Elementi di Antropologia Culturale (PDF)
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Ugo Fabietti
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Questo libro, Elementi di Antropologia Culturale, fornisce un'introduzione al concetto di antropologia culturale. L'autore, Ugo Fabietti, analizza le origini e i significati di questa disciplina, esplorando i modi diversi in cui le culture umane si manifestano nel tempo e nello spazio. Il testo accenna anche alle principali aree di studio dell'antropologia.
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Elementi di antropologia culturale (Ugo Fabietti) Parte prima Genesi e natura dell’antropologia culturale Capitolo 1 Origine e significato dell’antropologia Antropologia significa… Il termine antropologia si riferisce, in modo molto generico, allo studio del genere umano. Tuttavia, questa definiz...
Elementi di antropologia culturale (Ugo Fabietti) Parte prima Genesi e natura dell’antropologia culturale Capitolo 1 Origine e significato dell’antropologia Antropologia significa… Il termine antropologia si riferisce, in modo molto generico, allo studio del genere umano. Tuttavia, questa definizione è vaga e imprecisa, poiché molte altre discipline, come la filosofia, la psicologia, la sociologia e la storia, trattano aspetti della condizione umana. La differenza principale risiede nel fatto che l’antropologia si concentra sullo studio culturale dell’uomo, ossia sulle idee e i comportamenti che definiscono le diverse popolazioni in contesti storici e geografici lontani tra loro. L’antropologia culturale indaga le ragioni per cui gli esseri umani si manifestano in maniera così diversa nel tempo e nello spazio. Per comprendere la nascita e l’evoluzione di una disciplina, bisogna riflettere su due domande fondamentali: quali sono le condizioni che hanno portato alla sua nascita, e cosa fanno esattamente coloro che la praticano? L'antropologia ha origini molto antiche, che risalgono agli scritti di pensatori come Erodoto, studiodo greco il quale, pur non essendo un antropologo nel senso moderno, descriveva le differenze tra popoli diversi, specialmente sui costumi e le abitudini delle popolazioni con cui entrava in contatto durante i suoi viaggi. Tra questi vi erano Persiani ed Egiziani, nei quali confronti Erodoto volgeva uno sguardo privo di forme di razzismo e di pregiudizi. Tuttavia, una visione moderna e scientifica dell’antropologia emerge solo molto più tardi, a partire dal XVII secolo in Occidente, quando il pensiero umanista e le esplorazioni del "Nuovo Mondo" cominciarono a sollevare interrogativi cruciali sulla natura dell’uomo. La scoperta dell’America e la colonizzazione, ormai di dimensioni planetarie, da parte di alcune delle maggiori potenze europee mette in contatto queste ultime con nuovi mondi, fino a quel momento sconosciuti, e mette in crisi la visione classica dell’umanità, dando origine alle prime domande di tipo antropologico, quali: “Sono gli abitanti di questi nuovi territori esseri umani come noi?”; “Hanno un’anima?”; “Sono giusti i loro costumi?” "Come si possono distinguere le culture umane?”; "Gli esseri umani sono diversi per razza*?" Questi interrogativi suscitavano anche preoccupazioni morali, religiose e scientifiche nelle corti europee, contribuendo a un dibattito che sarebbe proseguito nei secoli successivi. *il termine razza veniva utilizzato dai primi studiosi, in quanto ritenuto adeguato: ad una certa fisionomia, struttura somatica del corpo e del volto etc. corrispondeva una determinata cultura, un modo di vivere Con l’espansione coloniale, inoltre, gli europei cominciarono a documentare più frequentemente le culture dei popoli che incontravano, in particolare i missionari gesuiti, che, a partire dalla fine del Cinquecento, descrissero in dettaglio i costumi e le istituzioni sociali di popoli extra-europei. Tuttavia, queste descrizioni non erano ancora il frutto di un approccio scientifico sistematico. La vera antropologia, come la conosciamo oggi, cominciò a prendere forma solo alla fine del Settecento, quando gli illuministi concepirono l’idea che tutti gli esseri umani appartenessero a una specie naturale comune e avessero potenzialmente le stesse capacità mentali. La disciplina divenne un campo di studio più coerente e scientifico, con un progetto che cercava di comprendere le diverse espressioni culturali in modo globale e non più solo attraverso un’ottica eurocentrica. Nel XIX secolo, l'interesse per i popoli detti “esotici” crebbe esponenzialmente, anche a causa dell’ulteriore espansione coloniale e dei traffici commerciali. Le potenze europee, come Spagna, Portogallo, Inghilterra e Francia, colonizzavano nuove terre in Africa, Asia e Oceania, mentre negli Stati Uniti i nativi venivano confinati nelle riserve. L’antropologia divenne una disciplina accademica durante quest'epoca, soprattutto grazie alla possibilità che essa aveva di raccogliere informazioni dettagliate su popolazioni distanti attraverso lo studio delle loro istituzioni sociali, religiose e politiche. A partire da questo periodo, gli antropologi si concentrarono soprattutto sullo studio dei popoli cosiddetti "selvaggi" o "primitivi", che vivevano in aree isolate, come le foreste africane o le isole del Pacifico, e che sembravano rappresentare forme arcaiche della cultura 1 umana. La nascita dell’antropologia culturale avviene, in questo stesso periodo, anche sulla base della rivoluzione industriale. Il mondo occidentale e in particolare quello europeo diventata un mondo incentrato sulla produzione e sull’uso di forze diverse da quella umana, come il vapore e l’elettricità. Il capitalismo era un grande distruttore delle diverse culture, in quanto imponeva in tutte le aree identici modi di produzione, di istituire e costruire il mercato, di instaurare rapporti monetari di commercio, creando il presupposto di un fenomeno che per noi è ormai scontato. Questa uniformità del mondo moderno produce, per reazione culturale e intellettuale, insieme anche ad altri elementi di ordine storico (come la nascita del nazionalismo), l’interesse per la vita delle comunità tradizionali, ovvero per il folklore. Nel corso del XX secolo, l’antropologia ha subito una profonda evoluzione, passando dallo studio indiretto dei popoli lontani (spesso attraverso resoconti di esploratori e missionari) alla ricerca sul campo, che implica l’interazione diretta con le popolazioni studiate. A partire dalla fine del XIX secolo, gli antropologi cominciarono a recarsi direttamente nelle comunità che volevano studiare, vivendo tra loro e osservando da vicino i loro comportamenti e stili di vita. Questo approccio ha caratterizzato l’antropologia moderna e ha permesso un’analisi molto più approfondita e diretta delle culture e delle società. Oggi, gli antropologi non si limitano più a studiare solo le popolazioni cosiddette "primitive", ma si occupano di una varietà di fenomeni sociali che riguardano tutti i gruppi umani, anche quelli delle società industrializzate. Si occupano di studiare fenomeni complessi come le migrazioni, i conflitti etnici, il consumismo, i culti religiosi, la tossicodipendenza e molti altri aspetti della società post- industriale. L’antropologia si è, quindi, ampliata a un campo di studio molto più vasto e diversificato. Gli antropologi di oggi si confrontano con un mondo che, nonostante i progressi tecnologici e scientifici, continua a essere segnato dalla povertà, dalle malattie, dai conflitti politici e dalle violenze. Il loro lavoro si svolge spesso in contesti difficili, dove la guerra, la schiavitù, la prostituzione e lo sfruttamento delle risorse naturali sono fenomeni diffusi. Questo nuovo contesto ha trasformato la professione dell’antropologo: non si tratta più solo di osservare popoli lontani, ma anche di affrontare questioni legate all’etica e alla politica, riconoscendo che lo studio delle società deve tenere conto delle disuguaglianze globali e dei processi di sfruttamento. Negli ultimi decenni, l’antropologia ha anche dovuto adattarsi a un mondo che ha visto cambiamenti culturali e sociali rapidi e spesso devastanti. Popolazioni un tempo considerate "primitive" hanno subito enormi trasformazioni a causa della colonizzazione, della globalizzazione e dell'impatto delle culture industrializzate. Alcuni gruppi sono riusciti a preservare aspetti della loro cultura grazie alla collaborazione con le istituzioni internazionali e gli antropologi stessi. Molti di questi gruppi collaborano attivamente con gli antropologi per documentare e preservare le loro tradizioni culturali, spesso attraverso iniziative museali. La missione dell'antropologia si può trovare in due proverbi opposti: "Tutto il mondo è paese”, secondo cui è inutile cercare diversità perché le persone si comportano e reagiscono alla stessa maniera e "Paese che vai, usanza che trovi”, per cui il mondo è una congregazione di differenze, riguardanti tutti gli aspetti della vita. L'unico mondo per orientarsi tra le differente è compararle. Il confronto è, dunque, uno degli strumenti metodologici della ricerca irrinunciabili. L’antropologia studia: 1.I comportamenti, in quanto mostra interesse verso la dimensione dell’umanità. Il campo di interesse degli antropologi verso l’essere umano non può essere totale, e la prima dimensione che essi prendono in considerazione è legata all’azione, alle attività. Ma quali attività? Le attività umane sono in parte fisiologiche, ma gli antropologi si interessano a quelle che sono oggetto di un apprendimento intenzionale degli esseri umani. Le attività compiute dall’uomo sono il frutto di una forma di un’educazione che è, prima di tutto, educazione del corpo. Questo è il primo elemento di interesse fenomenologico per l’antropologia. Gli antropologi riconoscono che il corpo può essere sede di apprendimento di azioni, che vengono memorizzate, conservate e selezionate ed eventualmente riprodotte secondo la volontà dei soggetti. L’antropologia non è interessata alle ragioni di ordine psicologico per cui si aderisce a determinati modelli, ma a come si formano i rispettivi modelli di vita culturale (incorporazione). Si è arrivati ad affermare che buona parte dei profili di differenze culturali non avvengono sulla base di filosofie, enunciazioni o altro, ma anche sulla base della formazione di habitus, ovvero di tutti i complessi di comportamenti legati al modo di vestire, di consumare, mangiare o altro, che 2 agiscono senza alcun bisogno di enunciazione. La distinzione culturale consiste nel fatto che, all’interno di una società complessa, diversi gruppi culturali specifici sono costituiti proprio dal fatto che certi ceti sociali costituiscono degli ambiti di rapporto con la vita materiale diversa. In tutte le culture esiste una parte di fatti culturali non esplicitati in simboli, per questo motivo il conoscere la lingua della società che si vuole studiare non è necessariamente d’aiuto all’antropologo (ex: pratiche economiche, cerimoniali, rituali, ludiche, politiche). 2.I modi di pensare, che rappresentano l’altro versante dialettico di questa realtà. Questi costituiscono la dimensione simbolica della vita culturale. Gli umani sono stati soggetti, lungo l’evoluzione, a una trasformazione graduale dell’apparato vocale e respiratorio e della parte anteriore della testa; dunque, da funzioni limitate, come i suoni, si è passati a quelle condizioni fisiche che hanno permesso la costituzione di un linguaggio. Ad un determinato segno, in questo caso di natura fonica, si può attribuire un determinato significa. Le culture costruiscono modi di pensare basandosi su dei sistemi di simbolizzazione, costruiscono discorsi, parole e modalità di comunicazione che vengono utilizzate in tutte le culture per costituire una serie di elementi modellanti della vita delle società. I gruppi umani utilizzano la loro capacità di comunicare per memorizzare eventi importanti per la vita comunitaria (genealogia, migrazioni, lutti, guerre etc.). Questi elementi diventano, con il passare delle generazioni, strutture simboliche che vengono trasmesse di generazione in generazione, o attraverso la memoria e l’enunciazione, o attraverso forme scritte. Questi eventi prendono la forma, nelle diverse culture, di corpus dei miti, i quali alludono al modo in cui una determinata società è stata formata. La dimensione dei comportamenti si incrocia con quella dei modi di pensare, anche se molto spesso gli studi antropologici svolti su campo mostrano che non c’è una concordanza totale tra queste dimensioni. Quasi mai, le culture umane, sono in grado di esplicitare attraverso discorsi, parole o corpus mitici, giuridici etc. l’insieme effettivo delle esperienze culturali che riguardano quel gruppo umano; resta sempre, infatti, un’area di non esplicitato (ex: visioni del mondo, credenze religiose, mitologie). 