest’ultimo determina la stabilità della placca. Un’abnorme risposta immunitaria e infiammatoria potrebbe favorire l’instabilità della placca determinando ulcerazioni, fissurazioni ed emorragie subintimali (si veda Capitolo 5). Danno renale Il danno renale presente nell’ipertensione arteriosa abbraccia un ampio spettro di manifestazioni cliniche che vanno dalla microalbuminuria fino all’insufficienza renale conclamata. Diagnosi La microalbuminuria è definita come proteinuria compresa tra 30-300 mg/24 ore. Può essere misurata su campione delle urine delle 24 ore oppure su campione estemporaneo; in questo caso viene misurato il rapporto albumina/creatinina. Con il termine “proteinuria” si indica la presenza di proteine nell’escreto urinario > 100 mg/m²/24 ore. Esistono varie metodiche per la stima della microalbuminuria/proteinuria. Ciascuna metodica ha differenti valori di rife-rimento (Tabella 3.8). La stima del filtrato glomerulare viene eseguita al fine di diagnosticare la malattia renale cronica; attualmente vengono utilizzate due formule che prendono in considerazione i valori di creatininemia e dati antropometrici, come la Cockcroft-Gault: e la Modification of Diet in Renal Disease (MDRD): In base ai valori di filtrato glomerulare vengono identificati cinque stadi di malattia renale cronica (Tabella 3.9). La stima della funzione renale può essere realizzata anche con il dosaggio della creatinina. Storia naturale La prima manifestazione di danno renale nell’ipertensione è la microalbuminuria, che è un indicatore di danno della barriera glomerulare; la sua prevalenza nell’ipertensione varia tra il 10% e il 30%; essa aumenta con l’età e la durata della malattia ipertensiva. La microalbuminuria è un fattore predittivo di progressione della malattia renale e di morbilità e mortalità cardiovascolare. L’ipertensione arteriosa aumenta il rischio di riduzione del filtrato glomerulare. Tabella 3.8 Metodiche per la determinazione della microalbuminuria/proteinuria Tabella Classificazione della malattia renale cronica in base al valore di filtrato 3.9 glomerulare Stadio Descrizione Filtrato glomerulare (mL/min/1,73 m2) 1 Filtrato glomerulare normale o aumentato ≥ 90 2 Riduzione del filtrato glomerulare lieve Compreso tra 60 e 89 3 Riduzione del filtrato glomerulare moderata Compreso tra 30 e 59 4 Riduzione del filtrato glomerulare severa Compreso tra 29 e 15 5 Insufficienza renale < 15 Sebbene solo una piccola percentuale di pazienti ipertesi sviluppa nel tempo insufficienza renale, la prevalenza di riduzione del filtrato glomerulare lieve o moderata è elevata nell’ipertensione arteriosa (57% e 17%, rispettivamente). La riduzione del filtrato glomerulare comporta un aumento di morbilità e mortalità cardiovascolare. Patogenesi Lo sviluppo di danno renale nell’ipertensione arteriosa inizia con la perdita dei meccanismi di autoregolazione del flusso renale. In questo modo, l’aumento di pressione arteriosa sistemica si trasmette direttamente ai glomeruli, determinando dapprima uno stato ipertensivo glomerulare, successivamente glomerulo-sclerosi e, infine, insufficienza renale. Anatomia patologica La nefrosclerosi ipertensiva è caratterizzata da: sclerosi arteriolare e ialinosi, sclerosi glomerulare globale focale, fibrosi interstiziale, atrofia tubulare, infiammazione interstiziale. Fisiopatologia Il danno renale si associa all’aumento dei livelli plasmatici di molecole che favoriscono lo sviluppo di aterosclerosi, quali i mediatori dell’infiammazione. L’esposizione a questi fattori determina alterazioni funzionali a livello cardiaco e vascolare, come l’aumento della massa ventricolare sinistra e l’ispessimento medio-intimale carotideo. Danno cerebrale Il cervello risente dell’incremento cronico dei valori di pressione arteriosa. Manifestazioni tipiche del danno cerebrale sono le alterazioni a carico dei piccoli vasi e dell’encefalo. Diagnosi Le alterazioni dei piccoli vasi possono essere evidenziate mediante esame del fondo oculare. È possibile distinguere quattro gradi di retinopatia ipertensiva: I grado: presenza di restringimenti arteriolari focali o diffusi; II grado: presenza di incroci arterovenosi; III grado: presenza di essudati; IV grado: presenza di papilledema. Le lesioni strutturali cerebrali possono essere rilevate mediante TC. Esse sono caratterizzate da atrofia cerebrale, diminuzione delle dimensioni degli emisferi cerebrali e incremento del volume dei ventricoli cerebrali. Mediante RM è possibile rilevare lesioni focali cerebrali. Queste, in funzione delle dimensioni vengono classificate come: microlacune (Ø < 5 mm), lacune (Ø 5-20 mm), territori (Ø > 20 mm). Storia naturale Le alterazioni retiniche di III e IV grado si associano ad aumento del rischio di eventi cardiovascolari. È stato ipotizzato che alterazioni vascolari ed encefaliche possano essere responsabili del deterioramento delle funzioni cognitive rilevato negli ipertesi. È stata riscontrata una relazione significativa tra valori di pressione arteriosa e rischio di deficit cognitivo. Le lesioni cerebrali possono causare anche deficit minori (disturbi dell’equilibrio e incontinenza urinaria). Patogenesi Lo sviluppo di danno cerebrale nell’ipertensione arteriosa inizia con la perdita dei meccanismi di autoregolazione del flusso cerebrale. Ciò comporta una maggiore predisposizione all’ischemia cerebrale per abbassamenti della pressione arteriosa, anche nell’intervallo fisiologico. Il distretto maggiormente interessato a questo fenomeno è la sostanza bianca sottocorticale in corrispondenza delle aree paraventricolari. Anatomia patologica La lesione istologica che si riscontra nei vasi intracerebrali dei pazienti ipertersi è la lipoialinosi. A carico dell’encefalo, in corrispondenza delle lesioni lacunari, sono stati riscontrati grovigli neurofibrillari. Fisiopatologia La presenza di danno cerebrale asintomatico è associata a un depauperamento della popolazione neuronale. Ciò a lungo andare può determinare declino cognitivo e, nei casi più gravi, demenza. Nella Tabella 3.10 sono riassunti i criteri da seguire per la ricerca di danno d’organo subclinico. Ipertensione e diabete L’associazione tra ipertensione arteriosa e diabete mellito, da semplice osservazione clinica, nell’ultimo ventennio ha assunto la dignità di evidenza epidemiologica, tanto che si può facilmente asserire che la prevalenza