I Personaggi Dei Promessi Sposi PDF

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This document analyses the key characters in Alessandro Manzoni's novel *I Promessi Sposi*. It provides detailed descriptions and insights into the personalities of Don Abbondio, Agnese, and Conte Attilio, among others, offering a nuanced perspective on their motivations and roles in the narrative.

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I PERSONAGGI DEI PROMESSI SPOSI I PERSONAGGI PRINCIPALI DON ABBONDIO È il curato del paesino di Renzo e Lucia, colui che all'inizio della vicenda dovrebbe celebrare il matrimonio dei due promessi: è il primo personaggio del romanzo a entrare in scena, all'inizio del cap. I, e in seguito all'incont...

I PERSONAGGI DEI PROMESSI SPOSI I PERSONAGGI PRINCIPALI DON ABBONDIO È il curato del paesino di Renzo e Lucia, colui che all'inizio della vicenda dovrebbe celebrare il matrimonio dei due promessi: è il primo personaggio del romanzo a entrare in scena, all'inizio del cap. I, e in seguito all'incontro coi bravi l'autore ci fornisce una dettagliata descrizione della sua psicologia e del suo carattere. Manzoni finge che l'anonimo abbia omesso nel manoscritto di dire il suo casato, ma è comunque presentato come un uomo di circa sessant'anni, dai capelli bianchi e con "due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo", che incorniciano una "faccia bruna e rugosa" (VIII). Non è assolutamente un uomo molto coraggioso e dimostra anzi in numerose occasioni la sua viltà e la sua codardia, che sono all'origine anche della scelta di farsi prete: non dettata da una sincera vocazione, ma dal desiderio di sfuggire i pericoli della vita ed entrare in una classe agiata e dotata di un certo prestigio, che offre una discreta protezione in tempi in cui regna la violenza e la legge non dà alcuna garanzia agli uomini quieti. Il curato svolge dunque il suo ministero tenendosi fuori da ogni contrasto, mantenendo la neutralità in qualunque controversia o litigio, non contrastando mai i potenti (esemplare è la sua sottomissione a don Rodrigo, che pure odia) e mostrandosi in ogni occasione come un debole, cosa di cui approfittano un po' tutti. Costretto a ingoiare molti bocconi amari, non esita a sfogare un po' del fiele che ha in corpo prendendosela con coloro da cui sa di non aver nulla da temere, manifestando anche in tal modo il suo carattere pusillanime. È accudito da un'attempata domestica, Perpetua, donna decisa ed energica che spesso gli rimprovera la sua debolezza e lo esorta a comportarsi con maggior determinazione, quasi sempre senza successo. Si diletta a leggere libri senza un interesse preciso e si fa prestare da un curato suo vicino dei volumi, che però legge senza capire gran che: celeberrima è la frase "Carneade" Chi era costui?" che apre il cap. VIII e che è passata in proverbio a indicare col nome del filosofo del II sec. a.C. un illustre sconosciuto (ciò indica anche la relativa ignoranza del personaggio). Don Abbondio è comunque una figura fondamentalmente positiva, sinceramente affezionato a Renzo e Lucia, anche se la sua paura e la sua debolezza lo spingono a comportarsi in modo scorretto e a farsi complice delle prepotenze altrui, al di là delle sue stesse intenzioni. Il suo nome rimanda a sant'Abbondio, patrono di Como, e suggerisce il carattere di un uomo che ama il quieto vivere. È indubbiamente uno dei personaggi comici del romanzo, protagonista di molti episodi che mescolano dramma e farsa (l'incontro con i bravi, il colloquio con Renzo, il "matrimonio a sorpresa", il viaggio in compagnia dell'innominato...). Pagina 1 AGNESE È la madre di Lucia, un'anziana vedova che vive con l'unica figlia in una casa posta in fondo al paese: di lei non c'è una descrizione fisica, ma è presentata