3.Le forme di organizzazione sociale, studiate dall’antropologia come modalità concrete di stabilire delle relazioni sociali all’interno di un gruppo. Le forme di organizzazione sociale, di per sé, potrebbero non implicare dei comportamenti specifici o nessuna forma particolare di simbolizzazione e modi di pensare. Questo aspetto va studiato secondo dei criteri precisi in quanto, ad esempio, normalmente le forme di organizzazione sociale (parentela, comunità religiosa, politica, rapporti amicali) si legano ad un vocabolario specifico (ex: aborigeni australiani). Le forme di vita sociale possono anche non coincidere con gli aspetti della vita materiale e con altri aspetti della vita dei soggetti (ex: rapporti di parentela, di produzione, organizzazioni politiche). Questi tre elementi sono strettamente legati tra di loro. Infatti, tutti questi fatti relativi ai comportamenti, ai modi di pensare e alle forme di organizzazione sociale vanno studiati in antropologia secondo una prospettiva olistica. “Olismo” significa che i fatti culturali sono totalmente interdipendenti da una serie di relazioni di necessità, di concausa e di compresenza che non possono essere studiati da soli; dunque ogni studio su un fatto culturale specifico deve necessariamente legarsi a tutti gli altri aspetti che lo compongono. Significa dunque che devo necessariamente organizzare il mio studio su quel determinato fatto sociale, senza evitare di tener conto dei fattori connessi a quella determinata condizione. Chi pratica l’antropologia deve assumere una posizione di lontananza, detta posizionamento. L'antropologo non deve posizionarsi troppo internamente rispetto all'oggetto dei suoi studi, in quanto si raggiungerebbe una storia mimetica (mimnesis), ovvero una proiezione. Allo stesso tempo, però, la distanza non deve essere estremamente eccessiva. Il problema che l'antropologo si deve porre è quello di posizionarsi ad una distanza intermedia. Quante sono le antropologie? L’antropologia, intesa come studio delle diversità umane, non è un concetto che appartiene solo alle civiltà occidentali. Lucy Mair, un'antropologa inglese, sottolineava che ogni popolo ha riflettuto sulla natura umana e sulle differenze tra di essi e gli altri. Non esiste cultura che non si sia posta la domanda su come siano fatti gli altri popoli, anche senza una tradizione scritta. L’elaborazione di teorie sulla natura umana, i costumi e le differenze tra i popoli è diffusa tra molte culture, anche quelle non occidentali. Spesso, questi popoli, nonostante non avessero 3 istituzioni dedicate allo studio sistematico del genere umano, avevano sviluppato visioni complesse dell'uomo e del cosmo, come dimostrano i loro miti e le teorie sul concepimento e la natura del corpo umano. Anche altri antropologi rifiutano l’idea che il pensiero antropologico riguardi esclusivamente l'Europa moderna, criticando l'approccio riduttivo che vede il discorso sull’umanità come frutto solo della cultura occidentale. Questo approccio etnocentrico, che tende a vedere l'Occidente come il centro della riflessione sull’umanità, è stato oggetto di critica da parte di studiosi che considerano l'antropologia come una disciplina globale che esiste ovunque, anche in culture "non scritte". La riflessione antropologica, quindi, non è esclusiva dell’Occidente, ma è una prerogativa di tutte le culture che, a vari livelli, si sono interrogate sull'uomo. Un aspetto distintivo dell’antropologia è che essa è stata espressione di una società capace di esercitare un dominio politico, economico e militare su altre società. In questo senso, l’antropologia culturale è anche il prodotto di una specifica condizione storica, che le ha conferito un carattere particolare. Inoltre, la disciplina si è evoluta riflettendo criticamente su se stessa e sulle sue categorie, metodi e implicazioni etico-politiche. Ma nonostante l'antropologia abbia avuto origine in un contesto socio-politico specifico, la sua visione è comparativa e globale. L’antropologia moderna si propone di comprendere la vita e l’esperienza di un popolo confrontandola con quella di altri popoli, spesso molto diversi. La visione antropologica si è sviluppata in un’epoca storica specifica, ma è diventata una forma di riflessione che supera i confini locali. Questo approccio comparativo è tipico dell'antropologia occidentale, che ha acquisito una dimensione universale attraverso il viaggio, lo spostamento e l’incontro tra culture. Se pensare antropologicamente significa riflettere sulla natura umana e sulle differenze tra gli esseri umani, allora l’antropologia è davvero un fenomeno universale che accomuna tutti i popoli. Tuttavia, se l’antropologia implica anche un’analisi sistematica delle differenze nei modi di vita, nei culti, nelle istituzioni sociali e politiche, e nelle pratiche culturali dei popoli, allora bisogna riconoscere che l’antropologia culturale, pur essendo un aspetto di una più ampia famiglia di antropologie, è un sapere molto particolare. Essa è il frutto di una storia specifica che ha radici nelle tradizioni e nelle esperienze storiche dell’Occidente, ed è legata alle trasformazioni sociali, politiche ed economiche che hanno caratterizzato la storia euro-americana. L'antropologia, quindi, non è un sapere esclusivo dell'Occidente, ma una forma di conoscenza che, pur essendo emersa in un contesto storico specifico, ha sviluppato una prospettiva universale, comparativa e globale. Se il pensiero antropologico è comune a tutte le culture, la sua formalizzazione come disciplina accademica e la sua specializzazione in un sapere sistematico sono strettamente legate alla storia dell'Occidente, dove l’antropologia è emersa come un campo di studio che ha cercato di spiegare le differenze tra i popoli, le loro istituzioni, e le loro visioni del mondo. La condizione culturale umana, dal punto di vista antropologico, viene sempre affrontata e studiata nella prospettiva della diversità. L’antropologia cerca sempre di assumere una forma di posizionamento dalla realtà umana come esperienza di vita. Lo sforzo dell’antropologia consiste, almeno in un primo passaggio, quello di distaccarsi da sé stessi e di osservare anche la propria umanità dal punto di vista della diversità, assumendo una posizione esterna a quel gruppo. Gli antropologi devono sforzarsi di controllare la dimensione della mimesi, ovvero la dimensione dell’identificazione totale con l’oggetto dello studio. Il primo passo di della ricerca antropologica non deve essere di tipo introspettivo, ma si deve elaborare una visione coerente di quella comunità (o di altre forme di umanità), prendendo in considerazione ogni aspetto e cercando di spiegare tutti quegli aspetti in modo coerente (secondo passo). Il terzo passo è quello di “saper fare il viaggio di ritorno”, riportando la realtà studiata alla nostra umanità, per cercare di costruire un ponte interpretativo, attraverso un lavoro dialogico. Ciò ha un importante presupposto di natura temporale: il presente. Gli oggetti di studio dell’antropologia si studiano nella dimensiona odierna. Dunque, i fenomeni che studiano gli antropologi sono iscritti nella contemporaneità e ciò ha delle forti implicazioni, poiché sposta il quadro di lavoro di ricerca/scientifico. Ad esempio, dal punto di vista documentale, l’antropologo non si trova nella stesa posizione di uno storico o di un archeologo, poiché questi lavorano sulla dimensione del passato e, quindi, su 4 documenti che possono reperire, mentre gli antropologi devono costruire da sé i propri documenti. I documenti degli antropologi sono, infatti, ciò che vedono/ricordano/registrano etc. dei loro incontri con quella determinata comunità. Le branche dell’antropologia sono diverse, e tra queste troviamo l’antropologia fisica, disciplina di tipo scientifico ‘puro’, che a che fare con la storia dell’ominazione e lo studio della variabilità umana in senso fisico (prima denominate razze) e biologico (genetica, biologia delle popolazioni, epidemiologia); e l’antropologia culturale, ovvero l’antropologia che non riguarda gli aspetti di ordine fisico, tra queste troviamo: l’antropologia linguistica; l’antropologia politica; l’antropologia economica; l’antropologia medica; l’antropologia della parentela; l’antropologia dei miti; l’etnologia; L’antropologia entra in contatto con altre scienze umane: - antropologia e archeologia : i legami comuni tra queste due discipline riguardano i caratteri olistici delle culture che entrambe studiano. Infatti, anche gli antropologi sono interessati alle concatenazioni e al sistema delle implicazioni che determinati modi di vivere, documentati da sedimenti, architetture etc., segnalano, rispetto a tutti gli altri aspetti della vita di quel gruppo; - antropologia e storia: entrambe le discipline si interessano ai gruppi umani e alla loro totalità di vita. Gli storici però si interessano al passato, mentre gli antropologi lavorano sul piano odierno, anche se spesso eventi storici servono per ricostruire le situazioni attuali delle culture che si vanno studiando; - antropologia e psicologia: la psicologia studia i processi mentali del singolo individuo, dunque mette in primo piano la situazione cosciente degli individui e il loro rapporto con il mondo emozionale. L’esperienza della morte individua in modo chiaro le differenze tra le due discipline. La psicologia interviene nel lutto cercando di sostenere le persone in maniera tale che non perdano l’associazione con sé stessi, mentre l’antropologia si occupa di tutti quei dispositivi di ordine simbolico/sociale/collettivo che ogni singola comunità costituisce per dare un senso, di ordine rituale-cerimoniale, allo stesso evento. Ancora piu legate sono l’ antropologia e la sociologia. Entrambe le discipline sono scienze sociali, che studiano la società viventi (orizzonte: dimensione del presente). In passato la distinzione tra le due materie era netta: i sociologi si occupavano di studiare le società complesse (urbane, di consumo), mentre gli antropologi si occupavano delle società “tradizionali” (rurali, pastorali, nomadi). Oggi, invece, le due discipline di differenziano per l’approccio che intraprendono: mentre i sociologi compiono il proprio studio privilegiando macro-fenomeni, anche su base quantitativa (statistiche, sondaggi) in quanto sensibili alla casistica sociale (famiglia, industrie, mercato, giovani), l’antropologia privilegia sempre la base etnografica, ed è per questo motivo che non si può evitare il lavoro sul campo. Riguardo il rapporto tra queste due discipline è intervenuta Valeria Siniscalchi, antropologa italiana, che afferma: “Se la sociologia tende a essere quantitativa e generalizzante, l'antropologia, anche quando elabora modelli esplicativi generalizzanti, lo fa sempre a partire da una base qualitativa e interpretativa, cioè una base etnografica.” La sociologia ha per oggetto dei macro fenomeni, i quali necessitano degli strumenti adatti, come quelli statistici. Gli antropologi non disdegnano l’utilizzo della matematica, ma gli oggetti di conoscenza di questi riguardano dimensioni che richiedono un’attività di ordine interpretativo. Se l’antropologia, dunque, richiede una base etnografica, lo “strumento” di cui l’antropologo necessita per lavorare è quello dell’incontro. Valeria Siniscalchi continua: “La sociologia si sviluppa come un pensiero e una pratica critica e analitica all'interno dei processi della modernizzazione della società occidentale (Weber, Veblen, Marx, Tonnies, Pareto…). L'antropologia muove invece dal problema cognitivo di comprendere le esperienze culturali e sociali (anche) esterne alla vicenda della società occidentale.” Il mondo occidentale è nel pieno dello sviluppo di prospettive di vita economica che, ormai, divergono in maniera accelerata rispetto ai modi di vita tradizionali, tanto che alla fine del ‘900, i paesi europei e gli Stati Uniti d’America, si trovano all’interno di un processo di coinvolgimento così radicale che gli stessi stati producono cambiamenti devastanti relativi all’avanzamento dell’industria (vapore, elettricità) e anche una quantità enorme di squilibri. Per questi motivi la sociologia sviluppa i propri studi sulla base di un aspetto critico, diventando una scienza che studia le norme di contraddizione, dinamismo, crisi e ammodernamento, proprie del mondo delle società complesse; mentre l’antropologia allarga lo sguardo sulla condizione umana, cercando di includere i mondi ‘esterni’. 