Riassunto Libro - Pensare come un Antropologo PDF
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Matthew Engelke
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Il riassunto del libro "Pensare come un antropologo" di Matthew Engelke discute di familiarità ed estraneità nello studio antropologico. Il testo si concentra su come gli antropologi affrontano l'analisi delle culture diverse dalla propria, in particolare attraverso i concetti di osservazione partecipante e come diversità e somiglianze interculturale si intrecciano.
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Familiarità ed estraneità Il testo “Pensare come un antropologo” di Matthew Engelke si apre con un sostanziale confronto attraverso due esempi: 1. uno studio risalente alla fine dell’Ottocento di Frank Cushing, antropologo che soggiornò per diversi anni nel sud degli Stati Uniti tra gl...
Familiarità ed estraneità Il testo “Pensare come un antropologo” di Matthew Engelke si apre con un sostanziale confronto attraverso due esempi: 1. uno studio risalente alla fine dell’Ottocento di Frank Cushing, antropologo che soggiornò per diversi anni nel sud degli Stati Uniti tra gli Zuñi e si integrò nella popolazione, divenendone praticamente un membro (lo studio è ancora un punto di riferimento, in quanto gli fu possibile produrre descrizioni della loro vita in modo accurato in tutti i suoi aspetti). Cushing scrisse diversi saggi, tra i quali “Zuni Breadstuff”, riguardo i cereali usati per la panificazione, perché il loro approccio all’alimentazione era tutt’altro che scontato, così come l’importanza dell’ospitalità nella tribù o dei valori di pazienza, rispetto e duro lavoro. La descrizione dei Zuni è la chiara esposizione della cultura di un popolo, dei modi in cui anche una società chiusa, riesce a fiorire grazie a legami comunitari e pratiche di mutuo soccorso. 2. giustappone lo studio di Caitlin Zaloom, risalente a qualche anno fa sugli operatori di borsa di Londra, dove si recò per analizzare le negoziazioni di contratti futures (finestra aperta sul mondo dei mercati); fu condotto con la stessa metodologia, che altre discipline non hanno, cioè l’osservazione partecipante (il ricercatore deve saper coniugare l’osservazione all’immersione nel gruppo su cui sostiene la sua indagine). Engelke affermò inoltre che l’antropologia ha sempre operato all’intersezione tra natura e cultura, universale e particolare, modelli e diversità, somiglianze e differenze: NATURA – CULTURA: si può intendere come lo studio dell’essere umano sia come “essere biologico/naturale” sia come frutto di un processo di apprendimento che è mediato nella società; in questa intersezione, dove non si comprende la differenza tra ciò che è naturale e ciò che è appreso, si inserisce l’antropologia. UNIVERSALE – PARTICOLARE: lo studio degli esseri umani si può concepire basandosi sull’idea che siamo tutti socialmente uguali, in quanto apparteniamo alla stessa specie, ad una natura umana condivisa da tutti (definita dal possesso di un linguaggio, l’idea di ragione… elementi distintivi della specie umana = universale); MODELLI – DIVERSITÀ: i modelli o riferimenti che ci vengono proposti sono spesso ideali; sta a noi decidere di prendere esempio oppure comportarci in maniera opposta. UGUAGLIANZA – DIFFERENZA: più che di uguaglianza, si parla di somiglianza (idea che esistono delle parole di cui non possiamo dare una definizione (così affermò il filosofo del linguaggio Wittgenstein, in particolare con la parola “gioco”) e di differenza, perché si può avere un'attitudine scettica verso un certo modo di pensare che sia incompatibile con il proprio; in questo caso, l’antropologia si concentra principalmente sulle differenze. Origine dell’antropologia Da un punto di vista storico, l’antropologia come disciplina universitaria inizia ad affermarsi nella seconda metà dell’Ottocento e si differenzia da altre discipline dell’epoca grazie al confronto con esse: analogia e rapporto con la BIOLOGIA, in quanto è il periodo in cui Charles Darwin propone le sue teorie sulla selezione naturale e sull’evoluzione, idea che circolava in Europa già a partire dall’illuminismo in realtà; A questo si lega, l’analogia organica, ossia si cerca di guardare alle società e alla loro analisi così come si dovrebbe guardare all’analisi di un organismo biologico (apparati, organi, funzioni…). L’antropologia deve trovarsi uno spazio criticando e confrontandosi con le teorie razziali dell’epoca, secondo cui il comportamento deriva da una componente innata (determinismo razziale) e che la specie umana sarebbe divisibile in razze, tali che queste caratteristiche innate si tramandino di generazione in generazione. Secondo quest’ideologia cui si istaura poi un aspetto gerarchico, poiché certe capacità più sviluppate in determinate razze piuttosto che in altre. In contrapposizione a questa visione si pone il darwinismo, che riesce a mettere in crisi il determinismo razziale. L’antropologia deve poi confrontarsi con il determinismo ambientale, ossia l’esposizione ad un determinato ambiente geografico determina un particolare comportamento. è importante, inoltre, il rapporto con la PSICOLOGIA, la scienza concentrata sull’essere umano. Entrambe le discipline vedono l’esistenza di universali del ragionamento al livello cognitivo (cioè effetti e cause rispondono sempre alle stesse leggi della logica), si chiedono cosa vuol dire ragione (per cui la differenza tra passionali e razionali), si concentrano sul tema della coscienza, discusso già da Freud. Il pensiero non è soltanto coscienza, bensì esistono delle sfere interiori riferibili all’inconscio. ulteriore rapporto all’origine dell’antropologia è quello con la SOCIOLOGIA: inizialmente si trattava di un rapporto scontato, dal momento che entrambe si dedicano allo studio della società. Ma mentre la sociologia si occupa della nostra società, quella moderna, l’antropologia si concentra sulle altre società, quelli tradizionali. Fino allo scorso secolo non vi era dunque una netta distinzione tra le due discipline, tant’è che molti sociologhi erano antropologhi, e viceversa. Dalla metà del Novecento, con lo sviluppo della sociologia statunitense, si sosteneva che i sociologhi si occupassero delle società contemporanee, mentre gli antropologhi studiavano tutte le altre. O ancora, si affermava che la sociologia si concentrasse su ciò che riguarda le relazioni sociali, mentre l’antropologia, in particolare quella culturale, studia ovviamente la cultura. In contrapposizione a questa idea americana, in Europa si diffonde la terminologia “antropologia sociale” e tutt’oggi prende questo nome. continuando a parlare del rapporto tra l’antropologia e le altre discipline, la STORIA si occupava soprattutto di eventi e di accadimenti, ma era in particolare storia politica, così fino al Novecento, quando poi si diffonde l’idea di storia come “manifestazione di processi di lunga durata” e di metterli in relazione con il contesto culturale; infine, la LINGUISTICA è un elemento fondamentale per intendere le lingue; esistono tante lingue che ogni essere umano parla in modo diverso dall’altro, nonostante tutti abbiano la capacità di apprendimento, poiché non siamo soltanto qualcosa di innato, ma anche di apprendimento; nonostante la varietà di lingue, vi sono comunque dei tratti in comune. Suddivisioni interne dell’antropologia In ogni nazione, l’antropologia assume prende nomi diversi e ha suddivisioni interne differenti. Negli Stati Uniti si distinguono quattro branche dell’antropologia: biologica, studio della paleontologia umana, dunque sui nostri antenati; linguistica, studio del linguaggio e delle lingue, quindi le proprietà universali del linguaggio, l’analisi delle varie lingue, gli elementi quali il sistema di scrittura (assente in alcune lingue), la grammatica, il lessico, la morfologia, la fonetica, l’uso della lingua (conseguenze che determinate frasi creano nei differenti contesti); culturale, studio della dimensione culturale; archeologica, studio del rapporto tra la storia e la reazione della popolazione, di ciò che appartiene alla “cultura materiale”. In Europa si fa una distinzione tra antropologia culturale e antropologia sociale, perché ha predominato l’idea di antropologia come sociologia comparata, ma ciò non avviene in Italia. La cultura non poteva essere studiata con lo stesso criterio scientifico dei fenomeni sociali. In Italia l’antropologia si caratterizza per lo studio del folklore (tradizioni popolari, che in Italia fanno riferimento ai contadini) che Giuseppe Pitrè chiamerà demologia; inizialmente si studia la poesia popolare, seguendo il flusso del romanticismo, ma più avanti Pitrè si concentra sui molti altri fenomeni dei ceti popolari, quali feste, credenze, proverbi, ecc... In contrapposizione, il termine etnologia viene dal greco “etnos ”, che a differenza di “demos ” che indica “popolo proprio”, sta ad indicare tutte le altre popolazioni: con demologia si indica quindi lo studio del popolo italiano e con etnologia lo studio dei popoli esterni. Lo studio continua con il termine “storia delle religioni”. L’antropologia culturale viene ripresa quindi come “studio dei sistemi di valore nelle società complesse”, in opposizione alle società semplici studiate dagli etnologi. Un altro modo di vedere queste classificazioni è quella di Claude Levi-Strauss, antropologo del Novecento, che propone tre termini che rappresentano varie fasi della conoscenza antropologica: ETNOGRAFIA (dimensione descrittiva), si intendeva uno studio su un particolare “ethnos”, una lunga ricerca e poi a cui seguivano una monografia sui vari aspetti della popolazione; ETNOLOGIA, (dimensione comparativa) uno stesso studio su uno stesso popolo, ma su una certa area, dunque la specializzazione per aree geografiche e la conoscenza sulle popolazioni di una determinata area o lingua; parte dalle differenze e giunge a questioni comuni; ANTROPOLOGIA, dove entra in gioco la ricerca di leggi universali dei fenomeni culturali, sociali e di pensiero. Un elemento comune nelle ricerche antropologiche è il confronto tra ciò che ci sembra familiare e ciò che ci sembra estraneo. Alcuni costumi o modi di pensare possono apparire assurdi a noi, perché contrari al nostro senso comune o all’educazione che abbiamo ricevuto, magari all’interno di un’altra cultura hanno senso. Ecco alcuni esempi: 1. Un antropologo del Novecento si recò presso la popolazione degli Igorot, nelle Filippine, noti per essere degli abili tagliatori di teste, pratica assurda ai nostri occhi. Comprese che, in momenti di dolore e tristezza, gli Igorot intraprendono delle campagne militari contro altri gruppi e li decapitano. Cominciò a familiarizzare con questa idea nel momento in cui la moglie morì: l’imprevedibilità della morte della moglie gli provoca una sensazione di dolore e rabbia che gli fanno capire la logica dei comportamenti di quel popolo. Un evento analogo accade anche nella nostra cultura quando scoppiano delle guerre, concetto che lascia sconvolti gli Igorot, i quali considerano assurdo l’uccidere per conto di qualcun altro, considerando la probabilità di morte. 