Summary

Questo documento esplora i concetti e le esperienze dell'architettura attraverso l'analisi di materiali, spazi e ricordi personali. L'autore discute il ruolo dei materiali e della percezione nello spazio architettonico, fornendo esempi e riflessioni.

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Perché, mi chiedo spesso, si arrischia così raramente ciò che è immediato e ciò che è difficile? Perché nell'architettura recente si riscontra così poca fiducia nelle cose più peculiari che distinguono l'architettura: il materiale, la costruzione, il sorreggere e l'essere sorretto, la terra e il cie...

Perché, mi chiedo spesso, si arrischia così raramente ciò che è immediato e ciò che è difficile? Perché nell'architettura recente si riscontra così poca fiducia nelle cose più peculiari che distinguono l'architettura: il materiale, la costruzione, il sorreggere e l'essere sorretto, la terra e il cielo; così poca fiducia in spazi liberi di essere autenticamente tali; spazi in cui si ha cura dell'involucro spaziale che li definisce, della consistenza materiale che li caratterizza, della loro capacità di ricezione e di risonanza, della loro cavità, del loro vuoto, della luce, dell'aria, dell'odore? Alla ricerca dell'architettura perduta Quando penso all'architettura, dentro di me scaturiscono delle immagini. Molte sono legate alla mia formazione e alla mia pratica di architetto. Rac- chiudono la conoscenza professionale che ho acquisito nel corso del tempo. Altre hanno a che fare con la mia infanzia. Ricordo il periodo della mia vita in cui vivevo l'architettura in modo spensierato. Mi sembra ancora di sentire nella mano la maniglia della porta, quella porzione di metallo configurata come il dorso di un cucchiaio. La stringevo quando entravo nel giardino di mia zia. Ancora oggi quella maniglia mi appare come un segno distintivo dell'accesso a un mondo di sen- sazioni e odori molteplici. Mi ricordo del rumore della ghiaia sotto i miei pie- di, della lucentezza moderata del legno di quercia lucidato delle scale; sento lo scatto della serratura al rinserrarsi della pesante porta di casa alle mie spalle; mi vedo avanzare lungo l'oscuro corridoio e raggiungere la cucina, l'unico spazio propriamente rischiarato della casa. Era l'unico spazio - mi sembra oggi - il cui soffitto non scompariva nella penombra; e le piccole piastrelle esagonali, rosso scuro, con i giunti ben satu- rati, rispondevano ai miei passi con inflessibile durezza, e la credenza ema- nava un singolare odore di colore a olio. Tutto, in quella cucina, era così come è in ogni vecchia cucina tradizionale. Nulla di particolare la distingue- va. Ma forse proprio perché era semplicemente e in modo quasi naturale una cucina, è rimasta presente nella mia mente come l'immagine per eccellenza di una cucina. L'atmosfera di quello spazio si è coniugata per sempre con l'immagine che ho di una cucina. E mi verrebbe voglia di continuare e di raccontare: di tutte le maniglie di porte che seguirono a quella maniglia del cancello del giardino di mia zia, e dei pavimenti e delle superfici molli di asfalto riscaldate dal sole; e dei selcia- ti ricoperti di foglie di castagno in autunno e di tante porte che si rinserrava- no in modo così diverso: le une in modo pieno ed elegante, le altre in modo sottile e cigolando banalmente, altre ancora in modo duro, straordinario, minaccioso... Ricordi di questo tipo racchiudono le esperienze architettoniche più profondamente radicate che io conosca. Costituiscono il nucleo basilare di 7 immagini e di atmosfere architettoniche che nella mia pratica di architetto cerco di scandagliare. Quando progetto mi trovo ripetutamente immerso in vecchi e quasi dimenticati ricordi e cerco di chiedermi: quella determinata situazione archi- tettonica, com'era realmente costituita, quale significato assumeva per me allora e cosa potrebbe aiutarmi a ricostituire quell'atmosfera così ricca che sembra saturata della presenza naturale delle cose e in cui tutto è al posto giusto e possiede la giusta forma? Non riuscirei a individuare delle forme specifiche, ma avvertirei comunque quell'accenno di pienezza, di ricchezza anche, che fa pensare di aver già visto tutto una volta, mentre nel contempo so che tutto è nuovo, diverso e che nessuna citazione diretta di un'architet- tura anteriore può tradire il segreto di un'atmosfera pregna di ricordi. Fatto di materia Le opere di Joseph Beuys e di alcuni artisti dell'Arte povera sono per me in qualche modo rivelatrici. Quel che mi impressiona in queste opere d'arte è l'impiego preciso e sensuale dei materiali, che sembra attingere ad antiche conoscenze relative all'uso dei materiali mentre nello stesso tempo rivela l'essenza autentica, affrancata da ogni significazione culturalmente deter- minata di questi materiali. Nel mio lavoro cerco di usare i materiali in un modo simile. Ritengo che nel contesto di un oggetto architettonico i materiali possano assumere qualità poetiche. A tal fine occorre generare nell'oggetto stesso un legame adeguato tra forma e significato, poiché di per sé i materiali non sono poetici. La significazione che si tratta di costituire nella materia sta al di là delle rego- le compositive; così come la tattilità, l'odore e l'espressione acustica dei materia- li sono semplicemente degli elementi appartenenti al linguaggio con cui ci dob- biamo esprimere. Nell'oggetto architettonico il senso si produce nel momento in cui riusciamo a estrinsecare le valenze specifiche di determinati materiali costruttivi, che si fanno sentire in quel modo solo in quel dato oggetto. Lavorando in funzione di questo obiettivo, non possiamo fare a meno di richiederci sempre di nuovo quale significato possa assumere un determina- to materiale in un determinato contesto architettonico. Risposte valide a questa