5 Capitolo 2 Oggetti e metodi dell’antropologia culturale È possibile definire la “cultura” ? Il concetto di cultura è complesso e difficile da definire, nonostante la sua apparente familiarità. Un esempio utile per comprenderlo è un episodio avvenuto nel 1568, quando alcune navi spagnole approdarono nelle Isole Salomone, abitate dagli Aré Aré. Qui, i marinai scambiarono i loro cappelli con bastoni decorati con pietre dorate, credendoli fatti d'oro. In realtà, le pietre erano di pirite, ma i marinai continuarono a barattare, spinti dal desiderio di ricchezza. Allo stesso tempo, gli Aré Aré desideravano i cappelli perché li associavano ai simboli di prestigio e potere usati dai loro capi. Entrambe le culture interpretavano la novità attraverso schemi mentali noti: la ricchezza materiale per gli spagnoli e il prestigio sociale per gli Aré Aré. Questo esempio illustra come ogni comunità interpreta il mondo attraverso categorie culturali proprie, complesse e radicate nella propria storia e tradizione. La cultura può essere definita come un insieme di idee, simboli, comportamenti e disposizioni trasmessi storicamente e condivisi da un gruppo di persone, con cui queste affrontano il mondo in modo pratico e intellettuale. L’antropologia si occupa di analizzare le differenze tra le culture, ossia i diversi modi in cui i gruppi umani interpretano, immaginano, conoscono, si adattano e trasformano il mondo. Tuttavia, essa cerca anche di evidenziare ciò che accomuna le diverse culture, sottolineando che tutte esprimono l’attitudine tipicamente umana di produrre cultura. Questo rende l’antropologia una disciplina che studia tanto la varietà quanto l’universalità dell’esperienza umana. Cultura, nel suo significato generale indica il processo di formazione della personalità umana, che include la sua capacità di progredire (nozione di cultura che si ricollega filosofia, idea di ascesi). Il suo significato scientifico, quello antropologico-etnologico, invece, non accetta il criterio di distinzione tra esseri colti ed incolti poiché tutti i gruppi sociali sono dotati di una cultura, intesa in una direzione omnicomprensiva). Le origini del concetto antropologia di cultura Cultura, nel suo significato generale indica il processo di formazione della personalità umana, che include la sua capacità di progredire (nozione di cultura che si ricollega filosofia, idea di ascesi). Il suo significato scientifico, quello antropologico-etnologico, invece, non accetta il criterio di distinzione tra esseri colti ed incolti poiché tutti i gruppi sociali sono dotati di una cultura, intesa in una direzione omnicomprensiva. Una delle prime definizioni formali di cultura fu proposta dall’antropologo inglese Edward B. Tylor nel suo celebre lavoro del 1871, “Primitive Culture”. Tylor definì la cultura come "l’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società.” Disarticolazione ed analisi della definizione di Taylor: - la cultura è un insieme complesso di parti, tra di loro inseparabili, poiché tutte sistemiche, per cui gli elementi vanno studiati in una dimensione olistica; - gli elementi sono costituiti da qualsiasi capacità ed abitudine (tutta la dimensione del vivere), ovvero non solo dalle capacità che sono presenti alla coscienza degli individui, ma anche dalle dimensioni inconscie (habitus); - la cultura è intesa come una capacità acquisita dagli esseri umani come membri di una società. Questa definizione segnò un’importante innovazione, ampliando il concetto di cultura a tutte le attività umane, incluse pratiche e credenze che gli europei dell’epoca consideravano insolite o aberranti, come il cannibalismo o i sacrifici umani. Tylor, ispirato da idee filosofiche precedenti, rese la cultura un concetto centrale per l’antropologia evoluzionista. Egli sottolineò due aspetti fondamentali: da un lato, la cultura si manifesta in forme specifiche in ogni società; dall’altro, essa è un fenomeno universale che accomuna tutta l’umanità, espressione di particolari predisposizioni umane. Dopo Tylor, numerose altre definizioni di cultura sono state proposte, riflettendo approcci diversificati negli studi antropologici. Un esempio significativo è quello di Ulf Hannerz, che nel 1992 descrisse la cultura come "una struttura di significato che viaggia su reti di comunicazione 6 non localizzate in singoli territori." Questa visione evidenzia un’evoluzione nel pensiero antropologico, che tiene conto di processi globali e della comunicazione interculturale. Sebbene le diverse definizioni non contraddicano il modello originario di Tylor, esse testimoniano come il concetto di cultura sia stato adattato per comprendere meglio la complessità e la dinamicità delle realtà umane, integrando prospettive storiche, sociali e globali. La cultura e la sua “natura” Gli esseri umani, a differenza degli animali, dipendono principalmente dalla cultura piuttosto che dai geni per la loro sopravvivenza. Alla nascita, il loro genoma non fornisce istruzioni comportamentali specifiche per affrontare il mondo circostante. Contrariamente agli animali, che ereditano comportamenti essenziali dal codice genetico, l’uomo nasce "incompleto" e necessita di cure e apprendimento per sviluppare le sue capacità. Lo sviluppo neuronale umano avviene principalmente dopo la nascita, e il processo di maturazione intellettuale, secondo lo psicologo Piaget, si completa solo intorno ai quindici anni, continuando comunque per tutta la vita attraverso l'esperienza. La cultura si configura come un insieme complesso di modelli comportamentali e ideazionali, appresi e tramandati, che guidano gli esseri umani nella loro interazione con il mondo. Questi modelli non sono programmati geneticamente ma vengono acquisiti attraverso l’educazione e le tradizioni del gruppo sociale di appartenenza. Essi regolano aspetti fondamentali come l'alimentazione, le relazioni sessuali, le credenze religiose e la comunicazione linguistica, determinando comportamenti e pensieri condivisi all'interno di una comunità. Tuttavia, questi codici culturali non vincolano completamente l’individuo, che può sviluppare preferenze personali nel corso della sua vita. Gli antropologi sottolineano che la cultura non è fissa ma dinamica, essendo il risultato di processi di selezione, trasmissione e trasformazione. Ogni generazione eredita modelli culturali dalle precedenti, adattandoli o integrandoli con nuovi elementi, spesso provenienti da altre culture. Questo processo selettivo garantisce che solo i modelli compatibili con il contesto sociale ed economico vengano assimilati, mentre altri possono essere respinti. Ad esempio, i Mentawai in Indonesia rifiutarono la coltivazione del riso per preservare la loro religione e i modelli culturali tradizionali. Le culture sono aperte e chiuse al tempo stesso: mentre alcune mostrano maggiore disponibilità ad assorbire elementi esterni, nessuna è completamente impermeabile o totalmente recettiva. L’interazione con altre culture, spesso accelerata da fenomeni come il colonialismo o la globalizzazione, può generare trasformazioni profonde, talvolta imposte con violenza, alterando irreparabilmente i sistemi culturali originari. La cultura, vista come un sistema operativo, permette agli esseri umani di adattarsi sia all’ambiente naturale sia a quello sociale, mediando tra istinti primari e azioni complesse. Essa costituisce il mezzo principale attraverso cui gli individui pensano e agiscono, garantendo la loro sopravvivenza e continuità. Tuttavia, il carattere dinamico e storico della cultura implica che non esistano modelli culturali statici o immutabili: tutti i sistemi culturali sono soggetti a trasformazioni interne ed esterne, riflettendo l’interazione continua tra tradizione e innovazione. All’interno di ogni comunità esistono molteplici modi di percepire e rapportarsi al mondo, influenzati da fattori come potere, posizione sociale, istruzione, convinzioni religiose e politiche. Sebbene alcune società mostrino meno differenze interne, la maggior parte presenta significative variazioni culturali. Un esempio è la distinzione tra cultura colta e popolare del passato, oggi più sfumata ma ancora presente. Antonio Gramsci ha introdotto i concetti di "cultura egemonica" e "cultura subalterna”, dove a prima espressione sta ad indicare la cultura dei ceti dominanti, mentre la seconda quella dei ceti subordinati. Questi concetti sono utili per analizzare il dominio culturale dei gruppi socialmente più forti. L’antropologo Roger Keesing ha sviluppato l'idea di "controllo" culturale, sottolineando che i modelli dominanti riflettono gli interessi dei gruppi prevalenti. Infine Renato Rosaldo ha ampliato questa prospettiva, descrivendo la cultura come un intreccio eterogeneo di processi che includono differenze di età, genere, classe e orientamento. La comunicazione è centrale per la cultura, che esiste nella capacità umana di trasmettere messaggi condivisi. Il linguaggio umano, a differenza di quello animale, è caratterizzato da produttività e creatività infinite, consentendo innovazioni che ridefiniscono i modelli culturali esistenti. Tuttavia, le società spesso limitano la creatività quando le innovazioni non si integrano nel contesto esistente, come dimostrano invenzioni storiche non applicabili al loro tempo. 