2. Questo rimanda al caso successo dopo la conquista dell’America, in cui una delle giustificazioni, dei motivi per cui avessero conquistato questi territori, era il fatto che gli indigeni praticavano l’antropofagia o cannibalismo, dal nome spagnolo delle popolazioni amerindie “canibal”, alterazione di “caribal”, a sua volta dalla lingua dei Caraibi. Il tema viene trattato dal filosofo Michel De Montaigne ne “I saggi”: uno di questi intitolato “Des cannibales” parte dalla definizione di “barbaro”, dopo aver conversato con tre indios che aveva incontrato a Rouen. L’antropofagia non si praticava per ragioni alimentari, ma era rivolta principalmente ai nemici catturati in guerra, in quanto si credeva che mangiando il nemico si incorporasse la sua forza. Si distinguono: esocannibalismo, viene mangiato il nemico catturato in guerra; endocannibalismo, vengono consumate parti dei morti del proprio gruppo (ne bevevano le ceneri durante i rituali funebri); un’antropologa del Novecento studiò il fenomeno e venne fuori che queste popolazioni praticano l’endocannibalismo affinché i morti rimangano con loro, poiché se andassero sottoterra, sarebbero esposti a spiriti maligni. Montaigne sostiene che se si osserva il fenomeno non soffermandosi alla crudeltà del gesto, si scorgono dei significati più profondi, che non si riducono semplicemente alla fame o al piacere nel gusto della carne umana. Considerato che egli abitava nella Francia delle guerre di religione e delle cacce alle streghe, fece esperienza della crudeltà adottata nei loro confronti, poiché nel momento in cui si catturavano i nemici o le streghe, venivano appesi ad un palo e bruciati vivi. Dunque, un passo importante fu compiuto da Montaigne con il concetto di “barbaro” nel confronto tra antropofagia e rogo dei nemici, ed è considerato l’antesignano di due nozioni antropologiche: etnocentrismo, dove l’unità di misura della conformità alla natura umana i propri costumi; un costume risulta “barbaro” se difforme dai propri; relativismo culturale, è un’attitudine di carattere metodologico, ma anche di fare valutazioni sula base di una conoscenza approfondita. Tutto ciò, ci dice che gli antropologi cercano di rendere ciò che è apparentemente strano, più familiare, sebbene renda anche un effetto contrario, cioè defamiliarizza tutto ciò che per noi è naturale e incontestabile. Ad esempio, negli ultimi anni si è sviluppata l’idea che alcune forme di famiglia o preferenze sessuali siano “fuori natura”: facendo ricerca fuori dal nostro contesto, si comprende come ciò che per noi è normale, non è in realtà universale. Margaret Mead, antropologa degli anni ‘30, fece una ricerca sull’adolescenza nell’isola di Samoa, nel Pacifico. La scoperta della sessualità nell’adolescenza non era vissuta in modo traumatico o conflittuale come nel nostro caso, ma naturale ma, nel momento in cui ci si sposava, le cose cambiavano. Il contrario avveniva negli Stati Uniti o in Europa, poiché era oggetto di tormenti e conflitti in un quadro puritano. Un altro antropologo statunitense, Clifford Geertz, riprendendo una frase di Levi-Strauss, sostiene che per conoscere e capire cos’è l’uomo, bisogna studiare gli uomini, viaggiando in luoghi diversi e non attraverso supposizioni filosofiche. L’antropologia fa da ponte tra concetti vicini e concetti lontani all’esperienza, come quello della religione. La natura umana è fatta dalla diversità: la lingua ne è un esempio, in quanto non esiste un linguaggio che naturalmente tutti apprendiamo. “L’originaria società opulenta” di Marshall Sahlins Si tratta di un saggio sulle popolazioni di cacciatori, popolazioni per eccellenza primitive, dove furono descritte in dettaglio le ipotesi sulla mentalità occidentale riguardo la razionalità e il comportamento economico. Gli studi etnografici su diverse popolazioni di cacciatori hanno evidenziato delle particolarità: - sulla lingua, composta da fonemi che si creano dallo schiocco della lingua e che hanno significati; - sul loro stile di vita, basato sulla sopravvivenza e l’estrema miseria; essi dedicavano poco tempo alla caccia, quello necessario per il sostentamento, perché il resto e la gran parte del tempo era dedicato all’ozio o attività di tipo sociale. Ciò evidenzia come l’idea di abbondanza e povertà sia in realtà relativa, poiché mentre per loro la ricchezza era la vita sociale, per noi sta nel benessere economico e nel potere e per questo motivo, si tende a considerarli poveri con pochi beni personali e nessuna cultura materiale. Ciò accade perché gli esseri umani vogliono sempre di più di ciò che invece hanno: mezzi limitati per desideri illimitati. Convinti dunque che i cacciatori-raccoglitori vivessero così per necessità, Sahlins smonta questo ideale: in realtà questi non hanno voglia di lavorare più di tre o cinque ore al giorno per soddisfare i propri bisogni, nonostante potessero farlo. Ne viene fuori che la povertà è uno status sociale, inventato dalla civiltà: l’antropologia mette dunque in discussione concetti ben assodati, ribaltandoli. Sebbene l’interesse principale dell’antropologia sia la cultura, attorno vi ruotano un’altra infinità di concetti che va dalla civiltà ai valori, dal senso d’identità alla ragione. NON siamo esseri automi (che si muove manualmente, quasi priva di riflessi), né tantomeno prodotti di una natura umana da cui siamo governati, ma compiamo delle scelte, che spesso sono vincolate. Dall’ambiente e dalle tradizioni culturali, per esempio. Inoltre, secondo Sahlins, NESSUNA CULTURA ESISTE ISOLATA DAL RESTO e tutte vivono in una realtà nomadica, che cambia in continuazione. Quindi, la miseria dei cacciatori-raccoglitori, non è altro che il frutto dell’imperialismo europeo, che li ha trascinati nell’orbita della civiltà. Antesignani dell’antropologia Altro antesignano di una “sensibilità antropologica”, insieme a Montaigne, fu Erodoto, i cui racconti di terre lontane vengono fuori sia da esperienze dirette sia da quelle indirette. Il modo in cui descrive popolazioni diverse dai greci, “l’Altro da sé”, attraverso comparazioni dei costumi ad esempio (riti funerari). Ritornando ai dibattiti sulla conquista delle popolazioni amerindie, queste erano le principali giustificazioni: essi non coltivavano la terra; puntano alla cristianizzazione di questi popoli senza religioni (a differenza di quanto successo con altre popolazioni extraeuropee, come i cinesi o gli arabi, che invece avevano una propria religione); erano senza organizzazione politica statale; non praticavano il commercio. Tutto questo venne a poco a poco smontato: ad esempio, gli aztechi avevano delle forme di organizzazione statali complesse e credenze diverse, e praticavano anche il commercio. Il vescovo Las Casas, che in precedenza era stato uno dei conquistadores, considerava la riduzione in schiavitù illegittima, tant’è che fu abolita nel 1542. Il traffico di schiavi dall’Africa non viene invece messo in discussione, perché nella stessa Africa essi erano già considerati schiavi e in questo modo, gli europei non si sentivano responsabili. Mentre prima i costumi e le organizzazioni politiche erano basate sull’ideologia cristiana, per cui i sovrani erano garanti di un ideale cristiano. Tra Cinquecento e Seicento, questa concezione entra in crisi, per cui la società politica è il frutto di un accordo che si basa sulla condivisione di alcune convenzioni. Nasce dunque la teoria del CONTRATTO SOCIALE, concezione comunque già presente nei greci, che distinguevano tra physis (leggi naturali, di sviluppo e di funzionamento di norme universali) e nomos (norme di accordo tra popolazioni). Hobbes fu il promotore dello stato assoluto, dove i singoli individui delegavano gran parte del loro potere ad un sovrano assoluto, il quale fissava le norme che i sudditi dovevano rispettare. Per lui gli uomini erano asociali e sosteneva l’ideale di homo homini lupus , cioè che uomini si trovassero in costante stato di guerra permanente, a cui si rimediava con il passaggio allo stato di società. Rousseau aveva invece una visione più ottimista, per cui lo stato di natura è uno stato dove ognuno vive le proprie libertà, fino a quando non si istaurano le disuguaglianze e le lotte di appropriazione di beni. È necessario allora un contratto sociale, dove le questioni sono decise dalla volontà generale, quindi un governo di gestione democratica. Rousseau sottolinea la differenza tra stato di natura, dove non vi è repressione di libertà, e stato sociale, dove non vi è libertà. L’antitesi tra i due stati viene ripresa da Freud nell’opera “Il disagio della civiltà”, in cui sostiene che da un lato, la civiltà è necessaria per reprimere gli istinti più asociali, dall’altro l’istaurazione di essa è frutto di una repressione, per cui gli istinti devono essere confinati ad una zona inconscia e rimangono latenti e bisogna dunque comporre queste due moralità. Rousseau è anche noto per la sua idea di studio sull’uomo, perché sostiene che non si può conoscere l’uomo in modo astratto, ma se ne deve fare esperienza nella sua diversità. Ricapitolando, in “Pensare come un antropologo” vengono elencati i tratti originari del sapere antropologico: COMPARAZIONE, per capire da cosa dipendono le differenze; LAVORO SUL CAMPO, periodo di soggiorno prolungato nelle popolazioni da analizzare, che deve basarsi sull’osservazione partecipante, ossia un’immersione totale nel contesto [sebbene alcuni dei padri fondatori della disciplina si basassero solo sul lavoro degli altri e per questo definiti “antropologi in poltrona”]; RELATIVISMO CULTURALE, più che considerare “barbaro” un qualcosa, si deve partire dal comprendere il senso e il significato di quel costume, che smette di essere “barbaro” quando lo si considera nel contesto del gruppo che si studia; questo perché i termini di analisi, comprensione e giudizio non sono universali. Oggi si parla soprattutto di antropologi nativi indigeni, ciò vuol dire che non sono più solo studiosi occidentali, bensì sono più quelli provenienti da altri paesi. Oggi gli antropologi fanno molto più spesso ricerca nelle società a cui appartengono, anziché in quelle lontane e hanno dunque il vantaggio di avere già il punto di vista di quella cultura da analizzare, ma il rischio di non avere la distanza critica che gli altri hanno, quando invece non dovrebbe mai “diventare il nativo che studia”. Nel caso di Cushing, egli quasi oltrepassò la linea della trasformazione totale in uno degli Zuni, una realtà conflittuale che venne rappresentata nelle vignette di Hughte: da una parte ne ammirava la dedizione, dall’altra lo criticava, tant’è che provò piacere alla morte dell’antropologo. L’antropologia era, in un certo senso, figlia del colonialismo. Per quanto riguarda il relativismo culturale, si può partire parlano di Geertz, che nella sua opera “ Anti anti- relativism” cerca di raccontare cosa NON è il relativismo: non si intende accettare tutto ciò che gli altri fanno, mentre a noi appare ingiusto, ma serve a far comprendere che non sempre ciò che è il nostro senso comune è universalmente applicabile. Date importanti nell’istituzionalizzazione della disciplina Nella Francia post-rivoluzionaria e nell’Inghilterra vittoriana si istituzionalizza la disciplina grazie rispettivamente alla Société des Science de l’homme e il Royal Antropological Institute; in Francia, nel 1855, viene fondato il Muséum national d’histoire naturelle in Francia, oggi noto come Musée dell’Homme. Negli Stati Uniti, Lewis Morgan pubblica l’opera “Sistemi di consanguineità e affinità nella famiglia umana ” nel 1851, dove raccoglie i diversi termini usati per indicare la parentela in particolari popolazioni (es. unico termine per indicare il padre e gli zii o fratelli e cugini). In sintesi, propone delle teorie sulle tipologie di parentela (campo su cui l’antropologia si è particolarmente concentrata). Questi termini sono probabilmente frutto di un’idea per cui una donna si sarebbe spostata con uno dei fratelli (in India). - la consanguineità, rapporti genealogici basati su legame di sangue (mentre oggi si intende un legame fondato sulla condivisione genetica); - affinità, parenti acquisiti (es. cognato); in inglese la distinzione è più netta grazie all’espressione “in law”. Il 1877 è un’altra importante data, in quanto vengono pubblicate due importanti opere dell’antropologo Tylor e Morgan. Il periodo tra il 1870 e il 1922 è ricco di dibattiti sui metodi di ricerca sul campo. Nel 1922 venne pubblicata un’opera di Malinowski (“Argonauts of the Western Pacific ”), una critica appassionata sulla ricerca sul campo, in quanto non era d’accordo con chi forniva “un’immagine distorta, una caricatura dell’indigeno” e nello stesso anno un’opera del britannico Radcliffe-Brown, successore ideale di Malinowski e fondatore del dipartimento di antropologia di Chicago, pone una distinzione sulla ricerca basata su fonti storiche e l’antropologia sociale che inquadra la descrizione di uno stile di vita