Vivere con l'epilessia PDF: Aspetti clinici, psicologici e culturali
Document Details

Uploaded by CreativeChrysoprase2548
D'Annunzio University of Chieti - Pescara
Tags
Summary
Questo documento esplora l'epilessia, dai suoi aspetti clinici e psicologici agli impatti culturali e sociali. Attraverso un'analisi interdisciplinare, esamina la storia della malattia, analizza gli stereotipi, e considera i processi di stigmatizzazione delle persone con epilessia, offrendo una visione completa della condizione e delle sue implicazioni.
Full Transcript
VIVERE CON L’EPILESSIA, ASPETTI CLINICI, PSICOLOGICI E CULTURALI. INTRODUZIONE Tra tutte le patologie neurologiche gravi, l'epilessia è tra le più comuni,colpendo circa 50 milioni di individui in tutto il mondo. Essi hanno avuto un'enorme influenza non s...
VIVERE CON L’EPILESSIA, ASPETTI CLINICI, PSICOLOGICI E CULTURALI. INTRODUZIONE Tra tutte le patologie neurologiche gravi, l'epilessia è tra le più comuni,colpendo circa 50 milioni di individui in tutto il mondo. Essi hanno avuto un'enorme influenza non solo sui modi in cui l'epilessia è stata curata, ma anche sull'esperienza delle persone che ne sono affette, sulla qualità della loro vita e su quella dei familiari. In queste pagine cercheremo di rendere conto di questa complessità, attraverso la sinergia di un approccio interdisciplinare che chiama in causa il contributo della neurologia, della psicologia sociale e clinica e, in ultimo, ma non per importanza, dell'antropologia culturale. Vedremo così che sin dall'antichità, l'epilessia è stata accompagnata da svariati miti e leggende. L'imprevedibilità e la drammaticità delle sue manifestazioni eclatanti, le crisi, che in realtà compaiono in particolare in una delle sue tipologie cliniche, vale a dire il grande male costituivano uno spettacolo così terrificante per un osservatore sprovveduto, tanto da indurlo ad alleviare le pene delle persone affette attraverso rimedi soprannaturali. Non ci sorprenderemo quindi del fatto che il cambiamento improvviso e scioccante a cui persone apparentemente «normali» e in salute potevano andare incontro durante le crisi convulsive abbia indotto la gente comune a credere che la sindrome risultasse dall'intervento del diavolo. Proprio per via delle inspiegabilità della sua comparsa, l'epilessia rappresentava l'espressione di una punizione divina e, come tale, veniva chiamata «Mal Sacro». Nella parte terza del volume, sarà dato ampio spazio ai cosiddetti «Santi dell'epilessia», alla luce di un complesso simbolismo medievale connesso alla tradizione agiografica relativa alla vita e ai miracoli dei santi Donato, Valentino,Vito. Attraverso una ricognizione storico-sociale su come l'atteggiamento verso questa malattia si è sedimentato nell'immaginario collettivo, avremo modo di conoscere i rimedi prodotti dalla medicina folklorica, il tipo di rapporto che si stabilisce tra paziente e terapeuta popolare, l'interessamento che questa particolare, distonica lettura della malattia ha sollevato, negli ultimi secoli, presso le scienze storico-filosofiche, a partire dall'illuminante opera di Pierre Saintyves. Si tratta di una tendenza presente tra le popolazioni di vari Paesi d'Europa, ma nel volume ci soffermeremo soprattutto su un'area culturale dove le credenze sull'epilessia, definita come mal di luna, si sono presentate con particolare omogeneità nel corso del Novecento e fino agli ultimi anni di questo secolo. L'inchiesta si avvale di circa 40 storie di vita di «fedeli-epilettici» registrate in occasione della festa di san Donato in un paesino del Sud dell'Abruzzo, epicentro del culto magico- religioso di protezione antiepilettica anche per il Molise. È ormai ampiamente riconosciuto, anche in ambito psicologico e sociale, che da sempre le crisi epilettiche hanno messo in discussione l'ordine sociale attraverso la loro imprevedibilità, la loro manifestazione di solito drammatica e il senso di impotenza che suscita negli altri. Nella perdita di controllo che si accompagna a esse, le persone con una crisi erano viste come regredire allo stato primordiale, rappresentando così la debolezza umana, l'incertezza e l'eccentricità, e pertanto, costituendo un pericolo per la società e un affronto per i suoi valori. Non sorprende, quindi, che la mitologia che per centinaia di anni ha pervaso l'epilessia abbia portato all'isolamento, all'istituzionalizzazione e a processi di stigmatizzazione delle persone che presentavano questa malattia e che erano considerate pazze e, come tali, erano rinchiuse nei manicomi in molti Paesi del mondo. D'altro canto, nella medicina allopatica occidentale, di fatto erano gli psichiatri a trattare l'epilessia, così come continuano ancora oggi a occuparsene nelle nazioni povere dal punto di vista economico. E ancor oggi, nel XXI secolo, come avremo modo di approfondire nella seconda parte del volume, una minoranza di persone continua a considerarla una malattia mentale. Vedremo così, che un'ampia varietà di difetti e anomalie strutturali sono attribuite a una persona stigmatizzata, per il fatto stesso di avere una patologia, un'idea che si rintraccia nelle teorie bio- mediche, come quella inerente l'esistenza di una relazione tra epilessia e comportamento criminale o violento, che in seguito risulterà centrale nel concetto di personalità epilettica. Apprendiamo così che, secondo questa concezione, le persone con epilessia, oltre alle crisi, presentano un insieme di tendenze indesiderabili, come l'aggressività, un'eccessiva religiosità e una sessualità sfrenata. Che queste idee scientifiche siano circolate tra i non esperti e siano state trasferite poi nel tratto distintivo negativo dell'epilessia a livello pubblico, è stato dimostrato da numerose indagini riguardanti le conoscenze e gli atteggiamenti nei confronti dell'epilessia, che avremo modo di esaminare più in dettaglio. 1 Attraverso la lettura delle pagine del volume, ci apparirà sempre più evidente che l'epilessia più che essere la malattia di un organo del corpo è diventata la malattia dell'intera persona, con conseguenze che sono principalmente a livello sociale, piuttosto che fisiologico. Nel corso dei secoli, i processi di stigmatizzazione hanno avuto gravi implicazioni negative per le persone con epilessia, non solo sulla loro identità personale, sulla qualità della vita e sulle loro relazioni interpersonali, ma addirittura talvolta anche sulla loro incolumità fisica. In altri termini, dagli stereotipi prevalenti circa la malattia e dalle teorie della gente comune, le persone con epilessia diventano consapevoli del fatto che esse saranno svalutate e discriminate. Esse, quindi, adottano delle strategie per affrontare questi potenziali o eventuali atteggiamenti negativi da parte degli altri, strategie che consistono generalmente nel ritiro sociale e nel mantenere il segreto circa la propria malattia. Lungi dall'essere una soluzione efficace, esse finiscono con il causare conseguenze fortemente negative per la loro qualità della vita e da qui, rafforzano la percezione di essere stigmatizzate. È ormai ampiamente riconosciuto che molti di coloro che fanno esperienza di una malattia stigmatizzante provano senso di colpa e vergogna e tra questi ritroviamo le persone con l'epilessia. D'altro canto, tra gli stereotipi negativi che circondano questa patologia vi è anche quello inerente una presunta responsabilità personale del malato, riguardante soprattutto l'insorgenza delle crisi che avrebbero potuto evitare, se si fossero comportati diversamente. Si tratta di una falsa credenza che però viene spesso condivisa e rafforzata dai familiari stessi che sembrano agire da veri e propri «arbitri del significato morale dell'epilessia», istillando ripetutamente un senso di vergogna e di colpa in coloro che hanno la malattia, un processo che è stato anche definito «addestramento allo stigma». Secondo alcuni studiosi, i genitori che presentano una visione prevalentemente negativa dell'epilessia e che hanno vergogna della diagnosi fatta ai propri figli, risultano più propensi ad agire come «istruttori dello stigma», insegnando ai propri figli che l'epilessia è una diversità poco desiderabile o un peso morale che dovranno portare per tutta la vita. Per tutti questi motivi, dopo una diagnosi di epilessia, dovrebbe essere sempre offerta la possibilità alla famiglia di ricevere un sostegno psicologico È importante precisare, tuttavia, che una diagnosi di epilessia non ha conseguenze solo sulla persona oggetto della diagnosi, ma anche su tutti i membri della famiglia, dal momento che ogni esperienza negativa vissuta dal soggetto può avere delle ripercussioni sui familiari. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l'epilessia può causare alti livelli di difficoltà psicologiche per tutti i familiari, incluso la stigmatizzazione, lo stress, la morbilità psichiatrica, problemi coniugali, un basso livello di autostima, restrizioni inerenti i contatti sociali e le relazioni, come è stato rivelato da numerose ricerche che avremo modo di esaminare. Negli ultimi decenni, si è assistito a un sorprendente e promettente avanzamento delle conoscenze scientifiche riguardanti il trattamento dell'epilessia. Se pensiamo per esempio all'opinione della gente comune riguardante che cos'è e, soprattutto, che cosa non è l'epilessia, notiamo che essa rimane sotto l'oscuro velo dello stigma. Ancora oggi, addirittura tra coloro che hanno un qualche legame personale con la malattia, le conoscenze su di essa rimangono scarse. Lo stigma è stato così pervasivo per secoli, se non addirittura per millenni. Vedremo così, che anche quando le spiegazioni bio-mediche hanno sostituito quelle magiche, esse continuano a basarsi su un potente stereotipo secondo cui le crisi sono generalizzate e tutti i pazienti hanno un'epilessia cronica e invalidante, mentre sono ignorate le diversità dell'epilessia con le diversità delle crisi che si accompagnano a esse. Nel volume,è descritta con dovizia di particolari la semeiologia delle varie tipologie cliniche, delle principali crisi, dalle generalizzate, alle miocloniche, alle assenze, alle crisi focali e quindi alle crisi minori, che possono essere non diagnosticate per molti anni, o essere considerate dal paziente, o dai suoi familiari, come eventi non patologici, al contrario delle crisi maggiori, come la generalizzata tonico clonica, che, di solito, è precoce- mente sottoposta all'attenzione del medico. Ulteriori elementi da indagare sono l'età di esordio, la storia familiare, il tipo e il livello di sviluppo della patologia, nonché lo stato di salute generale. Per semplificare, potremmo dire che l'epilessia è tale perché le crisi tendono a ripetersi nel tempo e spontaneamente, con frequenza diversa e non sempre prevedibile. È importante aver presente, infatti, che l'epilessia si è rivelata una fonte ricca di ispirazione per gli scrittori e gli artisti attraverso gli anni e non ci è voluto molto perché l'epilessia apparisse sullo schermo cinematografico. Personaggi con l'epilessia spesso compaiono nei film.Per esempio nel film 2 di Oliver Stone JFK, una persona con epilessia è implicata nel- l'assassinio del presidente, ma non si tratta dell'unico esempio, dal mo- mento che la malattia si ritrova in molti generi di film e in culture diverse. In realtà, queste immagini ci suggeriscono misure che sono assolutamente da evitare. Prevenire la caduta durante una crisi fondamentale, ma poco attuabile. Oltre a ciò, sono descritti cinque casi clinici con anamnesi, esordio comiziale e risposta al trattamento. L'elemento che li accomuna è l'espressione di tutto il disagio causato dalla malattia e dallo stigma sociale. Storicamente, lo status inferiore, sia a livello economico che sociale, delle persone disabili è stato visto come una conseguenza inevitabile dei limiti fisici e mentali imposti dalla disabilità. Sfortunatamente i dati sul loro alto tasso di disoccupazione confermavano l'idea che essi non fossero in grado di lavorare e la credenza prevalente era quella secondo cui non potessero farlo, sia perché avrebbero potuto avere delle crisi sul posto di lavoro e ferire se stessi o anche gli altri, sia perché avrebbero costituito un grave problema di assenteismo. Con il passare degli anni, queste supposizioni sono state messe in discussione dagli stessi malati, dai loro familiari, dagli