7 La cultura è olistica, un insieme complesso di elementi interdipendenti. Le differenze culturali riflettono il modo in cui i modelli interagiscono tra loro e con i valori condivisi. Alcune società, come quella indù, mostrano un'integrazione maggiore tra gli elementi culturali rispetto a quella occidentale, dove prevale l’idea di individui autonomi. Le culture non hanno confini rigidi; sono dinamiche, aperte e soggette a trasformazioni attraverso scambi e prestiti culturali. La globalizzazione ha reso evidente che le culture non sono sistemi chiusi, bensì entità complesse e fluide, influenzate da fenomeni di contaminazione reciproca. Questo riconoscimento ha permesso di superare l’idea di culture definite rigidamente e meccanicamente determinanti per gli individui. La dinamicità della vita culturale si può spiegare attraverso due termini, inculturazione e acculturazione, i quali rispondono alla domanda "Come si trasmettono i fatti culturali?”: - per inculturazione, ovvero per immersione. Tramite l’inculturazione le forme culturali vengono acquisite sulla base della vita di un umano all'interno di un gruppo culturale che si comporta in un certo modo. L’esempio del lavoro pastorale riportato ne ‘La rivolta dell’oggetto’ (1977) da Michelangelo Pira è un esempio di lavoro inculturale, in quanto non prevede una forma di insegnamento esplicito (scuola impropria); - per acculturazione, si acquisisce una capacità culturale non sulla base di un’immersione, ma sulla base di un apprendimento manifesto, in maniera diretta. A. Appadurai, antropologo indiano, ma formato in USA, nella sua opera ’Modernity at Large’ del 1996 studia come il gioco del cricket passi da essere un’attività riservata all’aristocrazia inglese ad essere lo sport nazionale indiano. La ricerca antropologica/etnografica Nonostante la cultura sia concepita in modo olistico, come un insieme integrato e interdipendente di pratiche e idee, gli antropologi non mirano a una comprensione totale di una cultura, ma cercano di stabilire connessioni tra i vari aspetti della vita culturale.Ciò era stato sottolineato anche da Malinowski, che nei suoi studi sulle isole Trobriand, sottolinea l'importanza di considerare tutti gli elementi culturali, dai più banali ai più straordinari, per studiare e comprendere la coerenza e l'ordine sottostanti. L'etnografia è centrale nella ricerca antropologica, poiché consente lo studio diretto di culture diverse attraverso l'osservazione partecipante. Questo metodo implica che l'antropologo viva a stretto contatto con le persone studiate, condividendo il loro stile di vita e osservandone comportamenti, gesti, emozioni e interazioni. Questa immersione permette di cogliere significati culturali che altrimenti sfuggirebbero a una semplice analisi superficiale. La ricerca di campo non si è, però, sempre praticata. I metodi dell'antropologia del XIX secolo non prevedevano la ricerca sul campo, ma l'accumulazione di notizie, grazie a collaboratori che si trovavano nei luoghi in cui vivevano le popolazioni oggetto di studio non per questioni legate allo studio antropologico, ma per altri motivi. Questa “metodologia di ricerca" era chiamata antropologia da tavolino. Frutto di questo sistema di efficienti corrispondenze è l'opera di James G. Frazer intitolata “Il ramo d’oro" all'interno della quale si cerca di ricostruire l'evoluzione culturale dell'umanità, grazie alla documentazione, riguardante diverse culture, che l'autore riesce a raccogliere in vent'anni. Ciò è stato possibile per via del colonialismo, che vedeva all'interno dei paesi una pletora di figure occidentali: dagli amministratori statali ai militari e dagli imprenditori, interessati al cotone, allo zucchero, al petrolio, alle miniere, allo sfruttamento etc, ai missionari, presenti al fine di convertire le popolazioni tramite azioni di evangelizzazione. Nell’opera viene analizzato il mito del re divino che viene ucciso e poi risorge, un tema ricorrente in molte culture e religioni antiche. Frazer interpreta questo mito come parte di un ciclo simbolico legato alla fertilità, alla natura e al cambiamento delle stagioni. Il re divino è visto come una figura sacra, rappresentante della natura e della sua forza rigeneratrice. In molte tradizioni, il re o una divinità associata a lui viene sacrificato per garantire la fertilità della terra, il rinnovamento della vita e il perpetuarsi dell'ordine cosmico. La morte simbolica del re permette la rinascita della natura, seguendo il ciclo eterno di vita, morte e rinascita. Quest’idea viene introdotta attraverso l'analisi del culto di Diana a Nemi, in Italia, dove il "Re del bosco" (Rex Nemorensis) era un sacerdote-re. Questo personaggio poteva mantenere il suo ruolo solo finché un altro uomo non lo uccidesse in un duello rituale, prendendone il posto. Questo esempio incarna il concetto di morte e rinnovamento legato al sovrano sacro. 8 Frazer identifica analogie in molte tradizioni mitologiche e religiose tra cui il dio egizio Osiride, una divinità della Mesopotamia, Tammuz, e lo stesso Gesù Cristo. Si arriva ad un primo cambiamento nel 1870, con la pubblicazione di un opuscolo guida, intitolato “Notes and Queries on Anthropology”, al fine di fornire ai corrispondenti alcune domande da rivolgere ai soggetti incontrati. la nascita di questo opuscolo è dovuta all’ idea diffusa della separazione fra il lavoro di ricerca delle fonti e della comparazione e interpretazione di questi quest’ultime. Un ulteriore cambiamento avviene alla fine del 1800, con un nuovo approccio alla ricerca etnografica, di tipo posotivistico, che porta alla nascita dell'etnografia della veranda. Questa ha inizio grazie ad un gruppo di 10/12 ricercatori di Cambridge, che trascorse sei mesi nelle isole dello stretto di Torres, tra l'Australia e la Papa nuova Guinea. Durante il loro viaggio gli antropologi convocavano i soggetti con cui volevano parlare, raccoglievano dati oggettivi come oggetti e utensili, paramenti rituali e strumenti di caccia o da guerra e, inoltre, riuscirono a raccogliere una prova scientifica della danza rituale tipica delle isole, grazie a uno strumento che riusciva a filmare per circa 50 secondi. L'etnografia della veranda consisteva proprio nel recarsi, in un primo momento in gruppo, sul campo al fine di raccogliere informazioni oggettive affidabili dal punto di vista del reale, e ci era possibile proprio grazie a strumenti quali la fotografia e il cinema. Durante il periodo dell'etnografia della veranda si pratica l’antropometria, ovvero lo studio statistico dei dati misurabili del corpo umano. Questo approccio, fortemente influenzato dal positivismo, mirava a classificare le "razze" umane sulla base di presunte differenze biologiche, come, ad esempio, le dimensioni del cranio. Gli antropologi raccoglievano dati senza interagire profondamente con le culture locali, spesso limitandosi a osservazioni superficiali e misurazioni standardizzate, riducendo l’essere umano a semplice oggetto. Questi studi riflettevano una visione eurocentrica e spesso giustificavano teorie razziste e gerarchie culturali, anziché comprendere le popolazioni nel loro contesto socio-culturale. Con l'approccio positivistico con la ricerca etnografica ogni forma di conoscenza viene quantificata, trasformata in dato al fine di produrre una conoscenza oggettiva, scientifica. A tal proposito Frazer affermò che l'etnologia descrittive e quella comparativa dovevano essere tenute rigidamente separate, in quanto combinare domande, foto, video i dati comparativi avrebbe significato rovinare entrambe. Tra la fine dell'ottocento e l'inizio del novecento si sviluppano di nuovi orientamenti. La raccolta dei fatti e la produzione delle fonti vengono viste come operazioni complesse che necessitano di un'osservazione e un'interpretazione scientifica. L’etnografia e l’antropologia vengono distinte e il lavoro sul campo (fieldwork) diventa l’esperienza di ricerca decisiva, grazie alla presa di consapevolezza che per studiare una cultura; non bisogna raccogliere (solamente) informazioni delle precedenti generazioni, non oggettive e poco sicure; il sapere antropologico non può essere confinato alla creazione di una linea generale; la vita dei gruppi umani non ha ovunque un processo di evoluzione crescente (ex: acculturazione). Fu Franz Boas a dimostrare l'importanza del lavoro sul campo, attraverso i suoi stessi studi. Durante la sua ricerca tra i Kwakiutl e altre popolazioni indigene della costa nord-occidentale del Canada, visse con loro per lunghi periodi, imparò la lingua e documentò in modo dettagliato i loro miti, rituali, arte e sistemi sociali. Pochi anni dopo che Boas si trasforma in un membro della socia che lui stesso studia, viene pubblicata l’opera monografica di Bronislaw Malinowski, “Argonauts in the Western Pacific”. Malinowski mette in atto un nuovo approccio allo studio antropologico e introduce una nuova pratica, l’osservazione partecipante. La griglia di azione di Malinownski, descritta nel primo capitolo della sua opera, prevede la solitudine dell’antropologo e la necessità di un lungo periodo di tempo, da passare a contatto con un gruppo diverso dal proprio, in maniera tale da rimanere a stretto contato con loro. L’osservazione partecipante richiede non solo la razionalità, ma anche la personalità e ciò che proviene dalla sfera sensoriale ed emotiva. Di conseguente anche il concetto di ‘dato’ si evolve: non si ricerca più un dato oggettivo e scientifico, come nell’etnografia della veranda, ma diventa fondamentale per l’antropologo la sintonia soggettiva. Lo scopo è quello di interpretare discorsi e azioni nel più ampio contesto fornito dall’interazione sociale e da credenze e valori culturali. Il problema dell’antropologo è, dunque, l’interpretare. L’antropologo interpreta i fenomeni osservati attraverso un confronto continuo con il proprio bagaglio culturale e teorico. Ogni elemento – economia, religione, rituali o relazioni sociali – è collegato ad altri. Questo approccio globale consente di analizzare le interdipendenze culturali e di comprendere le motivazioni dietro comportamenti apparentemente peculiari. L’antropologo 9 deve addestrarsi a pensare in maniera precisa e coerente, combattendo i pregiudizi, poiché nel mondo dell’antropologia, come osserva Malinowski, non ci sono altro che distinzioni e differenze, azioni che si devono osservare e memorizzare per essere in grado di riconoscere in maniera adeguata quando e come si ripresentano quei comportanti. L’osservazione deve essere sistematica e selettiva. La ricerca etnografica deve privilegiare la dimensione sincronica, ovvero della compresenza nel tempo e nello spazio. Un esempio di studio della dimensione sincronica si può individuare nella ricerca sulla cultura mineraria del Sulcis-Iglesiente, svolta da Paola Atzeni. Una delle parti del lavoro si è svolta indagando sulla memoria dei minatori e poiché la realtà dei minatori è una realtà storicamente passata (le dimissioni sono iniziate nel 1960, per concludersi nel 2018) l’interesse della ricerca si rivolse anche alla dimensione sincronica, ovvero a come nel momento dell’incontro i minatori costruivano il proprio passato. Dove vuole parare Malinowski? Non lo fa per stabilire il grado di arretratezza o meno di queste civiltà. Durante gli anni ’20 le domande che gli antropologi si pongono cambiarono riguardano l’ossessione pretestuosa di classificare universalmente le società, ma, considerando che ogni società produce per sé una cultura adatta alle proprie necessità di vita, agli antropologi interessa porsi la domanda : quali sono le istituzioni culturali che in una certa società determinano i criteri di riproduzione della società stessa? Come funziona una società in rapporto alla sua cultura? Secondo Malinowski il principale meccanismo culturale presente nelle isole oggetto del suo studio, le isole Trobriant, che dà un’identità e uno scopo, è la dimensione del dono. Nasce così l’orientamento teorico del funzionalismo antropologico. Dopo la morte di Malinowski emerge un problema di ordine metodologico, quando, nel 1942, fuoriescono i diari dell’antropologo, che documentano l’attività di campo e da cui emerge le vita interiore, emozionale ed emotiva del ricercatore. La pubblicazione dei diari generò un problema in quanto testimoniava problemi, tensioni e difficoltà a rapportarsi con i natici di cui nella monografia non c’è traccia. “Argonauti nel Pacifico Occidentale” viene quindi ritenuto un libro menzognero, manchevole, da cui era stata intenzionalmente omessa aspetti appartenenti alla relata. Ciò venne percepito come un problema perché erano mancati i tempi culturali complessivi con cui guardare le società extra-culturali. A partire dalla seconda meta degli anni ’60 il clima politico complessivo, riguardante in particolare i mondi ex coloniali, cambia. Emerge, in tutta la sua portata politico-culturale, il tema della decolonizzazione: le principali potenze coloniali (impero britannico, repubblica francese, ma anche stati minori come Olanda e Italia) perdono le colonie, perché a partire dagli anni ’40 emergono ovunque fenomeni come ribellioni, fondazione di fronti di liberazione nazionale. La decolonizzazione oltre che rendere difficili attività di campo, dovute alla protezione delle strutture coloniali che avevano facilitato il lavoro degli antropologi, crea sopratutto dei presupposti per il fenomeno di riappropriazione dei propri valori e per un progressivo rifiuto di essere studiate e valutate dallo sguardo occidentale. Dagli anni 60/70, gli antropologi cercarono di mettere, all’interno delle proprie monografie, proprio il conflitto, ovvero descrivono la loro posizione, eventuali problemi e includono una autoanalisi, cercando di analizzare e descrivere anche sé stessi in rapporto ai soggetti che studiano, mettendo in dubbio la propria persona. Si giunge, dunque ad una svolta riflessiva (ex: ‘Tuhami’ di Vincent Crapanzano). 