come una donna avanti negli anni, molto attaccata a Lucia per quale "si sarebbe... buttata nel fuoco", così come è sinceramente affezionata a Renzo che considera quasi come un secondo figlio. Viene introdotta alla fine del cap. II, quando Renzo informa Lucia del fatto che le nozze sono andate a monte, e in seguito viene descritta come una donna alquanto energica, dalla pronta risposta salace e alquanto incline al pettegolezzo (in questo non molto diversa da Perpetua). Rispetto a Lucia dimostra più spirito d'iniziativa, poiché è lei a consigliare a Renzo di rivolgersi all'Azzecca-garbugli (III), poi propone lo stratagemma del "matrimonio a sorpresa" (VI) e in seguito invita don Abbondio e Perpetua a rifugiarsi nel castello dell'innominato per sfuggire ai lanzichenecchi (XXIX). È piuttosto economa e alquanto attaccata al denaro, se non proprio avara, come si vede quando rimprovera Lucia di aver dato troppe noci a fra Galdino (III) e nella cura che dimostra nel custodire il denaro avuto in dono dall'innominato. A differenza dei due promessi sposi non si ammala di peste (ci viene detto nel cap. XXXVII) e, dopo il matrimonio, si trasferisce con Renzo e Lucia nel Bergamasco, dove vive con loro ancora vari anni. Del defunto marito e padre di Lucia non viene mai fatta parola e, curiosamente, il fatto che Agnese sia vedova viene menzionato solo nel cap. XXXVII, quando la donna torna al paese e trova la casa quasi intatta dopo il periodo della peste (il narratore osserva che "questa volta, trattandosi d’una povera vedova e d’una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli"). CONTE ATTILIO È un aristocratico cugino di don Rodrigo, che risiede abitualmente a Milano e che, nei capitoli iniziali del romanzo, trascorre un periodo di villeggiatura ospite nel palazzo del signorotto: viene descritto come un nobile ozioso, che vive di rendita come il cugino e che si diverte a passare il tempo tra scherzi, sciocche dispute cavalleresche e comportamenti frivoli. Di lui si parla già nel cap. III, quando Lucia racconta di averlo visto insieme a don Rodrigo allorché quest'ultimo l'ha importunata per strada e di averlo sentito ridere insieme al cugino parlando di una scommessa (dunque il signorotto ha scommesso con lui che riuscirà a sedurre la giovane popolana e apprenderemo in seguito, nel cap. VII, che il termine fissato è il giorno di Pagina 2 S. Martino, l'11 novembre). Compare direttamente per la prima volta nel cap. V, quando padre Cristoforo va al palazzo di don Rodrigo per parlargli e lo trova a tavola con i suoi commensali, fra cui appunto il cugino: questi chiama subito a gran voce il frate quando il religioso si affaccia timidamente alla porta della sala, obbligando Rodrigo ad accoglierlo benché ne avrebbe fatto volentieri a meno, e Cristoforo verrà poi trascinato nell'insulsa disputa cavalleresca che oppone Attilio al podestà di Lecco, riguardante una sfida a duello. Il cappuccino risponderà che per lui non dovrebbero mai esservi sfide o duelli, al che il conte ribatterà che un mondo senza il "punto d'onore" sarebbe inimmaginabile (nonostante la sua frivolezza, infatti, Attilio si mostra molto attaccato ai suoi privilegi nobiliari e particolarmente geloso dell'onore della propria famiglia). È lui a rivolgersi al conte zio, importante uomo politico milanese, affinché faccia allontanare padre Cristoforo da Pescarenico, facendo leva proprio sul concetto di "onore" che è minacciato dal frate e fornendo ovviamente allo zio una versione addomesticata della vicenda che coinvolge Rodrigo e Lucia. La sua morte per la peste viene menzionata all'inizio del cap. XXXIII, quando si dice che don Rodrigo ha pronunciato un bizzarro elogio funebre in onore del cugino durante una cena con amici a Milano. PADRE CRISTFORO È uno dei frati cappuccini