di ipertensione arteriosa nel diabete mellito di tipo 2 è pari al 70-80%. Contemporaneamente, studi di fisiopatologia clinica, corroborati da dati di biologia molecolare e cellulare e di genetica, hanno dimostrato che ipertensione arteriosa e diabete mellito condividono molti dei meccanismi che concorrono alla loro patogenesi e all’evoluzione sia del danno d’organo sia degli eventi cardiovascolari. Infatti, l’insulino-resistenza, le alterazioni della funzione endoteliale e l’eccessiva produzione di radicali liberi dell’ossigeno sono le alterazioni fisiopatologiche che maggiormente caratterizzano sia la malattia ipertensiva sia quella diabetica e che conducono allo sviluppo di aterosclerosi, di rimodellamento vascolare e cardiaco e di danno renale, condizioni, queste, favorenti l’insorgenza di scompenso cardiaco. Quindi, considerata la storia naturale di queste due patologie, ipertensione arteriosa e diabete mellito, da un punto di vista nosografico possono essere considerate le fasi iniziali dell’insufficienza cardiaca. Questo concetto, dal punto di vista clinico è ripreso dalla classificazione dell’insufficienza cardiaca proposta dall’American Heart Association che pone sia l’ipertensione arteriosa sia il diabete mellito nello stadio iniziale di insufficienza cardiaca; ovvero, quella condizione caratterizzata da assenza di sintomi e segni di insufficienza cardiaca, ma dalla presenza di patologia che ne aumenta la probabilità d’insorgenza. Notevole attenzione è stata riposta sulla combinazione ipertensione arteriosa-diabete mellito, quale responsabile di un significativo incremento dell’incidenza di eventi vascolari e cardiaci. Tabella 3.10 Raccomandazioni per la ricerca di danno d’organo subclinico Organo Raccomandazioni bersaglio Cuore Un ECG è raccomandato in tutti gli ipertesi per identificare ipertrofia ventricolare sinistra, dilatazione atriale sinistra, aritmie o una patologia cardiaca concomitante In tutti i pazienti con anamnesi o esame obiettivo suggestivo per aritmie maggiori, deve essere considerato il monitoraggio ECG delle 24 ore; nel caso di sospetta aritmia indotta dall’esercizio, un ECG da sforzo Un ecocardiogramma deve essere considerato per ridefinire il rischio cardiovascolare e confermare la diagnosi ECG di ipertrofia ventricolare sinistra, dilatazione atriale sinistra o confermare la presenza di patologia cardiaca sospetta In presenza di storia clinica che suggerisce ischemia miocardica, si raccomanda l’esecuzione di un ECG da sforzo e, se dubbio, di uno stress test di imaging (ecocardiogramma da stress, RM o scintigrafia nucleare) Arterie L’ecografia delle arterie carotidi dovrebbe essere considerata per rilevare l’ipertrofia vascolare o aterosclerosi asintomatica, particolarmente nell’anziano Rene La valutazione della creatinina sierica e la stima della VFG è raccomandata in tutti i pazienti ipertesi La valutazione delle proteine urinarie mediante stick delle urine è raccomandata in tutti i pazienti ipertesi La valutazione della microalbuminuria è raccomandata sul campione estemporaneo delle urine e correlata all’escrezione urinaria di creatinina Cervello Nei pazienti ipertesi con declino cognitivo, la RM o la TC possono essere considerate per la rilevazione di infarti cerebrali silenti, infarti lacunari, microsanguinamenti e lesioni della sostanza bianca Microcircolo L’esame della retina non è raccomandato nei pazienti ipertesi di grado lieve-moderato, senza diabete, se non in pazienti giovani. L’esecuzione di un esame della retina deve essere considerata nei casi di difficile controllo pressorio o in pazienti ipertesi resistenti per rilevare emorragie, essudati e papilledema, che sono associati a un aumentato rischio cardiovascolare ECG = elettrocardiogramma; RM = risonanza magnetica; TC = tomografia computerizzata; VFG = velocità di filtrazione glomerulare. A tal proposito, è stato dimostrato in pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2 che incrementi della pressione arteriosa sistolica di 10 mmHg si associano a un aumento di circa il 12% dell’incidenza di eventi cardiovascolari indotti dal diabete. Gli effetti deleteri dell’associazione ipertensione arteriosa-diabete sono riscontrabili per entrambe le forme di diabete mellito conosciute, sebbene la storia naturale differisca notevolmente tra il tipo 1 e il tipo 2. Infatti, i pazienti con diabete mellito di tipo 1 sviluppano ipertensione alcuni anni dopo la diagnosi di diabete, specialmente quelli con nefropatia, laddove i pazienti con diabete mellito di tipo 2 presentano, frequentemente, ipertensione al momento della diagnosi. Tra i pazienti con diabete mellito di tipo 1, l’incidenza di ipertensione cresce dal 5% a 10 anni dalla diagnosi, al 33% a 20 anni, al 70% a 40 anni. La pressione arteriosa comincia ad aumentare, tipicamente, circa tre anni dopo l’inizio della microalbuminuria e il danno d’organo prodotto è prevalentemente a carico del distretto microvascolare. Per quanto concerne gli individui con diabete mellito di tipo 2, invece, la maggior parte degli eventi avversi risulta da complicanze sia di tipo macrovascolare (coronaropatia e vasculopatia cerebrale e periferica), sia microvascolare (retinopatia, nefropatia, neuropatia). L’ipertensione arteriosa accelera la velocità di evoluzione delle complicanze del diabete mellito, abbreviando l’intervallo di tempo esistente fra la diagnosi di questo disturbo metabolico e lo sviluppo sia di retinopatia sia di insufficienza renale. Mentre il diabete mellito è un riconosciuto fattore di rischio per l’ipertensione arteriosa, sta sempre più prendendo piede il concetto che anche l’ipertensione costituisca un fattore predisponente allo sviluppo di diabete, indipendentemente dalla presenza di comorbilità. Ipertensione secondaria Nella maggior parte dei casi è difficile individuare le cause di una ipertensione arteriosa e queste forme vengono indicate con l’aggettivo “essenziale” o “idiopatica”1. Ma è importante riconoscere le cause, se individuabili, della ipertensione in un singolo ammalato perché queste richiedono provvedimenti terapeutici particolari. Queste forme, trattate qui di seguito, sono chiamate “ipertensioni secondarie”. Feocromocitoma L’ipertensione da feocromocitoma è una forma secondaria di ipertensione arteriosa. Essa costituisce lo 0,2-0,4% di tutti i casi di ipertensione. Il feocromocitoma è