La Storia dell'Arte: Pinelli - PDF
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Antonio Pinelli
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Questo documento esplora la storia dell'arte, partendo da considerazioni sul contesto e l'iconografia, per giungere a una riflessione sul ruolo sociale dell'artista in diverse epoche. Vengono analizzati aspetti come la nascita delle accademie d'arte e la relazione tra arte e industria, con particolare attenzione all'affascinante interazione tra opere d'arte e pubblico. Il documento analizza anche le origini dell'arte, con un accenno alla sua connessione potenziale con magia e malinconia.
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[LA STORIA DELL'ARTE -- ISTRUZIONI PER L'USO. ANTONIO PINELLI] **Cap. 1 Per cominciare** **Contesto.** L\'opera va vista nell\'ambiente in cui si trova, ancora meglio se esso coincide con il luogo cui essa era destinata e per il quale era stata concepita. Es: La Crocifissione di Pietro e La conver...
[LA STORIA DELL'ARTE -- ISTRUZIONI PER L'USO. ANTONIO PINELLI] **Cap. 1 Per cominciare** **Contesto.** L\'opera va vista nell\'ambiente in cui si trova, ancora meglio se esso coincide con il luogo cui essa era destinata e per il quale era stata concepita. Es: La Crocifissione di Pietro e La conversione di Saulo (1600-1601) del Caravaggio sono state concepite per essere ammirate nel luogo in cui tuttora si trovano, ovvero la Cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo. La visione dei due dipinti, laterali rispetto alla pala d\'altare, era molto limitata dalla forma dell\'ambiente. Se ignorassimo la loro originaria ambientazione e li esponessimo in condizioni più comode e meglio illuminate, non si capirebbe perché il pittore le abbia realizzate con un forte scorcio laterale e con un conflitto luce/ombra. Le figure sono investite da un fascio di luce che conferisce loro un risalto plastico, che ne aumenta l\'impatto visivo e contrasta la collocazione sfavorevole. Altro fattore da non trascurare per capire la vita di un\'opera d\'arte è il restauro, che interviene a modificarne la consistenza fisica. Anche il restauro più delicato e \"scientifico\" spesso apporta delle modifiche che riflettono il gusto e le abitudini visive dell\'opera in cui viene eseguito. **Gestualità e iconografia.** L\'opera d\'arte dipende sì dalla personalità dell\'artista, ma anche dalle richieste del committente e dalla tradizione iconografica e stilistica. Problema dell\'iconografia: bisogna ricordare la necessità di decifrare il soggetto di un\'opera d\'arte del passato. Attualmente tendiamo a non dare importanza al soggetto, convinti che il valore di un\'opera risieda nella forma e non nel contenuto. Spesso il soggetto è palese e noto, ma sotto un\'apparente ovvietà si nascondono altri enigmi. Es: la Natività. In alcune opere la grotta assume l\'aspetto di un tempo in rovina, oppure alle spalle della Sacra Famiglia appare un arco di trionfo. Allusioni a una leggenda in cui si narra che i romani eressero un Tempio della Pace, che Apollo predisse sarebbe crollato quando una vergine avrebbe partorito un figlio. La capanna di legno è simbolo dell\'era cristiana che sorge sulle grandiose rovine della civiltà pagana. L\'arco di trionfo rimanda all\'arco fatto edificare da Costantino nei pressi del Colosseo per festeggiare la sua vittoria su Massenzio. Costantino attribuiva il merito della sua vittoria a Cristo. Tra i compiti dello storico dell\'arte c\'è quello di attivare tutti i canali conoscitivi (indagine archivistica e documentaria, quella storico-filologica e iconografica, l\'analisi del contesto culturale, la storia del gusto e della fortuna critica) per avvicinarsi il più possibile all\'interpretazione autentica di un\'opera, l\'interpretazione progettata dal suo autore in funzione del pubblico a lui contemporaneo. **L\'opera d\'arte eterno presente che viene dal passato e si inoltra nel futuro**. Le opere d\'arte sono il prodotto del proprio tempo esse godono di una vita autonoma. Tutte le opere d\'arte si rendono disponibili a una sorta di interazione con lo spettatore. Tra i compiti principali dello storico dell\'arte vi è quello di attivare tutti i canali conoscitivi al fine di rendere tale interpretazione meno arbitraria possibile. **Cap. 2 Ruolo sociale dell\'artista** **Arti liberali e Arti meccaniche: l\'emancipazione dell\'artista.** Nel Medioevo c\'era una netta distinzione fra Arti liberali e Arti meccaniche. [Arti meccaniche]: attività di carattere artigianale o artistico, con l\'abilità manuale come modalità operativa. [Arti liberali]: c\'era comunque una componente manuale ma era considerata secondaria. Erano le capacità intellettuali a conferire ai suoi adepti una condizione sociale elevata. Erano a loro volta suddivise in Arti del Trivio (Grammatica, Retorica e Dialettica) e Arti del Quadrivio (Aritmetica, Geometria, Musica e Astronomia). A partire dal 400 gli artisti svilupparono una volontà di emancipazione da questa condizione, conquistata da una crescente considerazione sociale grazie al loro operato nell\'Italia rinascimentale. La prima istituzione che li emancipò fu la nascita della prima Accademia delle Belle Arti nel 1563, dedicata allora al disegno, che svincolava gli artisti locali dalla Corporazione. Essi costituirono un\'organizzazione autonoma, dipendente dal granduca Cosimo De\' Medici. Più tardi, nel corso del \'600 e del 700, le Accademie d\'arte si diffusero a macchia d\'olio, diventando luogo di rappresentanza degli artisti nei maggiori centri italiani e stranieri. Le arti visive entrarono a fare parte delle Arti liberali Il costo del lavoro artistico Persino nell\'antica Grecia, luogo dove eccelsero le arti visive ed architettoniche, gli artisti erano definiti banausoi, cioè coloro che guadagnano il pane con il lavoro delle mani. Tuttavia ci furono diverse eccezioni a questo scarso apprezzamento, ad esempio Fidia, lo straordinario scultore che tra le altre cose ebbe il ruolo di ristrutturale l\'acropoli di Atene. Secondo le fonti, gli artisti dell\'antica Grecia venivano ricompensati tenendo conto del prezzo del materiale e in ragione di una tariffa oraria: si escludeva qualsiasi considerazione sulle capacità intellettuali dell\'artista, assimilando il suo operato a quello di un qualsiasi artigiano. A partire dell\'epoca di Alessandro Magno si assistono alle prime eccezioni, come Apelle e Lisippo in campo scultoreo. Si iniziò a diffondere il principio moderno per cui il rapporto valore-lavoro non è quantificabile sulla base delle ore impiegate per eseguire l\'opera. **Arte e industria: la nascita della fotografia e il prestigio dell'arte astratta.** Si tratta di una riproduzione meccanica della realtà, che rappresentò di fatto l\'irruzione della meccanizzazione nel campo delle arte figurative. Con il diffondersi nell\'800 dei processi di produzione industriale l\'artigianato, da forma di produzione esclusiva e dominante, scadeva al rango di attività produttiva sempre più marginale. L\'arte si vide scalzata dal suo piedistallo, specialmente per quanto riguarda generi come il ritratto, il vedutismo topografico e il reportage di guerra e di viaggio. Il mondo dell\'arte reagì alla fotografia in due modi opposti, esemplificati dai Preraffaeliti e da Whistler. I Preraffaeliti rifiutavano la realtà industriale, tanto da rifugiarsi in un Medioevo riecheggiato attraverso la lettura, la religione e le forme artistiche prodotte in quell\'epoca. Di qui le ambientazioni medievali, i riferimenti all\'arte fiamminga e italiana del Medioevo e del Rinascimento e la maniacale precisione ottica. Whistler guardava ad una realtà esotica, lontana da quell\'Europa in via di industrializzazione; la sua sfida alla fotografia si giocava proprio sul terreno dell\'esotismo e dell\'imprecisione di una pittura. Che puntava all\'improvvisione, alla ricerca di armonia e di suggestivi accordi cromatici. Il suo amore per il buio nelle sue opere è una metafora di un processo di liberazione dalle apparenze; il \"buio\" nutre l\'immaginazione dell\'artista. Whistler fu forse il primo a formulare una teoria che è oggi alla base dell\'arte astratta, intesa come rappresentazione di ciò che non fa parte della realtà fenomenica. **L\'autoconsiderazione dell\'artista: firme e trattatistica.** Nell\'antica Grecia la volontà di autoaffermazione dell\'artista viene sottolineata dalla questione della firma, che esprimeva la loro ambizione di uscire dall\'anonimato a cui era condannato l\'artigiano. Nel mondo romano questa pratica è più rara, a dimostrazione di una minore considerazione sociale per l\'individualità artistica. Le firme ritrovate su opere romane appartenevano non a caso ad artisti greci. L\'unico architetto attivo a Roma di cui conosciamo il nome è Apollodoro di Damasco, di origini siriane, che progetto il Foro Traiano e i Mercati Traianei. Questa situazione era comunque in contraddizione con la realtà di collezionismo che spingeva a pagare tantissimo per accumulare le opere d\'arte migliori. Molti oratori di epoca romana si scagliarono contro il collezionismo, che sottolineava la contrapposizione tra la sobrietà che vigeva nell\'antica Roma e la passione sfrenata per il lusso. Un\'altra spia della volontà di emancipazione dell\'artista fu la comparsa della trattatistica in cui gli artisti riflettevano sulla loro disciplina, ne esaltavano il pregio e esponevano le loro teorie estetiche. Questa pratica iniziò, tra gli altri, con Policleto, che scrisse il Canone, in cui esponeva la sua teoria del bello, incarnata nella composizione a chiasmo, esemplificata dal Doriforo. Si tratta di un gioco di equilibri nella rappresentazione del corpo umano, che abbandona la rigida frontalità delle statue arcaiche. Alla gamba flessa e arretrata corrisponde, in alto, il braccio opposto disteso, mentre al braccio sinistro piegato si contrappone, in basso, la gamba destra portante. Conferiva alla statua un\'apparenza di moto. Evoluzione rispetto ai kouroi, dove un primo accenno di moto e di precisazione anatomica si sviluppa semplicemente con l\'avanzamento di una gamba rispetto all\'altra e con la definizione della struttura del ginocchio. Si arriva poi a statue come il Discobolo di Mirone e alle sculture di Lisippo. La trattatistica d\'arte si estingue nel Medioevo, per poi tornare alla fine del \'300 con il Libro d\'arte di Cennino Cennini, in cui spicca un tema che ha innescato una disputa nel campo della trattatistica d\'arte: quali siano i modelli cui un giovane artista debba ispirarsi. Altri importanti trattati sono i Commentari (1450) di Lorenzo Ghiberti e i De Pictura (1435), il De statua (1450 ca.) e il De re edificatoria (1452) di Leon Battista Alberti. La categoria di artisti che si emancipo per prima fu quella degli architetti poiché, già in epoca medievale, erano coloro che concepivano i progetti, e di norma non ne erano gli esecutori materiali. Lo stesso Alberti fu progettatore, e nel suo De re edificatoria privilegia la progettazione, prescindendo dai materiali con cui poi l\'edificio verrà realizzato. Un altro passo avanti nell\'emancipazione dell\'artista fu quando l\'artista iniziò ad essere considerato in base alle sue qualità e non in base ai materiali da lui utilizzati. La conoscenza della prospettiva e lo studio più approfondito dell\'anatomia furono forse i principali soggetti di Arti Liberali ad essere introdotti nell\'operatività artistica, poiché ponevano scultori e pittori al pari di matematici e geometri nel primo caso, e medici nel secondo. Nelle Accademie, infatti, iniziarono ad essere insegnate materie come anatomia, prospettica, storia antica e letteratura. Nel 400 si iniziò a considerare la pittura di storia come il genere pittorico più elevato, perché rappresenta favole mitologiche, eventi storici, con personaggi che esprimono sentimenti attraverso la gestualità. Questa equivalenza fu alla base di una gerarchia di generi stilata da Vincenzo Giustiniani nel Seicento, ma già abbozzata da Leon Battista Alberti nel Quattrocento; pittura di storia al primo posto, seguita da ritrattistica, paesaggistica, nature morte, fino a categorie come corniciai, doratori eCC. **Capitolo 3. Alle origini del fare arte** **Magia, malinconia e genialità**. Le prime pitture conosciute risalgono all\'età neolitica e le ritroviamo in grotte, dove il fuoco che proietta un\'ombra sulle pareti deve