Sociologia 1: Sociologia Negli USA PDF

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VisionaryTajMahal6808

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Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano (UCSC MI)

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sociologia sociologia americana interazione sociale teorie sociologiche

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Questo documento analizza la sociologia negli Stati Uniti, evidenziando le differenze con le teorie sociologiche europee. Si concentra sull'interazionismo simbolico e su autori chiave come Parsons, Goffman e Blumer. Il documento esplora la vita quotidiana e le interazioni come metodi per comprendere la società.

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Sociologia 1 SOCIOLOGIA NEGLI USA Passiamo ora allo studio della sociologia che si sviluppa nel nord degli Stati Uniti. Questo passaggio alla sociologia americana segna una discontinuità, ma in qualche modo anche...

Sociologia 1 SOCIOLOGIA NEGLI USA Passiamo ora allo studio della sociologia che si sviluppa nel nord degli Stati Uniti. Questo passaggio alla sociologia americana segna una discontinuità, ma in qualche modo anche una continuità. La linea nordamericana ci dice sostanzialmente che per capire la società noi non dobbiamo guardare gli aspetti macroscopici, ma dobbiamo andare a guardare nelle pieghe apparentemente insigni canti della vita quotidiana. Gli autori nordamericani sono molto simili tra di loro. Anche nella sociologia nordamericana troviamo una duplice linea: una linea weberiana e una linea durkheimiana. Nella linea durkheimiana ci sono Parsons e il suo discepolo Merton, mentre la linea weberiana è più nutrita e comprende Blumer (il padre dell’interazionismo simbolico, anche se Blumer prende le sue premesse da altri autori, soprattutto da Mead. Blumer ri-sistematizza molte delle cose che aveva già detto Mead), Goffman (approccio drammaturgico), Harold Gar nkel (etnometodologia) e in ne Alfred Schütz (che invece rappresenta un modo di fare sociologia noto come fenomenologia). Schütz è nato in Austria, ma è emigrato negli USA, quindi è considerato un sociologo nordamericano. di 59 94 Ci sono molti tratti comuni a questi autori, anche se ognuno poi rivendica un nome speci co per la sua scuola. Il primo tratto fondamentale della sociologia nordamericana weberiana è rappresentato dal fatto che questi sociologi si focalizzano sull’interazione. Weber non ha studiato lo svolgimento dell’interazione in un preciso luogo. Questi sociologi invece studiano l’interazione nella vita quotidiana, con tutte le sue dinamiche e componenti pratiche e pragmatiche. L’interazione è per questi autori un processo di tipo pratico, ma soprattutto comunicativo. L’intenzione è quella di considerare la comunicazione come pratica. Si vuole andare a vedere che cosa ci scambiamo quando comunichiamo, quali competenze richiede il saper mettere in comune dei signi cati. Un’altra caratteristica riguarda la rilevanza delle situazioni. Questi sociologi non fanno grandi teorie sulla società in generale, l’attore sociale è sempre colto in una peculiare situazione, molto micro e de nita. Goffman diceva che la sua sociologia non parla degli uomini e delle loro situazioni, ma, viceversa, delle situazioni e dei loro uomini. La situazione diventa il luogo di osservazione fondamentale per lo sguardo sociologico micro nordamericano. La vita quotidiana comprende situazioni anche molto diverse tra di loro e gli attori sociali sono chiamati a saper gestire diverse situazioni, anche molto eterogenee. Ogni situazione ha una sua etichetta, un suo galateo e una sua sceneggiatura. La vita quotidiana (soprattutto per Schütz) è considerata come una sorta di serbatoio di signi cati pronti per l’uso: quando noi interagiamo diamo per scontato tantissime cose, per esempio diamo per scontato che ci capiamo. Terzo punto (già visto con Weber): la realtà è una costruzione sociale. È un’idea completamente diversa rispetto a quella di Durkheim. Siamo noi che con le nostre interazioni costruiamo la società che abitiamo. Che conseguenze metodologiche ha tutto ciò? Blumer in particolare prende posizione contro a un modo di fare sociologia. Fondamentalmente ci sono due modi in cui la sociologia si può confrontare con il mondo dell’esperienza: un approccio quantitativo e uno qualitativo. Secondo Blumer con l’approccio quantitativo non si va da nessuna parte. La sociologia micro nordamericana weberiana utilizza un metodo di ricerca di tipo qualitativo o non-standard, che si basa sul fatto di entrare dentro le situazioni. Goffman ad esempio per studiare le interazioni negli ospedali psichiatrici si fece assumere come assistente del sioterapista. Conta il contatto diretto con le situazioni che si fi fi fi fi fi fi fi fi vogliono studiare. di 60 94 La differenza più rilevante che questi approcci hanno rispetto all’ortodossia weberiana è il fatto di rivalutare moltissimo l’azione che Weber screditava più di tutte, ossia l’azione rispetto alle abitudini. L’idea che l’abitudine dia un senso di ordine e di stabilità al nostro mondo è illusoria, è solo una speranza. In realtà a volte la stessa vita quotidiana ci prende in contropiede e le certezze che pensavamo di avere ci lasciano in una sorta di vuoto esistenziale e conoscitivo. Questa sociologia nordamericana ha anche dei tratti simmeliani, Simmel aveva già concentrato la sua attenzione sulla vita quotidiana. BLUMER Blumer è colui che inventa l’espressione “interazionismo simbolico”. Le premesse sono molto weberiane. Blumer si sforza di dimostrare come la donazione di senso e l’attribuzione di signi cato alla società dipenda dall’individuo. Con l’interazionismo simbolico si approfondisce molto anche il senso inverso di questa relazione: nemmeno noi stessi potremmo essere veramente noi stessi se non vivessimo all’interno di questa società. La società ci dà una serie di risorse per costruire la nostra identità, per costruirci come soggetti. di 61 94 I precursori dell’interazionismo simbolico sono Mead e Cooley, ma è Blumer che conia il termine. Uno dei concetti dell’interazionismo simbolico è quello del sé ri esso. Mead fornisce a Blumer una de nizione precisa di cosa si intende per sé, per la soggettività. La teoria di Mead è una teoria della soggettività intesa come sé, sé inteso come dialogo interiore. Il processo di riconoscimento è la cellula base della nostra vita sociale. Per capire noi stessi abbiamo bisogno degli altri. Questo è il processo di riconoscimento. La conseguenza del ri utare questo tipo di processo è il narcisismo. Confrontandoci con noi stessi non abbiamo alcun tipo di confronto. Negare che la nostra identità si costruisce attraverso il processo ri essivo di riconoscimento con gli altri signi ca essere narcisista. Narcisista non signi ca essere sicuro di sé, il narcisista è un soggetto fragile. Per far sì che le cose diventino socialmente reali qualcuno ci deve rimandare l’immagine di noi e confermarci che non è soltanto una proiezione nostra quella che abbiamo di noi stessi. Il sé ri esso è un sé che torna a se stesso dopo essersi confrontato con altri. Il sé ri esso implica il fatto che la nostra soggettività nasca nella dinamica relazionale tra un ego e un alter. Mead affronta lo stesso tema, ma andando maggiormente in profondità. Mead, come Weber aveva fatto con azione sociale e comportamento, distingue tra due modi di interazione. Ci sono alcuni tipi di