del convento di Pescarenico, padre confessore di Lucia e impegnato ad aiutare i due promessi contro i soprusi di don Rodrigo, non sempre con successo: è descritto come un uomo di circa sessant'anni, con una lunga barba bianca e un aspetto che reca i segni dell'astinenza e delle privazioni monastiche, anche se conserva qualcosa della passata dignità e fierezza. Viene introdotto nel cap. III, quando Lucia spiega di avergli raccontato in confessione delle molestie di don Rodrigo, e in seguito la giovane chiederà a fra Galdino di avvertire il padre di raggiungere lei e la madre prima possibile. Il personaggio compare direttamente nel cap. IV, attraverso un lungo flashback che racconta la vita precedente di Cristoforo e le circostanze che lo indussero a farsi frate: si chiamava Lodovico ed era figlio di un ricco mercante ritiratosi dagli affari, che viveva come un nobile e aveva allevato il figlio con modi signorili (il cognome del personaggio e la città non sono menzionati dall'anonimo, secondo la finzione dell'autore). Il giovane Lodovico, non accettato dagli aristocratici della sua città, era in cattivi rapporti con loro e a poco a poco era divenuto un difensore di deboli e oppressi, circondandosi di sgherri e bravacci coi quali compiva talvolta azioni inclini alla violenza. In seguito a un duello nato per futili motivi cavallereschi con un nobile noto per la sua prepotenza, Lodovico aveva ucciso il suo avversario ed era rimasto ferito egli stesso (nello scontro era morto un suo fedele servitore di nome Cristoforo); portato dalla folla in un convento di cappuccini per salvarlo dalla giustizia e dalla vendetta dei parenti del morto, Lodovico aveva maturato la Pagina 3 decisione di farsi frate e aveva poi chiesto perdono al fratello dell'ucciso, scegliendo come nome quello di Cristoforo per espiare la morte del servitore da lui indirettamente provocata (il nome significa, etimologicamente, "portatore di Cristo"). Tutto questo spiega il fatto che fra Cristoforo conservi qualcosa dell'antico orgoglio nobiliare, nonché la sua abitudine a trattare coi potenti e l'indubbio prestigio che gode fra la gente del paese e delle terre vicine a Pescarenico; il rimorso che prova ancora per l'omicidio commesso lo induce a respingere ogni ipotesi di violenza e a rimproverare aspramente Renzo, ogni qual volta il giovane manifesta propositi vendicativi nei confronti di don Rodrigo. È dunque con la carità e la fiducia nella Provvidenza che padre Cristoforo tenta di aiutare i due promessi: affronta don Rodrigo nel suo palazzo (V-VI) e tenta dapprima di farlo recedere dai suoi piani con parole diplomatiche, quindi lo attacca con empito oratorio accusandolo delle sue malefatte (il signorotto arriva a proporre che Lucia venga a palazzo e si metta sotto la sua "protezione"). In seguito, dopo la "notte degli imbrogli" e il fallito tentativo da parte di Rodrigo di rapire Lucia (VIII), consiglia ai due promessi di lasciare il paese e indirizza Renzo a Milano, dove dovrà rivolgersi a un suo confratello del convento di Porta Orientale, mentre Agnese e Lucia andranno a Monza e verranno accolte nel convento dove vive Gertrude, a cui sono presentate da un altro padre cappuccino. Entrambi andranno incontro a varie vicissitudini, in quanto Renzo verrà coinvolto nei tumulti del giorno di S. Martino e dovrà fuggire nel Bergamasco (XII ss.), mentre Lucia sarà rapita dai bravi dell'innominato grazie proprio alla complicità di Gertrude, amante di Egidio (XX). Nel frattempo don Rodrigo ottiene, grazie all'intervento del conte zio, che Cristoforo sia trasferito a Rimini, dove il frate si recherà in ossequio al voto di obbedienza, e da qui si porterà a Milano dopo lo scoppio della peste, per accudire gli ammalati nel lazzaretto: in questo luogo di sofferenza ritroverà