aver avuto un ruolo non indifferente. C\'è un collegamento fra la pittura e la capacità di fermare il ricordo. Conservare l\'immagine di qualcosa che non c\'è più (o tracciare l\'immagine di ciò che non è presente ora ma potrebbe esserci in futuro) era una caratteristica attribuita a esseri dotati di \"poteri magici\", e queste capacità affascinavano e spaventavano al tempo stesso. (Tutt\'oggi, alcune popolazioni animiste non si lasciano fotografare per il timore che il ritratto possa catturare l\'anima o la vita della persona raffigurata.) L\'arte era una pratica magica, l\'artista era uno sciamano. E ben nota la teoria secondo cui gli animali rappresentati nelle grotte di Lascaux e di Altamira andrebbero interpretati come rappresentazioni di prede da catturare, e perciò i dipinti sono riti propiziatori per la caccia. L\'artista mette al servizio della comunità il suo potere di materializzare ciò che non c\'è ancora. **Nati sotto Saturno**. Questo topo dell\'artista-mago si perpetua nel topo dell\'artista saturnino, malinconico, la cui predisposizione ad operare è di carattere ciclotimico (alternanza fra stati di esaltazione e momenti di depressione). Questo stereotipo è presente anche nella Grecia antica ed è tornato nel Rinascimento, che collega la genialità artistica al carattere dominato da Saturno, pianeta considerato malinconico perché compie lentamente il suo itinerario intorno al Sole. Prende le forme di una concentrazione così ossessiva da sfociare nella malattia, nell\'incapacità di svolgere il lavoro finché non giunga l\'ispirazione. I coniugi Wittkower hanno dedicato a questa tipologia di artisti il celebre libro Nati sotto Saturno (1968). La definizione di carattere \"malinconico\" fu coniata da Ippocrate, che distingue quattro tipologie psicofisiche (malinconico, flemmatico, sanguigno e collerico) in base alla prevalenza dei quattro umori che si pensava componessero il corpo umano: bile nera, flemma, sangue e bile gialla. Già ai tempi di Aristotele si pensava che la creatività artistica attecchisse nelle persone di carattere malinconico perché tendevano all\'eccentricità e alla depressione. La Malinconia ottenne una vera e propria iconografia nel Rinascimento, grazie ad un\'incisione di Albrecht Durer, in cui viene rappresentata come una donna seduta a terra, che poggia il mento su una mano con atteggiamento meditabondo. Quest\'iconografia deriva probabilmente dall\'arte greca, di cui il prototipo è andato perduto. Tutte le derivazioni a noi giunte rappresentano Penelope che, afflitta per la mancanza di Ulisse, finisce per non riconoscerlo quando egli le appare davanti sotto le mentite spoglie di mendicante. L\'immagine di Penelope \"vedova inconsolabile\" subi, nell\'arte romana, uno sdoppiamento semantico: venne adattata al tipo iconografico della provincia capta. C\'è perciò uno slittamento di significato: la donna afflitta inizia anche a rappresentare allegoricamente la dolorosa sottomissione delle popolazioni, anch\'esse piegate. Nel Dittamondo di Fazio degli Uberti, ritroviamo una donna in abiti vedovili a rappresentare la città di Roma, ed ella denuncia la sua condizione miserevole causata dal trasferimento della sede papale ad Avignone, nel 1309. Tutto ciò per sottolineare come un\'iconografia muta nel tempo e si arricchisce di nuovi significati. **Tipi iconografici: genesi, variazioni e ibridazioni**. I tipi iconografici si arricchiscono di nuovi e diversi significati, modificandosi e contaminandosi l'uno con l\'altro, ed è importante saper cogliere le variazioni e sfumature di significato implicite in questi cambiamenti determinati dalla creatività di artisti, che attingendo al repertorio di immagini già codificate effettuano innesti e producono ibridazioni da cui scaturiscono nuovi tipi iconografici. **Arte e scienza: l\'imitazione come forma di conoscenza**. II \"fare arte\" può però anche essere dovuto all\'impulso di analizzare e riprodurre la realtà fenomenica per conoscerla meglio. L\'uomo impara a conoscere la realtà circostante con la pratica dell\'imitazione. Fino a qualche secolo fa, quando non esistevano gli attuali strumenti di ricerca e di analisi, erano proprio le tecniche artistiche il veicolo privilegiato della conoscenza scientifica del mondo: l\'imitazione per mezzo del disegno o della scultura permetteva di analizzare la realtà. Leonardo da Vinci è la più grande dimostrazione della sovrapposizione fra pratica artistica e indagine scientifica. Disegnava tutto ciò che voleva analizzare, senza però limitarsi a guardarle superficialmente, ma in profondità, come nel caso del corpo umano, ricorrendo addirittura alla dissezione di cadaveri. Come scienziato, indagava la realtà per conoscerla a fondo, come artista metteva questa sua conoscenza al servizio della bellezza. Era però anche un mago: attraverso l\'analisi della realtà e la comprensione delle sue leggi, era in grado di intervenire e modificare il mondo fisico a suo vantaggio (si vedano tutti i macchinari e le invenzioni da lui progettate). **Il braccio inerte di Meleagro**. [Mito]: Meleagro caccia e uccide il cinghiale calidonio; dona la pelle del cinghiale ad Atalanta e uccide i fratelli della propria madre, che a sua volta provoca la sua morte; trasporto funebre e compianto sul corpo dell\'eroe. Alberti ne parla nel suo De pictura, riferendosi ad un rilievo scultoreo visibile allora a Roma. La sua descrizione è comunque quasi del tutto identica a quella che si può vedere su un sarcofago conservato attualmente ad Istanbul. Tale composizione ispirò molti artisti del Rinascimento alle prese con la rappresentazione di temi analoghi; in particolare, il trasporto del corpo di Cristo deposto dalla croce. La rappresentazione più nota è senza dubbio quella di Raffaello nella Pala Baglioni (1507), che a sua volta è stata il punto di riferimento per Caravaggio nella sua Deposizione di Cristo (1602-04), su una tela per un altare della chiesa di Santa Maria in Vallicella. Il particolare comune a quest\'ultima opera e la scena rappresentata sul sarcofago è il braccio inerte del cadavere, che nell\'opera del Caravaggio diventa quasi il fulcro emotivo. Questo tipo di immagini viene chiamata pathosforme/ dallo storico d\'arte Warbung. Anche Jacques-Louis David estrapolerà il particolare del braccio per un dipinto in cui non è presente ne Meleagro né il Cristo, bensi il rivoluzionario Jean-Paul Marat (La morte di Marat, 1793). Non dobbiamo però dedurre che ogni anello di questa catena fosse consapevole di chi l\'ha preceduto e dell\'anello di origine. Fin dal \'300, in area tedesca, era nato un tipo di gruppo scultoreo con la Madonna che tiene in braccio il cadavere del Cristo: il cosiddetto Vesperbi/d. Questa tipologia di immagine si diffuse anche in Italia, e diede origine alle nostre Pietà, tra cui la celeberrima statua del Michelangelo, conservata a San Pietro in Vaticano. In alcuni Vesperbilder e nella stessa Pietà del Michelangelo compare un braccio pendulo molto simile a quello di Meleagro, ma l\'invenzione tedesca nasce in modo del tutto indipendente dal modello antico. La differenza fra i Vesperbilder tedeschi e la Pietà michelangiolesca è rappresentata dal corpo del Cristo: smagrito e afflitto nei primi, armonico ed atletico nella seconda. **Arte nata dall\'arte: apprendistato e imitazione**. La questione del \"braccio di Meleagro\" solleva il tema dell\'arte nata dall\'arte. A partire da Cennino Cennini, la letteratura artistica si interroga se l\'artista debba osservare ed imitare solo la natura o se debba guardare anche la rappresentazione di essa data da uno o più maestri. La seconda opzione è riferita all\'apprendista, che potrà acquistare una propria maniera solo dopo aver imitato assiduamente lo stile del maestro. Questa questione è ancora attuale, perché la formazione di ogni opera d\'arte dipende tutt\'oggi non solo dall\'immaginazione dell\'artista, ma anche dalla sua memoria visiva in cui ha immagazzinato, consciamente o no, immagini di opere d\'arte precedenti. Possiamo trarre un esempio da due opere esposte al Louvre, separate in sale molto distanti fra loro ma collegate idealmente: il Déluge (1660 ca.) di Poussin e Une scène de déluge (1806) di Girodet. Al primo dobbiamo riferirci col nome Hiver, poiché intendiamo una delle quattro tele di una serie, che rappresenta le stagioni mediante episodi biblici. Possin usa la figura retorica della sineddoche: sceglie una parte in luogo del tutto. Girodet, a sua volta, prende spunto proprio dalla sineddoche visiva del dipinto di Poussin e isola il frammento in cui è presente un gruppo che tenta di salvare un bambino vestito d\'arancione. Riempie lo scenario apocalittico del diluvio con il gruppo che tenta di aiutarsi a vicenda; opera una sorta di zoomata, ma ne rovescia il significato: da gesto di speranza diventa un presagio di tragedia. La catena umana, saldamente ancorata ai due estremi (barca e roccia) nell\'opera di Poussin, diventa una catena precaria e slittante nella scena di Girodet. La retorica toccante tipica del Seicento viene sostituita dalla retorica tipicamente preromantica, fatta di effetti speciali aggressivi volti a sbalordire e coinvolgere lo spettatore. **Capitolo 4. Le \"etichette\" storico-artistiche** La storia dell\'arte fa un ampio uso di definizioni concettuali per classificare linguaggi figurativi e tendenze artistiche di lungo periodo: Romanico, Gotico, Barocco, Neoclassicismo, e così via. Sono etichette escogitate allo scopo di mettere ordine nell\'affollato panorama della storia. Non bisogna mai dimenticare, però, che ciascun artista è un mondo a sé, e come tale è difficilmente riducibile ad una formula astratta e onnicomprensiva. E\' interessante notare come gran parte di queste categorie storico-critiche nascano a posteriori e siano spesso il frutto di una reazione ostile alle tendenze artistiche che intendono definire. E\' quanto successo con alcune delle più comuni definizioni, quali Gotico, Manierismo, Barocco, Rococò, Impressionismo o Cubismo, che nate per esprimere riprovazione o scherno e disprezzo per certe manifestazioni artistiche, oggi, invece, sono utilizzate in modo neutrale, classificatorio. Il termine Gotico, ad esempio, compare per la prima volta nel linguaggio critico del pieno rinascimento italiano come termine dispregiativo per marchiare a fuoco l\'arte medioevale, rifiutandola in toto come un arte \"da Goti\", da barbari. Fortuna e Sfortuna critica di un etichetta Anche per le etichette storico artistiche può essere quanto più utile ripercorrerne le alternate fortune critiche nel corso dei secoli. Nate in molti casi con un intento dispregiativo, molte di esse hanno stentato parecchio a liberarsene e solo dopo svariate vicissitudini hanno acquistato un significato né dispregiativo né elogiativo di per sé, ma meramente connotativo. Come per il termine Gotico ciò è avvenuto per il termine Manierismo, che ha perso il suo originario termine dispregiativo solo a partire dell\'inizio del secolo scorso. Anche il termine Barocco è stato riabilitato solo da pochi decenni, dopo un lungo periodo in cui era stato applicato come categoria critica di carattere dispregiativo. Esso deriva dal termine barrueco che in spagnolo antico stava a designare sia quelle parole mostruose che si presentavano con un aspetto bitorzoluto e irregolare. Di qui la denominazione di arte barocca, con cui il razionalismo settecentesco definì con disprezzo tutta quell\'arte seicentesca che gli appariva colma di falsità, declamatoria, teatrale ed eccessivamente sfarzosa, priva di gusto, di razionalità costruttiva e di nobiltà espressiva. Un arte non conforme a quei canoni di razionalita, equilibrio, armonia e sobrietà che il Settecento vedeva incarnato negli ideali del Classicismo. Di fatto nella storia dell\'arte il Barocco è divenuta la categoria storico critica con cui si designa l\'arte del Seicento, ed in particolare quelle opere che sono animate da una travolgente vena espressiva, e in cui prevale l\'immaginazione, la spettacolarità, il dinamismo e l\'esibizione di virtuosismo tecnico. Chi può esemplificare meglio di Bernini l\'incontenibile dinamismo e l\'esuberante immaginazione creativa che sono proprie del barocco? Due esempi su tutti, entrambi allestiti da quel genio del Barocco romano nel glorioso teatro architettonico della Basilica di San Pietro in Vaticano: Il baldacchino Bronzeo e la Cattedra. Spesso