domanda possono far apparire in una luce inedita sia la modalità in cui il materiale viene solitamente utilizzato, sia le sue peculiari proprietà sen- suali e significanti. Se questo ci riesce, nell'architettura i materiali saranno in grado di risuo- nare e di risplendere. Il lavoro dentro le cose Una delle cose più impressionanti nella musica di Johann Sebastian Bach - come ben sappiamo - è la sua "architettura". La sua organizzazione si presenta lim- pida e trasparente. Possiamo seguire singolarmente gli elementi melodici, armonici e ritmici senza per questo perdere il senso della composizione, inte- 8 sa come totalità in cui ciascuna parte trova il suo significato. Una chiara arti- colazione sembra soggiacere alle opere e seguendo i singoli fili del tessuto musicale possiamo intuire le regole che determinano la struttura costruttiva di questa musica. Costruire è l'arte di conformare un tutt'uno dotato di senso, a partire da una molteplicità di parti singole. Gli edifici sono testimonianze della facoltà umana di costruire entità concrete. Nell'atto del costruire risiede, per me, il nocciolo vero e proprio di ogni compito architettonico. È attraverso questo atto, in cui materiali concreti vengono congiunti ed eretti, che l'architettura pensata entra a far parte del mondo reale. Guardo con rispetto all'arte del congiungere, alle capacità dei costrutto- ri, degli artigiani e degli ingegneri. Il sapere dell'uomo relativo alla realizza- zione delle cose, implicito alla sua bravura, mi impressiona. Cerco quindi di progettare delle costruzioni che rendano giustizia a questo sapere e che, inoltre, siano degne di sfidare questa bravura. «C'è molto lavoro in questo oggetto», si usa dire contemplando un oggetto ben rifinito e credendo di intuire la cura e la bravura dell'artefice che lo ha creato. Che il nostro lavoro si nasconda davvero dentro le cose che ci riescono felicemente, è un pensiero che ci porta ai limiti della riflessione sul valore di un'opera. Il nostro lavoro starebbe davvero dentro le cose? Tal- volta, quando una costruzione architettonica mi colpisce alla pari di un bra- no musicale, di un'opera letteraria o di un quadro, sono tentato di crederci. Per il silenzio del sonno Amo la musica. I tempi lenti dei concerti per pianoforte di Mozart, delle bal- late di John Coltrane, il timbro della voce umana in certe canzoni mi com- muovono. La facoltà che l'uomo ha di inventare melodie, armonie e ritmi mi riem- pie di stupore. Il regno dei suoni comprende peraltro anche melodie, armonie e ritmi in reciproco contrasto. Conosciamo disarmonie e ritmi spezzati, frammenti e agglomerati di suoni e chiamiamo rumore i fenomeni acustici puramente fun- zionali. La musica contemporanea lavora specificamente con questi elementi. Penso che l'architettura contemporanea dovrebbe sostanzialmente avvalersi di un'impostazione altrettanto radicale di quella della musica con- temporanea. Ma vi sono dei limiti imposti a una tale esigenza. La composi- zione di un edificio fondata sulla disarmonia e sulla frammentazione, sui ritmi spezzati, sul "cluster" e sui ponti strutturali, è sì in grado di comuni- care dei messaggi, ma la curiosità si esaurisce con la loro comprensione e quel che resta è la domanda circa l'utilità dell'oggetto architettonico per la vita pratica. L'architettura ha il suo proprio ambito di esistenza. Ha con la vita un rap- porto soprattutto corporeo. Personalmente, non la ritengo né messaggio né segno, bensì involucro e sfondo della vita che scorre; un recipiente sensibile 9 per il ritmo dei passi sul pavimento, per la concentrazione del lavoro, per il silenzio del sonno. Disegnati dal desiderio L'architettura costruita ha il suo posto nel mondo concreto. È lì che afferma la sua presenza. E lì che parla da sé. Le raffigurazioni architettoniche di costruzioni non ancora realizzate sono contrassegnate dallo sforzo di dare voce a qualcosa che non ha ancora trovato il suo posto nel mondo concreto, ma che per esso è concepita. Il disegno d'architettura cerca di visualizzare l'atmosfera che l'oggetto emana nel proprio sito con la maggior precisione possibile. Ma proprio lo sforzo della rappresentazione può rendere partico- larmente evidente l'assenza dell'oggetto reale. Si fa sentire allora l'inadem- pienza di ogni rappresentazione, la curiosità per la realtà promessa dalla rappresentazione e, forse, se tale promessa riesce a toccarci da vicino, il desi- derio della sua presenza. Se il realismo e la virtuosità grafica di una raffigurazione architettonica sono eccessive, se la rappresentazione non presenta più nessun "punto sco- perto" in cui penetrare con la nostra immaginazione e capace di suscitare la curiosità per la realtà possibile dell'oggetto rappresentato, allora la rappre- sentazione diventa essa stessa l'oggetto del desiderio. Il desiderio ardente per l'oggetto reale si spegne. Poco o nulla affatto rinvia al reale mirato, a ciò che sta oltre la rappresentazione. La rappresentazione non annuncia più alcuna promessa. Si esaurisce in se stessa. I disegni di progettazione che rinviano esplicitamente a una realtà anco- ra futura sono importanti nel mio lavoro. Sviluppo quindi i miei disegni nel- la prospettiva di quel delicato punto di visibilità in cui diventa possibile cogliere l'atmosfera di fondo ambita, senza che essa risulti disturbata da ele- menti accidentali. A tale scopo il disegno deve assumere esso stesso le qua- lità dell'oggetto desiderato. Come lo schizzo dello scultore per una scultura, il disegno non sarà allora soltanto una copia dell'idea, bensì una parte inte- grante del lavoro creativo culminante nell'oggetto costruito. Intesi in questo senso, i disegni permettono di porsi a distanza, di osser- vare e di imparare a capire ciò che ancora non è, ma sta per divenire. Fessure nell'oggetto