una neoplasia che origina dalle cellule cromaffini che sono deputate alla sintesi e all’immagazzinamento di catecolamine. Queste sono localizzate nei gangli e paragangli simpatici e nella midollare del surrene. La maggior parte dei feocromocitomi secerne adrenalina. Al contrario, le forme a localizzazione extrasurrenalica raramente secernono adrenalina, di solito secernono noradrenalina. Il feocromocitoma nel 10% dei casi è parte di sindromi a carattere familiare (Tabella 3.11) la cui diagnosi può essere confermata mediante l’analisi di mutazioni geniche (si veda in precedenza, Fattori genetici). Classificazione I feocromocitomi vengono classificati come: surrenalici (frequenza: 50-70%) ed extrasurrenalici (frequenza 10-20%). I tumori extrasurrenalici non secernenti vengono definiti “paragangliomi”. Sintomi e manifestazioni cliniche Il quadro sintomatologico del feocromocitoma dipende dalle modalità e dall’entità della secrezione di catecolamine. Le forme con rilascio costante di catecolamine determinano l’aumento stabile dei valori di pressione arteriosa, mentre quelli con rilascio ciclico determinano aumento parossistico dei valori di pressione. Le crisi parossistiche possono essere indotte da esercizio fisico, flessione del busto, minzione, defecazione o palpazione dell’addome. I farmaci che possono scatenare crisi parossistiche sono: i β-bloccanti, i tranquillanti maggiori (deidrobenzoperidolo, antidepressivi triciclici), gli oppiacei e la nicotina. Gli altri sintomi che possono essere presenti in pazienti con feocromocitoma sono: cefalea, sudorazione, palpitazioni, tachicardia, nausea, vomito, calo ponderale. Esame obiettivo L’esame obiettivo può mostrare pallore e acrocianosi. Esami strumentali La localizzazione surrenalica del feocromocitoma può essere effettuata mediante ecografia, TC e RM (queste ultime hanno elevata sensibilità ma bassa specificità). In presenza di una massa surrenalica occorre procedere a immagini funzionali quali la scintigrafia con metaiodiobenzilguanidina. Il monitoraggio ambulatoriale della pressione arteriosa non mostra il calo fisiologico della pressione durante le ore notturne. Tabella 3.11 Sindromi familiari con presenza di feocromocitoma Esami bio-umorali Gli esami bio-umorali sono utilizzati per rilevare la presenza di catecolamine e dei loro metaboliti nelle urine e/o nel plasma. I test urinari comprendono il dosaggio su campione delle 24 ore di adrenalina e noradrenalina, metanefrine frazionate (normetanefrina e metanefrina), metanefrine totali, acido vanilmandelico. I test ematici comprendono il dosaggio di catecolamine (adrenalina e noradrenalina) e di metanefrine (normetanefrina e metanefrina). Di dubbia utilità sono i test di stimolo con glucagone e di soppressione con clonidina. Diagnosi differenziale La diagnosi differenziale va posta con tireotossicosi, sindrome da carcinoide, ipoglicemia, neoplasie cerebrali, porfiria, disautonomia familiare, attacchi di panico, tachicardia parossistica, eclampsia, fenomeni di rebound, sospensione di terapia antipertensiva, intossicazione da piombo, intossicazione da simpaticomimetici. Storia naturale La storia naturale può essere caratterizzata da episodi di ischemia cardiaca o da sviluppo di cardiomiopatia con scompenso cardiaco congestizio. Nei rari casi di rottura spontanea del feocromocitoma è possibile osservare morte improvvisa o shock cardiogeno da massivo rilascio di adrenalina. Terapia La terapia prevede il controllo dei sintomi e la rimozione della massa. Per il controllo della pressione arteriosa sono utilizzati gli α1-antagonisti quali doxazosina, prazosina. Per il controllo della frequenza cardiaca e delle aritmie sono utilizzati i β-bloccanti, previa somministrazione degli α1-antagonisti, in quanto se utilizzati in monoterapia possono innescare parossismi ipertensivi ed edema polmonare. La rimozione chirurgica del feocromocitoma prevede una preparazione preoperatoria da effettuarsi con α1-antagonisti al fine di evitare crisi ipertensive da manipolazione del tumore e una adeguata idratazione postoperatoria al fine di evitare il collasso cardiocircolatorio dovuto a ipovolemia. Ipertensione nefrovascolare Con il termine “ipertensione nefrovascolare” viene definita la condizione di ipertensione arteriosa causata dall’ischemia renale, la cui eziologia nella maggior parte dei casi è da attribuire a malattia nefrovascolare. L’ipertensione nefrovascolare, tra le cause conosciute di ipertensione, è quella più frequente; la sua prevalenza, a seconda delle casistiche esaminate, è compresa tra 1% e 7,3%. Il principale meccanismo patogenetico responsabile dello sviluppo dell’ipertensione nefrovascolare è l’attivazione del sistema renina-angiotensina da parte del rene ischemico, a cui fanno seguito il rimodellamento delle arteriole renali e glomerulosclerosi. Classificazione L’ipertensione nefrovascolare viene classificata in base al meccanismo responsabile dell’ischemia renale. Nel 90% dei casi la causa di ischemia è la stenosi dell’arteria renale su base aterosclerotica, nei restanti casi è la displasia fibromuscolare dell’arteria renale. In rarissimi casi la causa di ischemia renale è da attribuire a compressioni estrinseche (feocromocitoma, banda fibrosa congenita, fibrosi retroperitoneale, pseudocisti perirenale) o funzionali (sindrome da furto per stenosi dell’asse celiaco). Sintomi e manifestazioni cliniche Il quadro clinico dell’ipertensione nefrovascolare può comprendere: ipertensione insorta in età giovanile in pazienti senza storia familiare, ipertensione resistente al trattamento farmacologico, rapido peggioramento dell’ipertensione. Inoltre, è da sospettare la presenza di ipertensione nefrovascolare in presenza di un peggioramento della funzione renale in risposta al trattamento con ACE-inibitori. Esame obiettivo L’esame obiettivo è caratterizzato da soffio addominale mono- o bilaterale e alterazioni del fondo oculare allo stadio III o IV. Esami strumentali L’ecografia renale integrata da Doppler fornisce informazioni sia morfologiche sia funzionali. Differenze della lunghezza tra i due reni > 2 cm sono indicative di stenosi dell’arteria renale. L’eco-color-Doppler può identificare e valutare l’entità di una stenosi dell’arteria renale, soprattutto se questa è ostiale; inoltre consente il calcolo degli indici di resistenza intrarenale, i quali sono predittivi