si rischia di considerare queste categorie stilistiche come onnicomprensive delle tendenze di tutta un epoca storica. Ma in un epoca ripuò essere una tendenza egemone, ma non fino al punto da esaurire in se stessa ogni fenomeno artistico. Nel Seicento, secolo del Barocco per eccellenza, esistono anche correnti più moderate in cui i canoni estetici sono maggiormente conformi agli ideali di armonia e misura della tradizione antica. In scultura, ad esempio, all\'impetuosa immaginazione di Bernini si contrappone il più controllato e composto Classicismo barocco di Alessandro Algardi. Confrontiamo questi due monumenti funebri papali collocati nella Basilica di San Pietro: quello di Alessandro VII Chigi, realizzato da Bernini, si caratterizza per la ricchezza cromatica e polimaterica, per la veemenza espressiva delle figure per l\'accentuato movimento centrifugo che conferisce all\'opera una forza esplosiva, a stento contenuta dalla grande nicchia in cui è inserita. Al contrario il monumento funebre di Leone XI dell\'Algardi è realizzato esclusivamente in marmo bianco e le sue statue non hanno la foga impetuosa di quelle berniniane; Tutto l\'impianto competitivo risulta più placido e sapientemente equilibrato, tanto da adattarsi docilmente alla nicchia che incornicia l\'intero monumento. Non diversamente in pittura, accanto all\'esuberanza barocca e al turbinoso dinamismo di un Pietro Rubens o di un Pietro da Cortona, pittori come il Domenichino, Guido Reni o Nicolas Poussin si muovono in direzione opposta, incanalando la tumultuosa foga barocca negli argini di un classicismo sobrio, composto e razionale, che ama l\'ordine e la misura, si ispira alla statuaria antica, rifugge dalla rappresentazione di pose e moti dell\'animo troppo accesi e concitati. Una volta appurato che accanto alla categoria del Barocco è necessario aggiungere quella del Classicismo seicentesco o Classicismo barocco, il panorama artistico seicentesco ci propone infinte altre categorie e sottocategorie. Anche il termine Rococò nacque come alterazione dispregiativa di rocaille, parola usata per indicare quelle rocce, naturali o anche simulate a colpi sapienti di scalpello, che non mancavano mai nei giardini settecenteschi come decorazione di ninfei, finte grotte e fontane, secondo una tradizione che risaliva al Cinquecento. Il movimento Neoclassico nella seconda metà del Settecento, coniò il termine Rococò per definire spregiativamente, in quanto frivole, artificiose e vanamente capricciose, le tendenze artistiche in auge nel primo Settecento cui esso intendeva reagire ed opporsi. Limitiamoci pertanto a ribadire come ciascuna grande \"etichetta\" rischia sempre di essere troppo generica se non si procede ad ulteriori suddivisioni. Come per il Barocco, anche per il Rococò si potrebbero proporre numerose altre sottocategorie, senza dimenticare quanto si è detto all\'inizio, e cioè che ciascun artista e, al limite, ciascuna opera sono un mondo a sé che mal tollera di essere ingabbiato in una formuletta definitoria. **Il gotico cortese**. Gotico Cortese, Gotico internazionale, Gotico fiorito, Gotico fiammeggiante, Tardogotico: tante etichette diverse per indicare una stessa grande corrente stilistica, che tra le seconda metà del Trecento e il Quattrocento si estende un po\' ovunque in Europa, presentando caratteri piuttosto omogenei, anche se ovviamente non mancano le varianti e le declinazioni di carattere regionale e locale. La definizione di \"Gotico internazionale\" trae origine da questa sua ampia diffusione europea, mentre quella di \"Gotico cortese\" deriva della forte impronta che i modelli culturali delle corti europee conferiscono alle opere d\'arte ascrivibili a questa tendenza. Il termine \"Tardogotico\" fa riferimento al fatto che questo stile può essere di fatto considerato come una sorta di propaggine del gotico, mentre \"Gotico fiorito\" mette in luce il carattere particolarmente ornato di questo stile. Vediamo le principali caratteristiche del Gotico: \"Rimutò l\'arte del dipingere di greco in latino, e la ridusse al moderno\" La pittura bizantina discende dai modelli dell\'arte classica che col tempo si erano andati riducendo a formule sempre più schematiche e lontane da quella verità naturalistica che era alla base della rappresentazione nell\'antichità classica. Prendiamo in esempio il Cristo crocifisso vediamo come ricambia nel corso dei secoli, la resa anatomica del corpo do Cristo. Es. Santa Maria Antiqua a Roma dell\'VIII secolo, il modo di rappresentare la figura umana deriva alla lontana dalla tradizione classica, ma è come se questa si fosse andata prosciugando e dissecando. Le membra di cristo non hanno consistenza tridimensionale: egli appare come una sorta di cadavere disidratato, pur tenendo sempre gli occhi ben aperti, secondo l\'iconografia del Christus Triumphans ovvero del Cristo Crocifisso, che non solo appare vivo, ma non mostra alcun segno di sofferenza per il martirio che sta subendo. Caratteristica di fondo dell\'arte Bizantina è la staticità con cui certi modelli si ripetono sostanzialmente inalterati nel corso dei secoli. La sostanziale assenza di evoluzione storica nel repertorio di forme prodotto dall\'arte bizantina discende dal fatto che essa è l\'espressione di una società teocratica e rigidamente gerarchizzata, che poneva al vertice l\'imperatore. Con la stessa immutabile ritualità dei cerimoniali della corte di Bisanzio, la pittura era chiamata a ripetere pedissequamente modelli ritenuti immodificabili, fossilizzati. L\'unica variante ammessa derivava dalla qualità esecutiva di cui era capace l\'artista e dalla maggiore o minore preziosità dei materiali da lui utilizzati. All\'autore si chiedeva di fare del proprio meglio all\'interno di un canone precostituito, portandolo al massimo grado di raffinatezza formale di cui era capace. Diffusasi anche in Italia nel corso del Medioevo, la tradizione figurativa bizantina cominciò ad essere scossa delle propria fondamenta quando pittori come Cimabue, e ancor di più Giotto, tornano a confrontarsi con la realtà naturale e con la statuaria antica. Riprendiamo il tema della crocifissione, balza subito agli occhi come Cimabue abbia contribuito in modo significativo a questa evoluzione in senso naturalistico della raffigurazione anatomica. Nel Crocifisso di Arezzo Cimabue mostra già i rapporti con il mondo Gotico transalpino: il suo Cristo non è più Triumphans, bensì patiens, vale a dire sofferente. Certi schematismi nella rappresentazione dell\'anatomia risalgono ancora ai modelli Greco- Bizantini. Dieci anni più tardi nel crocifisso di Santa Croce a Firenze il pittore riprende lo stesso soggetto, ma quegli stilemi tipicamente bizantini sono praticamente spariti, per dar luogo ad una rappresentazione anatomica più naturalistica e modellata plasticamente dalla luce. Con Giotto questo progressivo abbandono degli stilemi astratti in favore di un nuovo naturalismo diviene un fatto compiuto. Es Crocifisso Fiorentino, Giotto ha rappresentato un uomo in carne ed ossa. Questo processo Giottesco di rimutare \"\'arte del dipingere di greco in latino\" fu in realtà potentemente influenzato dalla scultura di Nicola Pisano e dei suoi seguaci come Arnolfo di Cambio e Giovanni Pisano, che abbandonarono la tradizione Bizantina, ispirandosi direttamente alla scultura classica. Inoltre sia i Pisano ed Arnolfo di cambio che Giotto aggiornarono il loro linguaggio figurativo sulle novità Gotiche provenienti dalla Francia. Era ormai tramontata l\'epoca dei modelli immutabili. Gli artisti incominciarono a firmare e sempre più spesso le proprie opere, a competere tra loro e ad ispirarsi, ma anche a rivaleggiare, con l\'arte del passato. Tornò in auge il concetto di progresso, l\'dea che ispirandosi al passato remoto, si poteva progredire e migliorare rispetto alla tradizione più recente, GIUDICATA NEGATIVA. Questo processo è altrettanto evidente in campo architettonico. Introducendo l\'arco ogivale e i grandi pilastri a fascio, l\'architettura gotica fa sfoggio di una tecnica edilizia audacissima, che le permette di portare alle estreme e più ardite conseguenze la tradizione costruttiva romanica. Grazie a queste audaci novità, come i contrafforti e gli archi rampanti, le cattedrali esibiscono una tensione verso l\'alto che può essere messa in relazione con l\'aspirazione mistica di una società impregnata di valori trascendenti, ma che costituiva anche una sorta di orgogliosa autorappresentazione delle capacità tecnologiche e della ricchezza economica di una civiltà mercantile. La cattedrale diviene così l\'insegna stessa della comunità cittadina, la testimonianza visibile della sua prosperità e intraprendenza economica. I primi esempi di architettura gotica apparvero intorno agli inizi del XII secolo in Francia e nella Renania, per poi diffondersi nel resto d\'Europa. La cattedrale Gotica veniva sempre concepita come una struttura di imponenti dimensioni, che doveva dominare l\'ambiente circostante. Rispetto alla tipologia dell\'architettura romanica, l\'edificio Gotico è assai più verticale e, al tempo stesso, meno massiccio. Le sue pareti perdono gran parte della loro poderosa consistenza, venendo sostituite da ampie vetrate. La struttura portante è messa in piena evidenza, questo processo è descritto come un passaggio dall\'equilibrio statico dell\'edificio romanico all\'equilibrio dinamico di quello gotico, caratterizzato sia da spinte verticali che da spinte laterali contrastanti. Questo complesso gioco di spinte e contropunte è il frutto di un processo tecnologicamente molto avanzato. ES. Cattedrale di Notre-Dame a Parigi, l\'interno è spoglio di ogni decorazione, ne viene esaltato il carattere strutturale della costruzione. Un altro esempio è la Cattedrale di Chartres che esemplifica l\'evoluzione gotica del concetto di parete, che si alleggeriscono e si svuotano, fino a formare un puro e semplice diaframma, posto a separazione tra interno ed esterno. In Francia sorse ben presto un dibattito tra due diverse concezioni dell\'architettura religiosa: Secondo Bernardo da Chiaravalle le chiese dovevano essere povere e spoglie per evitare distrazione ai fedeli; secondo l\'abate Super di Saint-Denis era necessaria un\'architettura lussuosa ed ornata che doveva fungere da elemento di richiamo e di ammaestramento per i fedeli. Un riflesso delle idee dell\'abate di Saint-Denis si coglie nella diffusa pratica di decorare le grandi cattedrali gotiche con ricche vetrate policrome. Le grandi vetrate Gotiche costituiscono una variopinta meraviglia per il fedele che si aggira in una chiesa gotica, ma al tempo stesso gli offrono un amplissimo dispiegamento di figure e scene sacre, che mirano a trasmettergli la verità della fede e le storie dei martiri e dei santi. Nel Cristianesimo delle origini convivono due radici storiche ben precise: quella giudaica che è assolutamente contraria alla rappresentazione dell\'immagine di Dio, e quella che affonda nell\'humus della civiltà greco-romana, la quale invece ha dato forma e figura alle proprie divinità fatte a somiglianza dell\'uomo. **Il gotico fiammeggiante**. Un edificio tipicamente Fiammeggiante è il Duomo di Milano che fu cominciato nel Trecento inoltrato e concluso nell'Ottocento, è sostanzialmente un\'architettura che ha le sue radici nel gusto del Gotico internazionale. In Francia, Inghilterra, Portogallo, Germania esistono numerosi esempi, ma ci accontentiamo di mostrarne due, uno a carattere profano e uno sacro: il palazzo di Città di Loviano e il Chiostro grande della cattedrale di Gloucester, un corpo di fabbrica che segna l\'inizio del cosi detto stile perpendicolare, caratterizzato da una fitta ramificazione di costolonature filiformi. A Venezia il Gotico internazionale ha assunto caratteri peculiari, poiché il ruolo della città, che fungeva da snodo tra Occidente ed Oriente, ha favorito la contaminazione tra civiltà gotica e civiltà bizantina. Nell\'architettura Veneziana il vuoto svolge un ruolo non meno importante del pieno: gli edifici si ergono su fondazioni a palafitta, con pali, che per trovare un solido punto di appoggio, sono piantati in profondità nel suolo lagunare. Ne deriva perciò la necessità di non gravare le fondamenta con pesi eccessivi alleggerendo la costruzione. In genere, è la parte inferiore di una costruzione ad essere più soda e massiccia, in quanto funge d base e