esperti, da coloro che prendono le decisioni politiche e dai legislatori. Gradualmente,la società ha cominciato a riconoscere che molti dei problemi delle persone con epilessia non erano inevitabili, ma erano piuttosto il risultato di politiche e pratiche discriminatorie basate su stereotipi infondati e su percezioni basate su paure irrazionali e pregiudizi. Nella prima parte del volume ci renderemo conto del fatto che le persone con epilessia hanno subito numerose discriminazioni legali, che risalgono a centinaia di anni fa, e che hanno incluso il matrimonio, la riproduzione, il lavoro, l'immigrazione. Alcune di esse sono state abbandonate solo di recente, mentre altre ancora sussistono, nonostante in molti Paesi l'epilessia sia ora considerata una disabilità tutelata legalmente. In Abruzzo e Molise dal 18 maggio 2007 è nata una sezione che la rappresenta e che ha fornito una ricognizione nel territorio per valutare la prevalenza della patologia nelle due regioni. Resta vero, comunque, che a prescindere dai metodi che si utilizzano, la sua diminuzione in tutto il mondo è un obiettivo che va sempre perseguito, perché solo così si potrà aumentare il valore delle persone con epilessia a livello sociale e assicurarsi che lo stigma non sia un aspetto centrale della loro identità sociale. CAPITOLO 1 BREVE RETROSPETTIVA SULL’EPILESSIA Le prime testimonianze riguardanti l’epilessia ci giungono dal Sak ikku (1067-1046 a.c) dei babilonesi. I primi testi medici sull'epilessia sono le tavolette cuneiformi d’argilla dei babilonesi. Dai papiri egiziani si può osservare come scrivono l’epilessia NSJT. Gli egiziani avevano la convinzione che l’epilessia fosse causata da demoni e fantasmi che controllavano alcuni individui. I greci consideravano l’epilessia il risultato di un’offerta alla dea Selene, essi furono i primi considerarlo mal lunatico e per evitare di offendere la dea che poteva infliggere questa malattia a scopo punitivo, elaborano il culto del vischio, che doveva essere raccolto senza l’uso di una lama e non doveva toccare terra, per evitare il riferimento magico alla caduta tipica delle crisi epilettiche. Il termine epilessia deriva, nell’espressione medica, dal verbo greco epilambàno che significa letteralmente prendere di sorpresa, assalire all’improvviso, richiamando così l’immagine della possessione demoniaca. La malattia veniva indicata tramite perifrasi come morbo erculeo, perché si pensava che le fatiche di ercole fossero state portate a termine in preda ad eccessi epitetici. L’attribuzione della malattia all’azione del sovrannaturale annullava però la possibilità di comprendere la vera causa del fenomeno, e al tempo stesso la caricava di ispirazione divina. Durante l’epoca di Platone, la civiltà ellenica esprimeva i suoi punti di vista sull’epilessia attraverso due “entusiasmi”, l’entusiasmo coribantico, frenetico e convulso, dove la possessione era vista come uno stato di caduta dal quale si doveva uscire e l’entusiasmo mistico, nel quale la possessione era una modalità per erompere nella dimensione divina. Il morbo sacro era curato con pratiche rituali, ravvisando nell’entusiasmo coribantico una cura omeopatica. Tra gli altri rituali di guarigione utilizzati dai greci va ricordata la "pratica dell'incubazione", consisteva nel far dormire l'individuo affetto da epilessia sopra una lastra di pietra nei templi di Esculapio, dio dell'arte medica. Altri antidoti alle crisi erano gli incantesimi, le purificazioni, e perfino l'astinenza da cibo e bagni. 3 Nel pensiero primitivo costoro rap- presentavano una vera casta medica e potevano mediare tra la divinità e l'uomo punito dal male, attraverso l'esecuzione di una serie di riti e di pratiche con significato simbolico. Solo Ippocrate, conosciuto come il padre della medicina, rifiutò il carattere sovrannaturale dell'epilessia. Negli scritti ippocratici, databili tra il V e IV secolo a.C., vi sono molte teorie e descrizioni dell'epilessia; delle pratiche magiche si dice che erano ali- bi per gli antichi medici, tesi a giustificare l'insuccesso della terapia, e a sottrarli da ogni responsabilità, per darne la colpa agli dei. Afferma che la sede di questa malattia risiede nella sofferenza del cervello, nel mancato equilibrio degli "umori", come l'eccesso di flegma, cioè una secrezione eccessiva di muco da parte del cervello, contrapposto allo stato normale dell'essere umano che consisteva nell'equilibrio dei quattro umori: flegma, bile nera, bile gialla e sangue. Quindi subentra una nuova fase: la cura non appartiene più al sacerdote o alla cultura religiosa bensì al medico filosofo, e cominciano a definirsi le crisi convulsive dei bambini, le crisi generalizzate e perfino le crisi derivate da emorragie e da ascessi cerebrali. Anche Galeno (129-199 d.C.), medico della corte imperiale di Roma, nel suo testo De affectorum locorum notitia scriveva: "L'epilessia è dovuta ad accumulo d'umore spesso e vischioso, che ostruisce il deflus- so del pneuma (cioè lo spirito divino che anima la natura) psichico, blocca i nervi sensoriali e motori con perdita delle sensazioni". Comincia inoltre a prospettarsi il tentativo di definire le epilessie idiopatiche con la descrizione di crisi che originano dal cervello a differenza di quelle secondarie a irritanti, e a prescrivere, una terapia speciale con un medicamento chiamato teriaka. Secondo i medici antici, comunque, è il cervello ad essere malato e la malattia prende origine da esso. Tuttavia la concezione del contagio è strettamente legata alla vista di una persona epilettica, tanto che le autorità mediche, dopo Ippocrate (filosofo), raccomandavano spesso di sputare per respingere il contagio. L'Ebraismo e il Cristianesimo basarono la loro interpretazione dell'epilessia sui passi della Bibbia, altre descrizioni sono presenti nei Vangeli Sinottici di Matteo, Marco e Luca. Nel mondo musulmano, infatti, esisteva la credenza nei ginn, creature spirituali del fuoco originate da Dio e capaci di impossessarsi del corpo umano generando attacchi epilettici. La medicina araba del VIII-X secolo d.C. si dedicò alla terapia di que- sto stato di possessione attraverso gli studi razionalistici Avicenna (980- 1037 d.C.) e Averroè (1126-1198 d.C.). Entrambi si dedicarono allo studio dell'epilessia in modo accurato, senza discostarsi dai concetti di Ippocrate, il quale aveva attribuito il male all'occlusione dei vasi sanguigni. Durante il Medioevo, il dibattito divise da una parte i medici che condividevano il giudizio naturalista di Ippocrate (epilessia come disfunzione cerebrale), e dall’altra le credenze popolari e religiose che, sulla base del dettato religioso ebraico-cristiano, interpretavano l’epilessia come possessione diabolica. Attraverso la demonologia, gli ammalati vennero marchiati come portatori dello stigmata diaboli (stigma del diavolo), per cui alla figura del medico filosofo si sostituì quella dell'esorcista quale unico riferimento diagnostico e terapeutico. Solo durante l'Illuminismo nel XVIII secolo la credenza ippocratica guadagnò nuovi consensi con la tendenza a riconsiderare le crisi epifenomeni che venivano comunque sempre correlati alle variazioni delle fasi lunari. Le pratiche magiche ed esoteriche continuarono a essere utilizzate fino al XIX secolo, quando furono create le prime case di ricovero per epilettici. La malattia, infatti, era ritenuta contagiosa e per timore di una trasmissione ereditaria le donne che ne erano portatrici venivano sepolte vive con tutta la prole, mentre gli uomini venivano castrati. Le case di ricovero per pazienti epilettici e psichiatrici diedero l'opportunità di studiare e osservare sistematica- mente: una certa attenzione venne posta nel "temperamento epilettico" con la tendenza a riconoscere in ogni crimine il risultato di un attacco epilettico. Nel Positivismo si profilava dunque all'orizzonte una sorta di neo-oscurantismo psichiatrico il cui nucleo portante, ancora una volta, era l'ereditarietà della malattia, cui si sovrappone un nuovo percorso con le tendenze della psico-dinamica. Nella prima metà del XIX secolo, epoca che deve essere considerata fondamentale per la diagnosi e la terapia dell’epilessia, una delle tecniche diagnostiche e anche terapeutiche consisteva nella pressione prolungata nella parte addominale che veniva praticata per arrestare la convulsione. 4 Brigth (1836) tenta invece di dimostrare che l'epilessia è causata da un'irritazione della superficie del cervello e quindi comincia a delinearsi la tendenza a di- stinguere l'epilessia causata dalle convulsioni dovute a lesioni focali. Si comincia, dunque, a intravedere la nascita della neurologia quale branca autonoma della medicina. In questo contesto si pone l'opera di Jackson che, studiando alcuni casi di epilessia dovuti alla sifilide, evidenziò le correlazioni anatomo-patologiche dell'emisfero cerebrale colpito opposto al lato del fenomeno convulsivo, ipotizzando per primo la possibilità che un attacco iniziato in qualsiasi sede cerebrale potesse propagarsi a ogni altro centro, con la generalizzazione dell'attacco. Dalla sua opera presero spunto tutte le successive ricerche in campo epilettologico finalizzate a comprendere il significato fisiopatologico delle crisi. Nel 1826 la scoperta dell'elettroencefalografia, cioè la possibilità di registrare l'attività elettrica cerebrale, portò a comprendere che le onde cerebrali non erano il frutto della pulsazione vasale, bensì erano derivate dall'attività neuronale. Rapidamente fu possibile ottenere una serie di segni patologici dei fenomeni epilettici e dunque anche una spiegazione patogenetica di tipo neurofisiologico dell’epilessia. CAPITOLO 2 STIGMA E CREDENZE SULL’EPILESSIA La ricerca in epoca recente si è occupata allungo fondamentalmente degli aspetti neurobiologici dell'epilessia, senza considerare che le crisi che la caratterizzano si accompagnano spesso a numerose difficoltà psicologiche e sociali che, nella maggior parte dei casi, risultano più invalidanti delle crisi stesse. L’epilessia è stata circondata da una radicata mitologia sin dall'antichità. Si tratta di miti e leggende riguardanti non solo le sue origini e manifestazioni, ma anche i rimedi adottati per alleviare le penne delle persone malate e riportare la serenità tra le persone sane. Tra gli antichi Greci erano nota come malattia sacra, in molte società contemporanea si credeva che una persona con l'epilessia fosse posseduta dal diavolo a causa di dei numerosi peccati commessi. Nel corso del tempo le crisi si sono trasformate nel simbolo della debolezza umana e dell'imprevedibilità, Esse sono diventate il motivo di grande paura tra la gente. Nella perdita di controllo che caratterizza, le crisi evocano un processo di degenerazione irrazionale, rappresentando una sorta di terrore anomico. Tra queste troviamo la teoria secondo cui l'epilessia è una malattia contagiosa, insieme all'idea secondo cui la persona epilettica è pericolosa. Hanno condotto alla segregazione delle persone che ne sono affette. L'epilessia è una delle poche patologie non psichiatriche per cui sono state create delle strutture specializzate. Nella medicina allopatica occidentale, di fatto Erano gli psichiatri a trattare l'epilessia punto in Italia Beer il ricovero nei manicomi si è protratto fino ai primi anni Ottanta Pirro a quanto finalmente sia arrivati alla chiusura di questi luoghi repressivi. in sintesi le vecchie mitologie, in coppia con le teorie scientifiche occidentali hanno contribuito notevolmente alle politiche sociali riguardanti le persone con l'epilessia almeno fino alla fine del diciannovesimo secolo punto ancora oggi nel XXI secolo una minoranza di persone continua a considerare l'epilessia una malattia mentale. Queste considerazioni, tuttavia, aiutano solo in parte a spiegare come mai le credenze negative riguardanti l'epilessia siano rimaste ben radicate tra la gente. Nel tentativo di dare una risposta a questo importante dilemma, alcuni studiosi si sono occupati dei processi attraverso cui i gruppi sociali che possiedono determinate caratteristiche considerate indesiderabili e diverse rispetto a quelle possedute dalla maggioranza della gente ricevono una sorta di marchio che le contraddistingue e che, una volta ricevuto, ha profonde e importanti conseguenze a vari livelli. Questo marchio va sotto il nome di Stigma