10 Capitolo 3 Le caratteristiche fondamentali del ragionamento antropologico La prospettiva olistica L'approccio olistico implica che gli antropologi, nel cercare di comprendere fenomeni complessi come il sistema delle caste in India o le sindromi psicotiche che colpiscono i migranti, debbano considerare l'interconnessione tra vari aspetti della vita sociale e culturale. Ad esempio, nel caso del sistema delle caste, l'antropologo non può limitarsi ad esaminare il fenomeno in termini economici o religiosi, ma deve tener conto anche delle esperienze vissute dai soggetti e del significato che tali distinzioni hanno per loro. Allo stesso modo, nello studio dei migranti, è necessario esplorare anche le relazioni sociali, affettive, identitarie e religiose che i migranti mantengono con il loro gruppo di origine. Storicamente, l'approccio olistico ha portato gli antropologi a concentrarsi su comunità di piccole dimensioni, dove l'integrazione tra i vari aspetti della vita sociale è più visibile e facile da analizzare. Tuttavia, anche se oggi gli antropologi non si limitano più a studiare solo comunità piccole e circoscritte, la prospettiva olistica rimane fondamentale. Essa è infatti strettamente legata alla necessità di considerare sempre il contesto sociale e culturale più ampio per una comprensione approfondita dei fenomeni studiati. In altre parole, l'analisi olistica permette di evitare di frammentare eccessivamente la realtà sociale, rendendo più completo e autentico l'approccio alla ricerca sul campo. La problematica del contesto La comprensione di un fenomeno culturale dvea necessariamente avvenire in relazione al contesto da cui esso proviene. Storicamente, gli antropologi dei primi periodi tendevano a confrontare fenomeni da diverse culture e periodi temporali, senza considerare il significato che questi avevano nel loro contesto di origine. Il confronto era spesso privo di attenzione alle relazioni interne al contesto culturale di appartenenza di ciascun fenomeno. Questa tendenza venne messa in discussione con l’affermazione della prospettiva olistica, che ha posto l'accento sull'importanza di analizzare i fenomeni tenendo conto delle interconnessioni tra i vari aspetti della cultura. In questo modo, si è compreso che è arbitrario decontestualizzare i fenomeni per scopi comparativi, poiché ciò ne svilisce il significato e la comprensione. Adottare un approccio olistico implica che il ricercatore consideri ogni aspetto della cultura come parte di un sistema integrato, in cui ogni fenomeno è legato ad altri, e definisca chiaramente il contesto in cui si manifesta. Questo approccio permette di comprendere come un fenomeno possa acquisire significati differenti a seconda dei punti di vista adottati, poiché, all'interno di una stessa cultura, le persone non condividono necessariamente la stessa visione delle cose. L'importanza del contesto emerge anche nella descrizione e analisi della cultura: per una comprensione accurata, è fondamentale definire il contesto rispetto ai soggetti di cui si vuole esporre il punto di vista, dato che ogni gruppo sociale può interpretare i fenomeni in modo diverso. La prospettiva contestuale consente, inoltre, di connettere diversi fenomeni e contesti, creando una rete di interconnessioni che possono estendersi all'interno di una sola cultura o anche tra culture differenti. Tuttavia, una delle difficoltà che sorgono tra gli antropologi è la differenza nelle priorità interpretative: alcuni ricercatori privilegiano il punto di vista di un determinato gruppo di soggetti, mentre altri danno maggiore rilevanza ad altri gruppi. Inoltre, di fronte a un fenomeno, alcuni antropologi tendono a enfatizzare aspetti psicologici o emotivi, mentre altri preferiscono focalizzarsi su dimensioni economiche, politiche o religiose. Questo diverso orientamento interpretativo può portare a disaccordi e a diverse letture dello stesso fenomeno, ma è anche un segno della ricchezza e complessità della cultura e della sua analisi. Etnocentrismo e relativismo culturale Etnocentrismo e relativismo culturale sono due concetti che si legano alla tematiche della problematica della diversità e della differenza culturale. Nessuno dei due concetti equivale a dei giudizi etici di posizione nei confronti delle culture altrui, ma si tratta in entrambi i casi di concetti problematici, che rispecchiano delle condizioni inevitabili con cui ciascuno di noi si mette in relazione con l’altro. Alla base di questi due concetti sta la presa di coscienza della diversità culturale. La diversità culturale non è un fatto oggettivo, ma esperienza diretta di vita umana di culture estranee alla nostra. 11 Come spiega l’antropologa Amalia Signorelli, allieva di Ernesto De Martino, il concetto di diversità parte da un’esperienza traumatica: vivere la diversità culturale vuol dire sperimentare su sé stessi una situazione di disorientamento e, spesso, di stress psicologico e/o fisico, nel momento in cui ci si trova in una realtà diversa dalla propria. La diversità è sempre un fenomeno relazionale e situazionale, in quanto non si può parlare di diversità se non in presenza di due diversi insiemi che convivono in determinato spazio e luogo. Dunque, perché si è diversi? Per attribuire un fondamento razionale alla diversità, e sostenere l’aspetto traumatico, l’uomo ha cercato diverse spiegazioni: - di ordine religioso: alcuni seguaci di un ordine religioso possono credersi in un rapporto più favorito conta divinità rispetto ad altri, divertita frutto di un disegno divino; - di fondamento scientifico, per diverso tempo si è associato all’idea della diversità culturale all’idea che esistessero razze diverse, al fatto che i gruppi umani avessero diverse genetiche, antiche e morfologiche - legate a fattori ambientali: diversità tra popoli di pianura, montagna, mare deserto etc. L’antropologo, però, deve compiere un atto interpretativo per passare dall’idea della diversità alla considerazione della realtà culturale altrui come una differenza. La differenza, per A. Signorelli, consiste nel fatto che ciò che prima mi appariva diverso e traumatico, sulla base di un lavoro di educazione allo sguardo e alla presenta, entra nel campo di una normalità intellettuale. In questo modo le diversità perdono il loro carattere respingente (sensoriale, etico e umano) ed entra nel campo delle interpretazioni. Il “nuovo” campo interpretativo avvicina la mia esperienza culturale all’esperienza culturale altrui, e permette di costruire un discordo che rende familiari modi di vita che sono lontani dalla mia esperienza, in modo che possano essere studiati sulla base di un rapporto più specifico e circostanziato di conoscenza. L’etnocentrismo L’etnocentrismo, per W.Summer, antropologo della prima generazione “è il termine tecnico che designa una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto ad esso”. Si parla di etnocentrismo quando è presente una necessità o una scelta di dare un giudizio su realtà altrui sulla base della mia identità culturale. L’etnocentrismo non è un’affermazione autonoma, ma nasce, da un lato, come un problema da superare, dall’altre parte come un giudizio inevitabile in quanto gli antropologi, essendo esseri umani, non posso che utilizzare strumenti interpretativi forgiati dalla loro cultura per studiare culture altrui (l’antropologia è figlia della storia occidentale, del colonialismo). Bisogna essere capaci di prendere le distanze da quelle modalità prevaricanti e pregiudizievoli verso gli altri, e ragionare sulle implicazioni di una tale posizione. Si può dire dell’ etnocentrismo che questo è un atteggiamento valutativo, classificatorio e asimmetrico, fondato sulla auto-attribuzione, spesso esclusiva, di umanità. A Ernesto De Martino dobbiamo l’idea di etnocentrismo critico. De Martino esprime il problema epistemologico della soggettività del conoscere: non si può che conoscere l’altro se non soggettivamente, a partire da uno sguardo cultuale diverso. De Martino riconosce che davanti ad una cultura altra è necessaria una presa di coscienza critica della propria storia cultuale e politica di osservatore. È inevitabile utilizzare i propri strumenti critici per lo studio di culture altrui, ma si può fare riconoscendo, in termini critici, la nostra storia culturale. De Martino costruisce questa nozione sulla base delle campagne di studio svolte sul Meridione d’Italia, del quale studia, in modo olistico, il mondo contadino interno, caratterizzato dalla miseria e dalla denutrizione. Tra le tante ricerche etnografiche, pubblica nel 1959, quella sul tarantismo. Il tarantismo è una forma di cura, una terapia coreutico-musicale, che veniva praticata nelle campagne del Salento (Lecce-Puglia), come cura alla puntura di un ragno ritenuta dal mondo contadino particolarmente pericolosa e che faceva entrare la persona che si dichiara punta dal ragno in uno stato di fortissima instabilità emotiva. La lettura culturale della società di questo malessere è una situazione di endorcismo: tramite la puntura è entrato nel corpo della vittima uno spirito malefico, che deve essere trattato provocando una forma di esorcismo, ovvero una fuoriuscita della sostanza dal corpo della persona. 12 Lo sguardo universalista e antietnocentrico L’antropologia si è sviluppata fin dalle sue origini con un approccio che considera tutte le forme di produzione culturale e di vita associata come meritevoli di attenzione, e come utili per comprendere il genere umano nel suo complesso. In quanto sapere universalista, ha dato vita a un’impresa etnografica generalizzata, che si concretizza nello studio sul campo e partecipativo delle più varie comunità, come quelle di pescatori mediterranei, popoli artici, tribù delle foreste equatoriali, cacciatori nomadi del deserto, e anche delle popolazioni urbane e virtuali. L’universalismo antropologico trova un riscontro nel concetto stesso di cultura, che non solo descrive le specificità culturali dei vari gruppi umani, ma si riferisce alla capacità universalmente umana di «produrre cultura». Questo approccio si oppone nettamente all’etnocentrismo, ossia alla tendenza a considerare i propri comportamenti e valori come superiori rispetto a quelli degli altri. L’etnocentrismo, che può talvolta sfociare in razzismo, è una caratteristica comune a tutte le culture, sebbene alcuni popoli siano più inclini ad accogliere la diversità rispetto ad altri. L’antropologia, nella sua dimensione antietnocentrica, si distingue per la sua attenzione alla diversità culturale e per il tentativo di comprendere le varie pratiche culturali senza giudicarle sulla base di categorie etnocentriche. Tuttavia, nonostante il suo intento antietnocentrico, l’antropologia non è completamente immune dall’etnocentrismo, poiché anche gli antropologi tendono, talvolta, a interpretare le culture altrui attraverso le proprie categorie culturali. Nonostante ciò, l’antropologia si è sempre sforzata di rivedere le proprie categorie interpretative, cercando di sviluppare modelli di analisi che possano rappresentare tanto l’unità quanto la diversità dei fenomeni culturali studiati. Questo approccio critico e riflessivo è essenziale per evitare che l'antropologia diventi semplicemente un’ulteriore forma di imposizione di valori dominanti, e per favorire una comprensione più autentica e rispettosa delle diverse realtà culturali. Lo stile comparativo Alle origini della disciplina, l'antropologia cercava di scoprire le leggi universali che regolano l'evoluzione delle culture, partendo da forme «primitive» per arrivare a quelle «evolute». Per farlo, gli antropologi utilizzavano un metodo comparativo che non si concentrava tanto su un rigoroso processo scientifico, quanto sulla ricerca di somiglianze tra fenomeni provenienti da contesti molto diversi. Questo approccio, sebbene utile per illustrare teorie preesistenti, era piuttosto approssimativo, con ipotesi che venivano spesso date per scontate. Nel corso del XX secolo, gli antropologi hanno abbandonato questo approccio comparativo fondato su somiglianze superficiali, pur mantenendo