sostegno dell\'intero edificio, che mostra invece di alleggerirsi mano amano che procede verso l\'alto. Nel palazzo Ducale Veneziano questa logica costruttiva appare rovesciata: la leggerezza è dislocata in basso, in quel grande e buio porticato, scandito dalle squillanti note bianche delle colonne. **[Ripeto]: L\'arte bizantina e l\'iconografia del Cristo** Christus Triumphans: (es: affresco in Santa Maria Antiqua) sotto la tunica, le membra di Cristo non hanno consistenza tridimensionale, appare come un cadavere disidratato con gli occhi ben aperti. Secondo quest\'iconografia il Cristo appare perciò vivo e non mostra alcun segno di sofferenza. L\'arte bizantina ripete staticamente gli stessi modelli in modo inalterato. Questo è causato dal fatto che l\'arte bizantina è espressione di una società teocratica e gerarchizzata; la pittura era chiamata a ripetere modelli ritenuti immodificabili. L\'unica variante ammessa alla creatività artistica era la minore o maggiore preziosità dei materiali utilizzati. Ma la tradizione figurativa bizantina inizio ad essere scossa quando pittori come Cimabue, e poi Giotto, tornarono a confrontarsi con la realtà naturale e la statuaria antica. Cimabue ha attinto ai modelli d\'Oltralpe: nel suo Crocifisso di Arezzo mantiene i rapporti con l\'arte bizantina, ma il suo Cristo non è più triumphans, bensì patients, cioè sofferente, con il capo reclinato, gli occhi chiusi e il corpo che si inclina discostandosi dalla croce. Nel Crocifisso di Santa Croce riprende lo stesso soggetto, ma gli stilemi bizantini che delineavano in modo astratto il corpo del Cristo sono scomparsi: l\'anatomia è più realistica e modellata plasticamente dalla luce. Nel suo Crocifisso fiorentino, Giotto ha rappresentato un vero e proprio uomo in carne ed ossa, in cui la tensione dei muscoli e dei nervi rende evidente il peso del corpo. Fu in quest\'epoca che gli artisti iniziarono a firmare più spesso le proprie opere e tornò in vigore il concetto di progresso, secondo cui ispirandosi al passato si poteva migliorare rispetto alla tradizione più recente, processo evidente nell\'architettura gotica con l\'introduzione dell\'arco a sesto acuto e i grandi pilastri a fascio, ripresi dalla tradizione costruttiva romanica. La cattedrale gotica veniva concepita come una struttura che doveva dominare l\'ambiente circostante. Era sviluppata più in verticale rispetto agli edifici romanici. Le sue pareti sono meno consistenti e vengono in gran parte sostituite da ampie vetrate policrome. Altra caratteristica di molte cattedrali gotiche sono i particolari doccioni che incalcano e scolano l\'acqua piovana, mostruosi animali fantastici, quasi fossero presenze che vengono espulse dallo spazio sacro. Secondo Bernardo da Chiaravalle (fondatore dell\'origine monastico dei Cistercensi), le chiese dovevano essere spoglie per evitare distrazioni ai fedeli. Secondo l\'abate Suger di Saint-Denis, era invece necessaria un\'architettura ornata, che doveva fungere da richiamo e insegnamento per i fedeli. Un richiamo del pensiero di quest\'ultimo si coglie nella pratica delle vetrate policrome, che conferivano agli interni un\'atmosfera più animata rispetto alle chiese romaniche. Le vetrate raffiguravano spesso figure e scene sacre sulla verità di fede e sulle vite dei martiri e dei santi. Papa Gregorio Magno, papa dal 590 al 604, sostenendo che le immagini nelle chiese avevano la funzione di [Bibbia degli analfabeti]. E per questo motivo che le chiese sono piene di dipinti, affreschi e statue a partire dall\'età paleocristiana. **L\'autunno del Medioevo**. Il Gotico internazionale corrisponde ad una fase denominata \"autunno del Medioevo. In questo periodo prevale la cultura sofisticata delle corti europee. Da qui la denominazione Gotico cortese, che si riferisce, oltre che alle opere circolanti all\'interno delle corti, anche a quelle che ne subiscono l\'evidenza. Gli arazzi furono uno dei prodotti artistici più in voga, diffusi già durante il Medioevo. Prodotti principalmente in Borgogna e nelle Fiandre, contribuivano a diffondere soggetti profani, tratti dalla mitologia classica, dai poemi cavallereschi o dai romanzi d\'amore. Altro potente mezzo di diffusione stilistica ed iconografica erano i Libri d\'ore, breviari di preghiere destinati alla devozione privata. Sculture e dipinti rappresentavano santi appigliati da paggi, cavalieri e damigelle con abiti sontuosi e in pose eleganti. Ciclo dei mesi del 1400 ca. dipinto forse dal boemo Venceslao, commissionato dal principe vescovo Giorgio di Liechtenstein. Rappresenta un\'ordinata successione di paesaggi mutevoli, dove convivono riti sociali piacevoli di dame e cavalieri a scene di contadini e pastori intenti col loro lavoro. Deriva dall\'iconografia che prevede che ciascun mese sia contraddistinto da un segno zodiacale, dalle condizioni climatiche e da attività peculiari. Ogni mese è separato da esili colonne dipinte, ma il paesaggio è programmaticamente unitario. Il gusto per l\'eleganza e per un modo da favola si intreccia con una descrizione attenta alla vita quotidiana, tanto da costruire una preziosa documentazione anche per gli storici della cultura medievale grazie alla cura per dettagli come abiti, strumenti di lavoro ecc. Il gusto per il dettaglio realistico non si ritrova solo nella zona alpina ma anche altrove, come nel caso dei fratelli Jacopo e Lorenzo Salimbeni, due pittori marchigiani. Hanno lasciato il loro capolavoro, Storie di San Giovanni Evangelista (1416), a Urbino. La narrazione è arricchita da una serie di aneddoti quotidiani che distolgono l\'attenzione dal soggetto principale, come i bambini che si azzuffano o la donna che annaffia i fiori: dettaglio che compare anche in altre opere dell\'epoca, tanto da essere definito un topo della pittura tardogotica, lo ritroviamo anche nell\'affresco Nozze di Cana di Andrea Delitio, che faceva parte del Rinascimento umbratile, termine con cui si designava il rapporto ostile di molti artisti con l\'emergente rivoluzione prospettiva dell\'epoca. **Gentile da Fabriano**. Il suo più celebre capolavoro è la pala d\'altare con l\'Adorazione dei Magi, terminata nel 1423 e oggi conservata agli Uffizi. Gli fu commissionata da Palla Strozzi, mercante che però sembrava più incline all\'arte classica che non a quella tardogotica, di cui Gentile era un rappresentante. Proprio per questo la pala dell\'Adorazione dei Magi presenta una caratteristica che la rende innovativa rispetto ai trittici che si potevano ammirare a Firenze: la scena rappresentata non è suddivisa in tre scomparti, ma si articola in uno spazio unitario, la cui antica tripartizione sopravvive solo nella forma tricuspidata della tavola. La scelta del soggetto rifletteva l\'attività del committente: i Magi che portano ricchezze a Gesù Bambino erano una metafora della ricchezza e del potere terreno sottomessi alla maestà divina. Gentile si è preoccupato di conferire all\'oro una parvenza di naturalismo, ad esempio lavorando l\'oro in modo da creare la luce tipica del tramonto nel cielo della scena. Il suo non è più l\'oro indifferenziato della tradizione medievale, ma è modulato così da alludere ad uno spazio naturale. Usa inoltre la pastiglia, ossia un impasto di gesso e colla, che crea un risalto sporgente nella tavola. Tecnica che andrà sparendo nel corso del 400 e del primo 400. Altra particolarità: negli sproni esterni della pala, Gentile ha dipinto una serie di fiori, a dimostrare una meticolosa osservazione naturalistica. La predella dipinta da Masaccio nel 1420 è stilisticamente agli antipodi rispetto all\'opera di Gentile. L\'Adorazione dei Magi di Gentile è improntata sul Gotico cortese, quella di Masaccio sulla rivoluzione figurativa del primo Rinascimento fiorentino. Quella di Gentile è una pala d\'altare di grandi dimensioni, con tutto ciò che questo comporta in fatto di solennità ed esibizione di ricchezza, mentre Masaccio realizza uno scomparto di predella, tavoletta rettangolare allungata, di solito alla base di una pala d\'altare, di solito divisa in vari riquadri, raffiguranti figure di santi o scene sacre. Gli artisti delle predelle ricorrevano an linguaggio più narrativo, mentre il linguaggio della pala era più aulico e iconico. La pala si offre alla contemplazione e alla preghiera, la predella instaura coi fedeli un dialogo più ravvicinato, nella dimensione del racconto. Masaccio adotta un tono narrativo, quanto mai austero ed essenziale. Evita qualsiasi profusione di oro, argento, pastiglie e ornati: solo la sedia della Madonna è impreziosita d\'oro, e la sua forma rimanda al seggio del sacerdote romano. Masaccio, al contrario di Gentile, dipinge uno sfondo disadorno e brullo, e la striscia bassa di cielo concentra l\'attenzione sul primo piano. Due dei personaggi sono contemporanei di Masaccio e lo si capisce dalle loro vesti quattrocentesche; si tratta dei committenti della pala. Il fatto insolito è che essi siano di proporzioni identiche ai personaggi sacri. Masaccio non ha dunque agito come un pittore medievale, che avrebbe utilizzato la prospettiva invertita, con cui i committenti sarebbero stati minuscoli rispetto ai personaggi. **Confronto fra Masolino e Masaccio.** Il Trittico di San Giovenale: opera attribuita a Masaccio, realizzata nel 1422 e conservata presso San Giovanni Valdarno, sua cittadina natale. Caratteristico è l\'uso di costruire i volumi per mezzo di forti ombreggiature. Masaccio ebbe un rapporto stretto con Masolino da Panicale, rapporto antagonistico: Masolino, più anziano di Masaccio, mostrava reminiscenze tardogotiche. Masaccio, invece, aveva una visione naturalistica, fondata sulla prospettiva, sulla saldezza delle forme. Col tempo Masolino aggiorna la sua cultura figurativa, assimilando alcuni caratteri del linguaggio figurativo del più giovane, ma mischiandone la radicalità con l\'eleganza tardogotica. Masolino esegui nel 1423 la Madonna dell\'umiltà. La Madonna e il Bambino consistenza plastica grazie alla modulazione chiaroscurale, ma non hanno la solida fisicità che Masaccio conferisce alle sue figure. Il contorno è delineato con sinuose cadenze sottolineate dalle falde del panneggio: transizione fra l\'eleganza del Gotico cortese e la sobrietà del Rinascimento. Sant\'Anna Metterza: con cui viene indicata questa iconografia in cui Sant\'Anna figura come terza persona insieme alla Madonna e al Bambino. E la prima opera frutto della collaborazione fra Masaccio e Masolino. Il gruppo della Madonna con il Bambino è costruito secondo un impianto piramidale. Entrambe le figure sono massicce, e il panneggio del vestito della Madonna ha pieghe nette, non sinuose come nella Madonna dell\'umiltà solida tridimensionalità tipica del Masaccio. Masolino e Masaccio collaborano ancora negli affreschi della Cappella Brancacci al Carmine. Si spartiscono il lavoro a metà, ma fu infine Filippino Lippi a completarla. La scena più famosa è quella in cui Masaccio ha rappresentato // tributo, che raffigura la scena in cui un gabelliere chiede il tributo a Cristo, attorniato dagli apostoli, per entrare a Cafarnao. Nel Battesimo dei neofiti è rappresentato San Pietro che battezza i convertiti. Sulla sinistra sono stati inseriti due personaggi con turbante, probabilmente due membri della famiglia Brancacci. Di nuovo non segue la prospettiva invertita. Da sottolineare è la rappresentazione dell\'anatomia umana: colui che è inginocchiato per ricevere il battesimo ha il corpo di un atleta -› ispirazione alla statuaria antica. Il suo realismo è funzionale al racconto, a cui conferisce forza espressiva. Peccato originale di Masolino: Aspetto elegante, nessun risalto plastico e tridimensionale. Sembrano danzare sulle punte, come accadeva nei dipinti tardogotici. Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre di Masaccio: I personaggi poggiano saldamente i piedi per terra e proiettano le loro ombre sul terreno. Struttura massiccia e tridimensionale, sottolineata da colori intrisi di luce e zone d\'ombra. Le linee diagonali fungono da precisi indicatori di tale profondità spaziale. Tono altamente drammatico. L\'Eva masaccesca è ispirata a una celebre statua classica, la Venus pudica, che si copre i seni e il pube. **Due Madonne della Misericordia a confronto**. Si tratta di un\'iconografia cara alle Confraternite della Misericordia, che erano associazioni laiche con fini religiosi, soprattutto assistenza agli inferni. Di solito rappresentata come una Madonna che accoglie il popolo sotto il suo manto, simbolo di protezione divina. La prima è di Hans Clemer, pittore francese attivo in Piemonte (luogo dove è molto diffuso il Gotico cortese), nella sua Madonna della Misericordia, data 1498-99, persiste il linguaggio del Gotico cortese: fondo oro, decorazioni sontuose, uso di punzoni, pastiglie ed inserti di pietre semipreziose. Assenza di profondità prospettica. Lo spazio creato dal manto non è concavo. La seconda è di Piero della Francesca, eseguita intorno al 1445-1460. Unica analogia è lo sfondo dorato, che non dipendeva dalle scelte del pittore. L\'oro è però l\'unico materiale semiprezioso usato, e serve come pura fonte di luce. La differenza sta nella rigorosa impostazione prospettica. Il manto forma una concava abside entro cui si dispongono a semicerchio i fedeli, le cui proporzioni sono calcolate secondo la diminuzione prospettica. **Cap. 5 Breve storia della rappresentazione illusionistica dello spazio** **La tradizione classica.** Tradizionalmente divise in quattro stili (\"primo\", \"secondo\", \"terzo\" e \"quarto\" stile), sono caratterizzate dalla volontà di sfondare illusionamente la parete con rappresentazioni di spazi aperti, edifici, colonnati, strade o paesaggi. Questo tipo di decorazione deriva dalle domus romane, che derivano a loro volta dall\'arte figurativa greca. I casi più noti di pittura parietale sono quelli delle ville e delle domus di Pompei, Ercolano e di altri centri dell\'area vesuviana. La finzione illusionistica della pittura parietale greca e romana non era però realizzata con una geometria proiettica precisa, c\'erano diverse incoerenze ottiche. Questa tendenza perdurò in Italia fino all\'inizio del Medioevo, quando poi si preferì un\'ambientazione più indefinita e un appiattimento nella rappresentazione di figure e oggetti. **Giotto e i fratelli Lorenzetti.** La vigorosa rinascita di uno spazio illusoriamente tridimensionale si ha con Giotto. Si è a lungo discusso sull\'attribuzione giottesca del ciclo affrescato con le Storie di San Francesco della Basilica Superiore di Assisi. Secondo Pinelli sono frutto di una pluralità di mani, ma la loro ideazione e la direzione dei lavori esecutivi è sicuramente merito di Giotto. Nel Presepe di Greccio (1496 ca.), il pittore ambienta la scena in un edificio sacro. Le figure sono massicce e in forte rilievo plastico, sebbene ancora non poggino saldamente sul pavimento. Vi è particolare attenzione alla resa tridimensionale negli arredi sacri ma, soprattutto, nel grande crocifisso ligneo posto sulla transenna marmorea, visto in scorcio dal dietro e inclinato verso l\'invisibile navata della chiesa. Cappella degli Scrovegni, a Padova (1303-1306). Sull\'arco trionfale, nel lato destro e sinistro, sono rappresentate due scene che simulano due cappelle vuote: Giotto ha surrogato l\'assenza del transetto con due finte cappelle o coretti che ampliano, illusoriamente, l\'interno dell\'edificio. Questi coretti sono privi di figure umane, raffigurati nell\'attesa di \"animarsi\" con l\'arrivo dei cantori. Nel \'300, Pietro e Ambrogio Lorenzetti si sforzano di conferire un\'illusoria tridimensionalità alla pittura su tavola. Nella Presentazione di Gesù al tempio (1342), Ambrogio Lorenzetti ha costruito l\'immagine dell\'interno di un tempio. Qui si nota che le linee prospettiche non convergono tutte in un unico punto di fuga, ma verso fuochi differenziati, seppur tutti allineati lungo un immaginario asse verticale al centro della tavola. Si ha quindi una prospettiva empirica. Questa è ben diversa dalla prospettiva di Brunelleschi, fondata sull\'unicità del punto di fuga e sul presupposto che l\'immagine sia costruita in funzione di un punto di vista ben preciso: quello di uno spettatore posto ad una determinata distanza dalla tavola o dalla parete, e che guardi ad essa chiudendo uno dei due occhi. La prospettiva rinascimentale nasce infatti da una visione statica e monoculare. Nella Natività della Vergine (1335-1342), Pietro Lorenzetti raffigura in un trittico una scena unitaria. Grazie all\'uso delle colonnine dorate della cornice lignea, Pietro rende più credibile la finzione prospettica. Due dei tre spazi in cui è divisa la tavola sono comunicanti: la colonnina di destra copre artificialmente parte della scena e ne nasconde una minima porzione. La prospettiva è empirica: vi sono più punti di fuga. Pietro non raffigura solo l\'interno di un\'abitazione ma anche l\'esterno dell\'edificio. **Perugino, Melozzo da Forli, Mantegna**. Artisti che offrono esempi dei canoni prospettici messi a punto dal Brunelleschi e divulgati dal trattato di pittura di Leon Battista Alberti. La consegna delle chiavi (1480) di Perugino, affresco sulla parete della Cappella Sistina in Vaticano. Alla sinistra e alla destra di Gesù e di Pietro si dispongono gli apostoli e alcuni personaggi contemporanei al Perugino, come dimostra la caratterizzazione ritrattistica di molte figure in primo piano. Particolare, la figura di Cristo torna altre due volte nelle figure minori sullo sfondo, allusione alla distanza temporale di questi due episodi minori da quello principale. Questo espediente di dislocare scene lontane nel tempo è frequente in pittura. La presenza della cupola e dei due archi trionfali è simbolica all\'episodio: l\'edificio al centro simboleggia la Chiesa cristiana, che riconosce la religione ebraica come propria precedente. Gli archi di trionfo sono un richiamo all\'arco di Costantino per la vittoria contro Massenzio, ottenuta esibendo la croce, simbolo di Cristo. L\'organizzazione prospettiva è utilizzata per articolare il discorso narrativo in senso temporale. Sisto IV, il Platina e i nipoti del Pontefice (1476-77) di Melozzo da Forli rappresenta papa Sisto IV in trono, circondato dai due nipoti cardinali e dai due nipoti laici. Inginocchiato davanti al Papa abbiamo il Platina, l\'umanista a cui il Papa aveva affidato la direzione della Biblioteca Vaticana (in sui si trova l\'affresco). Il vero soggetto del dipinto non è però il Papa, ma il Platina. Nei frontespizi dei codici miniati era spesso rappresentato l\'autore in ginocchio, che offre la propria opera ad un potente. Il Platina compie un\'azione analoga, offrendo al Papa l\'epigramma celebrativo che leggiamo nell\'iscrizione alla base dell\'affresco. Questo affresco dimostra sia il disinibito nepotismo dell\'epoca sia il ruolo centrale assegnato ai Papi al potere umanistico, lo usavano per propagare la propria aspirazione a rilanciare il primato di Roma. I rami di quercia pieni di ghiande alludono alla ricca progenie del Papa, essendo la quercia il suo principale simbolo araldico. Melozzo usa la tecnica dello scorcio di sottinsù, ovvero la rappresentazione di una scena come se fosse vista da uno spettatore posto in basso rispetto ad essa. Questa tecnica fu teorizzata e messa in pratica soprattutto da Piero della Francesca. Melozzo risenti della sua lezione e anche di quella di Andrea Mantegna. Nella Camera picta o Camera degli Sposi, affrescata nel Castello di San Giorgio a Mantova, egli rappresenta sulle pareti importanti episodi politico-famigliari della vita di corte dei Gonzaga. Sul soffitto ha dipinto un finto oculo: illusione di un\'apertura, con un parapetto da cui si affacciano putti, figure femminili, una pianta e un pavone scordiati di sottinsù. Di Mantegna ricordiamo anche la celebre tela del Cristo morto (1475-80), scorciato in profondità. Preso da un punto di vista ravvicinato, posto appena al di sopra dei piedi del letto funebre. La prospettiva è usata in funzione espressiva, per amplificare e rendere più drammatica la scena, perché quest\'angolazione ci \"risucchia\" all\'interno dello spazio del quadro. **Bramante e Peruzzi**. Coro di Santa Maria di Bramante con evidente l\'influsso di Piero della Francesca e di Andrea Mantegna. Impiego accorto della finzione prospettica in architettura: nell\'impossibilità di realizzare un edificio a croce greca, l\'architetto prolungò illusivamente il coro della chiesa, così da farla apparire a croce greca. Finto coro a tre arcate. Deliberato trompe- l\'oeuil, genere di trucco illusionistico usato soprattutto nella scenografia teatrale, noto esempio è la Galleria prospettica di Borromini nel Palazzo Spada a Roma. E un colonnato di misure ridotte, ma appare profondo e monumentale. Sullo sfondo c\'è una statua che, vista dall\'ingresso, appare alta quanto una persona normale, ma in realtà è di dimensioni più moderate. Altro grande esempio di illusione prospettica è quella della Sala delle prospettive che Peruzzi affresco nella cosiddetta Farnesina. In questa villa lavorarono anche Raffaello, il Sodoma e Sebastiano del Piombo. Peruzzi ha dipinto un finto portico, scandito da filari di colonne di marmo, oltre al quale si ammira un panorama di Roma. Divenne un modello imitatissimo in tutta Europa, specie negli interni delle ville. **Lo sfondato illusionistico di volte e cupole.** La Sala della Caduta dei Giganti in Palazzo Te a Mantova è uno dei casi più spettacolari di decorazione illusionistica in una villa cinquecentesca. Giulio Romano, artefice dell\'opera, dipinge sia le pareti che la volta, coinvolgendo lo spettatore a 360°. La finzione messa in scena dall\'artista implica anche che il visitatore si veda crollare addosso le pareti e la volta: un \"effetto speciale\" volto a produrre un moto di paura. A rendere giocoso il tono della decorazione è il registro grottesco usato dal pittore. A Parma, Correggio dipinge la cupola della chiesa di San Giovanni Evangelista (1526-1530) e poi quella del Duomo (1526-1530). Partendo dagli scorci di sottinsù di Mantegna, Correggio \"sfonda\" allusivamente la cupola mostrando una veduta dal basso del cielo luminoso e popolato di nuvole. Nella cupola di San Giovanni Evangelista la cerchia di apostoli in basso funge da quinta ombrosa, che rende ancora più abbagliante lo squarcio tra le nubi. Nella cupola del Duomo, l\'orchestrazione è ancora più complessa e polifonica. La Madonna è assunta in cielo e le cerchie celesti si dispongono in modo da dar vita ad un gigantesco moto a spirale terminante nella figura di Cristo in scorcio. Queste opere si pongono come basi per le cupole delle volte barocche e post-barocche. Pietro da Cortona realizza il Trionfo della Divina Provvidenza (1633-1639) a Palazzo Barberini. È un affresco che celebra l\'apoteosi della famiglia committente. Il vorticoso dinamismo, la grandiosità, la potenza immaginifica del Barocco sono esemplari. Nel 600 Roma fu il principale laboratorio e centro d\'irradiazione della decorazione barocca. Si pensi al Trionfo del nome di Gesù, di Giovan Battista Gaulli, o alla Glorificazione di Sant\'ignazio del gesuita Andrea Pozzo. Qui Pozzo provvide ad un surrogato di una cupola, dipingendo su una tela piana una finta cupola in trompe-roeil. Se la si guarda da un punto fisso, immobile, inganna chiunque la guardi. In età barocca queste grandi macchine illusionistiche non furono utilizzate solo nelle chiese. Si pensi alle regge e ai palazzi immobiliari. La fortuna di queste regge Sei-Settecenteschi declinò solo nell\'800 inoltrato. Già a partire dal primo Seicento erano cominciate a svilupparsi le specializzazioni, con artisti che si dedicavano esclusivamente alla progettazione ed esecuzione delle finzioni architettoniche (i cosiddetti \"quadraturisti\"). Infine, l\'ultimo grande protagonista di questa tradizione figurativa fu Giovan Battista Tiepolo, autore di uno dei più grandiosi esempi di \"sfondato\": quello che deflagra nella volta dello scalone monumentale della Residenza del principe-vescovo a Würzburg, in Germania, degna conclusione europea di un \"prodotto di esportazione\" tra i più diffusi e ammirati del made in Italy. **Capitolo 6 La prospettiva fiorentina e i suoi sviluppi** **Il concorso del 1401: l\'invenzione della prospettiva.