e, secondo il sociologo Goffman è un attributo profondamente screditante. Lo Stigma implica la definizione di alcuni attributi come comuni e naturali e altri come degno di disprezzo, da parte di un gruppo sociale: coloro che possiedono solo i primi, sono i cosiddetti normali, coloro che invece possiedono il secondo tipo di attributi diventano invece gli stigmatizzati. Goffama ha affermato che chi è stigmatizzato possiede una caratteristica tale da imporsi All'attenzione degli altri, annullare il valore di tutte le rimanenti sue caratteristiche e allontanare coloro con cui la persona che la possiede viene a contatto. nel processo di stigmatizzazione è cruciale il grado di potere 5 del gruppo sociale che applica lo stigma, solitamente i gruppi che hanno potere a livello sociale, politico o economico possono imporre lo stigma. per essere stigmatizzato È importante che un individuo o un gruppo presenti una caratteristica caratteristica sia visibile agli altri, che diventi più evidente nel tempo. Non c'è dubbio che tutte queste dimensioni sono presenti nelle epilessia. le crisi vale a dire le sue Manifestazioni esteriori, possono essere difficili, se non i posteri da conoscere a seconda del tipo, e se possono diventare più salienti con il tempo e a seconda del decorso clinico e dell'efficacia dei trattamenti. Infine e se sono distruttive, poiché interferiscono con le interazioni sociali in maniera improvvisata e imprevedibile e chi si trova a osservare è terrorizzato. anche nelle epilessia lo stigma svolge un portale funzionale al livello sociale. lo stigma nelle misure in cui rappresentano una sorta di di pericolo per la sfera morale: le persone con l'epilessia durante le crisi perdono il controllo pigro e possono regredire a uno stato primitivo e di conseguenza mettere in atto atteggiamenti indecenti e scandalosi. tale caratteristiche sono minacce per l'ordine sociale. Secondo il sociologo Scambler, tratta di una doppia minaccia all'ordine sociale: il primo luogo perché le crisi vengono meno una serie di norme culturali riguardanti comportamenti che si ritengono appropriati in pubblico, in secondo luogo perché essi vivono Quelle norme culturali che governano le interazioni sociali creando ambiguità nelle relazioni interpersonali. Secondo il sociologo Trostle le crisi sono viste come pericolose per le normali interazioni sociali e come trasgressive dei valori culturali perché Esse rappresentano la debolezza e l'imprevedibilità umana. È importante precisare comunque, che l'origine del concetto di Stigma può essere rintracciato nel pensiero sociologico di Durkheim, il quale sosteneva che lo Stigma serve a demarcare i confini tra ciò che è normale e ciò che è deviante. Alcuni studiosi, come Alberecht, Walker e Levey nel 1982, hanno proposto che la quantità di Stigma associata con una malattia cronica è determinata da due componenti separate e distinte: l'attribuzione di responsabilità per la malattia e il livello di disagio che crea nelle interazioni sociali. In sintesi, possiamo affermare che un aspetto comune delle teorie dello stigma è l'enfasi sui processi del gruppo sociale. Inoltre, i teorici dello stigma più recenti hanno sottolineato un elemento precedentemente trascurato, vale a dire il ruolo delle relazioni di potere nella costruzione sociale dello stigma. L'etichettamento, la stereotipizzazione, la separazione dagli altri e la conseguente perdita di status sociale sono tutti elementi chiave dello stigma che diventano rilevanti solo in una situazione di potere che consente loro di manifestarsi. Negli ultimi decenni, si è assistito a un sorprendente e promettente avanzamento delle conoscenze scientifiche riguardanti sia la comprensione scientifica dell'epilessia, con la sua definizione clinica, sia il suo trattamento. Essa è oggi considerata come una condizione neurologica e numerosi studi epidemiologici su larga scala hanno tenuto conto di una visione molto più favorevole della sua prognosi, rispetto alla visione prevalente in passato. Per di più, all'inizio del XXI secolo è ormai ampiamente riconosciuto che la maggior parte delle epilessie è clinicamente benigna. Alcuni ricercatori sottolineano l'esistenza di una relazione tra epilessia e comportamento criminale o violento, relazione che in seguito risulterà centrale nel concetto di personalità epilettica. Secondo questa concezione, le persone con epilessia, oltre alle crisi, presentano un insieme di tendenze indesiderabili come l'aggressività, una eccessiva religiosità è una sessualità sfrenata. Altre teorie bio-mediche sostengono che l'epilessia sia il risultato di una degenerazione ereditaria e che i malati siano matti e cattivi, soggetti ad improvvisi e imprevedibili attacchi di violenza, con probabili tendenze all'omicidio e senza dubbio caratterizzati da depravazione morale. Troviamo infine la più recente teoria della nevrosi epilettica, che vede i problemi comportamentali e psicologici, spesso associati all'epilessia, come reazioni naturali alla sofferenza provata dalle persone che ne sono affette per far fronte alle esigenze della vita. Vale la pena ora soffermarsi sulle credenze riguardanti le cause dell’epilessia. In particolare vediamo che l’opinione più diffusa riguarda la sue ereditarietà: essa passerebbe di generazione in generazione. All'origine di tale opinione sembra esserci la teoria ingenua secondo cui le crisi sono causate dalla presenza di "nervi deboli" e che anche tale debolezza è ereditaria. Un altro insieme di credenze diffuse che suscitano interesse riguarda ugualmente le cause dell'epilessia e delle crisi, ma aldilà del fattore ereditarietà; tra queste troviamo particolari eventi di vita stressanti che provocano un aumento di stanchezza attivando e scatenando le crisi. Tra le altre cause ricorrenti rintracciavano quella secondo cui L'ebreo sia legata alla alta febbre e le sue 6 Manifestazioni sono scatenate da condizioni atmosferiche estreme come un forte vento o violenti cambiamenti stagionali. È importante puntualizzare che in molti paesi del mondo le credenze circa le cause dell'epilessia e lo scatenarsi delle crisi sono l'esito di un complesso intrecciarsi di concetti biomedici scientifici, della medicina popolare e della mitologia. vediamo così che l'epilessia era considerata come le espressioni di eventi neurologi di birra ma anche di uno squilibrio a livello corporale che provoca febbre e dolore. In Cina la gente comune generalmente accetta l'idea che l'epilessia sia un disturbo cronico Vi ricordo davvero dannoso E che dovrebbe essere radicalmente curato attraverso un trattamento farmacologico a lungo termine punto Tuttavia la puntura e vista come un mezzo utile per controllare i nervi e come un mezzo per interrompere le riprese quando si verificano. emerge così la consapevolezza che sebbene il disturbo non possa essere eliminati con i pazienti potrebbero entrare enorme vantaggio dall'assunzione irregolare e prolungare dei farmaci. L'opinione diffusa è che l'epilessia causi un peggioramento della salute in generale, tale da rendere coloro che ne sono affetti più deboli fisicamente rispetto agli altri e più suscettibili di sviluppare altre malattie. Sono abbastanza diffuse le paure circa le possibili lesioni conseguenti alle crisi e il rischio di morte, anche il possiede danno agli organi causato dal ripetersi delle crisi. anche se si condividere l'idea che a parte le convulsioni, le persone epilettiche sono come le persone normali, la convinzione frequente è che una persona con l'epilessia non è normale e per questo motivo, è meno capace di contribuire pienamente alla vita sociale quotidiana, anche quando non è effetto della crisi. Frequentemente sono messi in rilievo gli effetti negativi interni sia sul funzionamento intellettuale sia sullo stato psicologico. le persone con l'epilessia sono in genere scritte come meno intelligenti e comunque con un declino delle loro funzioni intellettuali successive alle sorte della crisi. un'altra credenza evidente riguarda la probabilità che l'epilessia porti a pregiudicare le prospettive occupazionali. in particolare ciò che si tende a pensare che l’imprevedibilità delle crisi rappresentano il rischio per il lavoro: pertanto non solo la gente crede che esistono molti lavori in cui coloro che presentano questa malattia non dovrebbero essere impiegati, ma crede anche che gli stessi datori di lavoro non dovrebbero essere disposti a offrire loro un occupazione. Secondo un'altra credenza, chi ha l'epilessia ha bisogno di evitare occupazioni potenzialmente pericolose per il corpo e dovrebbe limitarsi a svolgere solo lavori "semplici", "speciali" e "appropriati". In aggiunta, dovrebbe evitare lavori che implicano contatti con il pubblico o con i media, perché il potenziale imbarazzo potrebbe aumentare il rischio di avere delle crisi in pubblico. In più, si tende a credere che le persone con epilessia sono in generale inaffidabili, come lavoratori sono "meno competenti", per via della loro tendenza ad avere le crisi. Esse sono anche viste come fisicamente deboli e particolarmente inadatte per un lavoro impegnativo sia fisicamente sia mentalmente, diventando così inadeguate alle richieste di impieghi retributivi. infine, i loro stessi familiari, poiché risultano generalmente iperprotettivi, sono convinti del fatto che esse non dovrebbero lavorare fuori casa. In sintesi, in molti Paesi del mondo, l'impatto negativo dell'epilessia sul lavoro si può attribuire a una combinazione di ciò che viene definito "discriminazione giustificabile" e pregiudizio ingiustificato, insieme alla protezione eccessiva, manifestata soprattutto dai genitori. Tuttavia, sembra che almeno nel Regno Unito gli atteggiamenti si stanno avviando verso un cambiamento rispetto alle indagini condotte in passato. Ciò può anche dipendere dal fatto che c'è un recente cambiamento in atto: in primo luogo si riscontra la tendenza a valorizzare, piuttosto che rifiutare le differenze, in secondo luogo, si tende a ridefinire come normali condizioni dell'essere umano precedentemente considerate anormali, come la disabilità e la malattia. Ulteriori credenze abbastanza diffuse hanno attinenza con il matrimonio. In molti Paesi l'epilessia era vista in passato e, in parte, è vista anche oggi, come un impedimento nel fare e mantenere le amicizie e nel trovare una ragazza/ragazzo o uno/a sposo/a. Sebbene non si ravvisino restrizioni tecniche al matrimonio, è diffusa l'idea secondo cui un partner con epilessia è indubbiamente meno desiderabile e le sue prospettive di un legame sentimentale sono viste come pressoché inesistenti, dal momento che "ogni persona cerca un partner sano". Storicamente l'epilessia è stata concettualizzata come diversità e questo ha comportato l'applicazione di norme e/o sanzioni contro le persone con questa malattia. È interessante notare che la 7 discriminazione legale compare molti secoli fa. Esistono testimonianze di leggi discriminatorie risalenti addirittura al 200 a.C. nel codice babilonese di Hammurabi. Le prime leggi moderne, invece, sono state introdotte in Svezia nel 1757, Per brevità, ci soffermeremo solo su alcune di esse. Per cominciare, ci soffermeremo sulla prima legge sulla sterilizzazione eugenetica, approvata negli Stati Uniti nel 1907 e che includeva i malati di epilessia nella sua sfera di competenza. Tra l'approvazione della legge e il 1964, ci furono circa 60.000 sterilizzazioni persone con epilessia, legittimate dal Movimento Eugenetico, e un simile programma di sterilizzazione è continuato in Svezia fino agli anni Settanta. Sempre in USA, le leggi che impedivano il matrimonio furono emanate non più tardi del 1939 e in alcuni Stati erano ancora in vigore fino agli anni Ottanta. L'istituzionalizzazione delle persone con epilessia è stata legalmente permessa in 17 Stati fino alla metà degli anni Settanta e l'epilessia è rimasta un ostacolo per l'immigrazione negli Stati Uniti e in Australia fino a poco tempo fa. Nel Regno Unito il matrimonio con persone epilettiche è stato proibito fino al 1970 e in alcune parti del mondo, come nei Paesi in via di sviluppo, l'epilessia rimane ancora un ostacolo, sebbene informale, al matrimonio. Oggi in molti Paesi sviluppati, l'epilessia è considerata una disabilità e, come gli altri disabili, anche le persone con questa malattia, godono di alcune protezioni a livello legale. I