della risposta terapeutica all’intervento di angioplastica dell’arteria renale. La scintigrafia renale con paraminoippurato (PAI) e con acido dietilenaminopentacetico (DTPA) marcati con 99mTc consente di valutare in maniera quantitativa il flusso plasmatico renale e il filtrato glomerulare, rispettivamente. Differenze di flusso tra i due reni > 10% o un prolungamento del tempo di transito parenchimale del tracciante sono suggestivi di stenosi dell’arteria renale. Queste differenze possono essere amplificate dalla somministrazione di ACE-inibitori con miglioramento dell’accuratezza diagnostica della metodica. La morfologia delle arterie renali può essere valutata mediante angio-TC con ricostruzione tridimensionale delle immagini, oppure mediante angio-RM con gadolinio. Quest’ultima metodica fornisce anche informazioni funzionali, come la determinazione dei flussi plasmatici e del filtrato glomerulare. L’angiografia arteriosa con sottrazione d’immagine costituisce la procedura di riferimento per l’identificazione di stenosi dell’arteria renale. Esami bio-umorali È possibile riscontrare: aumento dell’attività reninica plasmatica nel sangue periferico, differenti livelli di renina nel sangue refluo dalle due vene renali e ipokaliemia da iperaldosteronismo secondario. Storia naturale La storia naturale è caratterizzata dalla lenta progressione delle placche aterosclerotiche che può arrivare fino all’occlusione dell’arteria renale; ciò si accompagna a una progressiva compromissione della funzione renale e ad atrofia renale. Terapia Il trattamento dell’ipertensione nefrovascolare è rappresentato dalla rivascolarizzazione del rene ischemico mediante angioplastica transluminale percutanea con applicazione di stent. Tale procedura nel corso degli anni ha completamente soppiantato la rivascolarizzazione chirurgica. Tuttavia, studi recenti non hanno confermato i potenziali vantaggi terapeutici della ricanalizzazione dell’arteria renale, che va probabilmente limitata a casi selezionati e particolarmente gravi. La terapia medica si basa sulla somministrazione di calcio-antagonisti, ACE-inibitori e AT1- antagonisti. Queste ultime due classi di farmaci, in caso di stenosi bilaterale delle arterie renali, possono provocare un rapido deterioramento della funzione renale che è reversibile alla sospensione dei farmaci. Iperaldosteronismo L’ipertensione da iperaldosteronismo costituisce, a seconda delle casistiche esaminate, l’1-11% di tutte le forme di ipertensione arteriosa e trova il suo meccanismo eziopatogenetico nell’iperproduzione di aldosterone. La maggior parte dei casi di iperaldosteronismo primitivo è causata da adenoma solitario o da iperplasia della corticale del surrene. L’aldosterone determina incremento dei valori pressori attraverso l’aumento del volume plasmatico, del contenuto di sodio e delle resistenze periferiche. Classificazione In base al meccanismo eziopatogenetico, è possibile distinguere varie forme di iperaldosteronismo (Tabella 3.12). Sintomi e manifestazioni cliniche L’iperaldosteronismo è caratterizzato da ipertensione grave resistente al trattamento farmacologico. La maggior parte dei sintomi riscontrati nell’iperaldosteronismo è da attribuire all’ipokaliemia: astenia, turbe del batmotropismo ventricolare, poliuria, polidipsia e intolleranza glucidica. Esame obiettivo All’esame obiettivo possono essere presenti paralisi temporanee o intermittenti e spasmi muscolari. Esami strumentali La TC ad alta definizione può identificare adenomi surrenalici delle dimensioni di pochi millimetri. La RM è dotata di maggiore sensibilità ma minore specificità. La scintigrafia con colesterolo marcato con 131I, come il 6-β-[131I]-indometil-19-norcolesterolo (NP-59), con test di soppressione con desametasone (1 mg/6 ore, per 7 giorni prima della somministrazione di NP- 59), consente di distinguere tra adenomi che rimangono visibili e iperplasia che non mostra captazione di radiofarmaco, in quanto inibita. Tabella 3.12 Cause di iperaldosteronismo primitivo Origine surrenalica Eccesso di aldosterone Adenoma secernente aldosterone (mono-bilaterale) Iperplasia surrenalica (mono-bilaterale) Carcinoma surrenalico secernente aldosterone Tumori extrasurrenalici (carcinoma ovarico secernente aldosterone) Iperaldosteronismo familiare di tipo I Eccesso di desossicorticosterone Tumori secernenti desossicorticosterone Carenza di 11b-idrossilasi, 17a-idrossilasi Eccesso di cortisolo Sindrome di Cushing Origine renale Carenza di 11b-idrossilasi (congenita, acquisita) Mutazione del recettore mineralcorticoide Pseudoipoaldosteronismo Esami bio-umorali L’ipokaliemia (£ 3,5 mEq/L) spontanea è presente nella maggior parte dei pazienti affetti da iperaldosteronismo. Nei pazienti con adenoma, ma non in quelli con iperplasia, possono essere riscontrati in circolo precursori o forme ibride di steroidi (18-idrossi-corticosterone, 18-idrossi-cortisolo). L’attività reninica plasmatica (PRA, Plasmatic Renin Activity) di solito è soppressa e non è sensibile al clinostatismo. Il rapporto tra aldosterone plasmatico e attività reninica plasmatica (valore normale = 10) spesso è aumentato fino a valori di 20-50. Il test di soppressione con fludrocortisone consiste nella misurazione dei livelli di aldosterone e PRA dopo tre giorni di dieta ipersodica e fludrocortisone (0,1 mg × 4 volte/die). Valori di aldosterone > 6 ng/dL associati a PRA < 1 ng/mL/ora sono indicativi di iperaldosteronismo. Il prelievo selettivo dalle vene surrenaliche rappresenta il miglior test diagnostico per dimostrare la lateralizzazione della produzione di aldosterone. La misurazione dell’aldosterone e del cortisolo viene eseguita su campioni di sangue prelevati in vena cava inferiore e allo sbocco delle vene surrenaliche. Un rapporto aldosterone/cortisolo dal lato dominante ≥ 2 viene utilizzato come indice di lateralizzazione della produzione di aldosterone. Storia naturale L’eccesso di aldosterone provoca alterazioni vascolari, renali e cardiache caratterizzate da deposito di tessuto fibroso. A livello vascolare ciò determina uno sviluppo accelerato di aterosclerosi, mentre a livello renale e cardiaco provoca una rapida compromissione funzionale. Terapia La terapia dell’ipertensione da iperaldosteronismo varia in funzione della sua eziologia: in caso di adenoma sono più indicate le procedure chirurgiche, in caso di