** L\'invenzione della prospettiva è il frutto di un processo che si andò sviluppando nel 200 e nel 300 e che giunse a maturazione a Firenze con Brunelleschi. Evento cardine per questa svolta delle arti figurative fu il concorso che si svolse a Firenze nel 1401: questo concorso serviva per assegnare l\'incarico di esecuzione della seconda porta del Battistero (la prima era stata realizzata da Andrea Pisano). Ciascuno dei concorrenti doveva presentare una formella con la rappresentazione del sacrificio di Isacco. Il confronto definitivo si svolse tra la formella di Ghiberti, che vinse la prova, e la formella di Brunelleschi. Le due opere sono molto diverse dal punto di vista formale e offrono una straordinaria sintesi delle due scuole di pensiero in materia artistica allora presenti in città: l\'accoglienza dello stile gotico internazionale da una parte, lo sviluppo delle radici classiche dall\'altra. Alla prima opzione appartiene la formella di Ghiberti, che divise la scena in due fasce verticali armonizzate da uno sperone roccioso, con una narrazione equilibrata e senza senso del tragico, figure proporzionate e aggiornate alle cadenze del gotico. Vi inserì anche generiche citazioni dall\'antico\", di sapore ellenistico, come nel poderoso nudo di Isacco, facendo quindi una mediazione tra gli stimoli disponibili all\'epoca. L\'uso dello sfondo roccioso inoltre generava in fine chiaroscuro, che avvolgeva le figure senza stacchi violenti (scelta che influenzò anche lo stiacciato di Donatello). Ben diverso fu il rilievo creato da Brunelleschi, che suddivise la scena in due fasce orizzontali, con piani sovrapposti che creano una composizione piramidale. Al vertice, dietro uno sfondo piatto dove le figure vi emergono con violenza, si trova il culmine drammatico dell\'episodio del sacrificio, dove linee perpendicolari creano l\'urto tra le tre volontà diverse (di Abramo, di Isacco e dell\'angelo, che impugna il braccio armato di Abramo per fermarlo). La scena è resa con una tale espressività da far apparire al confronto la formella di Ghiberti una pacata recitazione. Questo stile deriva da una meditazione dell\'opera di Giovanni Pisano come nella Strage degli innocenti del pulpito di Sant'Andrea e dell'arte antico. **La pratica e gli strumenti della prospettiva** De pictura di Leon Battista Alberti: trattato scritto in latino nel 1435. Scelse di pubblicarlo anche in volgare per consentirle la lettura ai pittori, che nella maggior parte dei casi non conoscevano il latino. Lo scopo era spiegare la teoria e la pratica prospettica di Brunelleschi. La rappresentazione prospettica si basa sulle convinzioni medievali sul funzionamento dell\'occhio. La prospettiva brunelleschiana (o *perspectiva artificialis*) è basato su rigorose leggi geometriche; proiezione di oggetti visibili e dello spazio a tre dimensioni in cui essi si collocano su una superficie piana. Punto di fuga prospettico unificato. Le antiche biografie brunelleschiane collegano la messa a punto del sistema prospettico alla realizzazione da parte dello stesso Brunelleschi di due tavolette sperimentali su cui riprodusse il Battistero fiorentino davanti alla porta del Duomo, e Palazzo Vecchio, visto da una particolare angolazione da Piazza della Signoria. Aveva reso il cielo mediante l\'artificio di inserire sulla tavola una superficie di metallo, in cui si rifletteva il cielo vero e proprio. La tavola non doveva essere guardata direttamente, ma bisognava osservarne l\'immagine riflessa in uno specchio, attraverso un buco al centro della porta del Battistero. L\'osservatore è posto alla stessa distanza a cui era il pittore nel realizzare l\'opera. È probabile che il metodo di riproduzione brunelleschiano implicasse due momenti: la rappresentazione veniva prima resa su un foglio di carta, poi la griglia grafica veniva trasferita sulla tavola da dipingere, poggiandovi sopra il foglio e lucidandone le linee; l\'immagine \"lucidata era perciò capovolta. Lo specchio fungeva da correzione, invertendo nuovamente l\'immagine. Il tedesco Albrecht Dürer si sforzo di impadronirsi del \"segreto italiano\" della prospettiva, soffermandosi in particolare sullo strumento - già descritto da Alberti - del cosiddetto velo, fra pittore e modello veniva posto un velo, solcato da fili che formavano una griglia quadrettata. Esso funge da intersecazione della piramide visiva. Un piccolo obelisco serviva poi per garantire al pittore di fissare una postazione per un punto di vista costante. Il pittore riporta sul foglio una serie di puntini, sui contorni del modello. Il ricongiungimento dei punti è detto circoscrizione. Altro dispositivo di cui parla Dûrer è lo sportello: consisteva in un telaio con uno sportello girevole con sopra un foglio da disegno. Il punto di osservazione è rappresentato da un chiodo piantato sul muro ad una certa altezza. Il raggio visivo è rappresentato da uno spago teso fra il chiodo e i vari punti dell\'oggetto da riprodurre. Per riportare un punto sul foglio bisogna rilasciare lo spago, chiudere lo sportello e tracciare sul foglio il punto di intersezione dei due fili all\'interno del telaio; operazione da ripetere per ogni punto significativo dell\'oggetto. Il limite dello sportello è che consente di ottenere disegni prospettici solo di oggetti vicini. Col tempo, però, questa prospettiva così macchinosa inizia ad essere abbandonata: rinuncia all\'unificazione del punto di fuga. Le conquiste di carattere visivo, però, possono essere viste come una proiezione simbolica del desiderio di conquista e di allargamento del proprio raggio d\'azione. **La camera ottica e la veduta**. Il \"vedutismo prospettico\" è un genere artistico praticato da pittori e incisori la cui specialità consisteva nel rappresentare monumenti, piazze, panorami cittadini e vedute paesaggistiche, sia reali che immaginarie. Questo genere coinvolse artisti italiani ma anche nordici, principalmente olandesi e fiamminghi. Uno dei maggiori rappresentanti fu Gaspar van Wittel, detto il Vanvitelli, che apri la strada a Canaletto e Bellotto. Gaspar usava la \"camera ottica\", l\'antenata della macchina fotografica. La camera ottica era una specie di armadio trasportabile. Alla sommità della camera vi era uno specchio che proiettava su carta, tramite un obiettivo, la veduta esterna da riprodurre. La proiezione appariva capovolta. Vi era anche una camera ottica più maneggevole, da passeggio, che consisteva in una cassettina di legno grande poco più di una scatola. Questa era dotata di un obiettivo che filtrava un\'immagine della veduta esterna su uno specchio inclinato di 45°. Questo, a sua volta, proiettava l\'immagine su un vetro smerigliato. L\'artista poneva un foglio sul vetro e ricalcava le linee principali **La prospettiva aerea di Leonardo**. Nel Del modo del ritrarre un sito corretto, Leonardo da Vinci ci spiega come usare una variante del \"velo\" albertiano, semplicemente sostituendo al velo un vetro. L\'innovazione sta nell\'elaborazione teorica e pratica della prospettiva aerea, ossia della rappresentazione degli effetti percettivi prodotti dalla presenza dell\'atmosfera. Questa, infatti, interponendosi tra occhi e oggetti, altera la percezione dei colori. La densità atmosferica crea una diversificazione dei colori attraverso il processo di rifrazione della luce e attenua i contorni degli oggetti più lontani. La prospettiva aerea di Leonardo trova un\'applicazione sistematica nello \"sfumato\": nello sfondo dei suoi quadri, corpi e oggetti perdono di nitidezza e si addolciscono. La distanza prospettica produce una sfocatura dell\'immagine, sempre più evanescente a mano a mano che la distanza cresce e, con essa, la \"grossezza dell\'aria\" **La prospettiva in scultura**. Donatello applicò i principi della prospettiva al bassorilievo, inventando la tecnica dello stiacciato: tecnica che rende la tridimensionalità e lo scalarsi in profondità dei diversi piani mediante la maggiore o minore sporgenza del rilievo: le figure in primo piano sono quasi a tutto tondo; a mano a mano il rilievo si fa meno sporgente, fino a divenire appena accennato. Per alludere ad una distanza maggiore Donatello ricorre al graffito, cioè scava il piano marmoreo. Celebre il suo Combattimento di San Giorgio con il drago per liberare la principessa nella Basilica di Sant\'Antonio (1417-1420). **Paolo Uccello, tarsie lignee e cassoni.** Nelle opere di Paolo Uccello traspare questa la scelta di privilegiare la rappresentazione prospettica sopra ogni cosa. Nella predella per la pala con la Comunione degli apostoli sono raffigurati i sei episodi del Miracolo dell\'ostia profanata: una donna cristiana vende un\'ostia consacrata ad un ebreo e questo la mette ad arrostire sulla brace; l\'ostia non brucia ma perde sangue, svelando la sua natura soprannaturale. Sul camino, nell\'episodio raffigurato sul libro, vengono raffigurati degli stemmi con lo scorpione e la testa di negro: simboli di eresia. I personaggi sono piccoli: non sono i veri protagonisti. Padrona dell\'opera è infatti la prospettiva: questa racconta sé stessa tramite un gioco di linee di fuga, di scatole spaziali, di colori e di superfici piane che simulano credibilmente la tridimensionalità dello spazio. Tornando a Paolo Uccello, Vasari critica l\'eccesso di pedanteria prospettica realizzata in un\'epoca in cui la ricerca prospettica era stata superata in virtù della rappresentazione del corpo umano in movimento e della resa dei sentimenti tramite la mimica, le pose e i gesti delle figure. In un aneddoto, Vasari fa dire a Donatello che ormai le bizzarrie prospettiche si addicono a generi minori, come la tarsia lignea. Questa consiste nell'accostare ad intarsio forme ricavate in legni di diverso colore, al fine di realizzare figure, ornati e vedute di vario genere. Le tarsie lignee erano tipiche di studioli umanistici, tavoli, cassoni, armadi, stalli dei cori nei conventi e nelle chiese. Si vadano le tarsie realizzate per lo Studiolo di Federico da Montefeltro nel Palazzo Ducale di Urbino, in cui è evidente il virtuosismo nel trompe-l\'oeil. Le tre opere più famose di Paolo Uccello sono le tre tavole dipinte con scene della battaglia di San Romano. Vi è grande rigore prospettico e, da qui, nasce il tono fiabesco e irreale dell\'opera. Infatti il \"realismo magico\" è determinato dall\'ossessione prospettica di Paolo: l\'artista usa colori e profili netti, accentua l\'effetto tridimensionale delle immagini e scandisce i diversi piani in profondità. La nettezza dei profili e la violenza dei colori contrastanti ci aiutano a districare otticamente questo groviglio di forme geometriche e geometrizzanti, che il pittore si è divertito a sottomettere alla sua musa: \"la dolce prospettiva\" **Impieghi della prospettiva: la scena teatrale**. Nel mondo classico il pubblico sedeva su gradinate di una cavea semicircolare, davanti alla quale si ergeva il palcoscenico dominato dalla scena frons. Nei teatri più monumentali, la scenae frons si protendeva ai lati con due corpi di fabbrica, le cosiddette versurae. Il genere più nobile era la tragedia, caratterizzata dalla presenza di personaggi di rango elevato: ecco perché la scena frons classica alludeva alla reggia o al palazzo principesco. Nel trattato di Vitruvio si accosta la scenografia alla prospettiva, indicando una tripartizione delle scene a seconda del genere di spettacolo rappresentato: scena tragica (edifici nobili e regali), scena comica (edifici privati comuni) e satirica (ambiente boschereccio con capanne). Nel Rinascimento non vi erano teatri stabili, come nel mondo classico. Gli spettacoli si tenevano per eventi e occasioni importanti, rigorosamente nelle piazze oppure nelle sale e nei cortili di regge e palazzi nobiliari. Uno dei pochissimi teatri stabili del \'500 è il Teatro Olimpico di Vicenza, progettato da Andrea Palladio intorno al 1580: una sala teatrale all\'interno di un palazzo. Palladio costruì una cavea semiellittica ed edificò una maestosa scena frons con colonnati corinzi, statue e canoniche versurae laterali. Interpretando a suo modo il trattato di Vitruvio, inserì una veduta di città in legno, cartapesta e stucco, sotto forma di tre strade che si irradiano al di là delle porte della scena frons. La scenae frons è qui un\'aulica e abbondante cornice, che invece di fare da sfondo convoglia lo sguardo dello spettatore al di là di sé stessa, in uno spazio illusorio. Nel Secondo libro del Trattato di Architettura, Sebastiano Serlio dedica un capitolo ai teatri moderni, esemplificando le tre diverse tipologie di scena (tragica, comica e satirica) con altrettante incisioni. Ci mostra il modello di un teatro moderno privo della scena frons. Nella seconda metà del \'500 la veduta prospettica fissa fu sostituita dalla \"mutazione a vista\": le scene cambiavano davanti allo spettatore, al fine di stupire. Anche in merito a ciò, si calcò il