malati di epilessia sono ancora oggi oggetto di pregiudizio e di incomprensione, tanto è vero che la malattia rimane una caratteristica della propria identità e un peso morale da portare, fonte di discriminazione e nello stesso tempo di ansia e vergogna. CAPITOLO 3 EPILESSIA, PSICOPATOLOGIA E QUALITÀ’ DELLA VITA : PROSPETTIVE E CONFRONTO Nel capitolo precedente ci siamo soffermati sulle credenze negative diffuse tra la gente, nonché tra i professionisti della medicina, ma soprattutto abbiamo esaminato un fenomeno presente a livello sociale, che secondo alcuni sociologi, ha avuto una profonda ripercussione sulle persone con epilessia, vale a dire i processi attraverso cui esse sono stigmatizzate. Abbiamo anche esaminato le funzioni che svolge a livello sociale lo stigma. Nella seconda prospettiva, più tradizionale, è l'epilessia di per sé a determinare livelli più o meno gravi di psicopatologia. Nella terza prospettiva, si tende a pensare che i vari correlati comportamentali, emotivi e di personalità dell'epilessia siano il risultato del processo di adattamento alla malattia. Questa sorta di identità epilettica basata sull'idea di una diversità indesiderata che, come abbiamo già notato, costituisce un elemento permanente per un potenziale stigma, sembra sia stata passivamente accettata dalle persone con epilessia. Di conseguenza, l'accettazione passiva ha dato luogo a un insieme di comportamenti volti principalmente a celare, nascondere la propria malattia, un atteggiamento che sembra svolgere una funzione di adattamento alla propria condizione. È importante precisare, comunque, che non tutte le persone con epilessia accettano passivamente di essere etichettati come epilettici. Molte, infatti, provano a negoziare con i medici una diagnosi meno minacciosa o, in alternativa, provano a concentrarsi piuttosto sugli aspetti ancora incerti, oppure tentano di smentire la diagnosi del tutto. In ogni caso, la diagnosi avrà degli effetti negativi a livello di autostima solo quando la svalutazione sociale sarà da loro avallata. Ciò vuol dire che solo quando si accetta la svalutazione sociale della propria condizione, allora l'identità di una persona sarà danneggiata. Tale identità non solo mette la persona in una condizione di svantaggio rispetto agli altri, uno svantaggio non superabile nonostante gli sforzi enormi messi in atto, ma comporta anche una definizione di indesiderabilità che determina il rifiuto sociale. Come notato precedentemente, la segretezza diviene una chiave significativa di adattamento per molte di queste persone e la complessità dei loro sforzi per mantenerla è proporzionale all'intensità dello stigma percepito. Tali sforzi implicano sia una precisa pianificazione per evitare quelle situazioni ad alto rischio, che potrebbero condurre a svelare il loro stato di salute, sia lo sviluppo di strategie per coprire l'innegabilità dell'epilessia. Tanto per fare un esempio, la comunicazione riguardante la propria malattia, quando avviene, spesso non è volontaria, ma forzata da sintomi fisici o altri segnali dello stigma. Sembra, infatti, che anche quando una persona non possiede più determinate caratteristiche che avevano dato luogo allo stigma, o quando determinati comportamenti considerati devianti non fanno 8 più parte del suo presente, ma del suo passato, la gente continua a pensare che si tratta sempre di qualcuno/a che, da un momento all'altro, potrebbe mettere in atto qualche comportamento deviante. Se poi mettiamo in relazione all'epilessia l'irreversibilità dello stigma, vediamo che poiché permane l'idea che non possa essere curata, ne consegue che anche coloro che sono in una condizione di progressivo miglioramento da molto tempo, continuano a vivere con l'etichetta di «epilettico» e, quindi, con un'identità danneggiata. Qualche tempo fa, Scambler ha osservato che sebbene molte persone con epilessia siano convinte del fatto che esista un pregiudizio nei confronti della loro condizione, di fatto poche riescono a fornire un esempio di una situazione in cui sono state oggetto di pregiudizio. Su questa base i due studiosi, hanno sviluppato una distinzione teorica tra «stigma percepito» e «stigma messo in atto». In particolare, lo «stigma percepito» si riferisce alla vergogna associata all'essere epilettico e alla paura oppressiva di andare incontro a uno «stigma messo in atto», vale a dire, la paura di fare un'esperienza reale di discriminazione, dovuta sola- mente al fatto di essere epilettici. Notando che le persone con epilessia spesso tendevano a celare la loro condizione il più possibile, Scambler ha anche sottolineato il fatto che uno stigma percepito, in effetti, spesso diventa una profezia che si autoavvera o si autodetermina. Si tratta di un concetto utilizzato da Watzlawick e collaboratori per descrivere una previsione circa il verificarsi di un evento che, per il solo fatto di essere stata fatta, fa realizzare l'avvenimento presunto o atteso, confermando il tal modo la propria veridicità. Nel caso dei malati di epilessia, la paura di fare un'esperienza di discriminazione, sulla base di credenze errate o pregiudizi diffusi tra la gente, può causare comportamenti che confermano effettivamente queste credenze. Più specificamente, nascondendo la propria condizione di malati, essi si negavano l'opportunità di verificare se la loro aspettativa di essere discriminati corrispondesse effettivamente alla realtà. Ciononostante, è fuori dubbio che le persone con una condizione di disabilità fisica sono viste come diverse e ricevono una valutazione negativa dagli altri. Molti di coloro che hanno l'epilessia sostengono che una delle grandi sfide per loro consiste nell'affrontare lo stigma e gli atteggiamenti pregiudiziali associati. Tali preoccupazioni circa lo stigma possono poi dar luogo a problemi di adattamento, riduzione dell'autostima e ripercussioni negative sulla qualità della vita. Di conseguenza, ci si aspetta che una riduzione dello stigma possa comportare un miglioramento nella qualità della vita di questi ragazzi. Come è stato già notato, non tutte le persone si sentono stigmatizzate dall'epilessia, e tra quanti invece ne sentono il peso, solo per una minima parte c'è un collegamento con la gravità delle crisi, mentre per la maggioranza molto dipende dalle esperienze personali e da quanto viene appreso negli ambienti sociali e di lavoro. L'istruzione sembra giocare un ruolo importante nel contrastare gli effetti dello stigma dal momento che le persone più istruite ne soffrono meno. A tal fine, è opportuno promuovere indagini volte a rilevare il livello di conoscenza del- l'epilessia in generale e delle persone che ne sono affette in particolare, anche rispetto ad altre malattie come l'asma, il diabete, il cancro, l'AIDS, le loro nozioni riguardanti le crisi, le cause della malattia, il suo essere o meno contagiosa, il grado di associazione a particolari disturbi psichiatrici. Nello studio più recente è emerso, invece, che il malessere psicologico era maggiormente in relazione con la capacità di affrontare positivamente la malattia e con lo stigma percepito, rispetto a fattori non psicosociali come la frequenza delle crisi e gli effetti collaterali dei farmaci antiepilettici. Tanto per fare un esempio, le ricerche sull'argomento hanno messo in evidenza l'esistenza di differenze sostanziali nello stigma provato a seconda della cultura di appartenenza dei malati. Queste differenze sono probabilmente dovute a diversità nelle credenze stereotipate diffuse a livello socioculturale, nei sistemi di servizi sanitari, nella quantità di cure elargite, nei sistemi di pari opportunità e nella protezione legale di cui godono le persone malate. Storicamente, l'epilessia è stata stigmatizzata come la patologia medica per eccellenza, e Dell ha affermato che anche nel mondo contemporaneo, il suo stigma rimane reale e grave, tanto da compromettere la qualità della vita di coloro che ne soffrono. Ciononostante, non tutte reagiscono negativamente alla diagnosi di epilessia, come dimostrato da uno studio condotto da Schneider e Conrad. Vediamo così che le persone che rientrano nel secondo gruppo dichiarano di essere oppresse dall'epilessia e vedono la loro situazione come un limite o addirittura come motivo di esclusione da importanti risorse personali e sociali, dal momento che essa influisce negativamente sulla loro educazione, sulla possibilità di trovare un'occupazione, di sposarsi e avere una vita familiare, 9 ostacolando- ne la felicità. La versione estrema di questo adattamento negativo è costituita da coloro che si lasciano definire totalmente dall'epilessia, nel senso che l'intero concetto di sé ruota intorno alla malattia. A questo punto della nostra analisi vale la pena soffermarci su un'interessante ricerca condotta da Jacoby e collaboratori in cui la qualità della vita di persone con un nuovo esordio di epilessia è stata monitorata in maniera prospettica. Considerando il fatto che a queste persone era stata appena diagnosticata l'epilessia e che non avevano avuto ancora modo di sperimentare che cosa volesse dire essere epilettici, questi risultati suggeriscono un interessante processo. Essere convinti del fatto che la diagnosi di epilessia cambierà in negativo l'atteggiamento degli altri nei propri confronti può essere forte al punto tale da far sentire ad alcune persone tutto il peso dello stigma addirittura poco dopo aver ricevuto la diagnosi e, quindi, senza aver avuto ancora modo di sperimentare realmente che cosa voglia dire essere considerate epilettiche. Dai risultati è emerso che la percezione dello stigma, misurata attraverso il questionario, si accompagnava alla percezione di impotenza, depressione e ansia, oltre che alla presenza di sintomi somatici. Inoltre, maggiore era la percezione di essere stigmatizzati, minore è risultato il livello di autostima e il grado di soddisfazione circa la propria vita. Non c'è dubbio, quindi, che la relazione tra stigma e psicopatologia è chiaramente supportata dai risultati della ricerca scientifica. A titolo di esempio, vediamo che la percezione di essere stigmatizzato per la propria epilessia è risultata associata con il sentirsi impotenti, depressi, ansiosi, con un basso livello di autostima e con l'essere poco soddisfatti della vita in generale, oltre che con la presenza di sintomi somatici. In un altro studio basato su un campione di adolescenti, si è visto che la loro bassa autostima correlava con la percezione dello stigma, ma anche con il tipo di crisi e la loro frequenza. In una ricerca che ha coinvolto più di 5000 persone con epilessia in tutta Europa , più della metà dei partecipanti riferiva di sentirsi stigmatizzata. In più, lo stigma percepito era associato con preoccupazioni, problemi di salute fisica e sentimenti negativi nei confronti della vita. Inoltre, è emerso che la relazione tra percezioni dello stigma e qualità della vita è complessivamente forte. Di tutti coloro che si sentivano stigmatizzati, solo il venti per cento si definiva felice della propria vita in generale, mentre uno sconvolgente ottanta per cento descriveva la propria vita come terribile. Un altro risultato interessante dello stesso studio riguarda la variabilità culturale riscontrata nella percezione dello stigma. Suggeriscono inoltre l'importanza di analizzare quali possibili differenze culturali contribuiscono a spiegare diversi livelli di percezione dello stigma. La maggior parte degli studi iniziali sull'epilessia, che costituiscono un indirizzo di ricerca peraltro ancora attuale, si sono focalizzati sull'indagine dei correlati psicopatologici del disturbo. Questa scelta è stata dettata soprattutto dal fatto che l'epilessia è la più comune malattia neurologica nell'infanzia e la sua prevalenza nei bambini è intorno allo 0,5%. I BAMBINI: È ampiamente provato che i bambini con epilessia presentano un ri- schio maggiore di psicopatologia. Studi epidemiologici condotti sull'isola di Wight che hanno valutato una vasta gamma di disturbi nell'apprendimento, psichiatrici e fisici in relazione ai risultati conseguiti a scuola e ai comportamenti messi in atto hanno trovato che il 28,6% dei bambini con epilessia non complicata hanno disturbi psichiatrici rispetto al 6,6% dei bambini dalla popolazione generale. Più recentemente, si è riscontrato che i bambini con epilessia hanno un rischio