del gruppo al momento di ricerca. La Gran Bretagna tra gli 1920 e 1970 fu una grande scuola di antropologia, nota come “scuola funzionalista” o “strutturale funzionalista”, la quale deve molto allo sviluppo della sociologia francese (perché antropologia e sociologia non sono distinte). Alcuni degli antropologi dell’epoca furono Leach, Schapera, Fortes. Negli Stati Uniti, invece, fu fondamentale l’attività dell’antropologo tedesco Boas, perché fino a quel momento si parlava di studio della cultura al singolare, mentre con Boas si parla di studio dei fenomeni culturali di specifiche culture. Tra i suoi allievi si riconoscono le antropologhe Margaret Mead e Ruth Benedict, che chiaramente non ottennero posizioni di prestigio nelle università. La missione di questi primi gruppi era la registrazione degli stili di vita dei popoli in via di estinzione, obiettivo principale di Kroeber, anch’egli allievo di Boas. Quest’ultimo modellò il paradigma metodologico tutt’oggi utilizzato in antropologia. Malinowski e Boas sono sicuramente da considerare le personalità più solide della disciplina, benché fossero comunque diverse tra di loro (Gran Bretagna, anche se era polacco – Stati Uniti, sebbene fosse tedesco) e non fossero le uniche figure dominanti. Una sintesi di questi orientamenti del secondo Dopoguerra è quella di Levi-Strauss, che aiutato dalla sua esperienza negli Stati Uniti e dagli studi di Boas, dà vita allo strutturalismo, termine usato soprattutto nel campo della semiotica grazie a Saussure. Levi-Strauss pubblica una metodologia e una visione teorica, che dapprima era applicata ai fenomeni linguistici e sistemi di segni, ma che lui applica ai fenomeni culturali, considerati anch’essi sistemi di segni, come i sistemi di parentela, i miti e i sistemi di classificazione. Nell’epoca odierna, dove tutto è interconnesso grazie alla globalizzazione, studiare i modi di vita dei gruppi o di culture come se fossero “cose in sé” e senza considerare la dimensione comunicativa di scambi è qualcosa di idealistico. Attualmente, una figura influente è quella di De Castro, antropologo brasiliano, ma non l’unico. Molte celebrità hanno una formazione antropologa: re Carlo III, la madre di Barack Obama, molti giornalisti famosi, come Gillian Tett, che applicò l’antropologia al campo della finanza. Differenza tra “barbaro”, “selvaggio” e “primitivo” BARBARO Il termine viene dal greco “barbaros” ed era utilizzato dagli antichi in modo dispregiativo per designare le popolazioni che parlavano un'altra lingua - che ricordava un balbettio - ma anche chi aveva istituzioni politiche differenti da quelle che vigevano ad Atene nel V secolo, o ancora chi aveva riti funebri differenti. Il termine ha dunque una storia antica: per i cinesi i barbari erano gli europei, in quanto fino all’Ottocento la Cina era considerato il paese più avanzato e civile. Tutti gli indigeni americani venivano chiamati barbari, come giustificazione della colonizzazione e della sottomissione, poiché andavano “civilizzati”. SELVAGGIO Il termine viene dal latino “sylva”, dunque bosco o foresta; quindi, selvaggio sta ad indicare coloro che vivono nelle foreste e conducevano una vita simile a quella degli animali. Da ciò partiva il presupposto che, vivendo nella selva, non avessero istituzioni politiche o religiose, non conoscessero l'agricoltura e così via. Un filosofo disse che il fatto che i nativi non volevano lavorare la terra, fosse un segno dell'essere selvaggi. PRIMITIVO Tra il Settecento e Ottocento, si sviluppano le discipline della geologia e della paleontologia: è il periodo dei ritrovamenti dei resti di esseri umani vissuti molti secoli prima; quindi, ci si chiede come fossero fatti questi uomini, come vivevano, in cosa credevano, com’erano le forme familiari ecc. Si pensava che le popolazioni che vivevano ancora di caccia, in quanto rimasti indietro, fossero il riflesso dello stile di vita delle popolazioni primitive. Il termine “primitivo” viene elaborato durante il periodo illuminista, quando si afferma l'idea di progresso e civilizzazione. Il progresso è l'idea che l'umanità progredisce e accumula la civilizzazione, dal latino “civis”, quindi civile, città. Ne viene fuori una contrapposizione tra chi vive in città (civile) e chi vive nella selva (selvaggio). Cultura Prima di parlare del concetto di ‘cultura’, Engelke presenta un esempio sulla sua prima esperienza di Zimbabwe, un paese abitato da piccoli gruppi di capanne e fattorie. Egli soggiornò in una di queste famiglie e si avvicinò al suo fratello ospitante, soprattutto perché non era un periodo lavorativo troppo impegnativo, quindi aveva tempo per l’ozio. L’antropologo riporta l’episodio che più lo colpì: alla domanda “ Do you like cricket?”, Engelke si aspettava di cominciare a giocare allo sport insieme all’amico, il quale invece si presentò con un grillo fritto. Dimostra, dunque, che il cibo non è altro che un costrutto culturale. Secondo Engelke, la cultura è un modo di vedere e pensare le cose, per dare loro un senso, e come Tylor lo considera un insieme di cose, presentandosi così con un aspetto materiale. Uno dei primi antropologi a concentrarsi sulla teoria culturologica fu Boas, che aveva studiato all’università di Kiel in un’epoca in cui non vi era una netta distinzione tra scienze naturali e scienze umane. Si interessò al pensiero di Wilhelm von Humboldt, il quale considerava “die Kultur” un concetto organizzatore con cui esprimere l’impegno per lo studio di ogni entità nazionale, che doveva essere compresa in base al suo genio specifico. Essendo un linguista, aveva considerato linguaggio e cultura come fenomeni strettamente legati, in quanto la lingua è una “rappresentazione esteriore” dei popoli. Il viaggio di Boas per la Terra di Baffin gli permise di comprendere l’importanza di due aspetti dell’antropologia: il lavoro sul campo, perché la cultura doveva essere osservata in situ , e il valore centrale della percezione e della visione, che è un po’ una traduzione del concetto di Malinowski sul “cogliere il punto di vista dell’indigeno”. Boas non fornì mai una vera e propria definizione di cultura, ma utilizzò l’espressione “Kulturbrille”, che tutti indossano, perché DANNO UN SENSO E UN ORDINE AL MONDO. La cultura riguarda il significato delle cose, quindi l’uomo non si limita a ‘vedere’ il mondo ma anche a coglierne un ordinamento e un senso. Da qui, fino agli anni Sessanta, si parlava delle culture in modo specifico, ma anche con termini più generali per sottolineare il fatto che alcune di queste avessero degli “occhiali culturali” simili. Tra i numerosi allievi di Boas è possibile individuare una personalità di maggior rilievo, ossia quella di Clifford Geertz, la cui raccolta di saggi del 1973 costituì uno spartiacque. Per Geertz, che mostra un approccio più semiotico alla cultura, essa non era altro che un TESTO che gli antropologi LEGGONO SULLE SPALLE DEI NATIVI, evidenziando l’importanza dell’interpretazione, perché l’antropologia per lui era una “scienza in cerca di significato”. Per comprendere cosa significava una cultura, bisognava concentrarsi prima sul particolare, non sul generale, che è un approccio ancora oggi utilizzato. Ne sono esempio le ricerche sui fattori culturali che possono influire sulla diffusione di determinate malattie: Arthur Kleinman ha evidenziato come la depressione in Cina sia più riconducibile alla noia, che ad una vera e propria condizione patologia, dimostrando come la cultura influenzi anche l’esperienza dei sintomi, il linguaggio usato per riferire tali disturbi e di conseguenza anche il trattamento di cura. Kleinman arrivò alla conclusione che sebbene alcune condizioni siano universali, altre sono culturalmente distinte ma tutte sono “significative all’interno di particolari contesti”. Il concetto di cultura è da sempre legato a qualcosa di materiale, perché la materialità dà un senso complessivo e anche un’espressione. A tal proposito, è stato condotto uno studio sul nazionalismo Québécois, particolarmente attaccato alla cultura: poiché avevano intenzione di promuovere le patrimoine, stilarono una lunga lista di ‘beni culturali’ di proprietà del popolo e quindi espressione della sua identità. Lista che comprendeva animali, pezzi storici e perfino il patrimonio linguistico, perché dà effettivamente significato alle cose. In sintesi, il carattere materiale della cultura è dovuto ai Kulturbrille che tutti indossiamo, che quindi, permettono di percepire quelle cose come ‘cultura’ solo se si è nativi del luogo. Tuttavia, la concretezza della cultura è determinata da altri elementi, in particolare dall’archeologia, definito da James Deetz come lo “studio dei popoli basato sulle cose che essi hanno lasciato ai posteri come loro impronta nel mondo” e il cui obiettivo va al di là dal riportare alla luce le “piccole cose dimenticate”. Il lavoro dell’’archeologia dimostra che la cultura non soltanto veicola significati, ma essa non può esistere senza una infrastruttura materiale, perché sono le cose a creare le condizioni di possibilità di significato. Tuttavia, il concetto di cultura è stato affrontato anche da un altro filone di studio, cioè l’evoluzionismo sociale, ispirato alla teoria di Darwin. Secondo quest’idea, la storia sociale aveva avuto lo stesso sviluppo della storia naturale. I diversi popoli potevano essere compresi in base ad un “albero della vita darwiniano” che comprendeva sistemi di parentela, forme di organizzazione politica e conquiste tecnologiche. I più influenti sostenitori dell’evoluzionismo sociale furono Morgan, Spencer e Tylor, che ne stabilirono la metodologia e si concentrarono sull’equivalenza tra organismo sociale e organismo naturale (questo, in particolar, fu il lavoro di Spencer). Tylor evidenziò invece delle “fasi della cultura” dallo stato selvaggio a quello di civiltà. Ma, a differenza di Darwin, gli evoluzionisti sociali si fecero portatori dell’idea di uomo civile, non soltanto culturalmente più evoluto e organismo più complesso, ma come il migliore: motivo per cui, Engelke definisce l’evoluzionismo sociale come una “filosofia morale mascherata dalla scienza”. Nel corso degli anni l’evoluzionismo sociale si avvalse del lavoro dell’archeologia e non perse comunque i suoi sostenitori: negli anni Sessanta le figure più importanti furono Leslie White e Julian Steward, e ancora V. Gordon Childe e Gordon Willey. Ciò, comunque, dimostra l’approccio diverso dei vari antropologi alla cultura: Boas criticava l’evoluzionismo di Tylor, ma a sua volta era criticato da White, perché secondo lui troppo concentrato sul particolare e poco abile nel lavoro sul campo. Ma l’ambito di maggiore discussione riguarda la questione dell’uomo come creatura della natura o dell’educazione, cioè se siamo plasmati da stimoli biologici o se in realtà è dovuto al modo in cui veniamo cresciuti. L’aspetto biologico e l’aspetto naturale venivano messi in secondo piano rispetto alla cultura, che nel campo dell’antropologia aveva il primato, perché considerati insignificanti nei problemi di interpretazione culturale (differenze tra culture) e nei processi di cambiamento. Ecco che si inserisce la teoria di Ruth Benedict presentata nella sua opera “Patterns of Culture ”, criticando fortemente il determinismo biologico e facendo confluire tutte le culture in un’unica, schierandosi, insieme al suo maestro Boas, nella lotta contro il razzismo, in un periodo dove in America l’antropologia serviva a legittimare scientificamente le differenze razziali: infatti, altri antropologi come Daniel Brinton e Carlton Coon aderirono alla logica segregazionista. Accanto alla figura di Boas, vi era quella di Claude Lévi-Strauss, che da un lato era intensamente interessato alla cultura, dall’altro metteva in evidenza la struttura della mente umana. La giusta unità di analisi era lo schema mentale dell’indigeno, costante e universale: infatti, secondo Lévi-Strauss il pensiero selvaggio è logico allo stesso modo dell’uomo contemporaneo, tant’è che osservando due asce, queste sono state create allo