sigillato Le case sono configurazioni artificiali. Consistono di parti singole che devo- no essere congiunte. La qualità di questi congiungimenti determina in ampia misura la qualità dell'oggetto finito. Nell'ambito della scultura c'è una tradizione che attenua l'espressività delle saldature e dei collegamenti tra le singole parti dell'opera a favore del- la forma globale. I lavori in acciaio di Richard Serra, ad esempio, risultano altrettanto omogenei e unitari di certe sculture in pietra o legno apparte- nenti a tradizioni plastiche più antiche. Negli anni sessanta e settanta nume- rosi artisti hanno fatto appello, nelle loro installazioni e nei loro oggetti, ai metodi di giuntura e collegamento più semplici e immediati che conoscia- mo. A più riprese Beuys, Merz e altri hanno lavorato con disinvoltura e natu- ralezza nello spazio, operando con avvolgimenti, piegature o stratificazioni, per creare un tutto a partire da parti singole. Il modo immediato e apparentemente naturale con cui questi oggetti artistici sono configurati è istruttivo. In questi lavori non c'è alcun disturbo dell'impressione generale da parte di piccole parti estranee alla proposizio- ne dell'opera. La percezione del tutto non è distolta da alcun dettaglio mar- ginale. Ogni contatto, ogni collegamento, ogni giunto è al servizio dell'idea di un tutt'uno e consolida la presenza pacata dell'opera. Quando progetto degli edifici, cerco di conferire loro una presenza di questo tipo. Ma a differenza dell'artista, devo partire dalle incombenze fun- zionali e tecniche alle quali ogni costruzione deve adempiere. L'architettura è chiamata a sfidare la creazione di un tutt'uno a partire da innumerevoli componenti singole, distinte nella funzione e nella forma, nei materiali e nelle dimensioni. Per gli spigoli e i giunti - i punti in cui le superfici si inter- secano e i diversi materiali si incontrano - occorre ideare costruzioni e forme dotate di senso. Con queste forme particolareggiate vengono stabilite le fini misure intermedie all'interno delle proporzioni maggiori dell'edificio. I par- ticolari determinano il ritmo formale, la finezza proporzionale della scala di un edificio. I dettagli hanno il compito di esprimere ciò che l'idea progettuale di fon- do esige in quel determinato punto dell'oggetto: unione o disgiunzione, tensione o leggerezza, attrito, solidità, fragilità... I dettagli, quando riescono felicemente, non sono una decorazione. Non distraggono, non intrattengono, ma inducono alla comprensione del tutto, alla cui essenza necessariamente appartengono. In ogni creazione in sé compiuta risiede una forza magica. Un corpo archi- tettonico pienamente sviluppato sembra avere il potere di incantarci. All'im- provviso il nostro sguardo cade su un dettaglio, rimanendo meravigliato: quei 12 Cappella di San Benedetg, Somvix, Grigioni, 1987-88. due chiodi nel pavimento, che tengono unite le lastre di acciaio accanto alla soglia consunta... Affiorano i sentimenti. Qualcosa ci commuove. Al di là dei segni «tutto è possibile» si sente dire nel mondo degli artefici. «Mainstreet is almost all right», dichiara Venturi, l'architetto. «Più niente funziona», proclamano invece coloro che vivono male l'ostilità del nostro tempo. Sono asserzioni rappresentative di opinioni contrastanti, per non dire di situazioni contrastanti. Sembriamo abituarci a convivere con le con- traddizioni e fra le ragioni possiamo citare le tradizioni che si dissolvono, il venir meno delle identità culturali chiuse. L'economia e la politica sviluppa- no una dinamica che nessuno sembra essere realmente in grado di capire e controllare. Tutto si coniuga con tutto, e la comunicazione di massa genera un mondo artificiale di segni. L'arbitrario è in voga. Forse la vita postmoderna potrebbe essere descritta così: tutto ciò che oltrepassa i nostri personali dati biografici risulta vago, sfocato e in qualche modo irreale. Il mondo è stracarico di segni e informazioni, rappresentativi di cose che nessuno comprende pienamente perché a loro volta questi segni non risultano essere altro che segni rappresentativi di altri segni. La cosa vera e propria rimane nascosta. Nessuno riesce mai a vederla. Ciononostante sono convinto che esistano tuttora - sebbene siano in pericolo - cose autentiche. Esiste la terra e l'acqua, la luce del sole, paesaggi e vegetazioni; esistono oggetti creati dall'uomo, come le macchine, gli uten- sili o gli strumenti musicali, che sono ciò che sono, che non sono supporti di alcun messaggio artificiale e la cui presenza è del tutto naturale. Quando contempliamo oggetti o costruzioni che sembrano riposare in se stessi, la nostra percezione si attenua e si attutisce in un modo del tut- to particolare. L'oggetto che percepiamo non ci impone alcun messaggio, è lì, semplicemente. La nostra percezione si fa silenziosa, cessa di essere prevenuta e possessiva. Si trova al di là dei segni e dei simboli. È aperta e vacua. Come se guardassimo qualcosa che non si lascia trascinare al cen- tro della coscienza. A questo punto, in questo vuoto della percezione un 13 Paesaggi resi completi essere lì semplicemente. Non prestiamo loro nessuna attenzione particolar essere lì, semplicemente. Non prestiamo loro nessuna attenzione particolare, eppure è pressoché impossibile immaginarsi senza di loro il luogo in cui sono insediate. Sono costruzioni che danno l'impressione di essere solidamente anco- rate nel terreno, di essere parte integrante dell'ambiente a cui appartengono; sembrano dire: «sono così come tu mi vedi ed è qui che devo stare». La possibilità di progettare delle costruzioni che nel corso del tempo entrano in una simbiosi così naturale con la conformazione e la storia del loro luogo, eccita la mia passione. Ogni nuova costruzione comporta un intervento in u n a determinata