interazione che avvengono in maniera abbastanza automatica. L’interazione simbolica è un tipo di interazione tipicamente umana, è un’interazione che per avvenire ha bisogno di altri tipi di gesti, che non sono quelli automatici. Mead chiama le parole gesti signi cativi. Il linguaggio verbale è solo uno dei tanti linguaggi ed è anch’esso un linguaggio dei gesti (gesti acustici, che funzionano in base al signi cato). Mead, riprendendo la logica weberiana, considera l’interazione tra due soggetti: un soggetto 1 prende un singolo signi cato e lo associa a uno stimolo (es.: associa la parola sociologia a un suo contenuto), lo pronuncia e quindi passa questa cosa a un soggetto 2, che deve fare il processo inverso, cioè deve capire che cosa sta dietro lo stimolo e deve risalire al suo signi cato. Il soggetto 1 codi ca e il soggetto 2 decodi ca. Questo processo funziona quando soggetto 1 e soggetto 2 vivono all’interno di una stessa cultura, perché in questo caso condividono gli stessi codici. Tra le persone tra le quali avviene lo scambio comunicativo e tra le quali avviene questa interazione basata sui simboli ci deve essere una condivisione abbastanza forte sui signi cati che esistono all’interno della cultura. Solo se noi condividiamo lo stesso vocabolario l’intesa più avvenire senza fraintendimenti. La relazione comunicativa funziona quando si condividono i vocabolari, le enciclopedie e la cultura, quando c’è condivisione sui signi cati che scambiamo. Conta molto l’uso che noi facciamo dei simboli. Spesso si possono venire a creare dei sottocodici (es.: emoji). Si tratta di una complessità che può creare fraintendimenti e con itti. Noi diamo per scontato che in qualche modo ci capiamo, ma in realtà non è sempre vero. Il riconoscimento mette in luce come la conferma della nostra identità provenga da dinamiche che coinvolgono necessariamente l’altro. Se noi ri utiamo questo tipo di legame con alter il rischio è quello di cadere nella autoreferenzialità o nel narcisismo (termine che però non utilizzano i sociologi). fi fl fi fl fi fi fi fi fi fi fi fi fi fl fi fi fi fl fl Mead parla del concetto di sé. Il protagonista della sua sociologia è il sé. Questo sé ha una particolare struttura. Secondo Mead il sé è diviso al suo interno tra un io e un me. Il che signi ca che il sé ha dentro di sé una dinamica di tipo processuale: la nostra soggettività non è nulla di statico, ma si evolve. L’io secondo Mead è la parte più spontanea della nostra personalità, la parte più “virtuale”, la nostra libertà creativa e creatrice, la nostra curiosità e la nostra volontà di essere qualcosa o qualcuno. È la parte meno de nita della nostra personalità. Con una componente siffatta rimarremmo pura virtualità, se non fosse che dentro il sé, accanto all’io, esiste anche il me. Il me viene de nito da Mead come gli altri dentro il sé. Dentro di noi, nella nostra identità personale, già nella prima infanzia iniziano a entrare in maniera costitutiva degli elementi che provengono dall’esterno, ma sono allo stesso tempo dentro di noi. È la società dentro di noi. di 64 94 Mead parte dal presupposto che la società ci permette di essere e di diventare quello che siamo, la società è anche una risorsa per l’evoluzione della nostra identità. Mead ci dice che noi possiamo avere dei pensieri e degli stati d’animo interiori personali e nostri, ma di questo non ce ne facciamo nulla se non riusciamo ad esprimerci. Per esprimerci necessitiamo di un linguaggio e il linguaggio ce lo offre la società. La purezza e la virtualità dell’io non riescono a tradursi tutte in maniera indolore nel linguaggio che la società ci mette a disposizione, però è l’unico strumento che noi abbiamo a disposizione. Tra l’io e il me esiste un rapporto di necessità, ma anche di scarto (lo scarto tra la pienezza dell’io che non sempre riesce a tradursi tutta nelle risorse del me) e questo fa sì che dentro il sé esista una continua dinamica di auto-esame; ogni volta che ragioniamo o che dobbiamo prendere una decisione è come se continuassimo a conversare con noi stessi perché questa conversazione è il processo attraverso cui l’io giudica quanto quello che mi sta dando il me vada bene per lui. L’io è quella continua dinamica di auto-trascendimento che però caratterizza la nostra identità e la rende mobile e soprattutto la rende capace di non subire i condizionamenti della società. Questo è importante per Mead: non è una dinamica di conformismo, semplicemente noi siamo quello che siamo perché siamo quello che diventiamo. Noi siamo quello che diventiamo perché abbiamo bisogno di questi continui accostamenti e scostamenti. Dentro di sé il soggetto è fondamentalmente libero, non è una libertà assoluta, ma sta alla base delle nostre scelte. La nostra identità è un percorso che, grazie al confronto continuo con la società e con gli altri, noi facciamo per capire noi stessi. di 65 94 Per Mead questo processo inizia molto presto nella nostra biogra a personale. Proprio per questo Mead studia quello che avviene durante l’infanzia. Secondo Mead sono fondamentalmente 3 le tappe che portano sempre di più il nostro io a confrontarsi con il me. Il primo momento è quello che Mead chiama di imitazione. I bambini nei primi mesi della loro vita imitano in maniera quasi automatica e istintiva quello che avviene nel mondo esteriore. C’è questo bisogno di riferirsi a un mondo esteriore. La seconda fase è quella del gioco libero: sembra una fase superata oggigiorno. Nel gioco libero non ci sono delle regole precise ed è in questa fase che si inizia a cogliere la dialettica tra l’io e il me. I bambini, attraverso i giocattoli, possono assumere di volta in volta ruoli di tipo diverso. Iniziano ad avere la capacità di vedersi da fuori. Si attiva questa capacità di vedersi in maniere diverse. È il presupposto fondamentale perché il bambino possa progressivamente entrare in società. Il passaggio più rilevante secondo Mead avviene nella fase del game, in cui il gioco è un gioco strutturato, organizzato e di squadra. In un gioco collettivo siamo in mezzo ad altre persone e capiamo che ci sono degli altri che da noi si aspettano alcune cose e le cui decisioni in qualche modo dipendono anche da quello che noi faremo. di 66 94 Il sotto-testo di una comunicazione è quello che io voglio dire veramente. Con Mead la dimensione mentale diventa la protagonista della dimensione sociale (lo avevamo visto già con Simmel). Secondo Mead se non esistesse un linguaggio in una collettività non esisterebbe nemmeno la mente, nemmeno il pensiero. La mente emerge nelle interazioni sociali. fi fi fi fi L’idea di sé come auto-conversazione è ripresa da Blumer, che ne fa il punto di partenza della sua sociologia. Per questo motivo la metodologia quantitativa viene ri utata dai sociologi nordamericani. Soprattutto Blumer ha preso posizione contro questo tipo di metodologia perché è talmente complesso quello che accade nelle nostre interazioni che va capito guardando da vicino gli scambi di signi cato. La centralità di tutto nei nostri processi sociali è il signi cato. Noi possiamo solo in qualche modo avvicinarci agli attori sociali e cercare di comprendere che cosa sta avvenendo dentro le loro situazioni. GOFFMAN Goffman è noto come il fondatore della sociologia drammaturgica. Goffman prende proprio sul serio la parola “attore sociale”. L’attore sociale è proprio un attore, una persona che sta sul palcoscenico e recita una parte. Questo fa per Goffman ciascuno