stesso modo e sono uguali, sebbene composte da materiali diversi. Nasce così un’antropologia cognitiva, in cui confluiscono lo strutturalismo, la psicologia, la linguistica e la filosofia. Da ciò viene fuori una nuova questione, ossia le modalità in cui i meccanismi della mente plasmano in modo diverso le espressioni, i valori e i concetti culturali. Tanya Luhrmann si inserì nel filone dell’antropologia cognitiva attraverso degli esperimenti che dimostrano come la preghiera influenzi l’esperienza di Dio nei cristiani di una Chiesa neopentecostale degli Stati Uniti. L’attenzione concentrata sulla preghiera accresceva la presenza di Dio nei partecipanti all’esperimento secondo il processo di “assorbimento”. Tornando al concetto di cultura, negli anni Novanta, si cercò di dare una spiegazione al fatto che il concetto era ‘manchevole’: la connessione cultura – uomo veniva presa troppo alla lettera; Si prese in considerazione l’etimologia della parola che si riferiva alla lavorazione della terra (coltivazione, agricoltura, orticoltura…), considerato un aspetto molto affascinante soprattutto in Germania. Avere un punto di vista – seguendo la definizione di Malinowski – significa o anche aver un proprio luogo e una propria collocazione, ma non sempre è facile definire il luogo preciso. Malinowski parla di tante culture e di tanti popoli, come se fossero tutti separati. Eppure, studiando l’Anello del kula (sistema di scambio simbolico) notò che comunque era una pratica diffusa in isole anche distanti tra di loro chilometri e chilometri. La cultura NON è fissa nel tempo, esse cambiano nel tempo, sebbene Victor Turner dimostrò, trascorrendo alcuni anni con la tribù Ndembu, che si trattava di un popolo incontaminato che quasi non aveva registrato cambiamenti nel corso del tempo: dei “nativi fuori dal tempo”. coerenza culturale: la cultura come fenomeno assoluto e olistico; I mutamenti, la frammentazione dovuta al colonialismo e alla globalizzazione portarono all’ipotesi che la cultura – come associazione di idee ed espressione dei punti di vista – rappresenti un tutto ordinato. Ma non in tutte le culture è possibile trovare tale coerenza e uniformità, né tantomeno è possibile trovare la versione “ufficiale” della cultura così come è stata trascritta dagli antropologi. Queste tre concezioni si legano dunque all’idea dell’essenzialismo, perché tende verso un’immutabilità delle cose, evocando stereotipi e pregiudizi. Ne è un esempio l’apartheid, attraverso cui i nazionalisti puntavano alla segregazione totale, perché “le culture (africane e non) devono essere mantenute intatte e avere i propri spazi”. Soltanto dopo gli anni Ottanta gli antropologi cominciano a RINNEGARE il concetto di cultura ed in questo contesto sono rilevanti le figure di Michel Foucault e Pierre Bourdieu. Il primo si concentrò sul concetto di potere e soggettività, mentre il secondo si occupò dell’habitus, più labile della cultura. Si tratta di un sistema “di disposizioni durature e trasferibili”, cioè di schemi percettivi, di pensiero e azioni di una struttura, da cui però non è mai del tutto determinato: l’uomo è plasmato dal mondo in cui vive, ma non ne è legato. In Gran Bretagna, la cultura era ormai un concetto già in disuso da tempo, grazie a Malinowski, ma si diffuse in altri luoghi. Richard Hoggart, Raymond Williams e Stuart Hall si occuparono di “studi CULTURALI”, per capire come fattori quali razza, classe sociale, genere e sessualità plasmassero la società contemporanea occidentale, grazie al loro lavoro di Marx, Gramsci e Foucault. Malinowski fu “succeduto” da Radcliffe-Brown, il cui oggetto di interesse era la società, perché considerava la cultura una “vaga astrazione”. Ma ancora, nel 1988, l’antropologo James Clifford si definì legato all’idea di cultura, di cui non poteva fare a meno. Engelke, all’interno del libro, si pone a favore dell’idea di Appadurai e Abu-Lughod sull’oggettivizzazione della cultura, ma anche sull’idea di Malinowski riguardo la cultura come “mistura in fermento di principi contrastanti” e quello di Robert Lowie nel paragone tra razze e culture: così come non esistono razze completamente pure, allo stesso modo sarà per le culture. Civiltà Come abbiamo visto con Tylor, nel pensiero antropologico “cultura” e “civiltà” erano considerati sinonimi, sebbene gli antropologi dell’età vittoriana fossero principalmente concentrati sull’aspetto della civiltà, che della cultura. “Essere civilizzati” significa essere moralmente integri, per cui i vittoriani collegavano il concetto al progresso morale. Alcune figure di spicco dell’epoca, come Henry David Thoreau e Joseph Conrad, misero in discussione il concetto di civiltà e i simboli ad essa legati. Conrad nel suo “Cuore di tenebra ” mostrò le atrocità del colonialismo, che nel frattempo gli antropologi stavano analizzando attraverso le informazioni fornite da terzi. Come Conrad, anche alcuni antropologi del periodo (Boas, ad esempio), misero in discussione la questione della civiltà intesa come “forza animatrice dell’antropologia”. Oggi, al contrario, l’antropologia critica la concezione di civiltà, sebbene sia stata per lungo tempo al centro degli studi antropologici e che comunque non è del tutto scomparsa, perché politici, giornalisti e commentatori continuano a parlare in modo spropositato di ‘civiltà’. Dopo il suo periodo in Messico e nei Caraibi, Tylor scrisse un resoconto delle sue ricerche con osservazioni e commenti di tipo etnografico. Per converso, Morgan non si spinse mai così lontano come Tylor, ma fondò un circolo di discussione sulla Lega degli Irochesi. I due antropologi lavorarono in un’epoca particolarmente influenzata dalle teorie darwiniane, di cui assunsero il linguaggio applicandolo al mondo sociale. Tylor, infatti, era convinto che l’antropologia fosse un tutt’uno con la fisica, la chimica e la biologia e credeva che le idee di Darwin avrebbero scandalizzato i devoti alla religione (collocare la storia dell’uomo nella storia della natura). Per parlare però di evoluzione e civiltà, bisognava utilizzare dei nuovi termini, che dessero la possibilità di comparare i soggetti: selvaggi e barbari, suddivisione più larga di quella individuata da Carlo Linneo, uno dei padri delle classificazioni biologiche, il quale individuò una tassonomia, attraverso cui formalizzò il fatto di considerare gli umani una specie animale. La sua classificazione prevede dei regni, animale o vegetale; phylum, distinzione in invertebrati e vertebrati; classe, ad esempio mammiferi, uccelli, rettili, anfibi, pesci, insetti ordine e specie. Morgan si preoccupò di individuare sette fasi in cui una società può collocarsi: la vita SELVAGGIA e la BARBARIE si suddividevano in fasi inferiori, mediane e superiori, mentre la CIVILTÀ era uniforme, sebbene non si spiega il fatto che gli anglo-americani si sentissero superiori ai popoli dell’Europa meridionale. Secondo Tylor, il fatto che l’umanità fosse soggetta a leggi precise, conferiva una concezione del tutto deterministica, poiché se vi è una legge da qualche parte, essa è ovunque. Al centro vi era il principio dell’“unità psichica dell’umanità”, cioè il fatto che le capacità mentali del selvaggio erano le stesse dell’uomo civilizzato; quindi, postulava l’esistenza di un’unica razza e una sola mente. A questo punto era possibile costruire una storia e una preistoria dell’umanità attraverso il METODO COMPARATIVO, sebbene non sempre tutti i dettagli coincidevano. Quindi, analizzando due culture è importante considerare un dettaglio, ad esempio il rapporto tra consanguinei: ne viene fuori che il sistema patrilineare è più evoluto di quello matrilineare perché basato su rettitudine morale, stabilità e complessità sociale e soprattutto non si ha la stessa certezza su chi sia il padre, rispetto alla madre. Inoltre, selvaggi e barbari non controllano gli impulsi quindi una donna potrebbe avere rapporti con diversi uomini. Il principio dell’unità psichica conferiva libertà anche sull’elemento temporale, tant’è che gli antropologi evoluzionisti parlavano di Irochesi e Hadza come se fossero dei fossili viventi, dai quali trarre informazioni sul passato. Nonostante gli evoluzionisti considerassero i selvaggi come copie degli antenati mostravano un’inclinazione astorica (assenza di rapporto con la storia), elemento criticato da Boas, il quale non considerava l’esistenza di leggi che governavano lo sviluppo sociale e culturale dell’umanità, perché ignorava l’importanza del fatto che alcuni tratti culturali erano stati presi in prestito da altre culture. L’approccio di Tylor era dunque deduttivo (dal generale al particolare), mentre l’antropologia doveva applicare un approccio induttivo (dal particolare al generale). Ciò era per Boas un problema che non avrebbe portato a miglioramenti nella disciplina, almeno fino a quando non si sarà rinunciato alla costruzione di una storia sistematica e uniforme. L’evoluzionismo sociale si dimostrava una filosofia morale mascherata dalla scienza, per il solo fatto di considerare selvaggio e civile con una stessa unità psichica, sfidando la logica di discriminazione razziale secondo cui popoli bianchi e popoli non-bianchi hanno capacità mentali qualitativamente diverse (su cui comunque anche Boas avrebbe concordato). Gli “altri” non erano poi creature tanto diverse, bensì rappresentavano ciò che l’uomo è stato prima (proprio come dei bambini) e questa logica fu applicata agli scopi dell’impero per la cosiddetta “missione civilizzatrice”. Di ciò se ne occuparono in particolare Jean e John Comaroff, grandi esperti dei popoli del Botswana e del Sudafrica. I due coniugi documentarono dettagliatamente l’incontro coloniale e ricostruirono la “lunga conversazione” tra i missionari, i primi ad arrivare, a fermarsi a lungo e a farsi un’idea generale della situazione. I missionari furono capaci di riorganizzare tutto, dagli usi delle unioni matrimoniali (non supportavano la poligamia) alla planimetria dei villaggi. Il loro essere civilizzati NON si traduceva in un essere civili, in quanto non si attennero ai costumi di quei luoghi ma li modificarono, eliminando tutto ciò che veniva considerato irrazionalità o superstizione. I Comaroff intesero la “grammatica della coscienza” con il fatto che i sudditi dell’impero erano sottoposti all’opera di evangelizzazione e dovevano accettare le proposte degli europei e degli americani. I due antropologi si rifanno al lavoro di “scontro fra due culture” condotto da un importante missionario-esploratore, David Livingstone. Riguardava ad uno scambio con un uomo di etnia Tswana, dove Livingstone rappresentava l’“uomo della medicina”, mentre l’indigeno era il “mago della pioggia”: le idee scientifiche, razionali e teologiche che cercano di convincere vanamente l’indigeno, che rimarca l’ipocrisia del missionario. L’altro appare così come un uomo che oppone resistenza, non un infantile o passivo. La conversazione termina con la “vittoria” della civiltà, ma è davvero andata così? I dati etnografici dimostrano che ogni scambio di prospettive e vedute è sempre a doppio senso (o a senso multiplo) e quello che mostrano i coniugi Comaroff non è altro che un’africanizzazione del pensiero occidentale. Livingstone non fu l’unico a parlare della condizione coloniale: Frantz Fanon, psichiatra della Martinica, si trovò coinvolto nella lotta algerina per l’indipendenza, di cui raccontò in “ Peau noire, masques blancs”. Fanon vi condivide le proprie esperienze e presenta una critica storica degli effetti del razzismo e della disumanizzazione, insiti nelle situazioni di dominazione coloniale, sulla psiche umana: viene messo così in luce un doppio processo, quello economico e quello legato all'interiorizzazione del razzismo attraverso l'“epidermizzazione” dell'inferiorità. “Il negro è una fase della lenta evoluzione della scimmia all’uomo”: il colonizzato si troverà davanti al linguaggio della nazione civilizzatrice e si allontanerà dalla sua “nerezza” e “foresta”, quando si avvicinerà ai valori culturali di quella. Un altro esempio dell’effetto “foresta” è stato mostrato da Isabella Lepri all’inizio del XXI secolo attraverso con lo studio degli indios Ese Ejja della Bolivia, piccolo popolo che pratica la caccia, la pesca e l’agricoltura nomade e che ha sofferto la colonizzazione degli europei. Le ricerche della Lepri mostrarono l’attitudine di questi indios ad assomigliare ai bianchi delle grandi città: cucinavano “cibo dei bianchi” e chiamavano i bianchi “gente vera, reale, come si deve” (dejja). Ovviamente vi erano delle alterazioni culturali (es. il calcio: un goal non veniva mai festeggiato, perché poteva nascerne un conflitto). Gli Ese Ejja hanno sostanzialmente interiorizzato la grammatica della civiltà e l’hanno fatta propria: desiderano di essere civilizzati, ma non vogliono essere come i bianchi né tantomeno vivere nella città, considerate troppo sporche; si tratta di una sorta di auto-denigrazione, correlata da autoidentificazione e autovalutazione. I popoli che non sono “come si deve” vengono, ancora oggi, definiti “bloccati nel tempo” o “indietro coi tempi” e spesso, secondo Engelke, sono termini usati a sproposito e in contesti pericolosi: è il caso della “Guerra globale al Terrore”, sviluppatosi dopo l’attentato alle Torri Gemelle del 2001. Politici e analisti lanciarono appelli al mondo civilizzato di opposizione ai barbari attacchi dei terroristi. Ecco che il termine barbari viene utilizzato per designare il nemico e così è stato anche con la propaganda americana durante la Prima Guerra Mondiale verso i tedeschi. Samuel P. Huntington espose, a questo proposito, la sua visione della futura politica mondiale a seguito della guerra fredda, a cui si sarebbe sostituito uno scontro di civiltà. Per ‘civiltà’ intende “il più vasto raggruppamento di uomini e il più ampio livello di identità culturale raggiungibile” - riprendendo grossomodo la definizione di Tylor – e lo considera il minimo comune denominatore dell’umanità. Ciò che differisce tra le civiltà sono gli elementi oggettivi comuni, cioè lingua, religione, storia, costumi e così via, ma anche il progetto soggettivo di autoidentificazione dei popoli e a questo risale la maggiore fonte di pericolo nello scontro tra Occidente e Oriente. La “Guerra al Terrore” è una dimostrazione pratica di come l’evoluzionismo sociale continui ad esercitare una certa importanza. La missione civilizzatrice in Afghanistan ebbe un forte impeto morale, soprattutto perché i talebani erano visti come barbari, per il modo in cui trattavano le ragazze e alle donne. L’altro era dunque visto, anche in questo caso, come un fossile vivente, bloccato nel passato. Ma tornando a quanto affermato prima, è un’enunciazione pericolosa, che considera una civiltà più potente dell’altra, che invece è un nemico meno sviluppato: Johannes Fabian la definì “negazione della contemporaneità”, cioè il negare di star vivendo nella stessa epoca di qualcun altro. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, alcuni antropologi furono coinvolti nella realizzazione di una “teoria della modernizzazione”, tra cui Geertz, Walt Rostow, Talcott Parsons, Shmuel Eisenstadt, perché si voleva comprendere in che modo le ex colonie (quelle che da poco avevano ottenuto l’indipendenza come il Marocco) potevano a questo punto modernizzarsi e dunque, come massimizzare il potenziale di progresso e integrazione nel panorama mondiale. Nel 2008, il “The Guardian” lanciò un esperimento triennale di collaborazione con la Barclays Bank e l’Amref (African Medical and Research Foundation), di assistenza sanitaria ad un piccolo villaggio dell’Uganda, Katine. Durante il progetto furono condivise con tutto il mondo i risultati, positivi e negativi, eppure i titoli utilizzati negli articoli riportavano ancora quella terminologia prima descritta (es. “ Riusciremo, insieme, a sollevare un villaggio dal Medioevo?”). E purtroppo, molti prendono alla lettera queste parole, senza rendersi conto che anche questi popoli vivono nel XXI secolo proprio come i “civilizzati”. Un archeologo dell’Università di Londra, David Wengrow, cercò di comprendere cosa crea la civiltà: egli sostiene che essa NON è definita dai suoi confini, ma è tale in virtù della qualità e profondità dei suoi rapporti con l’esterno. Si avvicina all’idea di Huntington, per cui le civiltà sono simili a tal punto da schiantarsi e scontrarsi. Inoltre, Wengrow vuole far comprendere la civiltà non solo dal punto di vista archeologico e monumentale, bensì dalla quotidianità, da pratiche della vita di ogni giorno. Valori Le ricerche antropologiche sugli Zuni e sugli operatori della borsa londinese, pur appartenendo a contesti molto diversi, si concentrano sull'analisi di valori come l'ospitalità, il successo e l'uguaglianza, che aiutano a spiegare i diversi tipi di culture. Questi valori sono spesso considerati fissi e immutabili, ma gli studi antropologici dimostrano che sono invece flessibili, pur non essendo completamente mutevoli. Onore e vergogna Uno degli argomenti discussi in antropologia riguarda l'organizzazione di alcuni popoli, specialmente nell'area del Mediterraneo, attorno ai valori di onore e vergogna. Questa tematica è emersa chiaramente in culture come quelle dei greci, degli algerini e degli andalusi. L'onore è legato tanto al rispetto personale quanto a quello della famiglia, con una particolare enfasi sull'onore delle donne (sorelle e figlie). I problemi spesso sorgono quando questo onore viene minacciato. Gli antropologi che hanno studiato la Grecia, l'Algeria, la Sicilia, l'Egitto e la Spagna hanno osservato comportamenti contraddittori: da un lato, le persone sono incredibilmente ospitali, ma dall'altro sono molto sospettose nei confronti degli estranei. Sebbene queste culture siano basate su valori come indipendenza e uguaglianza, all'interno sono profondamente gerarchiche. Questi valori alimentano stereotipi come quello dell'uomo siciliano, ospitale e sicuro di sé, ma incline alla violenza quando l'onore è minacciato. Tuttavia, alla fine degli anni '80, a causa dei rischi politici e degli stereotipi problematici, l'attenzione dell'antropologia si spostò su temi più complessi, mettendo in evidenza la necessità di un'analisi più equilibrata e precisa. Nel 1959, un incontro tra antropologi in Austria portò alla pubblicazione di “Honour and Shame: The Values of Mediterranean Society”, un'opera che esplora come l'onore e la vergogna costituiscano un elemento fondamentale del pensiero mediterraneo. Julian Pitt-Rivers, uno degli autori principali, analizzò il concetto di onore, evidenziando come, in alcune società, come quella andalusa, onore e potere siano interconnessi. Pitt-Rivers osservò che sia gli aristocratici che i gangster condividono un concetto di onore che li pone al di fuori delle leggi statali. In queste società, la violenza era un mezzo per riparare o vendicare un disonore, un concetto che Pitt- Rivers collegò alla centralità del corpo, in particolare alla testa, simbolo di onore. Il caso della cittadina di Sierra de Cádiz, in Andalusia, illustra come l'onore regoli le interazioni sociali ed economiche, ma solo entro cerchi ristretti di relazioni familiari e d'affari. Nei confronti dell'autorità statale, tuttavia, non si applicano gli stessi principi. Pitt-Rivers descrisse inoltre le contraddizioni presenti in queste culture: da un lato, si richiedevano comportamenti di virtù e purità, come nel caso di Manuel, un uomo che, pur essendo fisicamente poco attraente, mostrava un forte attaccamento all'onore familiare. Durante una fiesta nella valle, una bella ragazza gli passò accanto senza prestare la minima attenzione e Manuel, rivolgendosi a Pitt-Rivers, affermò che se non fosse stato per l'anello, non avrebbe permesso alla ragazza di passargli accanto in quel modo. Egli, in questo modo, dimostra di essere un uomo virile ma soprattutto l'uomo di famiglia, attento all'onore di sua moglie: un carattere contraddittorio imposta a tutti gli uomini del villaggio, che devono essere sempre su di giri e puritani al tempo stesso. Questo fenomeno rispecchia la tensione tra onore e vergogna, che spesso si traduce in comportamenti contraddittori. Jane Schneider, studiosa della Sicilia, criticò Pitt-Rivers per non aver considerato le radici ecologiche della cultura dell'onore. Secondo Schneider, i pastori, che vivevano in contesti con un'autorità politica debole, svilupparono una cultura dell'onore per difendersi dalla minaccia rappresentata dall'influenza degli agricoltori. In questo contesto, il furto, anche se moralmente ambiguo, poteva essere considerato un atto onorevole, simboleggiando l'autonomia e l'autosufficienza dei pastori. Questo comportamento si rispecchiava anche nelle comunità sarde, dove anche il più piccolo pastore era etichettato come "chisineri" (femminuccia) se non avesse partecipato a furti. Le società di pastori, come quelle nel Mediterraneo, necessitano di autonomia politica ed economica e si fondano sulla famiglia nucleare, una dinamica riscontrata anche in altre parti del mondo, come la Mongolia. Queste comunità nonostante le difficoltà, non crollano in conflitti incessanti, ma si basano su un codice di onore e vergogna che regola le tensioni interne. Tuttavia, la domanda centrale rimane: esistono altre combinazioni di valori che spiegano il comportamento umano oltre a onore e vergogna? Michael Herzfield, in un'analisi della Grecia, sfidò l'idea di una cultura uniforme dell'onore e della vergogna. Studiando le comunità di Pefki e Glendi, evidenziò come i concetti di onore fossero assai diversi tra loro: mentre a Pefki l'onore si legava all'obbedienza alle leggi dello stato, a Glendi, invece, l'illegalità era considerata una virtù. In questi contesti, il concetto di onore non può essere considerato universale, ma variava notevolmente a seconda delle dinamiche sociali e politiche locali. La ricerca di Lila Abu-Lughod sui beduini egiziani dimostrò, nel 1986, che l'onore non riguardava solo gli uomini, ma anche le donne, e si esprimeva attraverso il pudore. Tuttavia, negli anni '80, l'antropologia si distaccò progressivamente dallo studio delle culture dell'onore per tre ragioni principali: gli stereotipi problematici, un cambiamento negli interessi degli antropologi, e l'assenza di una struttura sistematica che legasse questi studi. Tuttavia, lavori successivi, come quello di Andrew Shyrock sulla politica domestica in Giordania, hanno portato a un rinnovato interesse per i valori dell'onore e della vergogna, in particolare nel contesto delle relazioni politiche e sociali. Olismo e individualismo Accanto a queste analisi, Louis Dumont elaborò teorie sui valori, in particolare sull'olismo e sull'individualismo. Nella sua opera “Homo Hierarchicus” (1966), Dumont esplorò la struttura gerarchica delle caste in India, mettendo in evidenza come l'olismo — l'idea che ogni parte debba contribuire al bene del tutto — fosse un valore dominante. Dumont contrastò questa visione con l'individualismo tipico delle società occidentali, dove la libertà individuale è vista come un valore supremo. Questa tensione tra olismo e individualismo può essere osservata anche nelle dinamiche sociali occidentali, come nel caso della nobiltà inglese, che resisteva al cambiamento grazie all'alleanza con l'alta borghesia, come raccontato nella serie “Downton Abbey”. Infine, studi come quello di Joel Robbins sugli Urapmin di Papua Nuova Guinea, che avevano abbracciato il cristianesimo, mostrano come l'individualismo possa prevalere su valori relazionali tradizionali. Robbins osservò come la conversione religiosa cambiò radicalmente le priorità della comunità, spingendo l'individualismo a diventare il valore dominante. Nonostante ciò, il valore tradizionale del relazionismo rimase forte, creando un conflitto tra la ricerca della salvezza personale e la necessità di mantenere legami sociali. In conclusione, i valori non solo organizzano la vita sociale, ma sono anche fondamentali per la valutazione della qualità della vita stessa. Essi sono adattabili e cambiano in base alle esigenze e alle circostanze sociali, ma non