Renzo che è in cerca di Lucia (XXXV ss.) e alla fine scioglierà il voto di castità che Lucia aveva pronunciato la notte in cui era prigioniera al castello dell'innominato. La notizia della sua morte a causa della peste verrà data a Lucia dagli altri cappuccini del lazzaretto (XXXVII). Curiosamente, nel Fermo e Lucia era dapprima indicato col nome di padre Galdino (I, 3-4), poi il nome mutava in Cristoforo da Cremona (I, 4) e ciò avvalora l'ipotesi in base alla quale Manzoni si sarebbe ispirato alla figura storica di Cristoforo Picenardi, padre cappuccino originario di Cremona e vissuto agli inizi del XVII secolo, dalla giovinezza alquanto turbolenta (come il Lodovico manzoniano) e che prestò la sua opera di assistenza ai malati nel lazzaretto di Milano, dove morì anch'egli di peste. Il nome di Galdino nella redazione definitiva sarà invece attribuito al laico cercatore delle noci, che nel Fermo si chiamava fra Canziano (e compariva in quell'unico episodio). Pagina 4 L’INNOMINATO È il potente bandito cui si rivolge don Rodrigo perché faccia rapire Lucia dal convento di Monza in cui è rifugiata, cosa che l'uomo ottiene grazie all'aiuto di Egidio, suo complice e amante della monaca Gertrude: in seguito a una crisi di coscienza e all'incontro decisivo col cardinal Borromeo giunge a un clamoroso pentimento, decidendo così di liberare la ragazza prigioniera nel suo castello e di mandare a monte i piani del signorotto, che dovrà successivamente lasciare il paese e andare a Milano. L'autore non fa mai il suo nome e infatti lo indica sempre col termine "innominato", dichiarando di non aver trovato documenti dell'epoca che lo citino in maniera esplicita, tuttavia la sua figura è chiaramente ispirata al personaggio storico di Francesco Bernardino Visconti, noto bandito vissuto tra XVI e XVII secolo e passato alla storia per la sua vita turbolenta e criminosa, salvo poi convertirsi ad opera proprio del cardinal Federigo. Manzoni conferma tale identificazione in una lettera a Cesare Cantù, dove allude al feudatario di Brignano Ghiaradadda come al personaggio del romanzo (in esso finzione e realtà sono abilmente mescolati, tratto comune a tutte le figure storiche che appaiono nelle vicende). Viene introdotto a partire dal cap. XVIII, quando don Rodrigo accarezza l'idea di rivolgersi a lui per tentare il rapimento di Lucia dal convento della "Signora" (obiettivo troppo al di fuori della sua portata), mentre la sua storia passata e un dettagliato ritratto del personaggio vengono riportati dall'autore nella seconda parte del cap. XIX, quando il signorotto parte alla volta del suo castello. Come personaggio vero e proprio entra in scena nel cap. XX, allorché accetta da don Rodrigo l'incarico di far rapire Lucia, anche se ci viene mostrato già preda di rimorsi e rimpianti sulla sua vita scellerata che preludono al pentimento e alla conversione dei capp. seguenti. Viene descritto come un uomo di alta statura, bruno, calvo, con pochi capelli ormai bianchi e il volto rugoso che dimostra più dei suoi sessant'anni, anche se il suo contegno e l'atteggiamento risoluto testimoniano una vigoria fisica e un'energia che sarebbero straordinari in un giovane. L'autore lo presenta come un bandito feroce e spietato, che accetta incarichi sanguinosi da mandanti anche prestigiosi e che per questo è circondato da una fama sinistra che incute terrore in tutti quelli che hanno a che fare con lui: i vari signori e tirannelli locali che vivono nel territorio che controlla (una zona a cavallo del confine tra Milanese e Bergamasco, dove è situato il suo castello e dove vive circondato da bravi) devono scendere a patti con l'innominato e diventare suoi amici, dal momento che i pochi che hanno cercato di opporsi sono stati uccisi o costretti ad andarsene. Spesso l'uomo