di noi. L’attore sociale è a tutti gli effetti un attore. di 67 94 Il sé è simile a un attore su un palcoscenico, anche se in realtà sono tanti i palcoscenici sui quali ci dobbiamo esibire nella nostra vita quotidiana. Dobbiamo recitare sceneggiature di tipo diverso. Il migliore attore è quello che sa improvvisare. I palcoscenici più difficili sono quelli che si creano all’improvviso. Goffman sicuramente è in continuità con l’interazionismo simbolico, ma in lui è presente anche una piccola componente durkheimiana. Goffman ha subito anche le in uenze di Durkheim. L’approccio di Goffman è noto come approccio drammaturgico. L’attore, oltre al suo talento, ha necessariamente bisogno anche di uno spazio. Quando si studia l’interazione occorre considerare anche la situazione come un contesto teatrale. Gli elementi che secondo Goffman de niscono lo spazio teatrale sono fondamentalmente due luoghi: una scena (o ribalta) e un retroscena. Questi spazi possono essere reali/ sici o simbolici o addirittura anche solo mentali. Questi spazi si creano perché la situazione stabilisce che cosa è opportuno far entrare in scena e che cosa è opportuno tenere nel retroscena. Ogni situazione crea la sua scena e il suo retroscena perché ci invita a capire quali sono le cose che è opportuno mostrare e quali è opportuno tenere nascoste. Qui nascono due questioni. di 68 94 Per Goffman la vita sociale funziona così: gli attori sociali non necessariamente ngono, ma si adeguano a quello che conviene fare all’interno della scena. Goffman ci dice che noi costruiamo quotidianamente la nostra identità in base alle situazioni in cui ci troviamo. Il retroscena è il luogo in cui si recita in maniera diversa da come si reciterebbe sulla ribalta. La società dei media tende a trasformare il retroscena in scena (es. fuori onda). Come nascono queste situazioni? La realtà è socialmente costruita in base a come un gruppo di attori sociali de nisce una situazione. Una scena è reale quando più persone stanno condividendo la stessa de nizione della situazione. Se due o più attori de niscono come reale una situazione, questa sarà reale nelle sue conseguenze (teorema di Tomas). Le situazioni per questo motivo sono spesso micro. Quando si crea un accordo cognitivo tra le persone che de niscono la stessa situazione, Goffman parla di frame o framework. De nire collettivamente una situazione signi ca condividere il medesimo frame. Dare la stessa cornice alle cose che stanno succedendo. Il senso di quello che sta succedendo è legato alla cornice dentro la quale noi viviamo. Il frame è uno degli elementi fondamentali della sociologia di Goffman. Il frame è quella cornice che ci permette di essere sicuri di dare dei contorni precisi alla situazione. Non sempre il framework è chiaro. È vero che noi all’interno della nostra vita sociale ci scambiamo dei signi cati attraverso le nostre interazioni, ma non lo facciamo mai a caso o in maniera del tutto arbitraria: sono proprio i framework che stabiliscono dei criteri di salienza. La competenza sociale dell’attore è un elemento fondamentale per vivere all’interno della società. Il frame sta in piedi no a quando tutti gli attori sociali sono concordi nel tenerlo su. Ci sono degli elementi che strutturano le nostre interazioni (elemento durkheimiano), però la decisione di fi fi fi fi fl fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi reggere il framework è degli attori sociali. Un luogo di culto è un framework de nito architettonicamente. Tutto deve cooperare all’interno di una situazione perché la cosa peggiore per Goffman è quando la situazione crolla. Quando l’impalcatura simbolica che regge una situazione crolla improvvisamente si viene visti in maniera diversa. Goffman suggerisce una serie di strategie che l’attore sociale competente può avere per risolvere la situazione. Vivere dentro una situazione richiede all’attore sociale di diventare maniacale nel controllare le impressioni che dà di sé agli altri. La preoccupazione fondamentale di ogni attore sociale diventa quella di saper gestire e controllare le impressioni altrui. di 69 94 Goffman si è occupato anche dei concetti di stigma e di istituzione totale. Goffman si avvicina a quello che abbiamo visto con Simmel quando parlava dello straniero. Lo stigma è un attributo che mostra una discrepanza rispetto al complesso di attributi considerati normali, cioè ordinari e naturali, rispetto a una persona. Stigmatizzare signi ca prendere una sola caratteristica (quella meno naturale) tra tutte le caratteristiche che una persona possiede e assolutizzarla. Far diventare per effetto alone una persona o un gruppo assolutamente coincidente con un’unica caratteristica. Stigmatizzare vuol dire prendersi il potere di de nire l’identità dell’altro in una maniera univoca, senza dare all’altra persona la possibilità di mostrarsi in una maniera differente. Lo stigma è una profezia che si auto-adempie, si auto- avvera. Io ho categorizzato un individuo in un determinato modo, mi comporto con questo individuo in maniera congruente con il modo in cui lo percepisco e poi faccio sì che quella persona si comporti come io mi aspettavo. Goffman chiamava lo stigma “identità negata”. Quando stigmatizziamo un individuo gli togliamo la possibilità di esprimere se stesso per come vorrebbe esprimersi veramente. di 70 94 Il concetto di istituzione totale è un concetto che Goffman espone nel libro Asylums. Le istituzioni totali sono dei luoghi molto precisi, sono ad esempio un convento, un carcere e una clinica psichiatrica. Cosa accomuna questi tre luoghi? Si chiamano istituzioni totali perché o per scelta propria o per altre circostanze la vita delle persone si svolge tutta lì dentro. Totalizzano la biogra a di coloro che ci stanno dentro. Non ci sono interazioni con l’esterno (e se ci sono sono molto controllate e sorvegliate). di 71 94 Tra le tre Goffman ha studiato una clinica psichiatrica. Goffman ha dovuto inventarsi uno stratagemma per entrare lì dentro: si è fatto assumere come aiutante del sioterapista. Questo ci dice anche una cosa a livello di metodo: le tecniche di ricerca preferite dall’approccio goffmaniano riguardano l’osservazione, l’osservazione partecipante. Goffman osserva una serie di cose. Una delle caratteristiche delle istituzioni totali è che tutto deve essere ispezionabile e quindi c’è uno sguardo di tipo paraottico, un controllo ossessivo. Se non c’è un retroscena non c’è nemmeno uno strumento di difesa, non c’è nessun luogo in cui rifugiarsi e in cui ci si può pensare diversamente da come ti vede l’istituzione. L’istituzione non è esattamente stigmatizzante, ma è totalizzante. Dentro l’istituzione sei solo quella cosa particolare (es. sei solo un monaco, sei solo un malato). Alla lunga questa cosa non va bene. Goffman diceva che l’unica possibilità che i pazienti psichiatrici avevano per affermare qualche cosa di diverso rispetto a loro era quella di ribellarsi alle pratiche mediche che si esercitavano su di loro. di 72 94 HAROLD GARFINKEL E L’ETNOMETODOLOGIA Gar nkel condivide un elemento importante con Schutz, ma condivide molto di più con Goffman, Gar nkel rimane comunque uno studioso delle interazioni. Il suo focus è sulle interazioni, che lo avvicinano a Goffman, anche se con un punto di vista più antropologico. Gar nkel condivide con Schutz l’idea che la vita quotidiana sia un’insieme di cose che noi diamo per scontato. Noi riusciamo a condurre le nostre vite quotidiane dando per