iperplasia è da preferire la terapia medica. La tecnica chirurgica maggiormente diffusa è la surrenectomia monolaterale per via laparoscopica. Tale procedura assicura nel 33% dei casi la guarigione, negli altri casi un miglior controllo della pressione arteriosa. La persistenza di elevati valori di pressione arteriosa dopo surrenectomia deve far pensare a coesistenza di ipertensione essenziale, come si verifica nel 20% dei casi, a danno renale indotto da ipertensione secondaria e a persistenza di tessuto adenomatoso post-surrenectomia. La terapia medica prevede l’uso di antagonisti recettoriali dell’aldosterone come spironolattone o eplerenone in monoterapia o in terapia di combinazione con diuretico tiazidico. Il dosaggio di spironolattone può essere compreso tra 50-400 mg/die. Ipertensione nefroparenchimale L’ipertensione arteriosa da malattia renale costituisce la forma più frequente di ipertensione secondaria. Inoltre, il danno renale che si sviluppa durante il suo decorso aggrava l’ipertensione, creando in tal modo un circolo vizioso. La prevalenza di malattia renale cronica nella popolazione adulta è pari all’11-18%. L’ipertensione nefroparenchimale è responsabile di circa il 5% dei casi di ipertensione nell’adulto e del 35% nel bambino/adolescente. Classificazione In base alla patologia renale è possibile distinguere varie forme di ipertensione nefroparenchimale (Tabella 3.13). Sintomi e manifestazioni cliniche In caso di glomerulonefrite può essere presente sindrome nefritica acuta o sindrome nefrosica. Esame obiettivo In presenza di ritenzione idrosalina o di grave proteinuria è possibile il rilievo di edemi declivi fino all’anasarca. La Tabella 3.14 riassume i principali reperti obiettivi rilevabili nelle forme di ipertensione secondaria e in presenza di danno d’organo asintomatico. Tabella 3.13 Cause di ipertensione nefroparenchimale Origine parenchimale Glomerulonefrite post-streptococcica Nefropatia da IgA (malattia di Berger) Nefropatia diabetica Malattia policistica renale Origine postrenale Reflusso vescico-ureterale Ostruzione ureterale (unilaterale, bilaterale) Ostruzione uretrale Origine extrarenale Traumi renali Litotrissia extracorporea con onde d’urto Tabella Obiettività clinica nelle varie forme di ipertensione secondaria e nel danno 3.14 d’organo asintomatico Segni di ipertensione secondaria Caratteristiche della sindrome di Cushing Stigmate cutanee di neurofibromatosi (feocromocitoma) Ingrossamento dei reni alla palpazione (rene policistico) Auscultazione di soffi addominali (ipertensione renovascolare) Auscultazione di soffi precordiali o toracici (coartazione aortica, patologia dell’aorta, arteriopatia degli arti superiori) Polsi femorali iposfigmici e ritardati e ridotta pressione arteriosa femorale rispetto alla brachiale (coartazione aortica, patologia dell’aorta, arteriopatia degli arti superiori) Differenza braccio sinistro-destro di BP (coartazione aortica, stenosi dell’arteria succlavia) Segni di danno d’organo Cervello: difetti motori o sensoriali Cuore: III o IV tono, soffi cardiaci, aritmie, posizione dell’impulso apicale, rantoli polmonari, edema periferico Retina: anomalie al fundus oculi Arterie periferiche: assenza, riduzione o asimmetria del polso, estremità fredde, lesioni ischemiche cutanee Carotidi: soffi sistolici Esami strumentali L’ecografia renale consente di misurare, in modo non invasivo, dimensioni e spessore della corticale, di rilevare ostruzioni delle vie urinarie e presenza di masse e di determinare la forma dei reni. Esami bio-umorali Gli esami bio-umorali sono utili nella diagnosi di sindrome nefrosica, che è caratterizzata da ematuria, proteinuria, riduzione della funzionalità renale, oliguria, ritenzione idrosalina. La sindrome nefrosica è caratterizzata da proteinuria grave, ipoalbuminemia, iperlipidemia e iperlipiduria. La microalbuminuria è definita come proteinuria compresa tra 30-300 mg/die e rappresenta il reperto bio-umorale più precoce di nefropatia. La stima del filtrato glomerulare ottenuta con diverse formule (MDRD, Modification of Diet in Renal Disease o Cockcroft-Gault) mostra una riduzione al di sotto dei 90 mL/min × 1,73 m2. L’albuminuria è presente nelle fasi più avanzate della nefropatia diabetica. Storia naturale La nefropatia determina lo sviluppo di aterosclerosi accelerata e insufficienza cardiaca; ciò comporta un significativo aumento di morbilità e mortalità cardiovascolare. Nei pazienti affetti da insufficienza renale allo stadio terminale, la mortalità per cause cardiovascolari è 20 volte maggiore rispetto alla popolazione generale. Terapia Nei pazienti con malattia renale il target pressorio deve essere < 130/80 mmHg. In questi pazienti è necessario ridurre l’apporto di Na+ con la dieta a 1-2 g/die. I farmaci dotati di effetto nefroprotettivo sono gli ACE-inibitori e gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II. In corso di nefropatie i diuretici devono essere somministrati a dosaggio maggiore. I calcio-antagonisti sono indicati come farmaci non di prima scelta nel trattamento dell’ipertensione nefroparenchimale. Emergenze/urgenze ipertensive Con il termine “emergenze ipertensive” viene definita una serie di condizioni cliniche che possono mettere in pericolo di vita il paziente e che richiedono l’immediata riduzione della pressione arteriosa al fine di limitare il danno agli organi bersaglio dell’ipertensione. Esse rappresentano circa il 9% degli accessi in Pronto Soccorso e comprendono: edema polmonare, encefalopatia ipertensiva, emorragia cerebrale, dissecazione aortica, eclampsia/pre- eclampsia pre-eclampsia (Figura 3.3). L’eziologia delle emergenze ipertensive è varia e include non solo l’ipertensione arteriosa ma anche altre cause (Tabella 3.15). La patogenesi delle emergenze ipertensive è complessa e vede la partecipazione, oltre all’aumento dei valori di pressione arteriosa, anche la compromissione della funzione degli organi bersaglio. In tal modo si innesca un circolo vizioso che porta al danno irreversibile dell’organo (Figura 3.4). Le urgenze ipertensive, al contrario, sono caratterizzate dal solo aumento dei valori pressori senza sintomi o danno a carico degli organi bersaglio. Edema polmonare L’edema polmonare è una sindrome caratterizzata da insufficienza respiratoria acuta, secondaria a passaggio di liquidi dal compartimento interstiziale agli