di sviluppare psicopatologia cinque volte maggiore rispetto ai bambini nella popolazione generale. Un quadro simile è però emerso anche con bambini affetti da altri disturbi cronici come asma e con bambini affetti da altre patologie croniche in generale. Diversamente, specialmente bambini con una nuova diagnosi di epilessia hanno mostrato di avere un rischio maggiore per disturbi di iperattività e dell'attenzione , problemi che risultano presenti anche nel 30% dei bambini con un'epilessia semplice, così come nel 25% degli adolescenti con epilessia. Tutti questi studi suggeriscono che questi bambini sono maggiormente a rischio di presentare tutto l'insieme di psicopatologie sopra menzionate, ma i disturbi somatici, i deficit dell'attenzione e i problemi relativi alla sfera sociale risultano essere i sintomi più salienti. Tenendo conto di ciò, alcuni studiosi sono dell'idea che la psicopatologia nei bambini con epilessia sembra essere in parte attribuibile all'epilessia stessa, in quanto condizione cronica, come dimostrato dal fatto che sono stati riscontrati maggiori disturbi comportamentali in bambini con epilessia cronica rispetto a bambini con nuova diagnosi di epilessia. Oltre alla cronicità, appaiono rilevanti altre variabili proprie 10 dell'epilessia, come per esempio una precoce comparsa delle crisi, un'alta frequenza, anomalie parziali o focali dell'EEG, combinazioni di farmaci nel trattamento. Per prima cosa, la giovane età di esordio e la frequenza delle crisi sono indicative di un danno neurologico, condizione che può incrementare il rischio di sviluppare un disturbo psichiatrico. Inoltre, un'alta frequenza di crisi e anormalità focali dell'EEG sono associate rispettivamente alla sindrome di Len- nox-Gastaut e a crisi parziali complesse, condizioni entrambe note per la loro prognosi relativamente infausta. Oltretutto il trattamento prolungato necessario per questi tipi di epilessia aumenta indirettamente la probabilità di problemi psicologici nei bambini e nelle loro famiglie. Infine, anche l'isolamento sociale, tipico del bambino con epilessia, che spesso comporta lo sviluppo di sintomi emotivo-comportamentali, può causare una diminuzione della sua autostima. In altri termini, invece di supporre una relazione diretta tra epilessia e problemi di tipo psicologico o psichiatrico, un approccio più recente riconosce l'importanza di altri fattori che potrebbero spiegare l'insorgenza di tali problemi. In particolare, ciò che si tende a pensare è che i vari correlati comportamentali, emotivi e di personalità dell'epilessia siano il risultato del processo di adattamento alla malattia. Le ragioni sottese a questi presunti risultati possono essere imputate a: 1. fattori neurologici che includono il tipo di crisi e le cause sottostanti, la loro frequenza e il livello di gravità, nonché l'età dell'esordio e la durata della condizione; 2. fattori psicosociali manifestati dal grado di stress sperimentato, dallo stigma percepito e dalla discriminazione sociale incontrata; 3. il grado di controllo che la persona pensa di avere sulle crisi, associato ad ansia e preoccupazione circa la propria condizione di malattia e la percezione della qualità della propria vita soprattutto nel futuro. In questa prospettiva, ci soffermeremo ora su due tipologie di pazienti con epilessia, distinti in base all'età: da una parte gli anziani, dall'altra, gli adolescenti e i giovani adulti. Il grado di controllo che la persona pensa di avere sulle crisi, associato ad ansia e preoccupazione circa la propria condizione di malattia e la percezione della qualità della propria vita soprattutto nel futuro. GLI ANZIANI: Nonostante la consapevolezza di un'aumentata prevalenza dell'epilessia dopo i sessant'anni di età, l'interesse per gli anziani, da parte degli studiosi, è limitato e relativamente recente, anche se alcuni studi epidemiologici hanno mostrato che essa ha un enorme impatto sulla salute degli anziani, dopo i problemi cardiologici e la demenza. Anche nel loro caso, comunque, l'epilessia può avere un impatto sulla qualità della vita. Per quanto riguarda in modo specifico l'impatto dell'epilessia sulla vita di tutti i giorni, è interessante notare che emergono delle differenze dovute sia all'età specifica , sia all'età della diagnosi. Nel caso delle persone relativamente più giovani, l'epilessia ha un peso maggiore sul tipo di lavoro che possono svolgere, sui progetti e le ambizioni per il futuro, sulle attività sociali e sulle relazioni con i membri della famiglia, rispetto a quanti hanno invece superato i 60 e anche i 65 anni d'età. È importante precisare comunque che anche se l'epilessia negli anziani non ha un impatto rilevante sulla qualità della vita di per sé, l'età in cui viene fatta la diagnosi è invece cruciale. Sembra infatti che tra quanti superano i 60-65 anni d'età e hanno avuto una diagnosi più precoce, l'impatto sugli aspetti sopra menzionati è maggiore rispetto a quanti hanno la stessa età, ma hanno ricevuto una diagnosi di epilessia intorno ai 60 anni. GLI ADOLESCENTI E I GIOVANI ADULTI: L'adolescenza e l'inizio dell'età adulta o giovane età costituiscono un periodo della vita caratterizzato da un notevole sviluppo psicologico e sociale, a cui spesso si associano problemi con i genitori e nelle relazioni con i coetanei. Di conseguenza, un evento della vita così importante, come l'esordio di una malattia cronica, che si verifica a questa età può avere una forte influenza sullo sviluppo dell'identità personale e sull'immagine che un adolescente o un giovane adulto hanno di sé, così come può comportare numerosi problemi a livello psicologico e comportamentale. Doversi sottoporre a controlli medici con regolarità, prendere farmaci con i loro effetti collaterali, essere costretti ad assentarsi da scuola per motivi di malattia, sono tutti fattori che potenzialmente possono lasciare un segno sulla giovane persona con una malattia cronica. L'epilessia in particolare, poi, a causa dello stigma che la caratterizza, può indurre facilmente la sensazione di essere messo da parte, di essere isolato dai coetanei. 11 Una tale sensazione, in un'età in cui l'accettazione da parte dei coetanei è così vitale, può suscitare frustrazione, risentimento e, più in generale, problemi di adattamento alla propria malattia e relativi alla sua gestione. I giovani con epilessia possono anche andare incontro a pro- blemi di tipo relazionale, sia all'interno della famiglia, come vedremo me- glio in seguito, sia nelle relazioni con l'altro sesso che, soprattutto nel pe- riodo adolescenziale, assumono una particolare importanza. Può capitare, comunque che in tempi di crisi economica, i datori di lavoro preferiscano scegliere le persone che sono in buone condizioni di salute, piuttosto che assumere qualcuno che presenta delle malattie, tra cui l'epilessia. Molti adolescenti, poi, sono già consapevoli del pregiudizio e della di- scriminazione a cui sono sottoposti, perché ne hanno fatto già esperienza, soprattutto con i coetanei e, più frequentemente, quando andavano a scuola. Dopo aver avuto una crisi in questo contesto, possono essere oggetto di bullismo, maggiormente nelle scuole secondarie, rispetto a quelle primarie. Si tratta di un insieme di atteggiamenti che, ovviamente, causano molta sofferenza nei giovani con epilessia, ma anche frustrazione e rabbia, soprattutto inespressa, dal momento che raramente essi si rivolgono agli insegnanti per cercare di frenare gli atteggiamenti negativi dei loro compagni. Assistere a una crisi senza sapere che cosa sta succedendo alla persona, né come prestare eventualmente aiuto può essere sconvolgente e dar luogo, pertanto, a una reazione di difesa della propria tranquillità emotiva, quale può essere appunto prendere le distanze dalle persone con epilessia, assumendo un atteggiamento di superiorità e, nello stesso tempo, cercando di sdrammatizzare la loro condizione potenzialmente ansiogena, attraverso la presa in giro. A volte, però, le relazioni sociali dei giovani con epilessia sono circoscritte proprio a pochi amici intimi, soprattutto a causa di alcune limitazioni, come quelle relative alla guida di un'automobile e/o all'uso di alcolici. In questi casi, si tratta di giovani che si sentono accettati dal gruppo di coetanei e che, insieme al gruppo, fanno sport, vanno al cinema insieme e anche ai pub. Ovviamente, si tratta di giovani che sono seguiti dal punto di vista medico, che non hanno diagnosi molto gravi e, soprattutto, che riescono a vivere bene con la loro malattia. Talvolta il senso di frustrazione prende il sopravvento, così come si fa sentire la rabbia, oppure sopraggiunge la vergogna quando si ha una crisi e ci si trova tra estranei. Se poi si aggiungono anche difficoltà nella concentrazione o nella memoria, la tendenza a chiedersi «perché è capitato proprio a me?» diventa quasi inevitabile. Certo, avere l'epilessia indubbiamente può cambiare la vita di una persona, sin dalla giovane età. Per questo risulta particolarmente importante sentire intorno a sé un ambiente che incoraggia le persone con epilessia, giovani o anziane che siano, ad affrontare in modo positivo la propria condizione, soprattutto all'interno della famiglia, anche se ciò non sempre si verifica, un aspetto su cui ritorneremo. Il rischio, altrimenti, è quello di aggiungere ai problemi di tipo medico, ulteriori problemi a livello psicologico, relativi a un cattivo adattamento alla propria condizione, come vedremo nelle pagine che seguono. Come suggerito da esperti le radici dei problemi psico-sociali di adattamento all'epilessia possono essere ricondotte a quattro principali categorie: 1. L'ansia e le preoccupazioni riguardo l'imprevedibilità e la mancanza di controllo associati alla diagnosi; 2. Lo Stigma percepito e la discriminazione associate all'etichetta diagnostica di epilessia; 3. Un aumento dell'impatto di eventi stressanti propri della condizione di epilessia; 4. Tutte quelle conseguenze riguardanti la salute, derivanti dalla negazione della propria condizione. Nonostante recenti scoperte in campo farmaceutico che hanno reso le crisi epilettiche maggiormente controllabili, come vedremo nella seconda parte del volume, esiste ancora un'intensa componente di imprevedibilità nella loro cura. Ciò che contraddistingue la natura dell'epilessia è ancora assimilato a uno sconvolgimento che è episodico, imprevedibile e per molti individui ancora incontrollabile. Si tratta di una perdita che indubbiamente aumenta i livelli di ansia e paura in generale, così come attiva paure molto più specifiche che sono collegate a particolari situazioni, come per esempio la paura di avere una crisi in un luogo pubblico e di trovarsi in una condizione imbarazzante, la paura di provocarsi dei danni fisici, di andare incontro a forti stati emotivi, l'angoscia relativa alla perdita del 12 lavoro e, infine, anche la paura della morte. Al contrario, pensare di poter prevedere e controllare le crisi gioca un ruolo fondamentale nel funzionamento psicosociale, dal momento che chi pensa di avere scarso controllo va maggiormente incontro al rischio di comportamenti che sono espressione di disadattamento in diversi ambiti della vita, comprese le relazioni interpersonali e il successo scolastico. Senza dimenticare, poi, che l'epilessia è stata spesso considerata come una delle condizioni mediche più stigmatizzanti, come abbiamo visto nella prima parte del capitolo. Passando a esaminare gli eventi stressanti scatenati dall'epilessia, vediamo che essi includono un'ampia gamma di situazioni come per esempio la necessità di seguire una terapia medica rigida, l'aumento della perdita di memoria, l'impossibilità di ottenere la patente di guida, le difficoltà nell'ottenere un'assicurazione sulla vita, nonché numerose limitazioni imposte a molte attività quotidiane. A queste situazioni che presentano un'elevata valenza negativa, dobbiamo aggiungere anche la frustrazione provata quando i pazienti pensano che i farmaci siano inefficaci nel curare le crisi e che, nello stesso tempo, possono avere pericolosi effetti collaterali. Un'ulteriore categoria di situazioni stressanti si caratterizza per la valenza più squisitamente relazionale e include il timore del pregiudizio nei propri confronti, l'iperprotettività da parte di parenti e amici, la dipendenza dagli altri, il rifiuto da