scontato una serie di cose sulle quali si basano le nostre routine. Questo accomuna moltissimo Schutz a Gar nkel. La differenza però è che Schutz ha una visione della sociologia più cognitiva, il discorso sulla vita quotidiana in Schutz assume delle tonalità più negative. Shutz è un sociologo della conoscenza, mentre Gar nkel è soprattutto uno studioso delle interazioni, o come preferisce dire lui delle cosiddette “pratiche”. Le pratiche sono l’oggetto principale di attenzione per il sociologo perché sono l’aspetto fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fondamentale della nostra vita quotidiana. La sua sociologia si chiama etnometodologia. “Etno” ci fa venire in mente l’etnologia, ossia la prima forma in cui si è de nita l’antropologia, cioè lo studio delle culture non occidentali. La proposta di Gar nkel è quella di provare a studiare la società in cui viviamo e la nostra vita quotidiana come se osservassimo una cultura distante, una cultura esotica, una cultura che non è la nostra. Questa è la s da di Gar nkel. Lo scopo è quello di capire come noi attori sociali diamo senso alle cose che facciamo tutti i giorni. La s da di Gar nkel è proprio questa: i sociologi per svolgere davvero il loro compito dovrebbero provare a guardare il mondo come se fosse la prima volta che lo guardassero. Vedere il mondo per la prima volta signi ca farsi una serie di domande, diventare un po’ come dei bambini. Il sociologo è come il bambino curioso che indaga e studia l’ovvio. La nostra vita quotidiana è fatta di molte cose ovvie e date per scontato e quindi bisogna inventare un espediente per riuscire a problematizzare l’ovvio. L’oggetto fondamentale della sua sociologia sono le pratiche. Se parliamo di pratiche nell’etnometodologia non intendiamo una dimensione a scapito di altre, ma tutto è “pratiche” nella prospettiva di Gar nkel. Le pratiche sono sicuramente dei modi di agire spontaneamente codi cati. Il miracolo per Gar nkel è che la nostra vita quotidiana abbia nonostante tutto una sua struttura e un suo ordine perché noi agiamo quasi sempre secondo pratiche codi cate, secondo delle routine. Noi siamo tutto sommato dei soggetti abitudinari, che agiscono secondo le loro routine. Tutto in qualche modo è pratica per l’etnometodologia: anche le nostre narrazioni per Gar nkel sono una pratica. Una narrazione è anch’essa una forma di azione. Attraverso le narrazioni costruiamo la realtà, un’immagine di noi stessi, dei frame. Una narrazione ha sempre una dimensione pragmatica, attraverso le nostre narrazioni cerchiamo di raggiungere degli scopi. Questo diventa ancor più evidente quando ci spostiamo nell’ambito della conversazione. La conversazione è proprio il tipico oggetto di studio dell’etnometodologia. Uno dei contributi che l’etnometodologia consegna alla sociologia (e poi alla sociologia della comunicazione) è lo studio delle conversazioni. Noi nelle nostre interazioni parliamo, ma questo parlare ha delle valenze e delle funzioni che vanno al di là dello scambiarci signi cati. Conversare signi ca “fare delle azioni”. Studiare il mondo sotto la forma delle pratiche signi ca entrare nella prospettiva che tutto è azione, anche ciò che a noi non sembrerebbe. di 73 94 Ciò non signi ca che non ci sono signi cati, solo che per Gar nkel (contrariamente a Weber e a Blumer, che partono dalla centralità del signi cato), molto spesso il signi cato arriva dopo l’azione. Per Gar nkel spesso il signi cato emerge a posteriori, soprattutto se qualcuno ce lo chiede. Il signi cato emerge nei resoconti (account) delle nostre azioni. Il ricercatore sociale deve essere capace di fare queste due cose: di guardare come una pratica si svolga e anche poi chiedere agli attori sociali coinvolti come mai in quella determinata circostanza hanno agito in un particolare modo. Per Gar nkel tutte le cose più astratte e tutti i nostri signi cati più astratti si spiegano sempre all’interno di una singola pratica. Tutto il nostro linguaggio secondo Gar nkel è sostanzialmente gergale. Questo perché il nostro linguaggio si de nisce e si costruisce all’interno di una situazione pratica. Gar nkel esprime la gergalità del nostro linguaggio con il termine “indicalità” o “indessicalità”. Le nostre parole hanno necessariamente bisogno di riferirsi ad un contesto. La situazione è un puzzle e il linguaggio che noi utilizziamo in quella situazione è un pezzo che si incastra esattamente dentro lì. L’etnometodologia studia la vita quotidiana, ma è molto utilizzata anche per studiare i cosiddetti setting organizzativi. di 74 94 Questo schema rappresenta una sala riunioni. Roberta è una giovane ricercatrice di un’organizzazione. Il suo capo progetto si chiama Livia. Roberta inizialmente punta il lato corto del tavolo, ma viene poi invitata a sedersi al margine del lato orizzontale. Scopriamo che il lato orizzontale è il lato dedicato ai ricercatori di alto rango. Roberta voleva invece sedersi lungo il lato più corto con i membri di rango più basso. fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi È indessicale quello che abbiamo provato a descrivere: se non sappiamo che in questa sala esiste una semantica dello spazio non capiamo i signi cati che stanno dietro agli spostamenti in questo spazio. L’etnometodologia sposta l’idea che la nostra vita sia fatta da una serie di pratiche a livelli altissimi. Alla ne tutto è una pratica. Ad esempio, sappiamo che esistono dei test del quoziente intellettivo che dovrebbero darci una misurazione per farci capire quanto saremmo più o meno intelligenti. In ottica etnometodologica essere intelligenti signi ca dimostrare di saper fare delle cose, in questo caso saper rispondere alle domande di un test. È pur sempre qualche cosa di pratico. Aver preso 30 ad un esame signi ca aver saputo fare quell’esame, non vuol dire necessariamente essere competenti in quella determinata materia. Anche dietro agli aspetti più astratti e più lontani dalla pratica in realtà c’è sempre una pratica secondo l’etnometodologia. Essere la squadra di calcio più forte al mondo vuol dire essere in grado di vincere un torneo. Si tratta di qualcosa di contingente. Secondo Gar nkel ogni aspetto della nostra esistenza dietro nasconde sempre qualcosa di molto pratico, un saper fare, un sapersela cavare, che però a volte può essere anche penalizzante. Secondo l’etnometodologia bisogna fare molta attenzione ai criteri con cui noi organizziamo la nostra vita sociale in tutti gli aspetti. di 75 94 di 76 94 Per l’etnometodologia qualsiasi nostra esperienza e qualsiasi nostro coinvolgimento all’interno della società è sempre un saper fare, anche quando le dimensioni che stiamo considerando ci sembrano astratte, universali e staccate dalla vita quotidiana e quindi dalle competenze strettamente tecniche e pratiche. Si tratta di un saper fare qualcosa di molto concreto e contestuale. Tutto dipende da un sistema molto concreto e studiato di pratiche di tipo valutativo. Il discorso dell’etnometodologia è molto relativizzante. di 77 94 Tra le pratiche che gli etnometodologi considerano molto rilevanti ci sono anche le narrazioni. Le narrazioni non sono solo i racconti degli scrittori, non è l’ambito della narrativa: le narrazioni sono i discorsi che noi attori sociali pronunciamo nella nostra vita quotidiana e che tendenzialmente per Gar nkel costruiamo ed enunciamo nel momento in cui qualcuno ci chiede di spiegare un nostro comportamento. Il punto è che per gli etnometodologi una narrazione