modello vitruviano dei periaktoi a sezione triangolare che consentivano l\'alternarsi delle scene nel teatro antico: nel 500, le scene giravano mediante quinte che roteavano su un perno, mostrando una facciata diversa per ogni rotazione. Il principale elemento dello spettacolo teatrale nell\'età della Maniera e nel Barocco fu la scenografia. A Firenze, alla corte dei Medici, si distinse Bernardo Buontalenti, famoso per le mutazioni a vista caratterizzate da contrasti spettacolari tra ambienti e atmosfere diverse, per le macchine scenotecniche usate. Si rompe la staticità della scena fissa. Dietro l\'arco scenico, strumenti complessi, macchinari mastodontici e ingegnosi trucchi teatrali trasformano la ribalta teatrale in un ininterrotto caleidoscopio di metamorfosi sceniche. Gian Lorenzo Bernini, nel \'600, fu anche autore di testi teatrali, attore e geniale scenografo. Creò \"effetti speciali\" impressionanti, fingendo incendi o inondazioni che sembravano minacciare anche il pubblico. **Piero della Francesca**. Uno dei maggiori protagonisti della prospettiva quattrocentesca fu Piero della Francesca. Il suo maggiore capolavoro sopravvissuto è la Leggenda della Vera Croce, eseguito nel coro della chiesa di San Francesco ad Arezzo. Qui si distingue per le doti pittoriche ma anche matematiche. Contemporaneo di Piero fu Luca Pacioli, che assorbi molti dei principi matematici e geometrici di Piero e li riversò nella Summa de Aritmetica (1494) e nel De divina proporzione (1509). Nel secondo trattato, parla della \"sezione aurea\", un rapporto matematico-geometrico che si basa sulla divisione di un segmento in due parti tali da far sì che la parte maggiore corrisponda alla media proporzionale tra l\'intero segmento e la parte minore. La sezione aurea era detta \"divina\" grazie all\'armonia matematica che la caratterizza. La prospettiva è analizzata da Piero nel De prospectiva pingendi, in cui analizza l\'anatomia umana. Uno dei dipinti basato sulla sezione aurea è la Flagellazione di Cristo. Questa è divisa in due scene: quella di sinistra rappresenta la flagellazione, quella di destra resta enigmatica. La luce contribuisce a rivelare l\'architettura della scena, il pavimento accentua l\'effetto di profondità, il colore è intriso di luce. Alla base del trono di Pilato vi è la firma di Piero con lettere maiuscole. Da recenti studi, è emerso che il quadro aveva una propria autonomia, non era quindi una predella. Non si esclude che dietro il quadro si nasconda un messaggio di tipo politico. Si sostiene che i tre personaggi sulla destra discutano della necessità di organizzare una crociata contro i turchi. Nel personaggio di sinistra riconosce il cardinale Bessarione. Oppure la scena di destra viene interpretata come il Rilascio di Barabba. Secondo questa interpretazione, il personaggio di sinistra sarebbe un dignitario che esegue gli ordini di Pilato, il giovane al centro sarebbe Barabba (infatti è prigioniero, ha i piedi nudi) e l\'uomo di destra incarnerebbe l\'intera collettività ebraica. Il maggior punto debole di questa interpretazione risiede nella rappresentazione di Barabba come quella di un giovane biondo e di gentile aspetto. Secondo Pinelli l\'opera è un quadro dimostrativo: mette in luce una maestra prospettica e luministica che non aveva rivali. Il soggetto principale è piccolo, distante; quello secondario è in primo piano: si ribaltano le regole dell\'iconografia medievale. Anche Brunelleschi aveva dipinto due tavolette per dimostrare la perspectiva artificialis. Allo stesso modo, Piero può aver dipinto la Flagellazione per portarla con sé alla corte di Urbino, per dimostrare cosa lui, e lui solo, sapeva fare. **Capitolo 7 Dipingere, accorpare, identificare: l\'attribuzionismo, ovvero la pratica del conoscitore** **La storia dell\'arte è una branca della storia.** I \"documenti\" degli storici dell\'arte sono le opere, gli \"archivi\" sono le chiese, i musei, le pinacoteche, le città stesse. Ma, ovviamente, vi sono testimonianze scritte e orali utili per occuparsi delle varie opere, per capirle, interpretarle, per scoprirne le radici. La metodologia della storia dell\'arte è l'attribuzionismo. Questo ha radici nella natura visiva dell\'oggetto delle ricerche: si tratta di un metodo di lavoro che mira ad identificare l\'autore di un\'opera d\'arte e a stabilirne la cronologia. Fondandosi sulla facoltà visiva, l\'attribuzionismo può essere insegnato e appreso, ma serve buona memoria visiva. I grandi \"conoscitori\" possedevano un innato talento prodigioso, ma la strepitosa memoria visiva sarebbe stata sterile se non avessero studiato, giornalmente, le opere d\'arte tramite contatto diretto. Nella mente di coloro che praticano questo metodo si forma una sorta di mappa mnemonica visiva, una mappa \"mobile\", perché va aggiornata continuamente. Ciascun conoscitore ha un suo raggio specialistico d\'azione più o meno ampio. In assenza di una datazione certa, la cronologia di un\'opera si può a volte dedurre indirettamente dalla presenza o meno di tali influssi. Ad esempio se un\'opera dipende visibilmente da un\'altra, con una data precisa, questa data funge da post quem anche per l\'opera di derivazione. Di fronte ad un\'opera di cui non si conosce l\'autore, i dati visivi che ricaviamo dal suo stile ci indirizzano verso un\'area tanto più precisa quanto più consolidate saranno le conoscenze sull'autore di quella determinata opera. Il prodigio non sta tanto nel metodo, quanto nell\'ampiezza e nella precisione della mappa immagazzinata nella memoria di chi pratica l\'attribuzionismo. Grazie ad esso, la storia dell\'arte ha ampliato notevolmente le proprie conoscenze. Innumerevoli sono i casi in cui le nuove acquisizioni hanno successivamente avuto conferma grazie ai documenti emersi dagli archivi. E vero anche che i risultati dell\'attribuzionismo sono incerti e confutabili. Nell\'esempio che citeremo per esemplificare la pratica attribuzionistica, emergono pregi e limiti di questo approccio. Un problema, spesso trascurato, è dato dal fatto che un artista può variare il proprio stile in modo sorprendente, a seconda delle caratteristiche e della destinazione dell\'opera che gli è stata commissionata. L\'autore dell\'opera che presenteremo adotta contemporaneamente due stili: uno \"ufficiale\" e uno privato, sperimentale. **La Cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto**. Nel 1446 fra\' Giovanni da Fiesole, detto in seguito [Beato Angelico], si trovava a Roma per affrescare la Cappella Niccolina, la cappella privata di Papa Niccolò V. Poiché l\'estate romana è molto calda e, in quel tempo, l\'aria era umida e malsana non era possibile lavorare ad affresco in Vaticano nel periodo estivo. Ciò probabilmente spinse l\'artista, nel giugno del 1447, ad accettare di affrescare la Cappella dell\'Incoronata, detta anche Cappella di San Brizio, nel Duomo di Orvieto. Nel contratto, era dichiarato che l\'Angelico avrebbe fornito i disegni e diretto i lavori, ma la maggior parte della decorazione sarebbe stata affidata ai suoi aiutanti. Nel giugno del 1447 Beato esegui le due vele della volta con il Cristo giudice fra gli angeli e i profeti. Nei due anni successivi i lavori furono interrotti. Nel 1489 si cercò vanamente di ingaggiare Pietro Perugino. Solo tra il 1499 e il 1502 l\'Opera del Duomo si accordò con [Luca Signorelli], che completò celermente i lavori, raffigurando figure dall\'energia scattante che influenzarono lo stesso Michelangelo. Lo stile del Beato Angelico e aulico, magniloquente. C\'è chi si sforza di individuare i lavori realmente eseguiti da fra\' Giovanni, ma la grande capacità di Gozzoli nel copiare la mano di Beato mette a dura prova gli storici dell\'arte. Infatti è praticamente impossibile cercare di distinguere le due mani. Probabilmente furono usati modelli di carta, ovvero sagome utilizzabili a più riprese (i \"patroni\") che venivano appoggiate alle superfici da affrescare per delineare i contorni. Il tono algido e stereotipato dei dipinti dipende forse dal riutilizzo dei cartoni, dalla totale o parziale assenza dell\'Angelico nella fase esecutiva, ma anche da una precisa scelta stilistica del frate pittore. Questo stile freddo e \"ingessato\" si differenzia da altri registri stilistici dell\'Angelico. Nelle fasce che incorniciano le vele della volta troviamo, per ogni vela, una ventina di esagoni raccordati da festoni vegetali, che incorniciano teste di personaggi maschili di varie età. Queste si rifanno ai tondi con teste sporgenti che Lorenzo Ghiberti applica nella seconda e nella terza porta del Battistero fiorentino. Due altri elementi si rifanno alle scelte ghibertiane: il primo di carattere iconografico (i festoni vegetali sono simili a quelli del Battistero) e il secondo di carattere documentario (un documento del 1444 ci informa che Ghiberti si avvalse della collaborazione di Benozzo Gozzoli per lavorare alla porta del Paradiso). La cornice ghibertiana è ben visibile e può essere ammirata in ogni dettaglio, quella orvietana no. Le testine hanno funzione accessoria ed ornamentale, poiché sono poste a oltre 10m d\'altezza. Però, osservandole da vicino, è possibile notare delle particolarità. Alcune teste sono mediocri, altre sono dei piccoli capolavori. Le testine più rozze e sommarie sono da attribuire a Pietro di Nicola Baroni, che lavorò nel cantiere nel 1448. Confrontando queste testine con un suo polittico della Galleria Nazionale di Perugia si ha conferma di quanto affermato. Vi sono poi testine di qualità più elevata. Alcune, le meno riuscite, sono da attribuire al nipote di Beato, Giovanni di Antonio della Checca, o a Giacomo da Poli. Quelle di qualità più sostenuta sono attribuibili a Benozzo Gozzoli. Confrontando la testina orvietana 3e (in figura), si riscontra la somiglianza con quella di un bel giovane (3f) dipinto dallo stesso nella Cappella dei Magi nel Palazzo Medici a Firenze: in entrambe si notano la simmetria dell\'acconciatura, le sopracciglia arcuate, le guance piene e il disegno della bocca. Infine, alcune testine dipinte con una freschezza di pennellata ed un\'incisività naturalistica sono piccoli capolavori della ritrattistica quattrocentesca. Gli autori di queste hanno avuto libertà compositiva e si sono distaccati dai condizionamenti del linguaggio ufficiale, utilizzando le testine come una sorta di laboratorio sperimentale. Probabilmente sono ritratti dei giovani garzoni, rappresentati con spontaneità creativa e realismo asciutto e penetrante. Si confronti la 5a con la 5b: nella prima, la luce divide in due il volto, tutto è simmetrico, le pupille sono fisse e conferiscono una sensazione di \"assenza\". Nella seconda: la posa è frontale, lo sguardo e vivo, penetrante, la luce è cruda e divide in due il volto, mettendo in evidenza l\'asimmetria delle guance. I contrasti sono acuiti: la luce dà risalto ad ogni rientranza e sporgenza, scavando le orbite, mettendo crudamente in rilievo ogni più piccola ruga o asperità. L\'audacia è qui sorprendente, per un pittore precaravaggesco. Chi sono gli autori di questi ritratti? **Angelico, Benozzo o un terzo, anonimo, pittore?** Chi ha dipinto questi ritratti dal vivo? Secondo Pinelli è stato Benozzo Gozzoli. È innegabile la differenza tra i suoi dipinti \"di repertorio\" e questi capolavori. La qualità cambia, secondo Pinelli, perché Gozzoli \"sperimenta\": si allontana dalle imposizioni del linguaggio ufficiale, aiutato dal fatto che le testine non sono fatte per essere guardate da vicino (poiché sono poste troppo in alto). Inoltre, dipingere \"di maniera\", cioè a memoria, non dà le stesse sollecitazioni provenienti dalla presenza fisica di un modello in posa. Secondo Andrea De Marchi, invece, l\'autore sarebbe Beato Angelico. A testimonianza di ciò, pubblicò il bellissimo disegno conservato alla Royal Library di Windsor con la Testa di un giovane chierico, attribuendolo all\'Angelico e confrontandolo con alcune testine orvietane. Recentemente, anche De Marchi si sta ricredendo e sta optando per l\'attribuzione a Gozzoli, constatando che quest\'ultimo ha inclinazioni ritrattistiche nel corso della sua carriera, differentemente da Beato Angelico. Bruno Toscano, da parte sua, crede che ci sia un terzo pittore, anonimo. A lui attribuisce anche le bellissime figure all\'interno degli affreschi benozzeschi a Montefalco. Consapevole dell\'ardua ipotesi, dice che forse un giorno avremo spiegazioni sull\'apparire qua e là \[.