parte della società, le restrizioni imposte sul consumo di alcool, la paura per i propri figli che potrebbero avere una predisposizione alla malattia e la paura di avere attività sessuali. A sostegno del ruolo giocato dagli eventi stressanti sulla salute psicologica delle persone con epilessia alcuni studi hanno riscontrato che maggiore è il numero di eventi stressanti , maggiore è il livello di psicopatologia, così come è maggiore la depressione. La negazione delle implicazioni della malattia. Più volte è stata sottolineata una tendenza abbastanza diffusa tra le persone con l'epilessia, vale a dire la negazione delle implicazioni connesse con la malattia. Negli ultimi 15 anni, si è sviluppato un interesse crescente, da parte degli studiosi dell'epilessia, per il ruolo giocato dalle strategie di coping (letteralmente "farcela con") nell'adattamento agli stress quotidiani generati dalla malattia e dalle sue vicissitudini, vale a dire l'insieme di processi cognitivi e comportamenti che possono aiutare a superare positivamente lo stress. Vale la pena menzionare la distinzione operata da Lazarus e collaboratori tra due principali tipi di coping: il coping focalizzato sul problema, che mira ad eliminare o ridurre l'evento stressante; il coping centrato sull'emozione, vale a dire sugli sforzi diretti alla regolazione emotiva o alle risposte emozionali all'evento stressante. Più recentemente è stato proposto un terzo tipo, ovvero il coping orientato all'evitamento, visto come l'insieme di sforzi che il soggetto compie al fine di evitare una situazione stressante. Viceversa, dati ottenuti sulla relazione tra strategie di coping come per esempio la ricerca della fede, l'accettazione della condizione, l'adattamento psicosociale a disturbi che minacciano la sopravvivenza, forniscono risultati differenti. Tra i motivi di questi risultati contraddittori vi è il fatto che i criteri adottati per la misurazione dell'adattamento non sono spesso chiari. Queste includono misure di: sofferenza psicologica o emotiva (per esempio depressione, ansia); percezione del proprio stato di benessere e grado di soddisfazione della propria vita; percezione della qualità della vita; livello di autostima; accettazione della propria condizione; soddisfazione relative alle relazioni famigliari e sociali; soddisfazione relativa al lavoro e alla stabilità lavorativa. Anche se gli studi sulle strategie di coping relative all'epilessia sono piuttosto scarsi, nell'adattamento psicosociale relativo a questa malattia di solito si rintracciano cinque stili: essi includono l'intraprendenza appresa, lo stile di risoluzione dei problemi, l'auto efficacia, il centro del controllo e la propensione a rivelare l'esistenza della propria condizione. Essi includono l'intraprendenza appresa, lo stile di risoluzione dei problemi, l'autoefficacia, il centro del controllo o locus of control e la propensione a rivelare l'esistenza della propria condizione. In uno studio riguardante il ruolo svolto dall'impotenza appresa e, viceversa, dall'intraprendenza appresa per 13 far fronte all'epilessia, Rosenbaum e Palmon hanno riferito che, nel loro campione di 50 pazienti ambulatoriali con diagnosi di epilessia, i partecipanti che erano stati molto intraprendenti erano anche meno ansiosi e depressi e segnalavano una maggiore accettazione della loro condizione, rispetto a coloro che erano stati meno intraprendenti. Questi risultati, però, valevano solo per gli intervistati con bassa o media frequenza delle crisi, che erano anche fortemente convinti della propria capacità di controllare e del loro stato di salute in generale. Snyder ha cercato di indagare i rapporti tra capacità di risoluzione dei problemi e adattamento psicosociale all'epilessia. I risultati hanno evidenziato che maggiore è la capacità di risoluzione dei problemi, migliore è la percezione del proprio stato di salute, minore è il livello di ansia che le persone con epilessia provano. Nella sua teoria sull'autoefficacia percepita, Bandura sostiene che la valutazione individuale della propria capacità di eseguire compiti specifici è un fattore cruciale nello svolgimento di un compito. Tedman et al hanno sviluppato una scala per misurare l'autoefficacia percepita che si concentrava sulle credenze fondamentali circa la percezione di adattabilità e sulle conoscenze riguardo l'epilessia e le sue conseguenze da parte dei partecipanti a una ricerca. È interessante a questo proposito uno studio su pazienti con crisi intrattabili in cui Hermann e Wyler hanno trovato che maggiore era la convinzione che la propria condizione era determinata da cause di forza maggiore, maggiore era il livello di depressione. Questi risultati, insieme a quelli di uno studio precedente sempre su pazienti con crisi intrattabili, sono interessanti perché mostrano che credere che gli eventi della propria vita, soprattutto legati all'epilessia, siano determinati da fattori esterni e non dal proprio impegno, nonché comportamento si accompagna facilmente alla depressione, a uno stato di impotenza e di ansia. Su questa base, questa modalità di coping viene considerata inefficace, nel senso che non favorisce, anzi ostacola l'adattamento psicosociale. Per verificare l'utilità di questo approccio, è stato chiesto a dei pazienti ambulatoriali affetti da epilessia quanto erano disponibili a rivelare la propria malattia in diversi contesti sociali. I risultati suggeriscono che più forte è la volontà di rivelare, minore è la tendenza a prevedere conseguenze sociali negative, maggiore è la gravità percepita dell'epilessia. L'autore della ricerca ha concluso che nel campione non esisteva nessuna strategia di coping generalizzata volta all'occultamento della malattia. Piuttosto, la decisione inerente quando e come rivelarsi era determinata in gran parte da preoccupazioni concrete legate ai contesti specifici in cui si trovavano le persone. Nelle strategie di disimpegno la persona tenta di svincolare se stessa dalla malattia e dall'interazione con l'ambiente. Fantasie positive →. Si tratta, generalmente, di fantasie che esaudiscono il desiderio di stare bene, nel tentativo di ridurre le emozioni negative, distraendo i propri pensieri dal problema. In realtà , non sembra affatto una strategia efficace di adattamento, dal momento che, di fatto, non aiuta ad accettare in modo positivo la propria condizione, ma si rivela, piuttosto, come un modo di dimenticarla. Di conseguenza, essa spesso si accompagna ad ansia, depressione e bassa autostima. Evitamento → È un insieme di strategie volte a evitare persone, situazioni e compiti. Anche questa strategia ha un effetto piuttosto negativo sul benessere psicologico e risulta più frequente tra coloro che vedono la propria malattia come grave e che risentono negativamente dello stigma e della discriminazione da parte degli altri. Negazione → La negazione dell'epilessia, come discusso in precedenza, pone un problema importante nella vita delle persone con questa malattia. In particolare, di solito si rintracciano due tipi di negazione: il rifiuto cognitivo, che si manifesta per esempio nel minimizzare la diagnosi e la prognosi, nell'evitare accuratamente di cercare informazioni; il rifiuto emotivo, come per esempio, l'assenza di ansia, la negazione della depressione, della rabbia e della paura della morte. Coping palliativo.-→ Anche se tradizionalmente non è incluso tra le strategie di coping, il coping palliativo è una strategia generalizzata che combina reazioni quali la ricerca di divertimenti, fumare, bere, rilassarsi, evitare situazioni problematiche e fare ricorso a pensieri confortanti. Esso sembra abbastanza diffuso tra i pazienti per far fronte ai loro problemi psicologici. Queste conclusioni, tuttavia, devono essere interpretate con cautela, considerando il fatto che il coping palliativo non è una strategia di coping unica, ma piuttosto un agglomerato di diverse modalità. Religiosità → Ricorrere alla religione è un atteggiamento considerato come una forma di disimpegno 14 da una diretta e attiva gestione dei problemi per ricercare conforto e ricorrere alla preghiera al fine di cambiare la propria condizione o ridurre al minimo l'impatto della condizione stessa sulla propria vita. Di solito, però, non sembra una strategia efficace, dal momento che si riscontra un aumento dei livelli di depressione in chi ne fa uso. Vediamo così che le strategie centrate sull'impegno includono tutti i tentativi messi in atto dalle persone con epilessia per cercare di gestire attivamente le condizioni inerenti una relazione con l'ambiente particolarmente stressante. Esempi di strategie di questo tipo includono la messa a fuoco del problema che di solito si associa a maggiore benessere psicologico e minore stress in pazienti affetti da epilessia. roviamo poi la ricerca di informazioni, una strategia attiva, orientata ai compiti di ricerca di informazioni mediche e consigli. Infine, un'ulteriore strategia è costituita dalla ristrutturazione cognitiva, che riflette gli sforzi da parte delle persone con epilessia per scoprire gli aspetti positivi della propria condizione e per considerare la condizione stessa come un'opportunità per un'ulteriore crescita. In sintesi, vivere con una malattia cronica come l'epilessia, può indurre nelle persone reazioni diverse e molteplici che, talvolta, sono d'aiuto, altre volte, invece, si rivelano non solo inefficaci, ma addirittura anche dannose. CAPITOLO 4 ASPETTI PROBLEMATICI NELLE RELAZIONI FAMILIARI E INDICAZIONI PER IL BENESSERE PSICOLOGICO Come vedremo nei capitoli seguenti, l'epilessia si caratterizza per la sua natura episodica e nello stesso tempo cronica. Oggi, l'orientamento abbastanza diffuso, anche se non prevalente, è quello di consentire alla persona con epilessia e alla sua famiglia di condurre una vita il più possibile libera dalle complicazioni mediche e psicologiche. Oltre alle crisi, infatti, non vanno dimenticati i fattori psicologici, quelli comportamentali, educativi, sociali e culturali, che influenzano pesantemente la vita delle persone con epilessia, così come la vita di coloro con cui esse hanno una relazione affettiva. Va precisato, tuttavia, che fino a qualche tempo fa, l'interesse degli studiosi per gli aspetti psicosociali dell'epilessia ha riguardato prevalentemente la qualità della vita dei pazienti e il supporto sociale che essi ricevono. Tuttavia la diagnosi di epilessia non ha solo implicazioni sulla persona oggetto della diagnosi, ma ha anche delle conseguenze su tutti i membri della famiglia. Recentemente, numerosi studi hanno rivelato che l'epilessia può causare alti livelli di difficoltà psicologiche per tutti i membri, difficoltà che, come vedremo più avanti, includono la stigmatizzazione, lo stress, un basso livello di autostima, problemi coniugali, restrizioni inerenti i contatti sociali e le relazioni con gli altri. Tanto per fare un esempio, già nel momento in cui un figlio/a riceve una diagnosi di epilessia, soprattutto i genitori e in particolare la madre provano un insieme di emozioni negative, che vanno dalla rabbia, al senso di colpa, alla tristezza e sviluppano un senso di vulnerabilità che si accompagna spesso a una perdita di autostima e talvolta alla depressione. Si tratta di una tendenza riscontrata anche nei genitori di bambini che presentano patologie di tipo genetico, come per esempio la Corea di Huntington , e ciò lascia intuire che la tendenza a colpevolizzarsi, riscontrata nei genitori di bambini epilettici, si basi fondamentalmente sulla credenza secondo cui l'epilessia è ereditaria. Senza dubbio, comunque, sembra che più è negativo l'atteggiamento verso l'epilessia dei figli, maggiore è l'incapacità dei genitori a reagire a essa in senso positivo. Talvolta i genitori pensano che l'epilessia del figlio costituisca un peso in primo luogo per il bambino, dal momento che la malattia comporterebbe, secondo la loro opinione un'intelligenza inferiore alla norma e una tendenza a essere dipendenti dagli altri per via delle crisi. In secondo luogo, l'epilessia è causa di preoccupazione e di disagio per tutta la famiglia, limitandone ogni attività e aumentando le responsabilità dei genitori nei suoi confronti. Questa credenza trae origine da pregiudizi e stereotipi negativi riguardanti l'epilessia, diffusi ancora oggi dappertutto, come già messo in luce nella