non è mai una semplice mera descrizione, una narrazione non serve per descrivere cose che sono accadute cercando la massima fedeltà oggettiva e facendo in modo che le nostre parole corrispondano esattamente a quello che è capitato. Gli etnometodologi contribuiscono a questo dibattito dicendo che le narrazioni sono fondamentalmente legate a un utilizzo di tipo pratico: non descrivono, ma producono o costruiscono il mondo della nostra vita quotidiana, a volte semplicemente ribadendolo. Quando noi raccontiamo qualcosa abbiamo sempre delle nalità e degli obiettivi che sono anche pratici. Chi ascolta stabilisce se accettare o meno una narrazione tenendo conto di questi elementi contestuali. Chiunque parli fa una narrativa: racconta le cose da un suo punto di vista, anche per ottenere degli effetti pratici. Persino quando noi parliamo con noi stessi abbiamo delle nalità pratiche. Molto spesso noi accogliamo narrazioni per l’effetto che hanno su di noi. Gli etnometodologi fanno anche un discorso sulle conversazioni. Quando si osserva la conversazione ci si accorge con maggior accortezza di alcune cose. Una conversazione spesso coinvolge più persone contemporaneamente, c’è un dialogo. La conversazione è una pratica perché richiede un sapere pratico: bisogna saper conversare. C’è tutta una competenza pratica nel senso stretto del termine. Le conversazioni producono degli effetti reali. L’etnometodologia pensa che più le conversazioni siano stupide, più siano importanti. A volte vogliamo solo essere rassicurati quando interagiamo con qualcun altro, altre volte vogliamo solo avere un pretesto per avere un contatto comunicativo. Capendo che ci capiamo riusciamo a solidi care la ducia nel fatto che tutto ciò che rende possibile il fatto che ci capiamo esiste. fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi di 78 94 Un etnometodologo vuole studiare come le persone che vivono nella società agiscono quotidianamente per dare senso alla loro esperienza. Ma se quanto più possiamo dare cose per scontate, tanto più rendiamo stabile il nostro mondo, come si fa a capire quali sono le strategie attraverso cui gli attori negoziano il senso della loro esperienza quotidiana? Gar nkel dice che ci vuole un evento di rottura. I ricercatori devono produrre una situazione che alteri volontariamente il normale corso delle cose. Gar nkel chiama questa sua tecnica di studio “esperimenti di rottura”. Se vogliamo capire no in fondo come funziona il modo attraverso cui diamo senso alle azioni che facciamo nella nostra vita quotidiana non dobbiamo chiedere all’attore sociale perché fa una cosa (ci darà soltanto una narrazione). Ad esempio, Gar nkel diceva ai suoi studenti di andare a casa loro e di comportarsi come se fossero dei pensionanti. L’idea è quella di perturbare una situazione che si è abituati a vivere in maniera scontata. Coloro che subiscono questo atteggiamento inizialmente si preoccuperanno e successivamente inizieranno ad innervosirsi no a diventare aggressivi. Potrebbero diventare aggressivi perché sono stati costretti a rendersi conto del fatto che le cose potrebbero anche andare diversamente. È molto fragile la certezza che le cose abbiano un corso abbastanza regolare. Sentiranno l’ordine sociale sgretolarsi sotto i loro piedi e andranno nel panico. Questo comportamento genera panico. Per Gar nkel questo tipo di atteggiamento del ricercatore è rivelatore di come poi vanno veramente le cose. L’etnometodologia dice che studiare il frivolo a volte è più produttivo di studiare il serio. di 79 94 ALFRED SCHUTZ Schutz è tedesco, nasce a Vienna, ma noi lo consideriamo come uno dei protagonisti della sociologia nordamericana della linea weberiana (insieme a Blumer, Goffman e Gar nkel). Ciascuno degli autori nordamericani propone un nome preciso per de nire la sua sociologia. Abbiamo parlato di interazionismo simbolico con Blumer, di approccio drammaturgico con Goffman e di etnometodologia con Gar nkel. Con Schutz parliamo di fenomenologia, termine che deriva dalla loso a di Hussler. Hussler fonda questa scuola di pensiero loso ca e Schutz, suo discepolo, trova che le osservazioni di Hussler e il suo approccio fenomenologico possano essere molto utili e convenienti anche all’interno della sociologia. Potremmo considerare Schutz il padre della fenomenologia sociale. Alcuni illustri successori di Schutz sono Berger e Luckmann (autori del libro “La realtà come costruzione sociale”) e Habermas. Fenomenologia vuol dire lo studio dei fenomeni. Per fenomeni si intendono gli avvenimenti della vita sociale. La fenomenologia dice che lo sguardo degli scienziati sociali deve partire da ciò che ci appare come immediatamente evidente, come “dato” alla nostra osservazione. Noi apriamo gli occhi sul mondo e appaiono alla nostra coscienza una serie di cose. Secondo Schutz ciò che appare primariamente a uno sguardo fenomenologico è la vita quotidiana. Schutz è il primo autore che mette l’accento sulla vita quotidiana (come faranno poi anche gli altri tre autori). La vita quotidiana è intesa come un insieme di elementi e fatti che noi tendiamo a dare per scontato. Nella vita quotidiana, dice Schutz, il nostro approccio è un approccio naturale alla di 80 94 realtà, è un approccio pragmatico e pratico: noi siamo nel mondo per vivere e vivere implica fare delle cose. Schutz, rispetto ad altri autori che abbiamo visto, pur de nendo la vita quotidiana come un insieme di azioni che noi facciamo in maniera anche abitudinaria, si concentra soprattutto sugli aspetti e sugli approcci cognitivi della vita quotidiana: Schutz va a vedere come l’attore sociale riesce a conoscere e interpretare il mondo. Schutz si preoccupa degli aspetti che riguardano la conoscenza che noi attori sociali dispieghiamo nella nostra vita quotidiana. Secondo Schutz la conoscenza alla quale gli attori sociali attingono per vivere la loro vita quotidiana è il senso comune. Il senso comune ci dà questo approccio naturale e aproblematico rispetto alle cose che viviamo. Di fronte a ciò che incontriamo nella nostra vita quotidiana noi non abbiamo un atteggiamento problematizzante, i problemi sorgono nel momento in cui qualcosa ci costringe a fare delle cose diverse dal solito. Grazie al senso comune abbiamo una riserva di sapere pre-codi cata e pre-impostata, è come fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi se fosse un mondo pre-interpretato per noi. Il senso comune è una conoscenza che abbiamo a nostra disposizione ed è rassicurante. Ci dà la sensazione che sia condivisa e compresa da tutti e che quindi utilizzandola non avremo grossi problemi di comunicazione. Molto spesso questa idea di non avere dei problemi di comunicazione è un’illusione: Schutz sa che questo senso comune che possiamo dare per scontato e che possiamo impiegare nella vita di tutti i giorni non esclude la possibilità del fraintendimento, non esclude che dietro l’illusione dell’intesa e della comprensione ci sia in realtà il fraintendimento. Come peraltro Simmel, anche Schutz dedica un saggio allo straniero. Lo straniero viene inteso simmelianamente. Anche per Schutz lo straniero è il prototipo dell’altro, lo straniero è il caso limite, l’alter con il quale noi possiamo interagire nella nostra vita quotidiana, è il caso estremo di quella interazione che noi però possiamo avere quotidianamente. Mentre con le persone che vivono nella nostra società ci viene più facile dimenticarci che la comprensione è un piccolo miracolo, con