sono mai completamente definiti o prevedibili. Possono anche portare a sofferenza morale, dimostrando la complessità e la fluidità dei sistemi di valori nelle diverse culture. Valore Nel contesto delle ricerche di James Ferguson svolte negli anni '80 nel villaggio di Mashai, in Lesotho, si esplora la relazione fra i Basotho e il loro bestiame durante un periodo di siccità. Nonostante un funzionario avesse suggerito alla popolazione di vendere gli animali per guadagnare denaro, gli abitanti si rifiutarono di farlo, poiché il bestiame rappresentava un elemento fondamentale per la loro identità e il loro benessere sociale (mistica del bestiame). Per loro, il bestiame non era solo una risorsa economica, ma anche un simbolo di status e potere, e veniva utilizzato per creare e mantenere legami sociali, come nel caso del pagamento del "lobola" (il dono matrimoniale). Inoltre, il bestiame fungeva da "fondo pensionistico", con gli uomini che avevano il controllo assoluto su di esso. Questa visione evidenzia come i valori sociali influenzano il concetto di valore economico, facendo sì che la ricchezza sociale derivante dal bestiame fosse considerata più importante della ricchezza monetaria. Ferguson suggerisce che scambiare il bestiame per denaro comprometterebbe le relazioni sociali basate su legami di solidarietà, poiché la ricchezza sociale si basa su valori condivisi e non solo su una transazione economica. Questo discorso trova parallelismi con gli studi di Malinowski nelle isole Trobriand, dove il sistema di scambio del kula, che può sembrare privo di senso per un osservatore esterno, ha un valore simbolico e relazionale enorme per i partecipanti. Nel kula, gli oggetti scambiati (come anelli e collane) servivano non solo come beni materiali, ma come strumenti per accrescere la reputazione e il prestigio sociale. In contrasto con questa visione relazionale degli scambi, l'economista Milton Friedman teorizzava che l'interesse personale e la ricerca di guadagno siano i motori principali dell'economia, una visione che ha influenzato anche la teoria del contratto sociale. Secondo questo approccio, gli scambi sono motivati da un calcolo razionale di dare per ricevere. Tuttavia, Mauss, nel suo “Saggio sul dono”, sfida questa visione sostenendo che nessun dono è veramente gratuito. Ogni dono implica una reciproca obbligazione, e gli scambi non sono mai completamente impersonali, ma legati a una relazione sociale che obbliga le persone a ricambiare. La nozione di "hau", un termine maori che indica l'obbligo di restituire ciò che si riceve, è cruciale in questo contesto, poiché suggerisce che il dono porta con sé una connessione umana profonda. Questo principio si ricollega a quello di Marx, che parlava dell'alienazione del lavoro: quando le persone rinunciano alla loro connessione con i beni che producono, si perde il valore sociale e umano in favore di un valore economico impersonale. Nel caso dei Basotho, il contesto di una società senza denaro evidenzia un'importante riflessione antropologica sul ruolo del denaro nelle relazioni sociali. Ferguson sottolinea come, quando il denaro entra in gioco, esso tende a separare le persone dalle loro relazioni dirette, diventando uno strumento impersonale di scambio. Il denaro perde il suo legame con l'individuo e diventa un mero valore nominale, come dimostra l'esempio di Keith Hart che analizza la moneta come simbolo di autorità (ad esempio, l'effigie di un sovrano) e valore universale. Nonostante ciò, Hart osserva che la parte simbolica della moneta (il "recto") perde importanza, mentre il suo valore nominale (il "verso") prevale nelle transazioni quotidiane. In questo contesto, l'economia moderna tende a ridurre gli scambi a una mera transazione tra persona e cosa, ignorando il valore simbolico e relazionale degli oggetti scambiati. Un esempio di questo cambiamento nella società contemporanea emerge dal lavoro di Engelke in Zimbabwe, dove l'adozione della cultura dei beni materiali e la monetizzazione dei matrimoni hanno sostituito la mistica del bestiame, portando le automobili a diventare simboli di successo. Questo ha portato a un aumento dei debiti, che hanno compromesso anche la tradizionale ricchezza della sposa. Deborah James, studiando il Sudafrica, osserva come l'incertezza economica abbia portato a un cambiamento nelle dinamiche sociali, con i debiti legati al denaro che hanno preso il posto della ricchezza legata al bestiame. I debiti legati al denaro, infatti, sono visti in modo negativo, mentre quelli legati al bestiame avevano un valore sociale positivo. Infine, David Graeber, nel suo libro “Debt: The First 5,000 Years” (2011), esplora come il debito sia una forma di connessione sociale. Nel suo studio sul Madagascar, Graeber osserva che il debito può essere visto come una relazione che lega le persone, piuttosto che una semplice transazione economica. Questo dimostra che non si tratta solo di un obbligo economico, ma anche una forma di legame sociale, che incoraggia le persone a mantenere relazioni più strette e a rafforzare i legami interpersonali, ribaltando l'idea che ogni scambio debba essere "completamente" reciproco. Sangue L’antropologia si è concentrata anche sull'aspetto del sangue, una realtà a tratti utile e a tratti inutile: da un lato esso fornisce informazioni riguardo alla costituzione dell'essere umano, dall'altro lato questi stessi elementi universali possono indurre ad un rischioso autocompiacimento, soprattutto quando si valutano gli aspetti culturali connessi alla struttura fisica. Nel 1871, Lewis H. Morgan pubblicò “Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family”, un ampio lavoro sulle terminologie parentali, ma che forniva anche un modello per comprendere la consanguineità come sistema di idee. Come indica il titolo stesso, si parla di sistemi di sangue e sistemi di matrimonio. Il sangue occupa il primo posto nell'approccio di Morgan, il quale definì la famiglia “una comunità basata sul sangue”. Successivamente David Schneider pubblicò “American Kinship: A Cultural Account”, con l'obiettivo di smontare le tesi di Morgan. Gli americani considerano i rapporti di sangue fondamentali e duraturi, tant'è che mettono in evidenza il legame tra sangue e geni attraverso espressioni come “ce l'ho nel sangue”, metafora che però racchiude il significato letterale. I rapporti di parentela si istituiscono anche attraverso il matrimonio, sebbene essi siano soggettivi e dissolubili, a differenza dei rapporti di sangue, che è la forma primaria di identità. L'aspetto più interessante secondo Schneider è la gerarchia delle relazioni biologiche e sociali: parentela e biologia convergono in un unico punto; infatti, la consanguineità riguarda l'aspetto biologico e la realtà della procreazione. Ma le nuove tecnologie di produttive, quali le fecondazioni in vitro e la maternità surrogata, sono nuovi modi in cui la scienza sfida i limiti della biologia, a cui appartiene però anche il matrimonio tra individui dello stesso sesso: questi casi dimostrano come le distinzioni tra natura e cultura siano in continuo ed eterno mutamento. La logica della parentela assume importanza anche per la logica della razza, sebbene nelle esposizioni di Schneider non si parli direttamente di razzismo e razze. Questo perché i dati da lui raccolti venivano principalmente dalla classe media bianca, anche se egli precisò che le altre sue fonti riguardavano materiali su afroamericani, nippo-americani e gruppi minoritari altri. Ne consegue lo studio di Carol B. Stack in “All Our Kin”, che riguarda una piccola comunità di afroamericani del Midwest, i Flats. I legami di sangue tra i Flats non sono considerati fondamentali, in quanto certe parentele personali si basano su reali rapporti sociali di assistenza e mutuo soccorso. A questo punto, Engelke fa una digressione sul mito della razza, affermando che la razza non è altro che un'assurdità scientifica, una convenzione culturale. Negli schemi culturali, sangue e razza sono spesso legati tra di loro: nella storia americana si parla, infatti, di “leggi sul sangue indiano” e il criterio di “una sola goccia” di sangue, per definire l'identità razziale delle persone. Sostanzialmente, bastava avere un solo antenato, dunque una sola goccia di sangue africano, per essere un “nero”. Alcuni stati, come quello della Virginia, hanno utilizzato questo criterio per creare una legislazione basata sulla purezza razziale. Il Racial Integrity Act del 1924 affermava che se si possiede una mescolanza di sangue colorato, questo sarà sufficiente impedire che possano essere considerati bianchi, perché non è esclusa la possibilità che nella loro prole ricompaiono i tratti negroidi. Questo Act divenne incostituzionale nel 1967, ma la mentalità non scomparve del tutto. Il rapporto di sangue è dunque formulato concretamente in termini biogenetici. La tribù Washoe del Nevada faceva riferimento a questo principio per determinare l'appartenenza tribale. Tali leggi aiutavano a garantire l'accesso alle risorse e ai riconoscimenti federali, ma li rendevano completamente strani e le tradizioni. Per stabilire l'identità tribale si trasforma il sangue in un elemento concreto, quindi un numero, capace di fornire risposte nette, in cui prevale la permutazione matematica. Per un lungo periodo, nella metà dell'Ottocento, si cominciò a dubitare se si stesse realmente una tribù o una nazione Washoe, come gruppo stabile ben delimitato, in quanto chiunque avesse imparato la lingua sarebbe stato riconosciuto un membro della tribù. Effettivamente il sangue aveva ben poco a che fare con l'idea di parentela o identità. Lo stesso principio riguarda anche la famiglia nucleare. I Washoe vivevano in gruppi e attribuivano agli zii la stessa importanza dei genitori; anche l'adozione era una pratica abbastanza comune. Un altro esempio riguarda gli Iñupiaq dell’Alaska, presso i quali il legame esistente tra genitori, figli e fratelli non è solido ma si basa tutto su un concetto di autonomia, tant'è che anche i bambini più piccoli possono prendere decisioni autonome. Infatti, loro non dicono che la madre “ha dato alla luce il bambino”, bensì che il bambino “ha preso vita”, perché individuano in lui la scelta di nascere. Anche in questo caso, l'adozione è molto diffusa, perché i bambini possono spostarsi di una famiglia all'altra secondo il loro volere. Ciò non vuol dire che le varie forme di solidarietà di gruppo non esistono, perché comunque possono riconoscere come tali i loro fratelli biologici, essendo consapevoli dei meccanismi della procreazione, ma non lo considerano un valore fondamentale. È interessante notare il fatto che la lingua di questi indigeni non possiede un termine equivalente alla parola “famiglia”. Il sangue, però, non è l'unica sostanza corporea ad avere importanza nei rapporti di parentela. Infatti, in alcune culture guadagna importanza anche il latte materno. L'antropologa egiziana Fadwa El Guindi racconta di aver tracciato l'albero genealogico di una sua collega del Qatar e di aver scoperto che un altro suo collega, anch'egli qatariota, non poteva sposarla, perché i due erano fratelli di latte: la donna, che aveva sposato il fratellastro di Abdal, li aveva allattati entrambi, in quanto era la madre di Laila. La sorella di questa aveva sposato il padre di Abdal. La parentela di latte, nella tradizione islamica, è una consuetudine di lunga data e crea rapporti riconosciuti giuridicamente, che si ottengono affetto, cura e sostegno reciproco. Questo comporta un divieto matrimoniale secondo il modello della shari’a, in quanto costituirebbe una trasgressione ad una delle tre relazioni di vicinanza, ossia il sangue, il matrimonio e il latte. Il declino della parentela di latte può essere attribuito a diversi fattori, quali la modernizzazione e la globalizzazione. In Libano, l'allattamento al seno della balia è meno comune sia perché usano il latte in polvere sia perché le balie sono costose, ma inoltre si è sviluppata la preoccupazione che un figlio possa sposare senza saperlo la persona che