la comparazione come strumento fondamentale. Si sono così sviluppati due principali stili comparativi. Il primo si concentra su società e culture storicamente interrelate o geograficamente vicine, permettendo un maggiore controllo sulle variabili analizzate. Questo metodo ha il vantaggio di una maggiore precisione descrittiva, ma limita la possibilità di fare generalizzazioni più ampie. Il secondo stile comparativo, invece, riguarda società che non hanno legami storici reciproci, e mira a creare tipologie e conclusioni più generali, basandosi su fenomeni simili per forma e struttura. Sebbene questo approccio permetta una visione più ampia e sintetica, presenta il rischio di imprecisione analitica e generalizzazioni indebite. Nel tempo, gli antropologi tendono a procedere gradualmente, ampliando progressivamente il raggio delle loro comparazioni, partendo da contesti più circoscritti. Un esempio emblematico di questo approccio è fornito da Edward Evans-Pritchard, uno dei più autorevoli antropologi del Novecento, che nel 1954 suggeriva di non cercare di definire concetti generali, come "la religione", ma di analizzare le caratteristiche specifiche delle religioni di un particolare gruppo culturale. Solo dopo aver studiato comparativamente diverse religioni di gruppi simili, si sarebbe potuto fare qualche generalizzazione. Infine, oggi si tende a fare comparazioni per elaborare concetti che, pur essendo provvisori, possano descrivere in modo unitario atteggiamenti e comportamenti significativi per la disciplina. Il compito dell'antropologia si sta spostando verso la capacità di cogliere l'unità sotto l'apparente diversità dei comportamenti e delle idee di diversi popoli, ma anche di evidenziare le differenze profonde che esistono dietro somiglianze superficiali. L’ispirazione dialogica e il compito della traduzione L'etnografia, che consiste nell'incontro diretto con popoli portatori di valori, storie e memorie diversi da quelli degli antropologi, richiede un’attenzione particolare al modo in cui le persone di 13 queste comunità si esprimono. Per poter ottenere una conoscenza autentica, l'antropologo deve sviluppare un atteggiamento intellettuale che gli consenta di ascoltare e comprendere la voce degli altri, riconoscendo che anche questi ultimi sono produttori di significati e valori, che non sarebbero comprensibili senza un’attenta ascolto delle loro parole. Dal punto di vista epistemologico, l'approccio dialogico dell'antropologia è cruciale poiché permette di stabilire uno spazio di incontro tra universi culturali diversi, superando le difficoltà di comunicazione attraverso un processo continuo di tentativi, fallimenti e successi. Un aspetto fondamentale di questo processo è la ricerca di un punto di riferimento condiviso, che non riguarda solo le differenze linguistiche, ma anche i diversi significati che le parole possono assumere in contesti culturali differenti. L'antropologia, in sostanza, si configura come un lavoro di "traduzione", che non è solo linguistica ma anche concettuale. Un esempio di questo è il caso dei Bororo, un gruppo indigeno brasiliano, che nel XIX secolo dichiarò di essere "pappagalli rossi". Questa affermazione, inizialmente interpretata come segno di irrazionalità, venne successivamente compresa come una metafora razionale, grazie alla "traduzione concettuale" fatta dagli antropologi. Un altro esempio riguarda la traduzione del termine tabu da parte dei missionari cristiani nell'Oceania. Il termine tabu, che significa "vietato per alcuni ma non per altri", venne tradotto dai missionari come "sacro", poiché lo associavano ai templi, ai re e agli dèi. Questo errore concettuale portò alla creazione di una traduzione erronea della Bibbia, che i missionari chiamarono Buka tabu ("libro sacro"), mentre per le popolazioni locali significava piuttosto "libro vietato per alcune persone". Sul piano etico, l'ascolto è essenziale perché molte comunità, specialmente quelle più vulnerabili, non hanno altra possibilità di far sentire la loro voce se non attraverso la mediazione di individui come gli antropologi. Questi ultimi, soggiornando tra le comunità per periodi prolungati, possono raccogliere e far conoscere le frustrazioni, i problemi e le speranze delle popolazioni che studiano. In un mondo sempre più globalizzato, in cui i modelli culturali uniformi tendono a sopraffare la varietà delle esperienze locali, l'antropologo può svolgere un ruolo fondamentale nel dare voce a queste comunità, seppur in modo limitato. L’inclinazione critica e l’approccio relativista L'antropologia nasce in un periodo di dominazione coloniale, ma, pur non sempre esplicitamente, ha sempre cercato di esercitare una funzione critica nei confronti delle potenze coloniali e, successivamente, dei governi postcoloniali. L'antropologo si è schierato contro gli atteggiamenti di sopraffazione e di sottovalutazione delle culture più deboli, osservando le implicazioni delle dinamiche globali, mediatiche, economiche e militari sulla sopravvivenza delle culture indigene. Tuttavia, l'antropologia non si propone di preservare le culture in un’astratta "autenticità", ma riconosce che le culture sono in continua evoluzione e che la sua funzione critica deve comprendere anche le trasformazioni causate dal colonialismo e dalla globalizzazione. Inoltre, l'antropologia svolge una funzione di auto-riflessione critica, mettendo in discussione le sue stesse categorie e pratiche. A tale proposito, viene citato il pensiero di Claude Lévi-Strauss, il quale, nel suo libro “Tristi tropici” (1955), osserva come l'antropologo spesso tenda a criticare severamente i costumi della propria cultura, ma ad accettare senza riserve i comportamenti degli altri popoli, anche quelli che nella sua cultura verrebbero considerati inaccettabili, come il cannibalismo o la schiavitù. Questo atteggiamento è in sintonia con ciò che viene definito relativismo culturale, un orientamento complementare all’etnocentrismo, di cui si è preso consapevolezza tra gli anni ’20 e ’50 del secolo scorso, il quale sostiene che i comportamenti e i valori di un determinato popolo debbano essere interpretati all'interno del contesto culturale in cui si manifestano. Il relativismo si lega alla capacità, richiesta da Malinowski nel 1922, di essere capaci di mettersi dal punto di vista dei nativi. Un antropologo non può non considerare che coloro che studi siano essi stessi portatori si un punto di vista di è stessi, per cui il relativismo culturale diventa un vero proprio imperativo categorico dell’antropologia. Il relativismo culturale, quindi, è l'atteggiamento che impone di comprendere le pratiche culturali non attraverso le categorie della cultura dell’osservatore, ma collocandole all'interno del loro specifico contesto. L’antropologia è relativista perché considera che ogni esperienza culturale vada letta in relazione a tutte le altre pratiche e valori che contribuiscono a conferirle significato. Questo approccio non implica giustificare qualsiasi comportamento, ma piuttosto consente di interpretare le pratiche 14 culturali nel loro contesto specifico, permettendo di intraprende un discorso sulla laicità delle altre culture, cercando di comprendere la logica che le sottende, anche se tale logica può essere estranea ai valori e alle credenze dell’osservatore (relativismo morale). Nonostante la critica al relativismo che occasionalmente emerge all'interno della disciplina, è fondamentale distinguere il relativismo culturale dal pericolo di giustificare comportamenti moralmente riprovevoli. Il relativismo non giustifica, ma invita a comprendere. In questo senso, l'antropologia non mira a legittimare ogni aspetto della cultura di un popolo, ma a trovare modalità difendibili per "far posto alla diversità", contribuendo così a un'interpretazione più giusta e sensata delle pratiche e delle credenze di culture lontane dalla propria. Un esempio di relativismo culturale: interpretare le Mutilazione Genitali Femminili Le mutilazioni genitali femminili (MGF) sono pratiche culturali che comprendono l’alterazione o la rimozione parziale o totale degli organi genitali femminili. Tali pratiche sono diffuse in diverse comunità, specialmente in alcune regioni dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia, e sono spesso associate a valori come la purezza, la femminilità, l’onore familiare e la preparazione al matrimonio. Questa pratica culturale è stata oggetto di studio a partire dagli anni ’70/’80 del XX secolo e recentemente l’antropologa italiana Carla Pasquinelli ha affrontato lo studio delle MGF in diverse aree africane, con un approccio che cerca di bilanciare il rispetto per il relativismo culturale con la critica delle pratiche lesive per i diritti delle donne. Pasquinelli sottolinea che per comprendere e affrontare il fenomeno delle MGF, è fondamentale evitare il moralismo etnocentrico. Ciò significa non limitarsi a condannare le comunità che praticano le MGF, ma cercare di comprenderne i significati simbolici, storici e sociali. Proprio nel tentativo di comprende e di far comprende al lettore la pratica culturale all’interno dell’opera che raccoglie il suo studio, intitolata “infibulazione” e pubblicata nel 2007, C. Pasquinelli inserisce anche una testimonianza ricevuta da una ragazza somala, che afferma di non sentirsi in alcun modo ‘mutilata’ dalla pratica, ma anzi di sentirsi iudicata poiché questa viene definita ‘mutilazione sessuale’. Allo stesso tempo, Pasquinelli mette in evidenza come le MGF non possano essere giustificate in nome della cultura, poiché comportano sofferenze fisiche e psicologiche, perpetuano l'oppressione delle donne e negano il loro diritto all'integrità corporea. Nel suo lavoro, Pasquinelli analizza le MGF non solo come fenomeno culturale, ma anche come pratica che riflette il controllo patriarcale sulla sessualità femminile e il corpo delle donne. In sintesi, lo studio di Carla Pasquinelli mette in evidenza che, di per sé, le MGF, sono delle violenze irreparabili, che negano l'esperienza del piacere sessuale e possono provocare malattie e/ o infezioni, ma che, all’interno di un discorso culturale queste avvengono al fine di proteggere il potere riproduttivo femminile. Il caso etnografico dei Turkana I Turkana sono un gruppo etnico pastorale seminomade del Nord Kenya, che abita lungo le rive del lago Turkana. Il matrimonio è uno dei momenti centrali della vita sociale Turkana ed è profondamente radicato nel sistema economico e simbolico della comunità. Una caratteristica distintiva è l’importanza della dote, che nei Turkana consiste generalmente in bestiame. La dote è essenziale per consolidare l’unione tra le famiglie, non solo come transazione economica ma anche come un mezzo per stabilire relazioni durature e garantire alleanze sociali. Il matrimonio è accompagnato da una serie di rituali complessi che coinvolgono le famiglie di entrambe le parti, le quali negoziano lungamente le condizioni dell’unione, specialmente riguardo alla quantità e al tipo di bestiame da trasferire. La lunga trattativa del matrimonio è stata raccontata nel documentario “The Wedding Camels” (1977) diretto da David e Judith MacDougall, pionieri del cinema etnografico. Questo film è il secondo di una trilogia dedicata ai Turkana e segue il lavoro precedente, “Lorang's Way”. Il film offre uno spaccato approfondito della cultura Turkana attraverso la narrazione del processo di organizzazione del matrimonio di una delle figlie di Lorang, un pastore turkano di età matura. Il film non si limita a descrivere i rituali matrimoniali, ma esplora come il matrimonio sia un microcosmo delle dinamiche economiche, sociali e simboliche dei Turkana. Attraverso una combinazione di osservazione partecipante e tecniche cinematografiche innovative, i MacDougall hanno documentato: - la negoziazione della dote, con le lunghe trattative tra le famiglie del futuro sposo (Kongu) e della sposa (Aki), che rivelano la centralità del bestiame nell’economia Turkana; 15 - i ruoli di genere: le responsabilità assegnate agli uomini e alle donne all’interno del matrimonio e nella gestione della