\] di queste luci virtuose\". Secondo Pinelli è poco praticabile come ipotesi. Fiorella Sricchia Santoro individua questo terzo pittore in Jean Fouquet, presente a Roma negli anni 40\. Secondo Pinelli, l\'ipotesi è cervellotica e improbabile: Fouquet non ha mai dipinto altri affreschi (conosceva la tecnica?). Nella chiesa-museo di San Francesco, alla mostra su Benozzo Gozzoli del 2002, erano presenti tre disegni importantissimi: la Testa di un giovane chierico, la Testa in semi profilo di un ragazzo (entrambi della Royal Library di Windsor) e una testa paffuta di un bambino (del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi). Tutti e tre, data la medesima tecnica utilizzata, sembrano realizzati dallo stesso autore. Angelico, Benozzo o un terzo? Sul recto di tutti e tre i disegni si trovano figure facente parte del repertorio dell\'Angelico. Eppure nessuno di questi tre disegni sul verso ha la purezza formale dello stile di Beato Angelico: questi sono in realtà attribuibili a Benozzo. Possibile che in tutti e tre i casi i dipinti sul verso siano stati realizzati da un artista e quelli sul recto siano stati realizzati da Gozzoli? Secondo Pinelli è solo quest\'ultimo che lavora a tutti i ritratti, comportandosi come il dott Jekyll e Mr. Hyde, a seconda che dipinga \"di pratica\" o dal vivo. **Capitolo 8. Il tempo in trappola: le arti dello spazio alle prese con la dimensione temporale della narrazione** **\"Ut pictura poësis\": Lessing e la distruzione tra arti dello spazio e arti del tempo**. La rappresentazione di una storia e della sua durata temporale nello spazio unitario di un singolo quadro/scultura è un problema fondamentale della storia dell\'arte eppure poco dibattuto. Si tratta del rapporto tra arti visive e arti della parola e della scrittura. Fin dai tempi dell\'antica Grecia si mettono in relazione poesia e pittura e si considerano principalmente le analogie tra esse. Simonide di Ceo, poeta greco, diceva che \"la pittura è poesia muta e la poesia pittura parlante\". Orazio aveva invece scritto \"ut pictura poësis\" = la poesia è come la pittura. Equiparare le due arti equivaleva ad affermare che pittura e scultura erano degne di essere considerate \"arti liberali\" La riflessione tra arti figurative e arti della scrittura inizia tra il \'600 e il 700. Il primo ad occuparsene è il filosofo tedesco Gotthold Ephraim Lessing nel libretto Laocoonte, ovvero sui limiti della pittura e della poesia (1766). Secondo Lessing, le arti della parola (= letteratura) sono \"arti del tempo\", poiché si sviluppano diacronicamente; le arti figurative sono \"arti dello spazio\", poiché si offrono simultaneamente, con una precisa unità sincronica. Lessing include anche una puntualizzazione sul \"momento pregnante\", ovvero l\'istante della narrazione capace di evocare l\'antefatto e le conseguenze: è questo il momento da rappresentare nelle arti figurative. **II Medioevo e la \"narrazione continua**\". Fin dai tempi dell\'antica Grecia si era soliti \"tradurre\" una sequenza narrativa in tante unità spaziali, come nelle strip dei fumetti. Nel Medioevo, per rappresentare in uno spazio unificato una narrazione si ricorre alla cosiddetta \"narrazione continua\". Se ne ha un esempio nell\'Orazione nell\'orto degli ulivi di Duccio di Buoninsegna, eseguita sul retro della Maestà della Vergine. La tavola rappresenta la preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi e i vari episodi ad essa connessi. La \"narrazione continua\" prevede la raffigurazione ripetuta di uno o più personaggi, riproposti con le medesime caratteristiche in modo da essere riconoscibili e da facilitare lo spettatore nella connessione delle sequenze. Con questo genere di narrazione si attua una sintesi, rappresentando in unico riquadro una pluralità di istanti narrativi. Spesso la decifrazione di questo tipo di opere può essere complicata, anche perché nello sforzo della sintesi si eliminano episodi narrativi dando origine a interpretazioni ambigue. La lettura delle sequenze, normalmente, procede da sinistra verso destra. **Le conseguenze della rivoluzione prospettica**. Dopo la messa a punto della perspectiva artificialis di Brunelleschi non si abbandona la \"narrazione continua\", ma la si sottomette alle leggi prospettiche. Si impone un\'esatta traduzione della dimensione temporale del racconto in quella spaziale che è propria dell\'immagine: una figura può essere ripetuta ma in modo proporzionale, ovvero rimpicciolita o ingrandita rispetto alle altre per indicare una distanza temporale (tradotta in termini spaziali). Lo si vede nell\'Annunciazione di Beato Angelico. Sullo sfondo appare la cacciata di Adamo ed Eva dall\'Eden; in primo piano l\'episodio dell\'Annunciazione. L\'Angelico rappresenta l\'antefatto della venuta di Cristo sulla Terra, sullo sfondo; in primo piano rappresenta l\'Incarnazione di Gesù che si fa uomo per riscattare l\'umanità dal Peccato. Causa ed effetto, rappresentate sulla tavola, sono messe in comunicazione prospettica grazie al colonnato del portico che unisce passato e futuro. Nel Tributo della moneta della Cappella Brancacci, Masaccio mostra la capacità di saper organizzare in uno spazio unitario una sequenza narrativa complessa. Qui l\'artista usa indicazioni prospettiche, sguardi e gesti come indicatori vettoriali della sequenza del racconto. Dall\'episodio centrale si dipanano infatti una serie di sguardi e gesti che spingono lo sguardo dello spettatore prima verso sinistra e poi verso destra. Nella Cappella Sistina il programma iconografico è basato sulla concordanza tra la vita di Mosê, typus Christi, e quella di Cristo. Ad ogni episodio della vita di Mosè è associato un analogo episodio della vita di Gesù. Si pensi al Testamento e morte di Mosè, di Luca Signorelli e Bartolomeo della Gatta, e all\'Ultima di cena di Cosimo Rosselli. I titoli delle due scene chiariscono il parallelismo teologico istituito dal programma iconografico. Sulla prima corre, infatti, la scritta REPLICATIO LEGIS SCRIPTAE A MOISE (\"Mosè ribadisce la legge scritta\"), mentre sulla seconda l\'iscrizione dice: REPLICATIO LEGIS EVAGENLICAE A CHRISTO (\"Cristo ribadisce la legge evangelica\"). Nel Testamento e morte di Mosè il racconto inizia dallo sfondo, dove Mosè apprende da un angelo dove sia la Terra Promessa; in primo piano vi è il popolo d\'Israele che ascolta Mosè, a destra; a sinistra, Mosè consegna il bastone del comando a Giosuè; infine, nuovamente sullo sfondo, si assiste al compianto sul corpo di Mosè. Nell\'Ultima Cena, Rosselli ha creato una loggia tripartita in cui ha inserito, in ogni apertura, un episodio della vita di Gesù: l\'Orazione nell\'orto, la Cattura e la Crocifissione. Pur essendo distinte, le tre scene si svolgono in un paesaggio unitario. Così Rosselli ha risolto il problema dell\'inserimento di scene successive alla Cena, in stretto parallelismo con la scena mosaica di Signorelli e della Gatta. **Lo sperimentalismo cinquecentesco**. Pontormo, nella tavola rappresentante Giuseppe in Egitto, fa ricorso ad uno sperimentalismo linguistico e attinge alla cultura nordeuropea, usando la visione dall\'alto, \"a volo d\'uccello\". Non rinuncia alla \"narrazione continua\" ma la usa per creare ambiguità e \"trappole\" visive. Il quadro è enigmatico. Inizia con Giuseppe che fa fortuna in Egitto; lo stesso personaggio viene poi raffigurato su un carro mentre distribuisce cibo al popolo; infine, Giuseppe si reca sul letto di morte di suo padre, Giacobbe. Qui si presenta con due bambini, Efraim e Manasse. Se inizialmente sembra un solo bambino, ripetuto secondo le regole della \"narrazione continua\", si scopre poi che Pontormo ha invece rappresentato i due gemelli, nipoti di Giacobbe. Francesco Salviati, 30 anni dopo circa, si ispirerà al Pontormo, ma userà la \"ripetizione\" della \"narrazione continua\" in senso proprio, ovvero ripetendo più volte l\'immagine del medesimo personaggio. La finalità è di carattere espressivo. Nelle Storie di David, a Roma, troviamo la rappresentazione del re David che vede Betsabea nuda e se ne innamora. La scena mostra la donna che si avvia verso la reggia di David, sale e poi abbraccia al buio, nel letto, il re. Con la ripetizione, Salviati dilata ad arte i tempi di lettura dell\'episodio e mostra l\'esitazione, poi la circospezione e infine la fretta di Betsabea. **La rivoluzione caravaggesca**. Caravaggio, tra il 500 e il 600 secolo, realizza un capovolgimento radicale. Abolisce la \"narrazione continua\" ed ogni analogo espediente per intrappolare la durata temporale. Non dilata i tempi del racconto ma li comprime al massimo, riducendoli ad una frazione di secondo. Coglie la scena in un unico istante rivelato dalla luce, da cui emerge il senso di incompiutezza e di frammentarietà di un\'azione bloccata nel suo svolgersi. Nella Santa Caterina d\'Alessandria, Caravaggio ci mostra una donna incerta, che interroga col suo sguardo il pittore quasi a chiedere, colta in un momento di precario equilibrio, se deve poggiarsi sulla ruota o sul cuscino. Il pittore diventa quindi quasi un fotografo che coglie di sorpresa il suo soggetto. Nell\'Annunciazione di Orvieto di Francesco Mochi, troviamo un\'eco caravaggesca nell\'ambito della scultura. L\'angelo atterra e sembra in bilico, nel tentativo di bilanciarsi. La Vergine si volta di scatto e si chiude a riccio, appoggiandosi a una sedia traballante. Questo equilibrio precario lo ritroviamo nel San Matteo e l\'angelo, di Caravaggio (v. dettagli in foto). **La scelta del \"momento pregnante\".** Aristotele, nella Poetica, sancisce il principio dell\'unità di tempo, luogo ed azione da applicare ad ogni singola opera. Nicolas Poussin, ne La raccolta della manna (1637-1639), rappresenta una grande varietà di espressioni e atteggiamenti, un diverso modo di reagire di fronte al miracolo della manna. Charles Le Brun apprezzerà questa scelta, elogiandola, nonostante venisse reputata anticonvenzionale perché non rispettava l\'unità aristotelica. Lessing è il primo, nel \'600, a porre una netta distinzione tra arti figurative e arti della parola. Le \"arti dello spazio\" non possono rappresentare la durata, un \"segmento temporale\". Ma possono rappresentare il \"momento pregnante\", ovvero un momento capace di \"usurpare una durata\", suggerendo ciò che accade \"prima\" o \"dopo una determinata azione. Jacques-Louis David e Antonio Canova fecero propria questa posizione. Come ci dice Étienne-Jean Delécluze, allievo dell\'artista, David segnala che gli antichi sceglievano di rappresentare listante che precede o segue una grande crisi, lacme drammatica di un racconto. II momento scelto da David per Leonida è quello che precede l\'azione. Antonio Canova realizza, nel 1801, il Perseo trionfante. Quest\'opera viene poi acquistata dal Papa e posta sul piedistallo che ospitava l\'Apollo del Belvedere, prima che Napoleone lo facesse portare in Francia. Non è un caso: Canova aveva infatti concepito Perseo ispirandosi all\'Apollo. Cosi facendo, l\'artista mostrava di obbedire ai precetti di Winckelmann circa l\'imitazione dei capolavori antichi. L\'imitazione è qui intesa ben diversamente dalla mera copia. Infatti, sebbene le due sculture abbiano elementi comuni (le misure, la posizione del braccio e del manto, il volto di profilo, la serenità con cui affrontano un gesto drammatico), presentano anche delle differenze. Le gambe, ad esempio, benché identiche, mostrano una posa invertita. Perseo acquisisce un dinamismo del tutto estraneo all\'Apollo. Canova introduce un nuovo equilibrio che nasce dal bilanciamento di due opposti movimenti, che trascrivono plasticamente due opposti moti dell\'animo, compendiando in un solo \"momento pregnante\" il \"prima\" e il \"dopo\": da un lato lo sdegno, l\'impeto e lo slancio che proiettano il corpo in avanti; dall\'altro il compiacimento e il ricadere all\'indietro della figura, il rilassarsi del braccio che allontana la spada ormai inutile. L\'ira del combattimento cede il passo al sorriso del trionfo. L\'estremità del mantello è il fulcro dell\'intera composizione: pende, con docile inerzia, dal braccio dell\'eroe. Canova ha quindi realizzato il capolavoro che Diderot aveva preconizzato (= annunciato, predetto): ha saputo rappresentare il fatidico istante \"che segna il passaggio dell\'anima da una passione ad un\'altra\'