parte che analizza la natura dello stigma nell'epilessia. È importante aggiungere, poi, che non solo i familiari, ma anche la persona con epilessia risente negativamente dei pregiudizi dei familiari. Le credenze dei genitori riguardanti l'epilessia hanno un contributo critico nel determinare non solo che vuol dire avere l'epilessia, ma anche come i figli malati percepiscono lo stigma. Sembra infatti che coloro che credono che i loro figli saranno stigmatizzati e 15 che pensano che l'epilessia sia un limite riscontrano maggiori problemi comportamentali in questi ultimi. Un ulteriore problema è costituito da quanti si identificano talmente tanto con i figli da pensare che da un momento all'altro anche loro potrebbero avere l'epilessia. Se finora abbiamo esaminato la relazione esistente tra epilessia di un/a figlio/a e benessere psicologico dei genitori e dei suoi familiari più stretti, vale la pena estendere la nostra attenzione anche alle interazioni che si stabiliscono tra loro, dal momento che sembrano giocare un ruolo molto importante per la salute fisica e mentale delle persone con epilessia, a partire dai bambini. Molti studiosi si sono preoccupati di comprendere l'importanza dei fattori familiari nello sviluppo e nel mantenimento della psicopatologia dei bambini con epilessia, utilizzando a tale proposito numerose teorie, come per esempio la teoria dell'apprendimento sociale, che spiega i comportamenti ostili dei bambini come una sorta di aggressione. Essa sarebbe il risultato di un'esposizione ripetuta a comportamenti aggressivi da parte dei familiari, che funzionano come dei modelli, oltre che di un'interazione familiare coercitiva. Troviamo così i fattori prossimali, che includono la qualità della relazione genitore-figlio e il tipo di genitorialità. Con qualità della relazione bambino-genitore si intende una costellazione di atteggiamenti propri della figura genitoriale, costruiti lungo la storia di interazioni tra genitore e figlio, come per esempio il rifiuto, oppure l'accettazione e l'attaccamento del genitore verso il bambino. In particolare, il supporto riflette il grado in cui il genitore riesce a creare un ambiente caldo, sicuro e amorevole per il bambino e include concetti come calore genitoriale, sicurezza, reattività e capacità di allevare i figli. Il concetto di controllo familiare fa riferimento alla trasmissione di valori e conoscenze per creare e rinforzare regole e norme e alla supervisione delle attività del bambino, comprendendo concetti come definizione del limite, ragionamento e supervisione. Il controllo psicologico, si tratta di un tipo di controllo, che interferisce con i bisogni emotivi e di sviluppo psicologico del bambino, con la sua autonomia e con le sue interazioni sociali con gli altri Il controllo autorevole, può essere definito come una pratica genitoriale caratterizzata da regole chiare, limitazioni stabili che non risultano troppo restrittive e una comunicazione bidirezionale, che va dal genitore al bambino e viceversa. Il controllo autoritario, è caratterizzato da una rigida disciplina e da un estremo rigore nel far rispettare le regole e dall'assenza di comunicazione bidirezionale. I risultati di alcune ricerche mostrano che i genitori che adottano un comportamento basato sul controllo autoritario hanno figli che presentano alti livelli di psicopatologia. Le ricerche condotte in questa prospettiva hanno messo in luce che i genitori di bambini con epilessia si dimostrano meno affettuosi, meno interessati alle prestazioni del figlio e meno stimolanti. È pur vero, però, che molti genitori sono visti come severi e autoritari, nel senso che pongono delle restrizioni inerenti alcune attività dei figli, come per esempio andare a nuotare, ma soprattutto sono le richieste inerenti uscire la notte con gli amici che spesso vanno incontro a rifiuti. È così, quando un adolescente vuole andare fuori con amici che i genitori non conoscono o al pub, dove è probabile che possano bere alcool, insorgono spesso conflitti con i genitori, situazioni che lasciano gli adolescenti in uno stato di frustrazione e di rabbia. Per cominciare, vediamo che gli studiosi non hanno notato alcuna relazione tra il maggior livello di coinvolgimento emotivo dei genitori verso i figli con epilessia, rispetto agli altri figli e il verificarsi di problematiche psicologiche. Al contrario, più le madri esprimono lodi e apprezzamenti, più bassa è la probabilità che i figli manifestino nevrosi, problemi somatici e depressione. Esse comprendono il loro livello di depressione e di ansia, le loro credenze circa la malattia e il modo in cui l'affrontano. Per cominciare, vediamo che una percentuale relativamente alta di madri , è affetta da depressione moderata , mentre il loro livello di ansia rientra nella normalità. Mettendo a confronto bambini con nuove diagnosi di epilessia e bambini con epilessia cronica è emerso che le madri di questi ultimi presentano livelli più alti di disturbi psichiatrici. A dir il vero, la relazione tra l'ansia dei genitori e i problemi psicologici dei figli non è stata ancora chiaramente compresa. Per esempio, una possibile spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che l'ansia spesso comporta una restrizione nelle attività svolte sia dal figlio malato che dai membri della famiglia, dando luogo in molti casi a un deterioramento nella qualità della vita sia del figlio che della famiglia nell'insieme. Oltre a ciò, genitori con alti livelli di ansia riguardante le condizioni di salute del figlio possono trasmettere la loro ansia, con conseguenze psicologiche negative. 16 In questa prospettiva, sono state condotte numerose ricerche i cui risultati suggeriscono che un numero significativo di madri tendono a esprimere apprensione e ansia per l'epilessia dei figli, oltre che per i problemi a scuola , anche per l'eventualità di non trovare un impiego nel futuro. Meno numerose sono invece le madri che si preoccupano che il proprio figlio possa morire durante una crisi, una paura che, per alcune di esse, si è dimostrata reale. Ovviamente, più grave è l'epilessia dei figli e maggiore è il livello di ansia delle madri. Troviamo poi le aspettative dei genitori inerenti i figli con epilessia, come per esempio il successo scolastico o la capacità di farsi amicizie. A questo proposito, notiamo che, nella maggior parte dei casi, essi si aspettano molto meno dai figli con epilessia rispetto a quanto si aspettano dai figli sani, anche relativamente a delle aspettative più in generale. Quando poi i genitori si separano, è più probabile che il figlio con epilessia sviluppi problemi antisociali, aggressività, disturbi dell'attenzione, ansia, depressione e isolamento sociale e disturbi somatici. Particolarmente influenti in questo senso sono anche i conflitti che si verificano tra i membri della famiglia e il livello di supporto sociale ricevuto, che, di solito, risulta piuttosto carente, anche da parte dei membri della famiglia allargata. Entrambi questi aspetti si rintracciano nelle famiglie in cui i figli con epilessia presentano disturbi comportamentali e depressione. Si viene a creare, così, una sorta di circolo vizioso, in cui la condizione di epilessia causa uno stato di stress a livello individuale, che porta la persona a reagire con rabbia e ostilità verso gli altri. È importante essere consapevoli del fatto che esso può essere comunque interrotto attraverso un insieme di interventi sui membri della famiglia, al fine di indurre un cambiamento nei loro atteggiamenti o comportamenti, e, da qui, produrre un miglioramento nelle condizioni di vita di tutta la famiglia nel suo insieme, come vedremo in seguito. È ormai ampiamente riconosciuto che l'epilessia ha un effetto negativo sulla qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie. In queste pagine cercheremo di capire innanzitutto in che modo essi considerano la malattia, i loro atteggiamenti di accettazione o, viceversa, di rifiuto, la percezione dello stigma, come essa si inserisce all'interno delle loro relazioni con i genitori e con il fratello e/o la sorella malati. Vediamo così che l'epilessia è una malattia che comincia di solito nell'infanzia e la percezione che ne hanno i bambini ha spesso una connotazione negativa. Se i bambini credono che i fratelli o le sorelle con epilessia, ma senza ritardo mentale, sono diversi dai loro coetanei, quelli che hanno un fratello o sorella con ritardo mentale lo credono ancora di più e, in quest'ultimo caso, la loro preoccupazione maggiore riguarda l'eventualità di una crisi. Ciò nondimeno, al contrario dei genitori che tentano di nascondere la patologia dei figli, i bambini riescono a comunicare agli altri di avere un fratello o una sorella malati. Inoltre, può sembrare sorprendente, ma confidare a qualcuno che il proprio fratello o sorella ha delle crisi, solitamente fa sentire i bambini maggiormente a loro agio, così come li fa sentire meglio sapere che la crisi è sotto controllo. In quest'ultimo caso, sembrano non preoccuparsene proprio, ma piuttosto tendono a credere che le crisi non siano un impedimento per i risultati scolastici del fratello/sorella malato/a, né sia fonte di sofferenza per lui/lei, mentre la diagnosi di epilessia di solito fa vergognare solo una piccola percentuale. Viceversa, con l'aumentare dell'età, gli adolescenti cominciano ad av- vertire maggiormente gli effetti dello stigma e, di conseguenza, la malattia dei fratelli diviene un problema molto sentito, tanto da indurli a una spic- cata reticenza a comunicare ai loro amici di avere un fratello con epilessia. Questa tendenza può essere compresa se pensiamo che gli adolescenti considerano l'epilessia una condizione con delle conseguenze a livello fisico molto più gravi rispetto all'asma, al diabete, alla leucemia, e anche alle malattie da contagio. Solo la sindrome di Down è considerata più debilitante dell'epilessia, contrariamente a quanto credono le persone con epilessia, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Questo comportamento si spiega se pensiamo che una crisi epilettica è tra gli eventi più paurosi a cui un bambino o una bambina possano assistere, tanto da originare un atteggiamento di eccessiva protezione verso il familiare con epilessia. Ciononostante, alcune ricerche hanno mostrato che i fratelli dei bambini malati nella maggior parte dei casi sanno come comportarsi nell'eventualità di una crisi, mettendo in atto una sorta di procedura standard insegnata loro dai genitori, ma ciò non esclude il fatto che essi siano sempre molto spaventati durante il suo decorso. Diversamente, altre ricerche hanno rivelato che i bambini e gli adolescenti che hanno fratelli con epilessia cronica esprimono spesso apprensione per non sapere che tipo di aiuto dare durante una crisi. 