alveoli polmonari. Figura 3.3 Distribuzione delle manifestazioni cliniche associate a emergenze ipertensive. Classificazione Dal punto di vista eziopatogenetico l’edema polmonare può essere classificato come da: squilibrio delle forze di Starling che regolano il passaggio di liquidi attraverso la membrana alveolo-capillare; danno della barriera alveolo-capillare; insufficienza linfatica; cause sconosciute. Sintomi e manifestazioni cliniche I sintomi caratteristici dell’edema polmonare sono la sensazione di soffocamento e il malessere generalizzato. Esame obiettivo I reperti obiettivi caratteristici dell’edema polmonare sono: decubito ortopnoico obbligato, tachipnea, tachicardia, dispnea, tosse, espettorato rosa schiumoso, dilatazione delle pinne nasali, retrazione degli spazi intercostali e delle fosse sopraclaveari, impegno dei muscoli respiratori accessori, respiro rumoroso con gorgoglii sia inspiratori sia espiratori, pallore cutaneo. All’auscultazione toracica si rileva la presenza di ronchi, sibili e rantoli crepitanti, apprezzabili dapprima alle basi polmonari e successivamente ai campi medi e agli apici (marea montante). All’auscultazione del cuore possono essere presenti terzo tono e rinforzo della componente polmonare del secondo tono. Esami strumentali Il telecuore mostra le caratteristiche radiografiche dell’edema polmonare rappresentate da una velatura dei campi polmonari con la formazione di opacità che tendono a creare un aspetto ad ali che si estendono al di fuori del mediastino, dando luogo al caratteristico aspetto ad “ali di farfalla”. Il cateterismo cardiaco destro mediante catetere Swan-Ganz mostra aumento dei valori di pressione di incuneamento capillare polmonare. Esami bio-umorali L’analisi del campione di sangue arterioso mostra: ipossiemia e ipercapnia (nel 20% dei casi), nonché acidosi lattica (nel 75% dei casi); solo nelle fasi più tardive e più gravi l’acidosi può diventare mista (metabolica e respiratoria) per l’incapacità a eliminare l’eccesso di CO2 con il rene. Di frequente riscontro è la presenza di leucocitosi. Diagnosi differenziale L’edema polmonare va distinto dall’asma bronchiale, dove il telecuore non mostra segni di congestione polmonare e l’esame obiettivo del torace è dominato dai sibili. Figura 3.4 Meccanismi coinvolti nella patogenesi delle emergenze ipertensive. La patogenesi dell'emergenza ipertensiva è multifattoriale; include l'incremento dei valori di pressione arteriosa che può essere indotto sia dall'ipertensione essenziale sia da forme secondarie di ipertensione arteriosa. In presenza di fattori predisponenti e/o precipitanti, quali la ridotta riserva funzionale degli organi bersaglio, predisposizione genetica e danno d'organo, si innesca un circolo vizioso che porta al danno irreversibile dell'organo bersaglio. Tabella 3.15 Eziologia delle emergenze ipertensive Ipertensione arteriosa Patologie nefroparenchimali e nefrovascolari Glomerulonefrite acuta Vasculiti Sindrome uremico-emolitica Porpora trombotica trombocitopenica Stenosi dell’arteria renale (aterosclerotica, displasia fibromuscolare) Gravidanza Eclampsia Patologie endocrine Feocromocitoma Sindome di Cushing Tumori secernenti renina Ipertensione da mineralcorticoidi Cause farmacologiche Cocaina, eritropoietina, simpatico-mimetici, ciclosporina, anfetamine Sospensione della terapia antipertensiva Interazioni con inibitori delle monoaminossidasi Intossicazione da piombo Iperattività del sistema nervoso vegetativo Sindrome di Guillain-Barrè Porfiria acuta intermittente Disordini del sistema nervoso centrale Trauma cranico, tumori cerebrali Ictus trombotico/emorragico Terapia Terapia La terapia dell’edema polmonare si basa su misure atte al controllo della pressione arteriosa e alla correzione delle alterazioni degli scambi gassosi. La riduzione della pressione arteriosa ha la priorità assoluta nel trattamento dell’edema polmonare. I diuretici dell’ansa e i nitroderivati sono le classi di farmaci maggiormente utilizzate. Come diuretico dell’ansa, di solito viene somministrata furosemide per via endovenosa. Come nitroderivato può essere utilizzata nitroglicerina. Nei casi particolarmente resistenti alla nitroglicerina, si può utilizzare la nifepidina per via sublinguale e nei casi più gravi il Na+ nitroprussiato. La somministrazione di morfina (iniettata in 3 minuti, da ripetere 2-3 volte, ogni 15 minuti, se necessario) costituisce uno dei presidi terapeutici più validi nel trattamento dell’edema polmonare per le sue capacità di ridurre: lo stato di agitazione del paziente, il lavoro respiratorio e la costrizione arteriolare e venosa indotta dalla stimolazione simpatica. In caso di PaO2 ˂ 60 mmHg, nel sangue arterioso, è necessario somministrare ossigeno con sondino nasale, maschera di Venturi o maschera con sacco di riserva. Se la pressione parziale di ossigeno si mantiene inferiore a 60 mmHg in corso di ossigenoterapia e compare ipercapnia è necessaria l’intubazione e la ventilazione meccanica. Encefalopatia ipertensiva L’encefalopatia ipertensiva è caratterizzata dalla comparsa di cefalea associata a disturbi neurologici reversibili come alterazioni visive e turbe dello stato di coscienza. Di solito l’encefalopatia è secondaria al repentino aumento dei valori di pressione arteriosa ed è più frequente nei soggetti giovani, precedentemente normotesi, in cui vi è un improvviso aumento dei valori pressori, come nei bambini che sviluppano glomerulonefrite acuta o nelle donne con eclampsia. L’encefalopatia ipertensiva è la manifestazione clinica dell’edema cerebrale che si forma per un aumento di flusso ematico cerebrale. Tale condizione si verifica quando la pressione arteriosa media supera i valori di 150 mmHg. In questa situazione, il meccanismo di autoregolazione del flusso cerebrale non riesce a mantenere costante il flusso ematico cerebrale; ne consegue un aumento del flusso con passaggio di liquidi dal compartimento vascolare a quello interstiziale. Sintomi e manifestazioni cliniche I sintomi più comuni sono cefalea, alterazioni dello stato di coscienza, irritabilità, alterazioni del visus, deficit focali, crisi convulsive, vomito. Esame obiettivo L’esame del fondo oculare può mostrare papilledema (retinopatia di stadio IV) e/o emorragie ed essudati (retinopatia di stadio III). Esami strumentali La TC e la RM di solito mettono in evidenza