famiglia. - il significato rituale, per cui il matrimonio è presentato come un momento di coesione comunitaria e un rito di passaggio, che consolida i legami sociali e riproduce l’identità culturale del gruppo. I MacDougall adottano un approccio osservativo e partecipativo, lasciando che le immagini e le interazioni parlassero direttamente agli spettatori. Questo stile di cinema etnografico evita la narrazione onnisciente e cerca di offrire una rappresentazione il più possibile autentica delle vite dei Turkana, rispettando la loro prospettiva e agendo come osservatori discreti. Un sapere con molti paradigmi Il termine "paradigma" deriva dal greco parádeigma, che significa "modello" o "punto di riferimento", ed è utilizzato in ambito scientifico per indicare gli assunti e le teorie che guidano la ricerca. Nelle scienze fisiche e naturali, un paradigma viene sostituito quando non è più in grado di spiegare i dati, con un passaggio a un nuovo modello che è generalmente adottato in modo uniforme da tutti gli scienziati del settore. Questo processo di sostituzione di paradigmi è tipico delle scienze esatte, dove il passaggio da un modello all'altro è più netto e definitivo, come nel caso della sostituzione del modello tolemaico in astronomia o della teoria del flogisto in chimica. Nel campo delle scienze umane, tuttavia, i paradigmi non seguono un andamento altrettanto lineare e definitivo. In antropologia, ad esempio, nel corso degli ultimi 150 anni si sono susseguiti diversi paradigmi (evoluzionismo, storicismo, funzionalismo, strutturalismo, ecc.), ma, diversamente dalle scienze esatte, più paradigmi possono coesistere contemporaneamente, e a volte paradigmi precedentemente abbandonati possono tornare sotto forme rinnovate. Ciò riflette la natura non completamente cumulativa del sapere antropologico. Sebbene siano stati acquisiti numerosi progressi nelle ricerche, come una comprensione più approfondita dei sistemi di parentela o delle divinità nelle religioni africane, le interpretazioni di questi fenomeni continuano a essere oggetto di dibattito. Non esiste un consenso definitivo su molti temi, e questo porta gli antropologi a perfezionare continuamente i loro approcci e le loro analisi, piuttosto che raggiungere un accordo unanime. Clifford Geertz, in un commento ironico, ha osservato che ciò che distingue l'antropologia come scienza non è tanto il raggiungimento di un consenso, quanto il perfezionamento dei dibattiti e l'affinamento dei metodi con cui gli antropologi esplorano il comportamento umano. Per questo motivo, l'antropologia è descritta come una disciplina "multi-paradigmatica", in cui più approcci teorici possono coesistere e competere tra loro. Questa pluralità di paradigmi è strettamente legata alla pratica etnografica, che si distingue dalla ricerca in laboratorio per il suo fondamento nell'incontro diretto, nell'ascolto e nel dialogo con le persone che le comunità studiate rappresentano. Le interpretazioni di queste realtà locali, soggette a traduzioni e mediazioni, sono il punto di partenza per un ampio spettro di interpretazioni, a seconda dell'accento che ogni antropologo pone su determinati aspetti delle vite altrui. Questo approccio consente una visione olistica dei fenomeni studiati, ma comporta anche la possibilità di molteplici letture e analisi di un dato fenomeno. Il versante applicativo Alla fine del Settecento, si pensava che lo studio dell'uomo potesse contribuire alla costruzione di una società migliore, mentre nella seconda metà dell'Ottocento l'antropologia divenne uno strumento per "riformare" la società, eliminando pregiudizi, superstizioni e ignoranza. Al tempo stesso, però, fu utilizzata dai governi coloniali per conoscere meglio le popolazioni delle colonie e per gestirle in modo più efficiente. La Gran Bretagna e la Francia furono particolarmente attive in questo campo, e negli Stati Uniti l'antropologia si impegnò anche nella lotta contro il razzismo, studiando le popolazioni indigene. Tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, molte importanti ricerche furono condotte sotto la protezione e il finanziamento delle amministrazioni coloniali. Gli antropologi non si schierarono apertamente con il colonialismo, ma spesso trassero vantaggio dalle opportunità di ricerca che le potenze coloniali offrivano. Negli anni successivi, l'antropologia fu oggetto di intensi dibattiti sul suo ruolo nel favorire il colonialismo, con la consapevolezza che, pur avendo sempre nutrito simpatia per le popolazioni studiate, non fosse esente da implicazioni politiche. Alcuni antropologi cercarono di sfidare i pregiudizi razziali e le discriminazioni, adottando pratiche che abbattero le barriere sociali e razziali imposte dai regimi coloniali. 16 A partire dalla seconda metà del Novecento, l'antropologia ha partecipato attivamente a progetti di sviluppo, nei settori economici, educativi e sanitari, a volte con l'intento di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni, altre volte con l'obiettivo di "giustificare" politiche governative o interventi da parte di finanziatori internazionali. Tuttavia, l'approccio dell'antropologia a questi progetti non è sempre stato unanime. Talvolta, l'antropologo è stato visto come un supporto tecnico che fornisce una "scientificità" alle decisioni politiche, che però non sempre corrispondono agli interessi delle popolazioni coinvolte. Negli ultimi decenni, gli antropologi sono stati impegnati anche in contesti più urbani e moderni, come consulenti per immigrati in settori sanitari e giuridici, affrontando problematiche relative alle differenze culturali in tema di salute, malattia, diritto familiare e privato. In questi casi, l'antropologia offre strumenti utili per comprendere le differenze tra i sistemi di conoscenza e i metodi di apprendimento, che sono spesso molto diversi da quelli del sistema scolastico occidentale. Nonostante questi contributi pratici, l'antropologia culturale rimane un sapere accademico, non una tecnica applicabile direttamente, e non si prefigge di insegnare come comportarsi nella società. Le sue scoperte e analisi non sono soluzioni pronte per l'azione sociale e politica, ma piuttosto strumenti di riflessione critica. Un compito fondamentale degli antropologi è quello di fare in modo che le loro conoscenze non vengano utilizzate per giustificare oppressioni, discriminazioni o sfruttamenti. Come affermato dall'antropologa Nancy Scheper-Hughes, l'antropologia deve mantenere un impegno etico, denunciando le situazioni in cui le persone sono sfruttate o discriminate. In definitiva, l'antropologia ha come obiettivo principale quello di riflettere sulle differenze e somiglianze culturali, cercando di comprendere l'umanità nella sua totalità, senza cadere nell'etnocentrismo o nella giustificazione di disuguaglianze sociali. La riflessività e il decentramento dello sguardo Negli ultimi decenni gli antropologi hanno sviluppato un approccio riflessivo, in cui l’esperienza di incontro con l'“altro” sollecita anche una maggiore consapevolezza della propria identità culturale. L'antropologo, osservando e vivendo esperienze di altre culture, è inevitabilmente spinto a rivedere e reinterpretare la propria visione del mondo, confrontandosi con l'alterità e con le proprie risposte emotive e intellettuali a essa. Un esempio di questo processo riflessivo viene fornito da Loring Danforth, che racconta la sua esperienza nell'osservare i riti funebri nella Grecia rurale. Sebbene questi riti gli apparissero come esotici e lontani dalla sua esperienza, Danforth rivela come l'esperienza della morte e dei riti funebri risvegli in lui una riflessione profonda sulla propria vita e morte, e sulla connessione emotiva che esiste tra il suo vissuto e quello degli altri. Questo esempio evidenzia come il contatto con altre culture può rivelare aspetti universali della condizione umana, come la morte e il lutto, e come questi vengano vissuti in contesti culturali differenti. L'antropologia, quindi, non si limita a un'esperienza «personale» e introspettiva, ma applica la dimensione riflessiva come strumento di conoscenza e di confronto che può essere condiviso con un pubblico più ampio. Questo approccio riflessivo permette di decentrarsi, ossia di uscire dalla propria prospettiva culturale per osservare la realtà e se stessi attraverso gli occhi degli altri. Secondo Clyde Kluckhohn, l'antropologia agisce come uno “specchio” che riflette non solo le culture studiate, ma anche l’immagine del lettore o dell’antropologo stesso, permettendo a tutti di riconoscersi, pur nelle differenze. Il decentramento dello sguardo è dunque un principio fondamentale dell'antropologia: osservare se stessi come gli altri ci vedono (come suggerito da Clifford Geertz) è un passo essenziale per ampliare la propria consapevolezza della posizione che occupiamo nel mondo, riconoscendo la pluralità delle esperienze umane. L'antropologia, pur non fornendo risposte facili o rapide, offre una direzione per sviluppare una visione più aperta e critica di sé e degli altri. Questo processo di riflessività non è solo un atto scientifico, ma anche un impegno etico, che ci spinge a considerare e apprezzare le somiglianze e le differenze culturali in modo equilibrato e consapevole. 17 Parte seconda Unità e varietà del genere umano Capitolo 1 “Razze”, geni, lingue e culture Apparentemente diversi a del tutto simili L’antropologia culturale, come scienza del presente, volge uno sguardo agli studi di antropologia fisica e di paletnologia riguardanti l’uomo preistorico, concentrandosi in particolare su quali sono state le implicazioni che ha avuto il processo di ominazione. Rivolgersi a scienze vicine ha permesso agli antropologi di liberarsi, a partire dagli anni ’60 del XX secolo, della nozione di ‘razza’, secondo la quale è possibile identificare, all’interno della specie umana, una diversità di tratti biogenetici distinti e stabili, ciascuno di questi associabili a una determinata cultura. L’idea di “razza” è, infatti, una costruzione culturale priva di basi scientifiche. I tentativi di classificare l’umanità in razze si sono rivelati arbitrari e soggettivi, con numeri variabili tra tre e sessanta. La nozione di razza, spesso legata a pregiudizi e stereotipi, è stata usata per giustificare discriminazioni e ideologie di superiorità, culminate in tragedie storiche come il colonialismo e i genocidi del Novecento. In realtà, le analisi genetiche mostrano che le differenze all’interno di un presunto gruppo razziale sono maggiori rispetto a quelle tra gruppi diversi. Gli esseri umani, sì, si differenziano sia dal punto di vista fisico, per statura, colore della pelle, forma degli occhi, tratti facciali e capelli, sia sul piano linguistico, che culturalmente, in quanto vi è una vasta gamma di idee e comportamenti, anche tra individui appartenenti alla stessa cultura. Ma nonostante ciò, la scienza ha dimostrato che tutti gli esseri umani appartengono a un’unica specie e condividono un corredo genetico estremamente simile. Le ricerche di antropologi, linguisti e genetisti, come Luigi Luca Cavalli-Sforza, confermano che le differenze somatiche sono superficiali e relativamente recenti. L’Homo sapiens sapiens, emerso in Africa circa 100.000 anni fa, ha acquisito il suo aspetto attuale e le sue capacità intellettuali solo negli ultimi 50.000 anni. Le migrazioni umane, determinate da fattori ambientali e culturali, come la ricerca di risorse o l’innovazione tecnologica, hanno portato alla dispersione della specie su tutto il pianeta e alla graduale differenziazione fisica dovuta a fattori ambientali e culturali. Questi spostamenti hanno contribuito all’isolamento genetico dei gruppi, ma la loro origine è principalmente culturale, dimostrando che la diversità umana è il risultato di interazioni complesse tra ambiente, cultura e storia evolutiva. In antropologia è importante accogliere l’idea riguardate il tema dell’ominazione, ovvero il processo evolutivo che ha portato gli antenati umani a sviluppare caratteristiche distintive, quali l’acquisizione della postura eretta, in quanto questo si ricollega al tema dell’incorporazione, ovvero dell’ “apprendere attraverso il corpo”. Lavorare introno alla postura bipedica significa lavorare introno all’implicazione e alle conseguenze che la postura bipedica ha avuto per i nostri antenati. Questo cambiamento non è solo una questione fisica, ma ha avuto profonde implicazioni culturali e cognitive. La stazione eretta ha rappresentato un momento cruciale per i nostri antenati, permettendo loro di adattarsi a nuovi ambienti e sviluppare abilità fondamentali per la sopravvivenza. In passato, infatti, gli antenati dell’uomo vivevano principalmente sugli alberi, in ambienti boschivi, conducendo attività di caccia e raccolta. Con il diradamento delle foreste a causa di mutamenti climatici, si rese necessario scendere dagli alberi e muoversi sul terreno. La postura bipedica si rivelò vantaggiosa per camminare e avvistare i predatori in spazi aperti. Dal punto di vista paleontologico, l'evoluzione della postura eretta precedette l’espansione cerebrale. Un importante indizio fu il ritrovamento in Sudafrica di un cranio con il foro occipitale spostato di circa 45 gradi, un segno dell’adattamento alla bipedalità. Questo cambiamento anatomico permise la liberazione degli arti superiori, aprendo la strada all’uso di strumenti, alla manipolazione degli oggetti e alla comunicazione gestuale. La bipedalità non fu solo un vantaggio fisico, ma influenzò anche lo sviluppo culturale e cognitivo dell’uomo. La postura eretta favorì la capacità di apprendere attraverso il corpo e di conservare e trasmettere informazioni, contribuendo alla costruzione di una cultura sempre più complessa. Questo dimostra come l’evoluzione fisica e quella culturale siano strettamente interconnesse nel percorso dell’ominazione. 