è stata nutrita dalla stessa fonte di latte. Paradossalmente, gli studiosi islamici sono a favore dei progressi medici che aiutano la procreazione, infatti la fecondazione in vitro è ampiamente accettata e molto richiesta, a differenza della gravidanza surrogata, per cui si è aperto un dibattito giuridico, in quanto si cercano di capire le conseguenze in caso in cui la madre surrogata rivendichino la maternità. Secondo alcuni non può però rivendicare alcun diritto o legame, mentre altri la considerano un super-concentrato della parentela di latte. Il sangue racchiude in sé un nucleo fondamentale di valori e di interessi: per cui emergono questioni legate alla vita alla morte, spesso connesse a nozioni di purezza e impurità. Janet Carsten si occupò del legame tra biologico e corporeo, tra sociale e culturale, con uno studio sulla parentela in Malesia. Ciò che si deve tenere in considerazione è che “il sangue non mente”, cioè il vero temperamento di una persona si rivela sempre. Le proprietà materiali del sangue, ossia il colore rosso, la forma liquida e l'origine corporea plasmano determinati significati e associazioni ideali. In particolare, secondo la Carsten, lo stato liquido spiega il suo ruolo così centrale in diversi ambiti: GENERE, il sangue non è sempre di genere, ma spesso si lega al genere femminile, per via dell'associazione con l'idea del parto e delle mestruazioni. Nelle comunità degli Iatmul, per esempio, si svolgono delle pratiche di salasso che eliminano la femminilità nei ragazzi adolescenti. Tra i bramini Vathima, è molto diffuso l'isolamento delle donne mestruate, che non devono cucinare o avere rapporti sessuali, tant'è che vengono confinate nella parte posteriore dell'abitazione per tre giorni, al fine di mantenere puro l'ambiente domestico. Oggigiorno questa pratica si è modernizzata, in quanto molte donne limitano la loro reclusione a poche ore durante la mattina. RELIGIONE, che rimanda immediatamente all'immagine del sangue di Cristo, che viene simbolicamente anche consumato nei momenti della transustanziazione, come atto di purificazione e redenzione. il sangue è considerato una forma di sacrificio e, sebbene spesso si utilizzi il sangue animale (soprattutto di renna), non mancano i casi in cui si compie il sacrificio estremo, che si verifica comunque molto raramente. POLITICA, che riguarda in particolare la morte di un soldato per il proprio paese, il sacrificio estremo. ECONOMIA, in cui il denaro viene reso con la metafora del sangue, in quanto linfa vitale del sistema economico. Alcune espressioni: talvolta le aziende hanno bisogno di trasfusioni di denaro contante; i soldi sporchi di sangue sono generati da uno scambio illecito… Ma, i Nuer del Sud Sudan, individuano una mancanza di vitalità nel denaro, che non ha sangue e non incoraggia lo sviluppo dei rapporti sociali. Questi esempi sul significato materiale metaforico del sangue racchiudono ancora una volta il fatto che è difficile distinguere la natura dalla cultura. Nei simboli stessi si combinano associazioni di idee antitetiche: il sangue è vita, ma è anche morte; il sangue purifica, ma contamina. Identità Nel periodo vittoriano, gli studiosi non affrontarono il concetto di identità, un tema che oggi occupa un ruolo centrale nelle ricerche, visto che è fondamentale per definire il proprio “io”. Una delle prime definizioni di identità proviene dall’Oxford English Dictionary, che la descrive come una qualità che fa sì che una persona sia sostanzialmente uguale a sé stessa nel tempo. Tuttavia, il concetto di “identità” viene esplorato più approfonditamente con l'espressione di Erik H. Erikson, che nel suo libro “Identity: Youth and Crisis ” (1968) introduce la nozione di “crisi d’identità”. Erikson, studiando i giovani coinvolti in movimenti sociali come il Black Power, il femminismo e le proteste antimilitariste, sostenne che la politica dell’identità fosse un potente strumento di critica sociale e di definizione dell’io. Erikson utilizzò anche i suoi studi sulla psicologia infantile, in particolare quelli relativi agli indiani Sioux nel libro “Childhood and Society” (1950), per mettere in discussione la missione civilizzatrice imposta sulle popolazioni native e gli effetti psicologici derivanti dalla negazione della possibilità di organizzarsi socialmente. Questo contribuisce a dimostrare come le difficoltà sociali e storiche possano avere un impatto diretto sull'identità, sollevando la questione del suo cambiamento nel tempo. Nel corso del Novecento, a partire dagli anni ‘30, gli individui iniziarono a concepirsi come portatori di diritti, una trasformazione che si concretizzò con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, che affermava l'importanza dell'individuo. Negli anni ‘70, si riconobbe che anche i diritti collettivi erano essenziali quanto quelli individuali, portando a un'ulteriore riflessione sull'identità. A metà del secolo, la globalizzazione iniziò a diventare un fenomeno centrale, cambiando il concetto di identità. La globalizzazione ha creato un mondo interconnesso, comprimendo i confini di tempo e spazio e promuovendo l’uniformità culturale. Tuttavia, la risposta a questo processo fu un rafforzamento delle identità culturali locali. Un esempio significativo è quello del Belize, dove negli anni ‘90 l’introduzione della televisione satellitare cambiò radicalmente il rapporto con la Gran Bretagna e permise alla popolazione di sentirsi parte di un mondo più ampio. Questo cambiamento culturale, però, suscitò preoccupazioni riguardo alla propria identità, che iniziò a essere riaffermata attraverso la riscoperta delle tradizioni musicali locali. Così, la globalizzazione non cancella necessariamente le differenze culturali, ma può stimolare la nascita di nuove forme culturali, anche attraverso il recupero di tradizioni antiche o le invenzioni di altre. Il concetto di identità è mutabile e può essere influenzato da vari fattori storici e sociali. Oggi, con la diffusione dei social media e del cyberspazio, è possibile per gli individui creare identità nuove, come nel caso degli utenti di Second Life, dove gli avatar, creature virtuali come scoiattoli o elfi, diventano espressioni di sé, anche se all'interno di determinati standard sociali. Nonostante queste nuove forme di identità, la convinzione che l'identità sia qualcosa di fisso e immutabile persiste. La ricerca antropologica, come quella di Ashley Montagu in “Man’s Most Dangerous Myth: The Fallacy of Race” (1942), ha dimostrato che la razza è un concetto biologicamente infondato, in quanto non esistono sottospecie umane e le differenze genetiche tra le popolazioni sono minime. Questo concetto è stato ulteriormente rafforzato dagli studi di genetisti e antropologi negli anni ’90, che hanno affermato che la razza è un'invenzione sociale e culturale, non un dato biologico. Tuttavia, in contesti culturali dove persiste la nozione di razza, come nel caso di un bambino adottato da una famiglia di razza diversa, l’identità viene comunque influenzata dall’ambiente sociale e dalle aspettative culturali che gli altri pongono su di lui. Un esempio è quello di Lee D. Baker, un afroamericano adottato da una famiglia bianca, che sostiene che la razza è allo stesso tempo un'illusione e una realtà concreta, un fatto culturale che non dipende esclusivamente dalle caratteristiche biologiche. Un altro esempio è la lotta degli indiani Mashpee per il riconoscimento come tribù, una battaglia che iniziò negli anni ’70. I Mashpee avevano subito un lungo processo di assimilazione e la loro identità tribale era stata soppressa dalle dinamiche sociali e politiche del New England (in quanto non erano “diversi”). Nonostante questo, tentarono di ricreare un’identità tribale che rispecchiasse le loro tradizioni culturali. La causa legale per il riconoscimento federale della loro tribù, che culminò nel 2007 con il riconoscimento ufficiale, dimostra che l’identità non è un elemento fisso, ma un processo in continua evoluzione, che può essere influenzato dalla politica e dai cambiamenti sociali. Il concetto di cultura è strettamente legato all’idea di identità e alla lingua. Sebbene la lingua non definisca in modo assoluto l’identità, è spesso vista come un elemento fondamentale che racchiude l’essenza della persona. Gli studi di linguistica e ideologia linguistica ci mostrano come la lingua sia interpretata culturalmente, sia come espressione dell’autenticità che come strumento di legittimazione politica, come nel caso delle lingue dominanti, come l'inglese, che trascendono la specificità di un luogo. Molti antropologi linguisti hanno lavorato sull'ideologia linguistiche delle società moderne occidentali, individuando due tipi principali di ideologia: autenticità, basata sull'essenzialismo, per cui la nostra lingua esprime qualcosa in grado di integrare ciò che siamo sia individualmente che corporativamente (es. il francese charmant la cui naturalezza va di pari passo con le sue melliflue paroline dolci); si riscontra soprattutto nel momento in cui si cerca di apprendere e imitare la complicità di determinati accenti; anonimato, che sta dietro alla legittimità delle lingue dominanti, che funzionano all'interno di un Arena politica che comprende diversi gruppi e comunità; per esempio, l'inglese, dove in molti contesti non è previsto che appartenga ad un luogo preciso, ma che ne trascenda. sebbene siano diverse l'una dall'altra, in realtà condividono il naturalismo sociolinguistico (espressione della Woolard), per cui è un'ideologia naturale, un dato di fatto. Nel XXI secolo, l’identità è vista sempre più come un concetto performativo, che non è fisso ma che si costruisce attraverso azioni e scelte quotidiane. Questo è evidente nei movimenti nazionalisti europei, che, pur basandosi su ideologie di autenticità, sono anche il frutto di una serie di scelte politiche e culturali. Un esempio significativo è la Catalogna, dove, dopo la fine della dittatura di Franco, la lingua catalana e l’identità nazionale divennero strumenti di affermazione culturale e politica. Tuttavia, con l’immigrazione e la crescente diversità, l’identità catalana è diventata più flessibile, come evidenziato negli studi di Kathryn Woolard. Gli studi della Woolard del 1987 mostrarono una classe di adolescenti dell'istituto superiore formata principalmente da filocatalani: da una parte vi erano i ragazzi di lingua castigliana più rozzi e sgarbati, dall'altra i ragazzi di lingua catalana più raffinati è più acculturati. Contribuiva anche il fatto che i madrelingua castigliani si sentivano emarginati dalle istituzioni circa vent'anni dopo il suo studio, la Woolard rintracciò alcune delle persone che aveva incontrato come studenti: la maggior parte di studenti madrelingua castigliani, si era ormai identificati con i catalani, avevano acquisito maggiore sicurezza e senso di appartenenza, ma permaneva il senso di esclusione che avevano provato durante gli anni di adolescenziali. Sempre nel 2007, ripeté la stessa ricerca della stessa scuola: il mezzo linguistico non era più un elemento costitutivo dell'identità, che invece esprimevano attraverso lo stile, i vestiti, e la musica. Negli anni successivi, anche i catalani di lingua castigliana si sono identificati maggiormente con la cultura catalana, nonostante le difficoltà iniziali: essi sfilarono in prima linea per affermare l’indipendenza della Catalogna. Questa evoluzione dimostra come l'identità, anche in un contesto nazionale, possa essere influenzata dai cambiamenti sociali e culturali e non sia un concetto immutabile. Autorità Nel 1971 Annette Weiner arrivò alle isole Trobriand dove rimase colpita dalle lacune nelle esposizioni di Malinowski, in quanto mancava di alcuni momenti importanti della vita degli individui, in particolare delle donne, che si pensava non avessero niente a che fare con il mondo della produzione degli scambi dell'Anello del kula. Eppure, queste donne non hanno a che fare soltanto con la natura, quindi con la gravidanza e con la preparazione del cibo, ma in realtà producono