situazione storica. La qualità dell'intervento dipende dalla capacità di dota- re il nuovo di proprietà in grado di instaurare un significativo rapporto di tensione con il preesistente. Giacché per trovare un suo posto, il nuovo dovrà anzitutto stimolarci a guardare l'esistente in modo inedito. Quando nell'ac- qua di uno stagno viene gettato un sasso, un vortice di sabbia si solleva e si rideposita; il sollevamento è indispensabile affinché il sasso trovi il suo posto. Ma lo stagno non è più lo stesso di prima. Credo che gli edifici gradualmente accettati dal loro a m b i e n t e debbano possedere la facoltà di attirare e coinvolgere in più modi la sensibilità e la ragione. Il nostro sentire e il nostro ragionare, tuttavia, sono radicati nel pas- sato, per cui il significato che costruiamo con un edificio deve rispettare il processo del ricordo. Ma pertanto ciò che ricordiamo non è paragonabile all'estremità di una retta, afferma John Berger nel suo libro sul vedere. «Vi sono diverse possibilità che portano al ricordo, confluendo in esso. Immagi- ni, atmosfere, forme, parole, segni e confronti aprono le possibilità di avvici- namento. Attorno all'opera, posta al centro, dev'essere dispiegato a raggie- ra un sistema di approccio, in modo da poter considerare l'opera contempo- raneamente sotto aspetti diversi: storicamente, esteticamente, funzional- mente, quotidianamente, personalmente, appassionatamente.» La tensione all'interno di un corpo Di tutti i disegni che gli architetti producono, i disegni esecutivi sono quelli che preferisco. Sono esaustivi e obiettivi. Destinati agli specialisti che danno corpo materiale all'oggetto ideato, sono affrancati dalla regia di una rap- presentazione associativa. Non tentano più di convincere e avvincere come i disegni di progettazione. I loro connotati sono la certezza e l'affidabilità. Sembrano dire: «esattamente così sarà». I piani di esecuzione hanno il carattere di disegni anatomici. Rivelano una porzione di quel segreto e di quella tensione interiore che il corpo architet- tonico portato a compimento non denoterà più così apertamente: l'arte del- l'unire le parti, le geometrie nascoste, l'attrito dei materiali, le forze interiori attinenti al sorreggere e al trattenere, il lavoro umano racchiuso nelle cose. In occasione di una «Documenta» a Kassel, Per Kirkeby ha realizzato una scultura in mattoni di cotto che aveva la forma di una casa. Una casa senza entrata. L'interno era inaccessibile e invisibile. Restava un segreto che, unica- mente ad altre proprietà, conferiva alla scultura un'aura di spessore mistico. Ritengo che le costruzioni e le strutture portanti nascoste di una casa debbano essere articolate in modo tale da porre il corpo portato a compi- mento in uno stato di tensione interiore e di vibrazione. Sono costruiti in questo modo anche i violini, che ci richiamano alla mente i corpi vitali, viven- ti nella n a t u r a. Verità inaspettate Da giovane immaginavo che la poesia fosse una sorta di nube variegata com- posta da metafore e allusioni più o meno diffuse, da cui poter eventualmen- te attingere piacere, ma assai difficilmente ricollegabile a una visione vinco- lante del mondo. Come architetto ho imparato a capire che il contrario di questa definizione giovanile di poesia si avvicina ben di più alla realtà. Un edificio può assumere qualità artistiche quando le sue forme e i suoi contenuti molteplici confluiscono in una forte atmosfera di fondo. Ma questa artisticità non ha nulla a che vedere né con l'originalità né con una configura- zione singolare o ingegnosa. Ha a che fare invece con la saggezza, la ragione e soprattutto con la verità. E forse la poesia è la verità inaspettata. La sua appa- rizione ha bisogno di silenzio. Dare corpo a questa tacita attesa è il compito artistico dell'architettura. Poiché la costruzione di per sé non è mai poetica. Dispone soltanto di quelle delicate qualità che in certi momenti possono farci capire qualcosa che mai in precedenza avevamo potuto capire in quel modo. Desiderio Per articolare un edificio in modo chiaro e logico, è necessario progettare secondo criteri razionali e oggettivi. Se acconsento che lo svolgimento obiet- tivo del processo di progettazione venga a più riprese sovvertito da idee sog- gettive e avventate, approvo l'importanza dei sentimenti personali durante la progettazione. Quel che gli architetti dicono delle loro opere spesso non corrisponde pro- priamente a quel che ci raccontano le opere stesse. Presumibilmente ciò è lega- to al fatto che essi dicono molto sugli aspetti meditati a fondo dei loro lavori, ma rivelano poco delle passioni segrete che animano realmente il loro operare. Lo svolgimento della progettazione è fondato su una costante interazione tra sentimento e ragione. I sentimenti, le predilezioni, gli aneliti e gli ardori che affiorano desiderosi di assumere una forma, vanno criticamente valutati con la ragione. Ma è il sentimento a dirci se un ragionamento sia appropria- to o meno. Progettare significa in gran parte capire e ordinare. A mio avviso, tutta- via, il nocciolo vero e proprio dell'architettura ambita nasce attraverso l'e- mozione e l'ispirazione. Gli istanti preziosi dell'ispirazione si producono nel corso del lavoro paziente. In seguito alla manifestazione subitanea di un'im- magine interiore o alla realizzazione di un nuovo tratto nel disegno, l'intera ossatura progettuale sembra mutarsi e riformarsi nella frazione di qualche secondo. Come se all'improvviso si avvertisse l'effetto di una singolare droga. E tutto ciò che fino a quel momento sapevo sull'oggetto da realizzare, appa- re in una luce nuova e rischiarata. Provo un senso di gioia e di passione e den- tro di me una voce sembra dire: «questa è la casa che voglio costruire!» Inscritto nello spazio La geometria