lo straniero ci rendiamo conto del fatto che in realtà è miracoloso il fatto che noi nella vita quotidiana sembra che ci intendiamo. di 81 94 Secondo Schutz ci sono due postulati, due convinzioni con le quali nasciamo, due scommesse che entrano in gioco quando interagiamo con gli altri nella vita quotidiana attraverso il senso comune: 1. La interscambiabilità dei punti di vista: noi siamo convinti che (convinzione weberiana) tutto sommato non ci è impossibile metterci nei panni dell’altro, noi partiamo dal presupposto che in n dei conti l’altro non è così straniero da non poterci mettere nei suoi panni e cercare di capire il suo comportamento; 2. La congruenza dei sistemi di importanza: noi siamo convinti che se comunichiamo e agiamo all’interno della nostra cultura grossomodo le cose importanti sono le stesse per tutti. Tutti abbiamo le stesse gerarchie di valori, in n dei conti siamo simili. Viviamo nello stesso mondo e quindi condividiamo le stesse premure, le stesse gioie e le stesse ansie. Questi sono i presupposti che ci permettono di non cadere nella s ducia e nella paura dell’incomunicabilità e dell’incomprensibilità. L’elemento più innovativo che introduce Schutz è l’idea delle province nite di signi cato: non esiste solo la vita quotidiana, la vita quotidiana è la realtà preminente, la realtà che accomuna noi esseri umani, ma non c’è solo la vita quotidiana. Esistono delle sfere di realtà che stanno al di fuori della vita quotidiana in quanto tale, al di fuori del senso comune. Per esempio, l’atteggiamento loso co parte dalla messa in questione del senso comune, la loso a nasce quando l’essere umano inizia ad interrogarsi sul perché delle cose. È proprio l’atteggiamento opposto a quello del senso comune, l’atteggiamento loso co è un atteggiamento indagatorio, che non prende niente per scontato, è l’atteggiamento critico per de nizione. La scienza fa più o meno la stessa cosa, non accetta spiegazioni basate sul senso comune, indaga e va a fondo delle cose dandoci un tipo di conoscenza che socialmente riteniamo più fondato rispetto a quello del senso comune. Anche per la scienza le affermazioni non possono essere date per scontate, ma devono essere empiricamente dimostrate. Un’altra caratteristica tipica delle province nite di signi cato è che hanno un loro linguaggio proprio, speci co, che è diverso da quello della vita quotidiana. Le province nite di signi cato hanno un loro linguaggio speci co che de nisce un campo d’esperienza de nito, per questo si chiamano nite. La scienza non può utilizzare il linguaggio della vita quotidiana. Anche la scienza sociale ha un suo modo di de nire le cose. Per quanto riguarda le scienze sociali questo è più complicato di 82 94 perché le scienze sociali hanno un rapporto circolare con l’oggetto di indagine. Noi cerchiamo di comprendere la realtà, ma siamo anche appartenenti alla società stessa. Le province nite di signi cato sono anche esperienze marginali, come ad esempio il mondo dell’arte, il mondo dei sogni, la religione. Le province nite di signi cato hanno un linguaggio proprio, ritagliano una porzione speci ca di esperienza e vengono percepite come separate rispetto alla vita quotidiana. Esse ovviamente hanno delle ricadute sulla nostra vita quotidiana, ma non sono la vita quotidiana. Hanno un carattere demarcato e de nito simbolicamente. Sono dimensioni generalmente controllate da un gruppo di esperti: non tutti accediamo alla provincia nita di signi cato che è la scienza o alla loso a. La religione è un caso un po’ fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi particolare. Schutz è forse tra i 4 sociologi nordamericani weberiani il più critico nei confronti di Weber. Secondo Schutz, Weber considera il signi cato che noi attribuiamo alla realtà in maniera troppo rigorosa, lo considera come il movente a priori dell’azione, come se noi prima pensassimo ai signi cati che vogliamo dare alle cose e poi agissimo di conseguenza. Essere fenomenologi signi ca accorgersi che le persone tendenzialmente agiscono e il senso è dentro nelle nostre azioni e noi agiamo sulla base dell'interpretazione del mondo, ma questa interpretazione è già in qualche modo pre-interpretata dal senso comune e quindi spesso emerge dopo l’azione (come diceva Gar nkel). È vero che noi agiamo in base ai signi cati, ma questi signi cati sono già dentro il senso comune che noi assumiamo per osmosi. Schutz è molto critico su Weber, pur riconoscendosi dentro la scia che lui ha aperto nella storia della sociologia. Schutz si pone soprattutto problemi di tipo cognitivo e fondamentalmente dovendo dire cosa fa lo scienziato sociale arriva a dire che gli scienziati sociali costruiscono tipizzazioni di tipizzazioni. In buona sostanza gli scienziati sociali categorizzano le categorie che gli attori sociali usano per muoversi nel mondo. C’è un’affinità tra gli attori sociali e gli scienziati sociali e questa affinità consiste nell’attività di tipizzare. Noi per mettere ordine nel nostro mondo e nella nostra esperienza abbiamo bisogno di tipizzare, cioè ridurre i casi che incontriamo, le persone e le esperienze a delle categorie. Tipizzare è un’attività vitale, la facciamo tutti i giorni con le categorie che ci dà il senso comune. Lo scienziato sociale quando applica il suo sapere non fa altro che produrre tipizzazioni di tipizzazioni: organizza nelle sue categorie quelle che utilizza l’uomo comune durante la vita quotidiana. L’uomo comune distingue tra amici e colleghi e il sociologo dice quindi che il mondo dell’uomo è diviso tra legami primari e legami secondari. Secondo Schutz le tipizzazioni che i sociologi creano non devono essere incomprensibili agli attori sociali. Schutz suggeriva già all’epoca di validare insieme agli attori sociali il modo in cui i sociologi interpretano il loro agire. Gli approcci di tipo qualitativo partono da questo presupposto. Lo scienziato sociale costruisce tipizzazioni di tipizzazioni o tipizzazioni di secondo livello. Costruiamo tipi di tipi. TALCOTT PARSONS Con Parsons entriamo in un altro linguaggio, in un altro ordine di problemi. Con Parsons usciamo dalla linea weberiana e ci immettiamo nella linea durkheimiana della sociologia nordamericana. La sociologia post-parsonsiana si è sempre confrontata con questa pietra miliare. Con Parsons la sociologia torna ad essere una sociologia molto macro (cioè interessata alla società nel suo insieme) e molto teorica. Pare che Parsons non abbia mai fatto ricerca sul campo (se non forse in un unico caso), è stato fondamentalmente un grande teorico sociale, forse l’ultimo autore che sia riuscito a costruire una teoria così vasta e onnicomprensiva della società. Viveva in un’epoca che in qualche modo ancora glielo consentiva (pre-globalizzazione), un’epoca che ci permetteva ancora di considerare la società come un tutto compatto, come la voleva e la vedeva Durkheim. I primi studi di Parsons sono stati nell’ambito medico-biologico e poi si è avvicinato alla cibernetica. Alla ne Parsons arriverà ad avere una visione molto ingegneristica della società. Parsons appartiene alla linea durkheimiana senza dubbio, ma è anche vero che ha cambiato il suo pensiero durante il corso degli anni. Quindi, almeno alle origini, la sua sociologia nasce come tentativo di mediare tra Weber e Durkheim, anche se poi andando avanti l’istanza weberiana verrà sempre più soffocata da quella durkheimiana. Alla ne per Parsons il grande problema rimane quello di Durkheim: come può