18 Capitolo 2 Forme storiche di adattamento. Le società “acquisitive” Homo sapiens sapiens, il colonizzatore Negli ultimi 50.000 anni, l’Homo sapiens sapiens si è evoluto adattandosi a una straordinaria varietà di ambienti, sviluppando diverse strategie di sopravvivenza. Durante questo lungo periodo, l’umanità ha colonizzato le fasce temperate di Europa, Asia e Africa; le regioni fredde dell'area circumpolare; le zone tropicali dell’Africa, Asia e Americhe; praterie, foreste, deserti, isole vulcaniche e montagne. Ogni comunità ha elaborato strumenti e metodi specifici per sfruttare le risorse disponibili, proteggersi dal clima e interagire con altre popolazioni. Tutte le forme di adattamento impiegate sono il frutto di un processo per cui l’uomo investe le sue energie fisiche e intellettuali al fine di trarre dall’ambiente che lo circonda i mezzi per la sopravvivenza. Questo processo è il lavoro. L’adattamento si è basato quasi totalmente sulla caccia-raccolta e la pesca, utilizzando strumenti semplici ma ingegnosi, come bastoni, lance e ami. Queste società, definite "acquisitive", si nutrivano esclusivamente di risorse spontanee dell’ambiente. Solo negli ultimi 10.000 anni, con la rivoluzione agricola, si sono verificati cambiamenti epocali: l'introduzione dell’agricoltura ha portato alla nascita di società stratificate, città, religioni statuali, divisione del lavoro, centralizzazione politica e scrittura. Questo nuovo sistema di sussistenza ha consentito una crescita demografica straordinaria ed è stato affiancato dalla pastorizia nomade. Con la rivoluzione industriale del XVIII secolo, basata sui combustibili fossili, l’umanità ha accelerato in modo drammatico la produzione, l’innovazione tecnologica e la trasformazione degli ecosistemi. Fino ad allora, la specie era rimasta ancorata a forme di adattamento sviluppate nel corso della sua storia: caccia-raccolta, agricoltura e pastorizia nomade. Questi momenti chiave rappresentano le tappe fondamentali dell’evoluzione dell’uomo moderno come specie colonizzatrice e trasformatrice dell’ambiente. I cacciatori.raccoglitori: passato e presente I cacciatori-raccoglitori rappresentano oggi una frazione infinitesimale della popolazione mondiale, meno dello 0,0003% dei sette miliardi di abitanti stimati nel 2011, contro il 100% che costituivano prima della rivoluzione agricola, circa 12.000 anni fa. Già alla vigilia della scoperta del Nuovo Mondo, essi rappresentavano solo l'1% della popolazione globale. Questo drastico declino è dovuto all’espansione di altre forme di adattamento, in primis l’agricoltura. I popoli cacciatori-raccoglitori attuali, come i pigmei BaTwa e BaMbuti del Congo, i boscimani !Kung San della Namibia, gli Hadza della Tanzania, alcuni aborigeni australiani e i gruppi circumpolari Inuit, mostrano notevoli differenze tra loro. Tuttavia, condividono l’essenza della caccia e della raccolta come mezzo primario di sussistenza. Nel passato, questi popoli traevano la maggior parte del loro cibo e dei materiali di uso quotidiano dalla caccia di grandi prede, mentre oggi si concentrano prevalentemente su piccole prede e risorse raccolte, come frutti, radici, tuberi, miele, pesci e molluschi, che forniscono oltre il 70% del loro sostentamento. Le differenze emergono anche nell’organizzazione sociale. I gruppi preistorici erano spesso più stanziali e composti da centinaia di individui, mentre i cacciatori-raccoglitori moderni tendono a essere nomadi e a vivere in piccoli gruppi di 20-30 persone. Tuttavia, alcune eccezioni storiche e recenti, come i Kwakiutl della costa nordamericana, dimostrano una struttura sociale complessa con villaggi permanenti, gerarchie, schiavitù e una marcata bellicosità. Al contrario, i !Kung San e gli Inuit polari sono noti per la loro pacificità, l’uguaglianza sociale e la mobilità. Nonostante le differenze culturali e ambientali, i cacciatori-raccoglitori vengono classificati insieme per il loro comune adattamento storico alla caccia e alla raccolta come modalità primaria di sopravvivenza, che ha caratterizzato l’uomo per la maggior parte della sua storia evolutiva. Caratteristiche delle società acquisistive La caccia-raccolta, integrata dalla pesca con strumenti semplici, rappresenta una forma di sfruttamento delle risorse naturali basata sull'acquisizione diretta di risorse spontanee, animali o vegetali, senza interventi che modifichino la natura stessa. Questa modalità, tipica delle società acquisitive, si distingue per un lavoro a rendimento immediato e per l'assenza di accumulo di 19 risorse. Gli esseri umani utilizzano ciò che la natura offre, senza produrre piante o allevare animali, come avviene invece nelle società agricole e pastorali. Questa forma di adattamento influenza profondamente l’organizzazione sociale. La dispersione delle risorse richiede mobilità elevata, che porta alla formazione di piccoli gruppi mobili, detti "bande", composti da poche decine di individui. La mancanza di risorse accumulabili favorisce un'economia egualitaria e una stretta cooperazione tra i membri del gruppo. Inoltre, l'impossibilità di accaparrarsi risorse limita le disuguaglianze economiche, sociali e politiche. Anche i rapporti tra uomini e donne sono più paritari rispetto alle società agricole o pastorali: la divisione del lavoro è minima e le donne, nomadi come gli uomini, non sono confinate alla sfera domestica. Le differenze individuali all’interno di queste società, ad esempio nella capacità di cacciare, nella saggezza o nella comunicazione con gli spiriti, non sono stabili né trasmissibili da una generazione all’altra. Questo impedisce la formazione di gruppi sociali strutturati. Tuttavia, esistono eccezioni che mostrano che stanzialità e stratificazione sociale possono verificarsi anche in contesti di caccia-raccolta. Un esempio emblematico sono i Kwakiutl della costa nord-occidentale americana, che vivevano in un ambiente ricco di risorse naturali, come il salmone. Grazie alla conservazione del cibo, essi potevano mantenere insediamenti stabili e sviluppare una società stratificata, composta da nobili, liberi e schiavi, con una marcata divisione del lavoro. La loro supremazia si esprimeva in cerimonie spettacolari come il potlatch, durante il quale i nobili distruggevano beni per affermare il loro prestigio. Anche i cacciatori-raccoglitori della preistoria europea vivevano in alcune aree ricche di selvaggina, rendendo gli spostamenti superflui e favorendo la formazione di insediamenti stabili con stratificazione sociale. Tuttavia, l’entità di questa stratificazione resta difficile da definire. Questi esempi dimostrano che, pur essendo caratterizzate da ugualitarismo e mobilità, le società di caccia-raccolta possono adattarsi a contesti ambientali favorevoli sviluppando strutture sociali più complesse. Le società “acquisitive” oggi: residui del passato o moderni marginali? Le società acquisitive odierne, basate su caccia-raccolta o pesca, presentano differenze significative rispetto a quelle dell’Europa preistorica, rendendo impossibile considerarle semplici "relitti del passato". Sebbene alcuni aspetti possano offrire spunti per comprendere lo stile di vita dei nostri antenati, i cacciatori-raccoglitori contemporanei si distinguono per il loro continuo rapporto con società agricole, pastorali e con le amministrazioni statali. Questa interconnessione è stata definita una "illusione arcaica" che smentisce l’idea di un loro isolamento. Fin dall’emergere delle prime società agricole e statali, i cacciatori-raccoglitori hanno instaurato relazioni significative con queste realtà. Ad esempio, i Penan del Borneo riforniscono oggi i mercati internazionali di rattan, ma probabilmente commerciavano con i cinesi già millenni fa. I boscimani della Namibia hanno partecipato alla pastorizia e all’agricoltura delle società limitrofe, mentre i pigmei della foresta congolese sono stati coinvolti nel commercio dell’avorio. Analogamente, in Nord America, gruppi come gli Algonkini, i Naskapi e i Montagnais commerciavano pellicce con gli europei, e i Shoshone della California integravano le loro risorse con il bestiame sottratto ai coloni. Gli aborigeni australiani, pur vittime di violenze, furono inglobati nel sistema dell’allevamento bovino introdotto dai coloni bianchi. Questi esempi dimostrano che i cacciatori-raccoglitori non potrebbero sopravvivere senza interazioni con altre società, un fenomeno comune anche alle comunità di pescatori come i Vezo. Le società acquisitive odierne, spesso identificate come popoli "nativi" o "prime nazioni", comprendono gruppi come gli Inuit, gli indios amazzonici e i nativi nordamericani. Questi popoli rivendicano uno statuto speciale nei confronti degli Stati sovrani, spesso legando le loro richieste a quelle di altre comunità marginalizzate dall’espansione delle società agricole, industriali e statali. La loro condizione li ha trasformati in "moderni marginali", conseguenza diretta della colonizzazione e della proliferazione degli Stati coloniali e postcoloniali. Destini speciali per società acquisitive speciali: le isole Maldive Le società delle Maldive rappresentano un caso particolare di evoluzione da un’economia acquisitiva a un sistema economico più complesso e industrializzato, strettamente legato al contesto storico e alle relazioni internazionali. Le Maldive, composte da oltre 300 isole che si estendono per più di 800 chilometri nell'Oceano Indiano, hanno storicamente svolto un ruolo centrale negli scambi tra la penisola arabica e l’India. Sin dall'antichità, hanno sviluppato forme di organizzazione politica centralizzata, e dal XIII secolo, con l’islamizzazione, hanno acquisito 20 un’identità culturale unitaria. Tuttavia, nelle aree più remote, le comunità hanno mantenuto per secoli uno stile di vita basato sulla pesca e sulla raccolta delle noci di cocco, simile a quello delle società acquisitive tradizionali. In tempi recenti, le Maldive sono diventate oggetto di nuovi interessi economici e geopolitici, grazie alla loro posizione strategica nell’Oceano Indiano. Potenze come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti vi hanno stabilito basi, mentre la scoperta del petrolio e l'importanza delle isole come snodi commerciali intercontinentali hanno attirato l’attenzione di nazioni come il Giappone, la Cina, l’India e i paesi arabi. Lo sviluppo de