insegna le proprietà invarianti delle linee, delle superfici e dei corpi nello spazio. La geometria può aiutarci a capire come, in architettura, possiamo gestire il nostro rapporto con lo spazio. L'architettura conosce due possibilità fondamentali di creazione spaziale: il corpo chiuso che isola uno spazio al suo interno, e il corpo aperto che racchiu- de una porzione spaziale connessa alla continuità infinita. L'estensione dello spazio può essere visualizzata attraverso la collocazione o l'allineamento non occlusivi di corpi, quali lastre o aste, nella profondità aperta dello spazio. Non pretendo di sapere cosa significhi veramente la nozione di spazio. Più rifletto sulla sua entità, più lo spazio mi appare misterioso. Una cosa, però, so con certezza: quando ci occupiamo dello spazio in qualità di archi- tetti, ci occupiamo soltanto di una parte minima dello spazio infinito che abbraccia la terra. Ma all'interno di questo spazio infinito, ogni singola costruzione definisce un luogo. 16 Casa Gugalun, Safiental, Coira, Grigioni, 1994. Con questa idea in testa disegno le prime piante e le prime sezioni dei miei progetti. Disegno dei diagrammi spaziali e dei corpi semplici. Cerco di vedere i corpi che ho immaginato come precisi oggetti inscritti nello spazio, e mi preme sentire il modo in cui dallo spazio che li circonda ritagliano uno spazio interno oppure il modo in cui accolgono, alla stregua di un recipiente aperto, l'infinita continuità spaziale. Gli edifici che ci impressionano ci trasmettono sempre una sensazione intensa per quello che è il loro spazio. Essi delimitano quell'enigmatico vuo- to che chiamiamo spazio in un modo singolare, pervenendo a farlo vibrare. Ragione pratica Progettare vuol dire inventare. Un tempo, alla Kunstgewerbeschule, aveva- mo cercato di aderire letteralmente a questo postulato. Per ogni problema cercavamo una soluzione nuova. Quel che ci importava, era essere avanguar- disti. Solo più tardi dovetti constatare che in fin dei conti sono pochi i pro- blemi ai quali non sono già state trovate soluzioni valide in precedenza. Guardando indietro, la mia educazione alla progettazione mi risulta asto- rica. I nostri modelli erano i pionieri e gli inventori del Neues Bauen. Inten- devamo la storia dell'architettura come cultura generale, che incideva ben poco sui nostri progetti. Cosicché reinventavamo quello che era già stato inventato e azzardavamo a cimentarci in quello che inventare non si può. Una formazione progettuale di questo tipo possiede i suoi valori didatti- ci. Ma al più tardi come architetto praticante si trae gran beneficio dall'ac- certarsi dell'immenso sapere e dell'esperienza contenute nella storia dell'ar- chitettura. Se riusciamo a integrarle nella nostra pratica, accresceremo - io penso - la nostra possibilità di realizzare un nostro personale contributo. D'altronde la progettazione non è un processo lineare che dalla storia dell'architettura conduce logicamente e direttamente a una nuova costru- zione. Durante la ricerca dell'architettura che desidero realizzare, incappo sempre di nuovo in insulsi momenti di angustia. Nulla di quel che conosco 17 sembra confacersi a ciò che voglio e che ancora non so come dovrebbe esse- re. In queste situazioni cerco di liberarmi delle mie nozioni architettoniche scolastiche, che all'improvviso mi inibiscono. È un espediente che funziona. Il mio respiro si libera. Sento il profumo dell'aria antica e familiare degli inventori e dei pionieri. E il progettare torna a essere un inventare. L'atto creativo da cui nasce un'opera architettonica oltrepassa le cono- scenze storiche e artigianali. Al suo centro sta il confronto con le domande relative al proprio tempo. L'architettura, nel momento della sua creazione, è legata al presente mediante un rapporto particolare. Riflette lo spirito dei suoi inventori e risponde a modo suo alle domande relative al proprio tempo: attraverso la propria forma d'uso e il proprio aspetto, il proprio rapporto con altre architetture e attraverso il proprio rapporto con il luo- go in cui è situata. Le risposte che sono in grado di formulare a queste domande in qualità di architetto, sono limitate. Il nostro tempo, contrassegnato da cambiamenti radicali, non permette gesti grandiosi. I valori comuni che ancora condividia- mo e su cui possiamo fare affidamento sono ormai pochi. Per questo io difendo un'architettura della ragione pratica, fondata su quel che tutti noi ancora conosciamo, capiamo e sentiamo. Osservo attentamente il mondo costruito e con i miei lavori tento di cogliere ciò che mi sembra prezioso, di correggere ciò che disturba e di ricreare ciò che ci manca. Percezione malinconica Il film di Ettore Scola intitolato Ballando, ballando è ambientato in un'unica sala da ballo. Non ci sono né dialoghi parlati né cambiamenti di scena; ci sono soltanto la musica e le persone in movimento. Vediamo sempre la stes- sa sala, con la stessa gente che vi entra per ballare; e intanto il tempo scorre e le persone che ballano invecchiano. Al centro del film ci sono le persone in azione. Eppure è la sala da bal- lo - con il suo pavimento piastrellato, i rivestimenti di legno, la scala ascendente in fondo e la zampa di leone sul lato - che origina l'atmosfera intensa del film. O, viceversa, sono le persone che conferiscono allo spazio questa singolare atmosfera? Mi pongo questa domanda perché sono convinto che un buon edificio debba essere in grado di assorbire le tracce della vita umana, acquisendo così una particolare ricchezza. Naturalmente penso alla patina che il tempo deposita sui materiali, agli innumerevoli graffi che scalfiscono le superfici, alla lucentezza della vernice che si è incrinata ed è diventata opaca, agli spigoli che l'usura ha levigato. Ma se chiudo gli occhi e cerco di omettere queste impronte