stoffe e ne controllano la loro circolazione. La stoffa è necessaria al mantenimento di una salda discendenza matrilineare, perché alla morte di un parente distribuiscono la ricchezza rappresentata dalla stoffa per i singoli debiti accumulati dal defunto; è nuova e mai usata, a differenza degli oggetti dell'Anello del kula, perché non è passata di mano in mano, simboleggiando così la purezza della discendenza matrilineare. La stoffa conferisce una sorta di autonomia alle donne delle isole Trobriand. L'antropologa precisa su Malinowski che la sua era un'esposizione androcentrica: sottolineò il fatto che i nativi possono avere anche più punti di vista, riproponendo una diversa definizione della sua missione antropologica (dunque non presentare il punto di vista dell'indigeno, bensì “i punti di vista degli indigeni”). Engelke vuole in questo caso sottolineare non tanto i risultati dell'antropologia, quanto più le sue modalità di rappresentazione, una sorta di autorità che si autoimpone, di cui Malinowski è una dimostrazione pratica. Tornando alle donne trobriandesi, la loro stoffa funge da materiale simbolo dell’autorità e del potere politico, perché ne producono mantelli, vesti della regalità, paramenti clericali e i sudari dei morti. Addirittura, in molte parti del Pacifico (e della Polinesia più in particolare), la stoffa è un simbolo persistente di potere, prestigio e di autorità. In ogni caso, sebbene la Weiner avesse evidenziato la minore attenzione che Malinowski aveva posto sulle donne, la stessa ammette che comunque la produzione della stoffa ha un'autorità più limitata rispetto a quella degli uomini, dimostrando ancora una volta il predominio del patriarcato. Ne sono esempio: - la questione dell'onore e della vergogna, perché gli uomini si fanno onore e le donne invece lo perdono; - la mistica del bestiame dei Basotho, dove le donne non hanno grande ruolo; - l'idea della ricchezza della sposa, perché si trattano le donne come dei beni che possono essere comprati e venduti; - la discendenza matrilineare, forma di autorità definita dalle donne, dove in realtà il potere affidato a degli uomini diversi, ossia i loro fratelli; - il sangue che viene associato alla contaminazione femminile, al pericolo e alla morte. Tutti questi esempi non vogliono però affermare che ogni cultura è in realtà un sistema patriarcale, secondo Engelke. Ovviamente gli uomini si trovano sempre in cima alla piramide sociale, ma se si ponesse l'attenzione su prospettive diverse, ad esempio sulla produzione di stoffa, o sulla gravidanza, o ancora sul ruolo degli insegnanti delle scuole elementari, allora si dimostra che anche le donne hanno comunque un ruolo nella società. L'errore, per alcuni antropologi, sta nel considerare donne e uomini come pezzi di una scacchiera, concetto analizzato soprattutto dalla Strathern in “The Gender of the Gift” (1988). Per comprendere meglio il concetto, prosegue la sua spiegazione attraverso due esempi: lo studio sulla fatwa in Egitto e uno sui cacciatori-raccoglitori di lingua Chewong. Per “ricchezza della sposa” si intende la pratica per cui, in occasione del matrimonio, i genitori o i parenti dell'uomo offrono determinate cose ai genitori o ai parenti della donna. Questa espressione potrebbe rappresentare la consuetudine di trattare le donne come merce da vendere: a tal proposito, oggi si utilizza l'espressione inglese “bridewealth”, ma un tempo si utilizzava l'espressione “brideprice”, che nel 1931 l'antropologo Evans-Pritchard aveva suggerito di abolire perché fuorviante, perché secondo lui escludeva importanti funzioni sociale e incoraggiava a pensare l'idea di prezzo come sinonimo di acquisto. Il fenomeno evidenzia una divisione generazionale, più che di genere: la ricchezza della sposa non passa alla sposa, bensì ai suoi genitori, perché sono i più anziani a dettare legge. Eppure, ci sono alcuni casi in cui la ricchezza della sposa si traduce in una fonte di autoaffermazione delle donne, in particolare in Cina. Yunxiang Yan si occupò delle trasformazioni socio-culturali di un villaggio della Cina nord-orientale, per via della globalizzazione. Le politiche che contribuirono ai cambiamenti furono implementate dal Partito Comunista Cinese a partire dagli anni ‘50 del Novecento ed erano basate su principi socialisti di comunitarismo e mutualità. Prima di tutto si prevedeva l'abolizione della ricchezza della sposa, considerata un’usanza tradizionale e arretrata, che ostacolava la modernizzazione socialista, per indirizzare verso un ideale di famiglia nucleare dove lo stato avrebbe avuto un ruolo più significativo. Un altro fattore fondamentale era quello dell'amore filiale, che imponeva obbedienza ai propri genitori dunque rispettarne i desideri, averne cura della vecchiaia e prendere decisioni nella propria vita che riflettessero i loro interessi. L'obiettivo del PCC era sostituire l'amore filiale con il nazionalismo filiale. Il fenomeno della ricchezza della sposa però non scomparve del tutto, ma si trasformò in altre forme di transazioni matrimoniali. Il concetto di personalità individuale non dipende solo dalle tradizioni matrimoniali, ma anche dalle pratiche legate al regno dei morti, che rivestono un ruolo importante nella modernità. Il Partito Comunista Cinese (PCC) aveva cercato di distinguere non solo la ricchezza portata dalla sposa, ma anche altri rituali, come le nenie funebri. Questi lamenti, simili a quelli delle prefiche, sono espressioni poetiche ben radicate nella tradizione e rappresentano un modo per elaborare il dolore del lutto. Non tutte le lacrime in questi rituali sono sincere, ma la pratica ha una funzione terapeutica e consolatoria, dando voce alla collettività e riflettendo le preoccupazioni di una comunità di fronte alla morte. Il PCC, tuttavia, non vedeva con favore queste tradizioni, poiché esse si inseriscono in un sistema di rituali che onorano gli antenati e perpetuano una visione della morte legata al rispetto per il passato. In modo simile, il governo degli Stati Uniti, attraverso investimenti per il trattamento dei resti dei soldati morti in Vietnam, ha messo in evidenza l'importanza di dare un degno riposo ai defunti, come parte di un processo di accettazione della perdita. Negli anni '90, il ricercatore Erik Mueggler ha studiato le pratiche funerarie nella provincia cinese dello Yunnan, osservando come i lamenti funebri riflettessero il contesto sociale e familiare, mettendo in evidenza le relazioni e i ruoli sociali. Tuttavia, quando Mueggler è tornato nel 2011, ha constatato che questi rituali erano cambiati, influenzati dalla modernità. I lamenti funebri si erano progressivamente individualizzati, concentrandosi maggiormente sulla figura del defunto piuttosto che sulle dinamiche sociali e familiari. Questo cambiamento riflette una trasformazione più ampia dei rituali, che spesso assumono una dimensione spettacolare. Durante un rituale, la domanda centrale riguarda chi stabilisce le regole e quale sia il suo scopo. Il rituale, infatti, trasmette autorità ed è uno strumento che mantiene l'ordine sociale, incoraggiando la partecipazione attiva della comunità. Questi rituali sono facilmente riconoscibili, poiché si distinguono per abbigliamento, comportamenti e altre manifestazioni. Veicolano un messaggio di “meta-livello”, suggerendo che ciò che accade durante il rituale ha un significato profondo nel contesto dell'ordine sociale. Partecipare a un rituale implica sentirsi parte di qualcosa di più grande, di un sistema tradizionale che trascende l'individuo. I rituali formali, che includono preghiere e momenti liturgici, svolgono una funzione disciplinante, imponendo un ordine predefinito e definendo chiaramente il ruolo di chi li esegue. In questi casi, l'autorità del rituale non si concentra tanto sull'officiante, ma sull'azione rituale stessa, che è percepita come un atto che deve essere svolto secondo regole prestabilite, senza spazio per modifiche o novità. In questo contesto, si inseriscono i riti di passaggio che generano una trasformazione nello status delle persone (cambiano la loro posizione sociale). L'autorità in alcuni tipi di rituali viene espresso attraverso un uso particolare del linguaggio, con quelli che il filosofo John langshaw Austin aveva definito forza illocutiva. L'autorità non è soltanto una questione di forza o di potere apertamente dichiarato: ma a questo punto, come viene autorizzata? Engelke, porta ad esempio uno studio antropologico condotto in Egitto da Hussein Ali Agrama, riguardo due importanti istituzioni: i tribunali con giurisdizione sullo stato della persona e il Consiglio per la fatwa. i due risultano simili perché sono organi statali governati dalla shari’a islamica, ossia il sentiero che il musulmano devoto è chiamato a seguire. Le due istituzioni però presentano anche delle differenze, poiché laddove il consiglio per la fatwa ha un carattere consultivo, il tribunale emette sentenze vincolanti e ufficiali. Sebbene venga mal interpretata dall'occidente, la fatwa rappresenta l'opinione al consiglio di una figura dotta, lo sceicco, che spesso è un esperto di studi islamici ed è richiesto per lo più da persone che sentono il bisogno di un consiglio su come vivere da buon musulmano. Questo ascolta e cerca di ottenere il massimo chiarimento della situazione, facendosi un'idea anche del carattere della persona. Lewis Morgan era soprattutto affascinato dal modo in cui si esprimeva il sistema matrilineare presso il popolo di irochese. Lo stato ha sempre avuto un ruolo centrale per l'antropologia riguarda i concetti di organizzazione politica e di autorità, motivo per cui si dividevano le società in due categorie due punti con stato o senza stato. Esistono però delle società di cacciatori-raccoglitori in cui non è facile collocare esattamente l'autorità: i Chewong sono un piccolo gruppo aborigeno della penisola malese studiata dall'antropologa norvegese Signe Howell all'inizio degli anni ’80, presso cui non aveva mai vissuto nessun estraneo e avevano avuto pochi contatti con il resto del mondo. Il loro modo di vivere è un modo di essere in cui risultavano assenti gerarchia, stato e autorità, per cui rapporti sociali sono egualitari ed evitano attivamente ogni tipo di competizione. Governa l'uguaglianza tra i sessi, poiché secondo il mito della creazione vengono creati contemporaneamente allo stesso modo e ciò si ripercuote anche nel processo a due fasi dell'allevare un figlio: l'uomo dà nutrimento al bambino attraverso rapporti sessuali con la moglie durante la gravidanza, lei se ne occupa dopo la nascita. Ragione L'antropologia si occupa anche di come pensano e ragionano gli indigeni: Engelke parte dall'analisi con il confronto alla realtà, concentrandosi con il rapporto che essa ha con il linguaggio e con il pensiero. In primo luogo, il linguaggio trae in inganno, dando informazioni errate, perché si dà per scontato che l'analisi linguistica rifletta la realtà, così come affermava Benjamin Lee Whorf, esperto di antropologia linguistica. Whorf studiava i testi di grammatica e il lessico degli Hopi, i geroglifici Maya e l'antico azteco: in “ The Relation of Habitual Thought and Behaviour to Language” (1939), sosteneva che la struttura della lingua plasma i modi di percepire il mondo, ma le sue conclusioni superavano la discrepanza tra i segni linguistici (“bidone vuoto”) e gli stati oggettivi (“altamente infiammabile”) Attraverso il confronto con le lingue Standard Average European e la lingua Hopi, cioè lingue molto lontane tra di loro, comprese l'importanza delle metafore spaziali e fisiche, assenti nel popolo Hopi. Mentre le lingue Sae oggettivizzano e quantificano tutto, la lingua Hopi no: non esiste un equivalente per i giorni, ma inseriscono il numero in un rapporto (“Sono partiti dopo il decimo giorno”). Anche per quanto riguarda le fasi dei cicli temporali, questo varia tra le due lingue: gli Hopi individuano l’estate con l'esperienza del calore e non utilizzano un sostantivo, bensì un avverbio. Ciò non significa che non riconoscano quando termina