la società stare insieme e raggiungere il suo grado ottimale di integrazione? E quindi il punto di vista di Parsons si sposterà sempre di più dalla parte della società, Parsons fa una sociologia dalla parte della società. Ci alziamo con lo sguardo e il linguaggio diventa molto più astratto. Durkheim si chiedeva in quale modo le scienze sociali potessero rifare le stesse cose che facevano le scienze naturali. Parsons si chiede che cosa la scienza dell’informazione possa fare per la sociologia. Potremmo vedere anche questa analogia con Durkehim: riferirsi a un dominio di sapere esterno alle scienze fi fi fi fi fi fi fi fi sociali per chiedersi quale bene cio potrebbero introdurre nella società. Possiamo distinguere due momenti nella loso a di Parsons: in un primo momento in Parsons è ancora molto forte l’idea di tenere insieme i due padri fondatori della sociologia (Durkheim e Weber). Il modello volontarista dell’azione è il nucleo teorico del primo Parsons, che vuole ancora mettere insieme elementi dell’uno ed elementi dell’altro (teoria volontarista dell’azione). Che cosa cerca di preservare della lezione weberiana? Parsons concede a Weber l’importanza della libertà soggettiva, del fatto che l’attore sociale è in grado volontaristicamente di compiere un’azione, è dotato della capacità di piani care e dare un’intenzione e una direzione alle sue azioni. Però secondo Parsons il punto di vista di Weber si era dimenticato del fatto che comunque la libertà soggettiva non si esercita nel vuoto sociale, ma abbiamo dei vincoli. In questa fase Parsons pensa alla componente macro e societaria dal punto di vista dei vincoli. A Parsons interessa la questione dell’ordine sociale (come interessava a Durkheim). Come può esserci un ordine sociale se mettiamo al centro un attore sociale dotato della sua libertà di scelta? Il rischio è quello dell’anarchia. Esiste una cornice fatta di norme, di valori, di procedure e di leggi che forniscono una serie di vincoli a quello che ci è possibile fare. La prima parte del pensiero di Parsons è dedicata a capire come questi elementi possano mediarsi tra di loro. Lo fanno in una maniera abbastanza naturale. L’analisi weberiana in questo caso aveva tralasciato questi elementi di contorno. Qualsiasi nostra scelta deve comunque integrarsi all’interno del contesto sociale, che è fatto da una serie di elementi rigidi, di vincoli-limite (termine con cui Parsons in questa fase si riferisce al contesto sociale nei confronti dell’azione individuale). È vero che noi possiamo scegliere i ni e i mezzi delle nostre azioni per raggiungere i nostri obiettivi, ma essi non sono in niti. Ci sono tutta una serie di sistemi dentro i quali per raggiungere il nostro ne individuale noi dobbiamo inserirci. Siamo liberi, ma limitatamente (cioè dentro a un contesto). Secondo Parsons, l’atteggiamento dell’attore sociale medio è un atteggiamento di tipo adattivo: la nostra azione non stravolge mai gli schemi che la società ci offre. La nostra è un’azione adattiva, dobbiamo orientare i nostri ni individuali alla luce di quello che è il contesto sociale in cui ci troviamo. Non siamo schiacciati dal fatto sociale, ma la società è una sorta di contesto al quale l’attore sociale deve rispondere in maniera adattiva. Il secondo Parsons è più preoccupato dalle questioni dell’ordine sociale e da ciò che tiene insieme la società. In un secondo tempo Parsons si concentra maggiormente sugli aspetti di sistema, sugli aspetti societari. A questo punto Parsons diventa il padre di una particolare scuola di pensiero detta struttural- funzionalismo. La scuola sociologica che inventa Parsons si chiama struttural-funzionalismo. Parsons ne è ovviamente il massimo esponente, nonché fondatore. Egli cerca di produrre una teoria onnicomprensiva della società sviluppando un linguaggio altamente formalizzato. “Struttural” e “funzionalismo” non sono termini che vanno per forza assieme, per esempio Durkheim è strutturalista, ma è convinto del fatto che le spiegazioni funzionali non siano quelle giuste nella sociologia. Marx è un sociologo strutturalista, ma tutt’altro che funzionalista. Lo struttural-funzionalismo inizia con Parsons. Parsons invece è strutturale e funzionalista: strutturale perché come Durkheim guarda gli aspetti macro della società, guarda la struttura sociale (che è cristallizzata e de nita, i fatti sociali), ma in più aggiunge la componente del funzionalismo. Essere funzionalista signi ca porsi di fronte alla società con una domanda fondamentale: a che cosa serve? A chi o a che cosa giova? (riferendosi ad esempio ad una istituzione, ad un comportamento o ad un gruppo sociale). A Parsons interessa capire come alcuni elementi che fanno parte della società giovino o meno alla società stessa. Secondo Parsons è “giusto” che esistano solo quegli elementi che giovano alla società. Secondo Parsons studiare sociologicamente la religione signi ca andare a capire se e in che misura si tratta di un’istituzione che può giovare alla società. La sua risposta è positiva: la religione è funzionale alla società perché crea un ordine sociale, aiuta la società a stare insieme e a mantenere la sua compattezza. fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi Diventa importante per Parsons analizzare la società andando a distinguere gli elementi che al suo interno sono eu-funzionali (producono effetti positivi) da quegli elementi che sono invece dis-funzionali. Parsons viene spesso citato tra quegli studiosi che si sono occupati della devianza. Dire che un elemento non è funzionale alla società signi ca riconoscere che è deviante rispetto a quell’insieme di elementi che invece fanno bene al sistema sociale stesso. Una posizione sociologica di questo tipo tende ad essere conservatrice. L’obiettivo è mantenere il più possibile l’unità e l’integrazione della società e ciò signi ca che l’interesse è quello di valorizzare ciò che tiene salda e ferma la società. Quando Parsons parla della società utilizza l’espressione sistema sociale. Il concetto di sistema lo prende dalla cibernetica (scienza delle informazioni). Il sistema può essere applicato a qualsiasi entità. Parsons ritiene che il livello più utile a cui applicare la nozione di sistema sia soprattutto quello sociale. La cibernetica ci insegna che fondamentalmente un sistema sociale tende all’equilibrio. Si può spostare dalla sua posizione, ma questo tenderà prima o poi a ritornare nella condizione di partenza. Questo è il principio che Parsons de nisce dell’omeostasi. È un principio innanzitutto biologico e medico. Le omeostasi sono tutti quei processi che consentono al nostro organismo di mantenersi in equilibrio, cioè di essere sano. Anche la tecnologia utilizza il principio dell’omeostasi (es. termostato). L’omeostasi è un processo circolare, che serve a riportare un sistema alle condizioni di partenza. Il sistema sociale funziona secondo Parsons come un organismo che, in quanto tale, deve tendere all’omeostasi. Deve essere organizzato con delle istituzioni, degli apparati e delle leggi che favoriscano ciò. Secondo Parsons la repressione (reprimere la devianza con la forza) è solo l’ultima arma possibile all’omeostasi sociale. Non si dovrebbe arrivare a questo livello. Stare in un sistema sociale per un attore sociale è una condizione di tipo repressivo? Secondo Parsons no. Non è repressivo vivere all’interno di un sistema sociale per un attore sociale quando le nostre nalità, le motivazioni che stanno alla