fisiche così come le mie prime associazioni, distinguo un'impressione diversa, un sentimento più profondo: una sensazione di consapevolezza del tempo che scorre, un sentimento nei confronti della vita umana che si svolge in luoghi e all'inter- no di spazi conferendo loro una carica particolare. I valori estetici e pratici 18 dell'architettura diventano allora secondari. E in questo momento il suo significato stilistico o storico non ha importanza. In questo istante, quel che conta è unicamente il sentimento malinconico che mi commuove. L'architet- tura è esposta alla vita. Se il suo corpo è sufficientemente sensibile, è in gra- do di sviluppare una qualità che sa rendersi garante della realtà della vita trascorsa. I passi lasciati alle spalle Quando sono intento a progettare, mi lascio guidare da immagini e atmo- sfere del ricordo che posso mettere in relazione con l'architettura che vado cercando. Le immagini che mi vengono alla mente derivano per la maggior parte da esperienze soggettive e quindi sono raramente provviste di un com- mento architettonico che ne accompagni il ricordo. Mentre progetto, cerco di scoprire cosa significano, per imparare come si producono determinate atmosfere e forme ricche di immagini. Dopo un certo tempo l'oggetto progettato assume nell'immaginazione proprietà specifiche appartenenti alle immagini evocate. E se si riesce a sovrapporre in modo sensato e a intrecciare reciprocamente queste pro- prietà, l'oggetto acquisterà ricchezza e spessore. Per conseguire tale risulta- to, le proprietà che integro nel progetto devono fondersi senza contraddi- zione alcuna con la struttura costruttiva e formale della casa nel suo com- plesso. Forma e costruzione, aspetto e funzione non possono più essere scis- se l'una dall'altra. Devono stare riunite e, insieme, costituiscono un tutt'uno. Guardiamo ora l'edificio. Il nostro sguardo, guidato dalla ragione analiti- ca, si discosta e cerca di fissarsi sui particolari. Ma la sintesi del tutto non con- cede la comprensione esaustiva delle parti. Tutto rinvia a tutto. A questo punto i motivi originari del progetto entrano in secondo piano. I modelli, le parole e i confronti che sono stati necessari alla creazione del tutto, si fanno evanescenti. Appaiono come i passi lasciati alle spalle. Il nuo- vo edificio sta al centro ed è se stesso. La sua storia prende avvio. Resistenza Credo che oggi l'architettura debba ricordarsi dei compiti e delle possibilità che le sono specificamente propri. L'architettura non è un veicolo o un sim- bolo per cose estranee al proprio essere. In una società che celebra il super- fluo, l'architettura può, nel proprio ambito, opporre resistenza, ribellarsi alla dissipazione gratuita di forme e significati e parlare il proprio linguaggio. Il linguaggio dell'architettura non è, ai miei occhi, una domanda relativa a un determinato stile. Ogni casa è costruita per un determinato scopo, in un determinato luogo e per una determinata società. Con i miei progetti cer- co di rispondere alle domande risultanti da queste semplici circostanze nel modo più preciso e critico che mi sia possibile. In un'epoca in cui la cultura della creazione è avvilita e la bellezza è arbitraria, io miro all'efficacia chiari- ficatrice di questo lavoro: 19 Il nocciolo d u r o della bellezza 1991 unatastissione radiotonica sul poeta americano William Carlos Williams. Il titolo della tra- smissione era: Il nocciolo duro della bellezza, una proposizione che ha subi- to attirato la mia attenzione. Mi piace immaginare che la bellezza abbia un nocciolo duro, e pensando all'architettura, il nesso tra bellezza e nocciolo duro mi risulta familiare. «La macchina è una cosa che non possiede parti superflue», dice una frase di Williams riportata alla radio. E mi sembra imme- diatamente di capire cosa intendesse dire. Si tratta di un pensiero al quale allude anche Peter Handke, credo, quando afferma che la bellezza sta nelle cose naturali, genuine, affrancate da ogni segno o messaggio; quando dichiara di essere irritato laddove si vede impossibilitato a scoprire, a scopri- re d a sé il senso delle cose. Nel corso della trasmissione radiofonica apprendo inoltre che la poetica di Williams è fondata sulla premessa «niente idee se non nelle cose», e che la sua arte è intesa a dirigere la percezione sensibile sul mondo oggettuale, al fine di poterne prendere piena coscienza. In Williams, dice il radiocronista, ciò si svolge in modo apparentemente laconico, senza emozioni, e proprio per questo i suoi testi sviluppano una forza emotiva così considerevole. Sono osservazioni che mi intrigano: costruire non tanto volendo provoca- re le emozioni, quanto ammettendo le emozioni. Restare saldamente attac- cati alla cosa stessa, vicini all'essenza dell'oggetto che devo creare, e confi- dare nella forza propria che la costruzione, se concepita in modo sufficiente- mente preciso per il suo luogo e la sua funzione, è in grado di sviluppare, senza aver bisogno di alcun complemento artistico. Il nocciolo duro della bellezza: sostanza concentrata. Ma dove stanno i campi di forza dell'architettura che ne distinguono la sostanza al di là della superficialità e dell'arbitrario? Italo Calvino riporta nelle sue Lezioni americane che il poeta italia- no Giacomo Leopardi intravede la bellezza di un'opera d'arte - nel suo caso la bellezza del linguaggio poetico - nel «vago», nell'indefinito e nell'indeterminato, perché essi lasciano la forma aperta a contenuti molteplici. 