leucoencefalopatia posteriore che interessa prevalentemente la materia bianca parietoccipitale, il cervelletto e il tronco encefalico. Esami bio-umorali Il liquido cerebrospinale in rari casi mostra pleiocitosi. Diagnosi differenziale La diagnosi differenziale va posta con le altre forme di encefalopatia (metaboliche, infettive) che normalmente non si accompagnano a elevati valori di pressione arteriosa. Storia naturale Gli elevati valori di pressione arteriosa, per la compromissione del meccanismo di autoregolazione del flusso cerebrale, possono determinare la comparsa di edema cerebrale che, se non trattato tempestivamente, può indurre ischemia cerebrale ed erniazione cerebrale acuta con fenomeni compressivi sulle delicate strutture del tronco encefalico. Terapia La terapia dell’encefalopatia ipertensiva mira alla repentina riduzione del valori di pressione arteriosa facendo attenzione, comunque, a evitare una brusca riduzione. La pressione arteriosa deve essere ridotta gradualmente in quanto, per la compromissione del meccanismo di autoregolazione del flusso cerebrale, brusche diminuzioni di pressione, maggiori del 25%, possono determinare una caduta grave del flusso ematico cerebrale aggravando così la sofferenza ischemica. La terapia deve essere praticata mantendo monitorata la pressione arteriosa. Le classi di farmaci più utilizzate sono i diuretici dell’ansa come la furosemide, i vasodilatatori come il nitroprussiato di sodio, e gli antagonisti adrenergici. Da notare che la somministrazione di nitroprussiato, provocando vasodilatazione dei vasi cerebrali, può risultare pericoloso nell’encefalopatia ipertensiva. Emorragia cerebrale Le emorragie cerebrali vengono distinte in subaracnoidee e intraparenchimali; queste ultime sono tipicamente associate a ipertensione arteriosa e costituiscono il 20% degli ictus. Classificazione È possibile classificare le emorragie cerebrali in base alla sede: putamen (40%), talamo (12%), sostanza bianca lobare (20%), caudato (9%), ponte (9%), cervelletto (9%). Sintomi e manifestazioni cliniche Possono essere presenti i seguenti sintomi: cefalea occipitale (in 1/3 dei pazienti è l’unico sintomo), confusione, afasia, vomito, sonnolenza, coma. Esame obiettivo I più comuni reperti obiettivi sono: pupille miotiche iporeagenti alla luce, paresi dello sguardo orizzontale, iperconvergenza, assenza di sguardo verticale, emiparesi, emi-ipostenia, atassia. Esami strumentali La TC senza m.d.c. è l’esame di scelta per la diagnosi di emorragia cerebrale. Il reperto nelle fasi acute è di iperdensità, nelle fasi subacute è di iperdensità associata a edema perilesionale. L’angiografia del circolo intracranico rappresenta il gold standard per lo studio del circolo cerebrale. È indicata in tutti i pazienti con emorragia candidati a un intervento chirurgico o endovascolare. Diagnosi differenziale L’emorragia cerebrale va posta in diagnosi differenziale con ictus ischemico, emorragia subaracnoidea, meningiti ed encefaliti. Storia naturale Le emorragie hanno tassi di mortalità precoce pari al 30-40%; a 1 anno circa dall’evento acuto, un terzo dei soggetti sopravvissuti a un ictus emorragico presenta un grado di disabilità elevato. Terapia La terapia dell’emorragia cerebrale è la decompressione farmacologica o chirurgica. La decompressione farmacologica si ottiene riducendo la pressione arteriosa e l’edema perilesionale. Come terapia antiedemigena vengono utilizzati: agenti osmotici, furosemide, iperventilazione, farmaci sedativi. Per il controllo pressorio valgono le seguenti raccomandazioni: se la pressione sistolica è > 230 mmHg o la diastolica è > 140 mmHg va intrapresa terapia con nitroprussiato. Se la pressione sistolica è compresa tra 180 e 230 mmHg, la diastolica tra 105 e 140 mmHg o la pressione media è > 130 mmHg va somministrato per via e.v. labetalolo, enalapril o diltiazem, lisinopril o verapamil. Se la pressione sistolica è < 180 mmHg e la diastolica < 105 mmHg, è opportuno rimandare la terapia antipertensiva. La terapia chirurgica va presa in considerazione quando esistono condizioni di grave pericolo per la vita del paziente, quali compressione del tronco encefalico, idrocefalo ostruttivo acuto. Dissecazione È una degenerazione della tonaca media “medionecrosi cistica” con sanguinamento e slaminamento della parete aortica e formazione di un nuovo lume (“falso lume”). Una lacerazione dell’intima (“tear”) mette in comunicazione il vero lume aortico con il falso lume (si veda il Capitolo 15). Classificazione Le dissecazioni aortiche vengono classificate in base alla localizzazione della dissecazione. Esistono due tipi di classificazione: De Bakey e Stanford (Tabella 3.16). Sintomi e manifestazioni cliniche Il quadro clinico è dominato da dolore di tipo viscerale, localizzato allo sterno e/o alla regione interscapolare, accompagnato a fenomeni neurovegetativi (nausea, vomito, sudorazione). Il dolore può essere migrante, spesso accompagnato a segni e sintomi secondari ad alterazioni della perfusione distrettuale. In funzione dei vasi coinvolti nella dissecazione, possono essere presenti manifestazioni neurologiche (sincope, diplopia, tetraplegia, ictus), cardiache (ischemia transitoria, infarto del miocardio, versamento pericardico fino al tamponamento cardiaco), renali (oliguria, anuria), intestinali (angina abdominis). Tabella 3.16 Classificazione delle dissecazioni aortiche Classificazione di De Bakey Tipo I Originano dall’aorta ascendente, si propagano almeno fino all’arco e, in alcuni casi, distalmente a esso Tipo II Originano e rimangono confinati all’aorta ascendente Tipo Originano nell’aorta discendente, si propagano distalmente III Classificazione di Stanford Tipo Tutte le dissecazioni coinvolgenti l’aorta ascendente A Tipo B Tutte le dissecazioni non coinvolgenti l’aorta ascendente Esame obiettivo All’esame obiettivo, l’assenza, l’asimmetria e l’iposfigmia dei polsi periferici sono le tipiche manifestazioni cliniche delle dissecazioni aortiche. La presenza di rullio diastolico sul focolaio aortico indica la presenza di insufficienza aortica e l’origine prossimale della dissecazione. La presenza di un polso paradosso e turgore delle giugulari indica versamento pericardico. Può essere presente shock secondario a tamponamento cardiaco, a insufficienza aortica massiva, a ipovolemia. Esami strumentali Le metodiche strumentali