base delle nostre azioni, fanno gli interessi del sistema senza che ce ne si accorga, quando si raggiunge una sorta di armonia prestabilita che a noi consente di svolgere le nostre azioni in maniera eu-funzionale, senza che però noi percepiamo l’imposizione di questa eu-funzionalità. La retorica di Parsons non è una retorica del controllo repressivo, ma è quella del convincimento. Parsons è convinto che il sistema sia in grado di educare i suoi componenti ad agire in conformità con gli obiettivi generali della società. È una visione ottimistica. Come fa un sistema sociale a favorire questa integrazione tra i nostri desideri e gli interessi generali della società? Lo può fare per esempio cercando di istituzionalizzare i desideri possibili. Il sistema può articolarsi in modo tale da offrirci delle possibilità che siano per noi positive e al tempo stesso utili anche per il sistema stesso. L’idea è sempre quella che l’attore sociale si debba adattare, però se il sistema moltiplica le sfumature di opzioni che ci mette a disposizioni, allora questo adattamento sarà meno subito e meno vissuto come imposto. In conclusione, secondo Parsons vivere dentro un sistema sociale per l’attore non è repressivo (se il sistema a sua volta sa fare bene il suo lavoro). Affinché questo avvenga è fondamentale che l’attore sociale percepisca come suoi i valori generali della società. Per Parsons è la cultura che deve svolgere questa funzione. Secondo Parsons il sistema sociale è un tutto diviso in parti. In ottica funzionalista la società per stare insieme deve rispondere a diverse esigenze e quindi è necessario che all’interno del sistema sociale alcune parti si specializzino per dedicarsi esclusivamente a svolgere un compito fondamentale per la sopravvivenza del sistema sociale. È un po’ quella che Durkheim chiamava la divisione del lavoro sociale (vista però a livello di società). Il sistema sociale secondo Parsons per poter sopravvivere deve articolarsi in 4 sottosistemi per rispondere a 4 imperativi funzionali. Gli imperativi funzionali indicano i bisogni fondamentali ai quali ogni sistema sociale deve rispondere. Parsons riassume questi 4 imperativi funzionali con l’acronimo AGIL: 1. Adattamento: un sistema sociale ha bisogno di rispondere a esigenze di adattamento. Un sistema sociale si deve adattare all’ambiente. L’ambiente può essere inteso come ambiente in senso sico. Ogni società risente del territorio all’interno del quale quella società si inserisce. L’ambiente in buona sostanza è però qualsiasi cosa che esista al di fuori dei con ni di una data società. L’ambiente è ciò che è esterno ai con ni di una società. Può essere anche fi fi fi fi fi fi fi una società con nante o un contesto politico. Rimanere in vita per un sistema sociale signi ca adattarsi al suo ambiente. Secondo Parsons il sottosistema che deve preoccuparsi maggiormente di rispondere all’imperativo funzionale dell’adattamento è il sottosistema economico. Adattarsi all’ambiente signi ca garantirsi le risorse che permettono al sistema di sopravvivere proprio in senso sico. 2. Conseguimento dei ni/scopi (goal attainment): un sistema sociale deve poter raggiungere i propri obiettivi collettivi. Un sistema deve svilupparsi, crescere e darsi i suoi obiettivi di sviluppo. Secondo Parsons questo imperativo funzionale può richiedere scelte più o meno coraggiose. Il sottosistema che si occupa di fare le scelte che stanno alla base della crescita e dello sviluppo del sistema stesso è per Parsons il sottosistema politico. Il sottosistema politico deve prendere delle decisioni strategiche per lo sviluppo del sistema stesso. 3. Integrazione: per integrazione Parsons intende la buona armonia tra i 4 sottosistemi. Ci deve essere un sottosistema che faccia funzionare insieme l’economia, la politica e la latenza. La società è 1, ma divisa in 4 e per far sì che rimanga unita ci vuole l’ente di vigilanza che coordini il lavoro degli altri sottosistemi. Secondo Parsons di integrazione si occupa il sottosistema della comunità societaria, che coincide con il sistema delle leggi e del diritto. 4. Latenza: Parsons de nisce la latenza come la riproduzione del modello. La latenza è la capacità da parte del sistema di rimanere in piedi anche senza i sostegni (le leggi, le procedure, i valori, le norme e le istituzioni). Il sistema è fatto di tutte queste cose che servono a dare una forma particolare al sistema, ma è importante anche che questo sistema possa continuare a rimanere tale anche se per assurdo tutta questa intelaiatura scomparisse, perché vorrebbe dire che gli attori sociali hanno talmente interiorizzato questi elementi che li saprebbero svolgere in totale autonomia. È un principio utopistico. Qualcuno ha accusato Parsons di avere trasformato gli attori sociali in drogati culturali, in persone che, così intrise dal sistema che ha inculcato in loro questi elementi, quasi automaticamente fanno quello che vuole il sistema. Capire la rilevanza che per Parsons ha la latenza signi ca aver capito qual è la sua scommessa: creare un sistema dentro il quale gli attori sociali hanno talmente interiorizzato le regole da comportarsi da soli come vorrebbe il sistema. Il sistema ha un sottosistema, che è quello delle agenzie educative, della famiglia e della scuola che ha ancora questo scopo. Il sistema formativo ha lo scopo di riprodurre il modello del sistema nelle nuove generazioni. Lo scopo della socializzazione secondo Parsons è inculcare n da piccoli ai nuovi cittadini come funziona il sistema. La formazione primaria in un’ottica funzionalista ha una funzione cruciale. Per Parsons le istituzioni devono in qualche modo incentivare il conformismo, un conformismo sui generis: non dobbiamo pensare tutti le stesse cose, ma dobbiamo accettare l’idea che a ciascuno sia assegnata una parte del complessivo sistema alla quale deve attenersi per il bene stesso del sistema. È come sottomettersi all’importanza della coesione sociale riconosciuta come valore primario. Sopra il sistema sociale, in una posizione un po’ strana (mezzo dentro e mezzo fuori), sta il sistema culturale. I due quadrati rappresentano l’individuo considerato come un essere biologico e l’individuo pensato come personalità individuale. Si tratta di due piccoli sistemi. Noi esseri umani siamo la sovrapposizione tra un sistema di tipo biochimico e un sistema psichico. Il sistema funziona in maniera molto verticale. Il sistema sociale, attraverso il sottosistema della latenza, fa scendere la sfera culturale no ad arrivare a noi. Si tratta del processo della socializzazione ( = diventare parte del sistema). È la latenza che va a prendere la cultura e la trasmette. La socializzazione ci coinvolge socializzandoci a dei ruoli: secondo Parsons nella società noi non agiamo mai come individui nella nostra spontaneità, ma lo facciamo sempre nella veste del ruolo che la società ci assegna. Parsons de nisce la posizione che occupiamo nella società “status”. Allo status corrisponde un ruolo o un insieme di ruoli. In base alla posizione che occupo all’interno della società è legittimo che la società si aspetti da me certe cose. La nostra vita all’interno del sistema sociale deve essere guidata dal ruolo. Un buon sistema sociale riesce a offrire una gamma di ruoli sufficienti affinché tutti possano essere soddisfatti (Mead era più critico riguardo al ruolo). fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi

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