21 Terme di Vals, Grigioni, 1991-96. Di primo acchito l'affermazione leopardiana sembra evidente. Le cose, le opere d'arte che ci toccano da vicino sono complesse, possiedono molteplici, forse infiniti livelli di significazione che si sovrappongono e si intrecciano e che si trasformano alla luce dei diversi modi di considerarle. Ma come conseguire una simile profondità e molteplicità di strati dell'e- dificio che l'architetto deve realizzare? Il «vago» e l'«aperto» possono forse essere progettati? Non stanno essi in contraddizione con l'esigenza di esat- tezza formulata nella proposizione di Williams? Calvino trova una risposta sorprendente a partire da un testo di Leopar- di, in cui costui fa un elogio del «vago». Constatando come nei suoi testi questo amante dell'indefinito si attenga meticolosamente e fedelmente alle cose che descrive o evoca descrivendo, Calvino conclude: «Ecco dunque cosa richiede da noi Leopardi per farci gustare la bellezza dell'indeterminato e del vago! È una attenzione estremamente precisa e meticolosa che egli esi- ge nella composizione d'ogni immagine, nella definizione minuziosa dei dettagli, nella scelta degli oggetti, dell'illuminazione, dell'atmosfera, per raggiungere la vaghezza desiderata». Calvino termina infine con l'asserzio- ne apparentemente paradossale: «Il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione». Quello che mi interessa nel discorso di Calvino non è tanto l'invito al lavo- ro paziente, minuzioso e preciso che tutti conosciamo, quanto la considera- zione che la molteplicità e la ricchezza delle cose si esplicano da sole, laddo- ve siamo in grado di riconoscere le cose e di farne valere i diritti. Tradotto in termini architettonici ciò significa per me: sviluppare la forza e la molteplicità di strati a partire dal compito architettonico, ossia dalle con- dizioni che lo determinano o, appunto, lo condizionano. Nel corso di una lezione John Cage ha sostenuto di non essere un compo- sitore che sente dapprima mentalmente la musica, tentando successivamen- te di trascriverla. Precisando il suo diverso modo di operare ha affermato di elaborare dei concetti e delle strutture, quindi di farli eseguire e di rendersi conto solo allora della loro qualità sonora. Leggendo questa dichiarazione mi torna alla mente come recentemente abbiamo elaborato in studio il progetto per un bagno termale in un sito di 22 Terme di Vals, Grigioni, 1991-96 montagna e come non siamo partiti proponendoci delle immagini mentali da adattare al compito assegnatoci, ma come al contrario abbiamo cercato di rispondere a una serie di quesiti fondamentali che non erano affatto immaginari, bensì attinenti al luogo, al compito e ai materiali (montagna, pietra, acqua). Solo dopo essere stati in grado di rispondere, passo dopo passo, agli interrogativi riguardanti il luogo, i materiali e il compito dati, sono nati man mano spazi e strutture, di fronte ai quali noi stessi siamo rimasti stupiti e che ritengo possiedano il potenziale di una forza originaria che va ben oltre gli arrangiamenti di forme stilisticamente prefabbricate. Il confronto con le caratteristiche peculiari di entità concrete come la montagna, la pietra, l'acqua sullo sfondo di un preciso compito costruttivo, implica la possibilità di cogliere, quindi di estrinsecare una parte dell'essenza originaria e per così dire «inviolata dalla civilizzazio- ne» di questi elementi, e di maturare un'architettura che parte dalle cose e ritorna alle cose. Immagini prestabilite e concezioni formali pre- fabbricate non possono che ostacolare l'accesso a un confronto di que- sto tipo. I miei colleghi svizzeri Herzog e de Meuron affermano che l'architettura intesa come un tutt'uno compiuto non esista più oggi e che un'unità debba perciò essere creata artificialmente, nella mente del progettista, ossia mediante un atto mentale. Da questa premessa i due architetti teorizzano la loro architettura intendendola come una forma di pensiero: un'architettura - presumo - volta a riflettere in maniera specifica la sua unità, mentalmente e quindi artificialmente concepita. Non ho intenzione di approfondire oltre l'architettura come teoria di una forma di pensiero di questi architetti; vorrei però soffermarmi sul postulato ad essa soggiacente, secondo cui oggi non esisterebbe più l'edificio come un tutt'uno in sé compiuto, nel vecchio senso edile del termine. Personalmente continuo a credere nell'unità autonoma, corporea del- l'oggetto architettonico, non tanto come un dato di fatto naturale, quanto come meta - ardua ma indispensabile - del mio lavoro. 25 Ma come è possibile conseguire questa unità nell'architettura, nell'epoca in cui «Dio è morto» e in cui il reale minaccia di dissolversi nel flusso delle immagini e dei segni effimeri? In un testo di Peter Handke leggo dei suoi sforzi per rendere testi e descrizioni parte integrante dell'ambiente a cui si riferiscono. Se interpreto correttamente le sue asserzioni, vi ritrovo non solo la consapevolezza a me ben nota della difficoltà di sottrarre alle cose create mediante un atto artifi- ciale la loro artificiosità, assimilandole al mondo delle cose quotidiane e naturali, ma anche - e una volta di più - la convinzione che la verità risiede nellecosestesse. Ritengo che i processi artistici volti al conseguimento di un'unità siano sempre dei tentativi di conferire ai propri esiti una presenza equiparata a quella propria alle cose naturali, all'ambiente naturalmente conformatosi. Mi risulta dunque ben comprensibile il passaggio in cui Handke - che nella stessa intervista si designa come uno «scrittore dei luoghi» - esige che nei pro- pri testi «non accada nulla di superfluo e che si svolga soltanto il riconosci- mento dei singoli particolari e quindi il loro intrecciarsi in uno... stato di cose»: La nozione di «stato di cose», impiegata da Handke, mi sembra illumi- nante in relazione all'obiettivo di creare delle entità naturali e unitarie: rea- lizzare dei precisi stati di cose, pensare l'edificio in termini di stato di cose, le cui singole parti devono essere correttamente riconosciute e poste in un rap- porto oggettivo. Un rapporto oggettivo! 