di prima scelta utilizzate per evidenziare dissecazioni aortiche sono l’ecocardiogramma transtoracico e transesofageo, la TC con m.d.c., l’angiografia aortica e la RM. Gli esami strumentali, oltre a confermare la dissecazione, forniscono importanti informazioni quali: l’estensione della dissecazione, la velocità e la direzione del flusso ematico nel falso lume (dissecazioni anterograde e retrograde), la presenza di formazioni trombotiche, l’integrità dell’apparato valvolare aortico, la presenza di versamento pericardico. Tali informazioni rivestono una notevole importanza per la pianificazione della strategia terapeutica. L’ECG può mostrare, in caso di coinvolgimento dei principali rami epicardici, anomalie della fase di ripolarizzazione miocardica, tipiche delle sindromi coronariche acute. Il telecuore può mostrare slargamento dell’ombra cardiaca in presenza di aneurisma o di versamento pericardico. Esami bio-umorali Non esistono marcatori bio-umorali specifici per la diagnosi di dissecazione aortica. Diagnosi differenziale La dissecazione aortica va posta in diagnosi differenziale con sindromi coronariche acute, pericardite, embolia polmonare, patologie acute gastroesofagee, colecistiti. Storia naturale La mortalità a 30 giorni nella dissecazione aortica di tipo A è pari al 50%, quella della dissecazione di tipo B non complicata è pari al 10%. Terapia La dissezione aortica di tipo A è un’emergenza chirurgica. La dissecazione di tipo B, quando non complicata, è un’emergenza medica. In entrambi i casi è necessario mantenere la pressione sistolica costantemente intorno ai 110 mmHg. I farmaci utilizzati per il controllo pressorio nelle dissecazioni aortiche sono somministrati per via endovenosa e sono rappresentati dai b-bloccanti (metoprololo, propanololo, labetalolo) somministrati in monoterapia o in combinazione con vasodilatatori (nitroprussiato di sodio) (si veda il Capitolo 15). Eclampsia/pre-eclampsia È una patologia che coinvolge diversi organi e sistemi caratterizzata principalmente dall’aumento dei valori di pressione arteriosa associato a edemi declivi e/o comparsa di proteinuria insorta dopo la 20a settimana di amenorrea. Classificazione Esistono quattro forme di disturbi pressori in gravidanza: ipertensione cronica diagnosticata prima della gravidanza o riscontro di pressione arteriosa > 140/90 mmHg entro la 20a settimana di gestazione; eclampsia/pre-eclampsia: ipertensione insorta dopo la 20a settimana di amenorrea o rialzo ≥ 30 e 15 mmHg, rispettivamente per la pressione sistolica e diastolica, associati a edemi declivi e/o alla comparsa di proteinuria ≥ 300 mg/24 ore; pre-eclampsia sovrapposta a ipertensione cronica: condizione di rialzo dei valori pressori pari a 30 mmHg per la sistolica e 15 mmHg per la diastolica rispetto ai valori precedentemente riscontrati, associata alla comparsa di edemi declivi e significativa proteinuria; ipertensione transitoria del terzo trimestre: condizione di riscontro isolato di ipertensione nel terzo trimestre di gravidanza o entro le prime 24 ore del postpartum in assenza di segni di pre-eclampsia con risoluzione entro 6-12 settimane dal parto. Sintomi e manifestazioni cliniche L’eclampsia/pre-eclampsia è spesso associata a cefalea, disturbi visivi, dolore epigastrico e toracico, ansia e disturbi comportamentali. L'eventuale presenza di convulsioni durante l’eclampsia è associata a mortalità materna del 30%. Esame obiettivo L’esame obiettivo mostra un rapido aumento del peso corporeo e presenza di edemi declivi; possono essere presenti emorragie e/o essudati retinici. Esami bio-umorali Si rileva la presenza di proteinuria ≥ 300 mg/24 ore e/o rapporto proteine urinarie/creatinina ≥ 0,3. Possono essere presenti: alterazioni dell’emostasi (trombocitopenia < 100.000/mm3), della crasi ematica (emolisi, iperbilirubinemia, presenza di schistociti), della funzione epatica (aumento dei marcatori di citolisi epatica LDH, AST, ALT), aumento della creatinina e riduzione del filtrato glomerulare (calcolato con la formula di Cockcroft- Gault o la MDRD come riportato in precedenza). Storia naturale L’eclampsia complica il 5-7% di tutte le gravidanze ed è la causa principale delle nascite pretermine; è inoltre un predittore di malattia cardiovascolare e/o metabolica; esistono fattori che aumentano il rischio di pre-eclampsia (Tabella 3.17). Il 5% delle donne con eclampsia/pre-eclampsia sviluppa una condizione a prognosi sfavorevole denominata sindrome HELLP (Hemolysis, Elevated Liver enzymes, Low Platelets) caratterizzata da emolisi, necrosi epatica e trombocitopenia. Terapia I farmaci utilizzati per il controllo dei valori pressori in corso di gravidanza sono: α-metildopa, labetalolo, nifedipina (utilizzare preparazioni a lento rilascio), β-bloccanti (posologia in funzione del preparato), idralazina, idroclorotiazide. Sono controindicati ACE-inibitori e AT1-antagonisti. In caso di eclampsia è necessario ospedalizzare la paziente. Per il controllo dei valori pressori durante crisi ipertensiva è possibile utilizzare: labetalolo, idralazina, nifedipina o nitroprussiato di sodio. In caso di mancato controllo della pressione arteriosa per 24-48 ore è necessario far partorire la paziente. Tabella 3.17 Fattori di rischio per pre-eclampsia Fattori di rischio Rischio relativo Nulliparità 5 Gravidanze gemellari 5 Età < 16 e > 40 anni 2 Incremento ponderale 15-18 kg 2 Pregressa pre-eclampsia 5-10 Familiarità per pre-eclampsia (madre, sorelle) 5-7 Ipertensione cronica, diabete, malattie renali ≥5 Etnia nera 2 Principi generali della terapia dell’ipertensione arteriosa essenziale o idiopatica L’obiettivo della terapia antipertensiva è quello di ottenere, a lungo termine, una riduzione della morbilità e mortalità cardiovascolare. A tale scopo, è necessario identificare e trattare tutti i determinanti modificabili del rischio cardiovascolare, inclusa la pressione arteriosa. La terapia antipertensiva si basa su modifiche dello stile di vita e sul trattamento farmacologico. Modifiche dello stile di vita Tutti i pazienti ipertesi e i soggetti con pressione normale o normale-alta con almeno uno-due fattori di rischio devono attenersi alle modifiche dello stile di vita che comprendono: abolizione del fumo, limitazione del consumo giornaliero di alcol a 20-30 g e 10-20 g nell’uomo e

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