17 In ogni caso, è interessante notare che le paure dei bambini e degli adolescenti con un familiare malato sono simili alle paure espresse dagli adolescenti con epilessia, come abbiamo visto in precedenza. Ciò non toglie, tuttavia, che avere un fratello o una sorella malati di epilessia possa causare sicuramente un'enorme tristezza negli altri figli, tanto è vero che alcune ricerche hanno evidenziato che essi presentano un rischio maggiore di sviluppare psicopatologia, se messi a confronto con i bambini nella popolazione generale. Un'altra possibilità prospettata dai ricercatori è quella secondo cui i fratelli sono a rischio di problemi psicologici, perché spesso i genitori prestano loro scarsa attenzione, dal momento che, generalmente sono tutti concentrati a gestire il figlio malato. Sembra, infatti, che spesso sono più gli insegnanti a rendersi conto delle difficoltà presentate dai fratelli del bambino con epilessia, piuttosto che i genitori. È importante precisare, comunque, che in molte ricerche si è dato per scontato che le conseguenze sui fratelli dell'epilessia di un familiare sono sempre negative, anche se ricerche più recenti, come vedremo tra poco, hanno messo in discussione questo presupposto. Spesso, infatti, non c'è una relazione lineare tra le problematiche dei fratelli e l'epilessia, ma altri fattori possono intervenire, come per esempio la presenza di condizioni economiche disagiate. Per tutti questi motivi, dopo una diagnosi di epilessia, dovrebbe essere sempre offerta la possibilità al paziente e anche alla sua famiglia di ricevere quanto meno un sostegno psicologico. Questa considerazione ci porta a sottolineare l'importanza del ruolo svolto dalla psicologia e dalle scienze sociali nella cura delle persone con epilessia e dei loro familiari, un aspetto su cui vale la pena soffermarci. Nei paesi sviluppati, diversamente dai paesi in via di sviluppo, la maggior parte delle persone con epilessia mantiene un buon controllo sulle crisi e riceve le cure dalle strutture mediche di base o dai neurologi. Le scienze sociali e soprattutto la psicologia possiedono conoscenze e strumenti in grado di migliorare la vita delle persone affette da epilessia. In ogni caso risulta utile conoscere quali sono le conoscenze attuali dei pazienti, al fine di fare emergere eventuali credenze sbagliate e influenzate dagli stereotipi sull'epilessia, per poter poi intervenire adeguatamente su di esse. È ormai ampiamente dimostrato, infatti, che una corretta comprensione della propria malattia ha un'influenza molto positiva sul modo in cui le persone con epilessia si avvicinano e reagiscono alle varie situazioni stressanti della vita e sulle loro capacità di adattamento psico- sociale alla loro condizione. Va precisato, tuttavia, che se da una parte c'è riluttanza, dall'altra, sia il paziente sia la famiglia esprimono senza ombra di dubbio il bisogno di parlare della propria malattia e di ricevere supporto da personale specializzato, soprattutto dopo aver ricevuto la diagnosi. Questo bisogno può essere soddisfatto attraverso interventi di sostegno psicologico, che possono aiutare a rafforzare l'autostima e a definire degli obiettivi realistici, nonché a pianificare la propria vita in modo appropriato. In più, coinvolgere i pazienti nel farsi sì che i cambiamenti desiderati nella propria vita si realizzino può essere di grande aiuto nel ridurre la loro percezione di impotenza e nel contenere lo sviluppo di una depressione. A questo proposito la letteratura sul coping suggerisce che le strategie di impegno, di risoluzione dei problemi e di ristrutturazione cognitiva si rivelano molto efficaci per un migliore adattamento psicosociale, rispetto alle strategie di disimpegno, come per esempio le fantasie positive e l'evitamento. Si potrebbero realizzare programmi di formazione sulle competenze cognitivo-comportamentali per aiutare le persone con epilessia a perseguire obiettivi personali, sociali e, eventualmente, obiettivi professionali. I primi potrebbero concentrarsi su settori quali la gestione delle crisi, la riduzione dello stigma e la percezione del controllo personale. Per quanto riguarda, invece, l'opportunità di intervenire attraverso gruppi di supporto o di auto-aiuto, sembra che i pazienti non siano molto propensi a iniziare e, soprattutto, a portare avanti esperienze di questo tipo, perché considerate inappropriate ai loro bisogni e talvolta addirittura dannose. Secondo l'opinione espressa da alcuni pazienti intervistati nel corso di una ricerca, il gruppo tendeva a sottolineare gli aspetti negativi della malattia, un atteggiamento che non li faceva sentire affatto incoraggiati a vivere una vita «normale». Inoltre, molti dei partecipanti a questa ricerca hanno dichiarato di non avere alcun desiderio di essere equiparato a chi stava vivendo dei problemi con la propria malattia, ma di preferire piuttosto il confronto con chi poteva insegnare 18 loro a superare eventuali problemi. Una sfida per queste persone potrebbe essere proprio riuscire a parlare della propria esperienza che, una volta condivisa, potrebbe funzionare come una sorta di modello positivo a cui tutte le persone con epilessia possono guardare per migliorare la propria condizione. Tutto questo ha importanti implicazioni per la riabilitazione e per tutti coloro che lavorano per queste persone. In ogni caso, fino a quando la comunità non avrà almeno una conoscenza di base dell'epilessia e non avrà più paura di una malattia tanto diffusa, lo Stigma continuerà ad esistere e a rappresentare una sfida per la persona, così come costituiscono una sfida continua le sue crisi. CAPITOLO 5 LA NARRAZIONE DELL’ESPERIENZA DELLA MALATTIA Questo capitolo è dedicato alla narrazione delle esperienze di quattro pazienti, ognuno con diverso quadro di epilessia, ognuno con differente atteggiamento mentale, ognuno con disuguale capacità di accettazione della malattia. Riccardo È la storia di un quattordicenne, Riccardo, figlio di genitori entrambi medici, che una mattina di ottobre del 2000, tornando da scuola è investito da un'auto pirata davanti la soglia di casa. Nonostante il quadro clinico poco confortante, la speranza e la tenacia di Riccardo e dei genitori, dopo tanti mesi di attesa, è premiata e comincia un lento e graduale recupero, con i miglioramenti di Riccardo e l'inizio della terapia riabilitativa. Finalmente per Riccardo arriva la conclusione delle sue lunghe e infinite giornate vuote nella stanzetta di un ospedale, finisce il calvario della sofferenza e torna nuovamente a casa. Da buon medico del pronto soccorso, riconosce le assenze del figlio e nonostante Riccardo assuma il fenobarbital a dosaggio terapeutico, mi chiede che cosa fare. Comincia così il percorso EEG, che mostra anomalie irritative in temporale sinistro e la valutazione complessiva di assenze atipiche sintomatiche comporta per Riccardo un cambio di terapia lento e graduale con carbamazepina e poi, con l'introduzione del topiramato, la sospensione del barbiturico. Certo le assenze si riducevano sensibilmente con la terapia e Riccardo migliorava ogni giorno di più. Riccardo voleva o meglio desiderava fortemente guarire al più presto, per tornare come prima e l'impegno era la sua lotta primaria. Ciononostante aveva la tendenza a minimizzare le crisi a sottovalutarle e sottostimarle come se non gli appartenessero. Riccardo adesso muoveva tutto il corpo e anche bene, rimaneva solo un'ipotrofia dell'emilato destro, ma lui era un bel giovanotto e neanche se ne apprezzava la differenza se non agli occhi di un esperto. Intanto la vita lo aveva risucchiato con tutta la sua energia e frenesia e Riccardo, finalmente, non si sentiva più un malato, adesso solo qualche rarissima assenza poteva interrompere le sue infinite attività e questo, però, lo disturbava molto perché gli ricordava la sua malattia. A volte le scelte sono dettate da tanti fattori e tutti convergevano per una deci- sione che si rivelò nel tempo ottimale, perché Riccardo smise di avere crisi e adesso, che sono passati cinque anni e più, studia con profitto economia e ha iniziato a scalare con successo la terapia e tutti, lui per primo, siamo convinti che sia guarito. Consilia Quando ho conosciuto Consilia nel 1997, era stata da poco dimessa da un istituto di ricovero per grave stato depressivo, con crisi epilettiche. La persistenza delle crisi, generalizzate tonico-cloniche, spesso anche parziali complesse, nonostante la terapia con fenobarbital e valproato, l'aveva condotta a ricoverarsi nuovamente nella nostra unità operativa di Neurologia. Aveva poco più di 44 anni, ma ricordo nonostante la sua apatia, che la madre anziana e gracile le stava accanto, giorno e notte. Sembrava aver perso ogni interesse per la vita e si rigirava nel letto per lamentarsi del suo stato di salute. Mi raccontò che le sue crisi erano iniziate fin dall'infanzia e nulla e nessuno avrebbe potuto fare qualcosa per lei. Certamente nel suo paesino tutti sapevano, ma facevano anche finta di non sapere ed erano in molti a compatirla per la sua malattia, conoscevano talmente bene l'arte della consolazione e negando l'evidenza delle sue crisi, la rassicuravano che nulla poteva cambiare e la sua doveva essere un'accettazione di qualcosa che poteva anche essere peggiore di quello che era. Lei però voleva vivere una vita normale come tutte le altre e per questo motivo si era sposata e aveva anche avuto due figlie, voleva dimostrare a tutto il Paese che lei poteva essere normale, nonostante tutto. C'erano le crisi che 19 spesso avvenivano in pieno sonno, ma potevano coglierla anche di giorno e allora si faceva male e innumerevoli erano le fratture, i tagli e le ferite. Spesso le crisi cambiavano faccia a sua detta ed erano così strane che lei stessa, a volte, non se ne rendesse conto. Vi erano mesi di assoluto benessere e poi, come dal niente, qualche piccola crisi visiva, oppure disfasica, a volte questa diventava più importante da farla cadere a terra. Diverse terapie combinate furono attuate, ma ognuna alla fine, pur procurando un controllo delle crisi, dava il suo peso nel tempo, sia per gli effetti collaterali sempre pesanti sia per le reazioni avverse. Sono passati tanti anni, adesso è una nonna che fiera, felice di questa nuova condizione, le crisi continua ad averle, ma sono rarissime ogni anno, qualcuna nel sonno e sicuramente non ostacola la sua vita e la sua corsa nel tempo. Francesco Fu subito instaurato un trattamento con valproato, del tutto inefficace, tanto che dopo un paio di settimane comparvero crisi tonico-cloniche generalizzate. Il papà invece sperava solo in un farmaco universale che potesse per sempre sconfiggere l'orribile malattia. Davanti a una situazione del genere, è inutile dire che i migliori specialisti nel settore erano stati ascoltati e qualcuno aveva anche insistito sulla perseverazione della stessa terapia. Il peggioramento delle crisi tuttavia non lasciava scelta, come pure l'atteggiamento di allerta dei familiari, così decidemmo su due piedi, nonostante tutto, di cambiare farmaco. Doveva essere una scelta oltre che corretta e ponderata per il futuro, anche da non lasciare spazio a una recidiva di crisi e, pertanto, l'opzione più congrua fu l'etosuccimide. Sicuramente provocò una netta scomparsa delle assenze ma non delle crisi generalizzate per cui, in seguito, fu aggiunta la lamotrigina con pieno controllo sulle crisi. Questo successo terapeutico aveva calmato gli animi e generato un nuovo clima di fiducia nelle possibilità e nell'accettazione della malattia. È inutile nascondere che per la terapia per il carattere, la malattia a Francesco aveva posto diverse problematiche di inserimento scolastico e sociale che per fortuna, grazie anche alla sua «testardaggine», ha superato nel tempo. Il primo a trarre giovamento dalla nuova terapia era lo stesso Francesco, poi tutta la famiglia, tanto da considerare la vicenda in futuro un capitolo chiuso. Il tempo ha convalidato le loro attese e Francesco da circa otto anni non ha più crisi, non assume l'etosuccimide e ha iniziato a sospendere la lamotrigina. Francesca La storia di Francesca inizia in ospedale, mentre la madre era ricoverata per crisi epilettiche. In seguito si scoprì che la madre aveva una sindrome di Sjogren con epilessia temporale associata. Fu sempre la madre a chiedermi un aiuto per la figlia, troppo impegnata nello studio universitario e poco recettiva al focolare domestico. Queste parole diedero il via a un intreccio di colloqui con Francesca, che si lamentava moltissimo della morbosità materna, poiché figlia unica, muoveva ogni suo fare con grande senso di responsabilità. La peculiarità di Francesca però non era questa, stranamente a dirsi, mi raccontava di attacchi di brevissima durata che lei chiamava di panico, perché non riusciva a gestire. Francesca di buon grado assume la terapia con clobazan da almeno 4 anni e raramente presenta qualche fenomeno del genere, ma abortivo, come dice lei stessa e con un EEG decisamente normalizzato nel tempo. CAPITOLO 6 L’EPILESSIA ELLE SCIENZA ATTUALE L'epilessia è una malattia neurologica tra le più diffuse nel mondo tanto da essere riconosciuta come malattia sociale. Colpisce circa una persona su 100, con un'incidenza annua nei Paesi sviluppati di 50170 casi per 100.000 abitanti e con 50 milioni di persone affette nel mondo. In Europa sono 6 milioni le persone malate e in Italia se ne contano 500.000, con almeno 25.000 nuovi casi l'anno. Una crisi isolata, prima e unica, si manifesta in circa venti persone ogni 100.000 annualmente. Non dobbiamo dimenticare che l'epilessia è una condizione molto variabile, sia per la gravità, sia per gli aspetti clinici e forse anche per questo sottovalutata, sottostimata oltre che nascosta. Per definizione essa è caratterizzata dalla ricorrenza delle crisi epilettiche, che sono dovute a un'attività anomala ed eccessivamente sincronizzata delle cellule