26 Terme di Vals, Grigioni, 1991-96. Ciò che traspare in queste annotazioni è la riduzione agli oggetti e alle cose che sono. In questo senso Handke parla anche della fedeltà alle cose. Egli vorrebbe che le sue descrizioni fossero esperibili come fedeltà al luogo che descrivono e non come coloriture o attribuiti cromatici aggiuntivi. Dichiarazioni di questo tipo mi aiutano a superare l'avversione che soven- te mi coglie quando guardo a certa architettura recente. Sempre di nuovo mi imbatto in costruzioni create con lo sforzo e l'esplicito desiderio di pro- durre delle forme originali - e rimango irritato. L'architetto che costruisce oggetti di questo tipo, pur essendo assente, mi parla incessantemente attra- verso ogni dettaglio dell'edificio, dicendomi sempre la stessa cosa che finisce rapidamente per disinteressarmi. La buona architettura è intesa a ospitare l'uomo, a lasciarlo abitare in essa sperimentandola, e non è intesa a stordirlo con le chiacchiere. Perché, mi chiedo spesso, si arrischia così raramente ciò che è immediato e ciò che è difficile? Perché nell'architettura recente si riscontra così poca fiducia nelle cose più peculiari che distinguono l'architettura: il materiale, la costruzione, il sorreggere e l'essere sorretto, la terra e il cielo; così poca fidu- cia in spazi liberi di essere autenticamente tali; spazi in cui si ha cura dell'in- volucro spaziale che li definisce, della consistenza materiale che li caratteriz- za, della loro capacità di ricezione e di risonanza, della loro cavità, del loro vuoto, della luce, dell'aria, dell'odore? 27 Terme di Vals, Grigioni, 1991-96. Mi piace immaginare di progettare e realizzare delle costruzioni dalle quali, alla fine del processo costruttivo, mi ritiro come progettista, rilascian- do un edificio che è se stesso, che è al servizio dell'abitare e che è un ele- mento appartenente al mondo delle cose, capace di fare a meno della mia personale retorica. Esiste per me un bel silenzio in relazione a una costruzione, che collego a nozioni come calma, naturalezza, durevolezza, presenza e integrità, ma anche calore e sensualità; essere se stesso, essere un edificio, non rappresen- tare qualcosa, ma essere qualcosa. Say that it is a crude effect, black reds, Pink yellows, orange whites, too much as they are To be anything else in the sunlight of the room, Too much as they are to be changed by metaphor, Too actual, things that in being real Make any imaginings of them lesser things. È l'incipit del poema Bouquet of Roses in Sunlight del poeta statunitense della contemplazione silente, Wallace Stevens. Nella nota che accompagna il volume di poesie, leggo che Wallace Ste- vens ha accettato la sfida di contemplare a lungo, pazientemente, attenta- mente e di scoprire le cose, di capirle fino in fondo. I suoi poemi non sono una protesta o una lamentazione nei confronti dell'ordine perduto, né sono espressioni di un turbamento, bensì ricercano un'armonia comunque possi- bile; un'armonia che nel suo caso poteva essere soltanto quella della poesia (in maniera similare Calvino argomenta che l'unica difesa per lui concepibile da opporre alla perdita di forma constatata ovunque, è «un'idea della lette- ratura»). Per Stevens la meta ambita è il reale. Il surrealismo non lo impressionava, perché inventava senza scoprire. «Lasciare che una conchiglia suoni la fisar- monica, significa inventare, non scoprire», ha dichiarato. E qui traspare, ancora una volta, quel pensiero fondamentale che mi pare di aver ricono- 29 Terme di Vals, Grigioni, 1991-96 sciuto in Wiliams e in Handke e che mi sembra di intuire anche nei dipinti di Ecward Hopper: solo tra la realtà dele cose e l'immaginazione può scaturire la scintilla dell'opera d'arte. Traducendo quest'ultima frase in termini architettonici: solo tra la realtà delle cose di cui una costruzione tratta e l'immaginazione, scaturisce la scin- tilla della costruzione felicemente riuscita. E questa proposizione non è per me una rivelazione, bensì la conferma di un'esperienza che rivivo sempre di nuovo nel mio lavoro e la conferma di una volontà che sembra essere radica- ta in me. Riprendiamo ancora una volta la domanda: dove trovo la realtà su cui devo dirigere la mia immaginazione quando tento di progettare un edificio per un dato luogo e a un dato scopo? Credo che una chiave per rispondere al quesito stia nelle parole «luogo» e «scopo». Nel suo saggio Costruire Abitare Pensare Martin Heidegger afferma: «|| dimorare presso le cose è un carattere essenziale dell'essere uomo». Mi sem- bra che egli intenda dire che non ci troviamo mai in un ambito astratto, ben- sì sempre in un mondo di cose, anche quando pensiamo. E continuando a leggere nel saggio di Heidegger: «lI rapporto dell'uomo con i luoghi e attra- verso i luoghi con gli spazi si fonda nell'abitare». Il concetto dell'abitare inteso nell'accezione heideggeriana, come vivere e pensare in luoghi e all'interno di spazi, racchiude un preciso riferimento a ciò che «realtà» significa per me in quanto architetto. La realtà che mi interessa e su cui intendo orientare la mia immaginazio- ne non è la realtà delle teorie disgiunte dalle cose, ma la realtà del concreto compito costruttivo, finalizzato all'abitare. È la realtà dei materiali da costru- zione - pietra, tela, acciaio, pelle - e la realtà delle costruzioni che impiego per erigere l'edificio; è nele loro proprietà che cerco di penetrare con la mia immaginazione, avendo cura del senso e della sensualità, affinché scaturisca, un'abitazione all'uomo. forse, la scintill di una costruzione felicemente riuscita, in grado di offrire La realtà dell'architettura è ciò che è concreto, ciò che si è fatto forma, massa e spazio, il suo corpo. Non vi sono idee se non nelle cose. 30

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