accetta di aiutare degli oppressi vittime delle prepotenze dei nobili, il che lo rende esecutore di quella giustizia che lo Stato corrotto e inefficiente non è in grado di assicurare ai deboli; la sua figura acquista dunque una sorta di imponenza tragica e di grandiosa Pagina 5 malvagità che lo rendono uno dei personaggi più interessanti del romanzo, specie se accostato a don Rodrigo che, al suo confronto, appare come un individuo ben più modesto e mediocre, anche perché l'innominato si compiace della sua reputazione famigerata e si propone come un nemico pubblico delle leggi e di ogni autorità costituita, mentre il signorotto ricerca continuamente l'appoggio della giustizia e degli amici potenti, mostrando in più di un caso il timore delle conseguenze delle sue malefatte (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo). L'intervento dell'innominato nelle vicende del romanzo è del resto decisivo, poiché con la liberazione di Lucia i disegni di don Rodrigo vanno a monte e il bene inizia a prevalere sul male, mentre la sua clamorosa conversione diventa un esempio della misericordia divina che è anche tra le pagine più celebri del romanzo, nonché una vicenda umana di caduta e redenzione simile a quella di altri personaggi manzoniani, soprattutto padre Cristoforo (convertitosi anch'egli dopo essersi macchiato di un omicidio e dopo una giovinezza inquieta in parte simile a quella del bandito). In seguito alla conversione l'innominato tiene con sé solo i bravi che accettano la sua nuova vita, mentre egli va in giro senz'armi e si propone come un difensore di deboli e oppressi, non però con i metodi della violenza usati in passato; gli antichi nemici rinunciano a vendicare i torti subìti per rispetto e perché ancora intimoriti da lui, mentre la pubblica autorità non prende nei suoi riguardi alcun provvedimento, specie perché le sue parentele altolocate ora gli valgono una protezione prima solo accennata. Egli mantiene una corrispondenza col cardinal Borromeo, l'artefice in qualche modo del suo ravvedimento, e fa avere per il suo tramite cento scudi d'oro ad Agnese come risarcimento per il male fatto alla figlia, che la donna accetta e di cui manda la metà a Renzo che nel frattempo si è nascosto nel Bergamasco; in occasione poi della calata dei lanzichenecchi (capp. XXIX-XXX) il suo castello offre un sicuro rifugio alle popolazioni che hanno dovuto lasciare le loro case per evitare i saccheggi, tra cui anche don Abbondio, Perpetua e Agnese, che si trattengono presso di lui poco meno di un mese. In seguito non viene più nominato e ignoriamo dunque in quali circostanze sia avvenuta la sua morte. Il personaggio era protagonista già del Fermo e Lucia, in cui però era chiamato Conte del Sagrato e dove la sua storia si arricchiva di particolari macabri come quello, celebre, dell'omicidio di un uomo sul sagrato di una chiesa (fatto che dava ragione del suo nome, cfr. il testo): il suo colloquio con don Rodrigo era descritto in modo stucchevole e con molti termini spagnoleggianti usati dal signorotto (cfr. il brano Il Conte del Sagrato e don Rodrigo), mentre nei Promessi sposi il colloquio tra i due è riassunto in un sintetico discorso indiretto, inoltre durante la descrizione del suo pentimento e del suo tormento interiore era inserito il ricordo di un incontro avvenuto, da adolescente, col giovane Federigo Borromeo, che risultava alquanto forzato e di sapore fin troppo "agiografico" (infatti esso è stato eliminato dalla versione definitiva del romanzo). Nella prima redazione, inoltre, la sua morte per la peste veniva ricordata nel capitolo conclusivo del romanzo, mentre nelle successive edizioni non se ne fa cenno (cfr. il brano Il finale della storia). Pagina 6 LUCIA MONDELLA È la protagonista femminile della vicenda, la promessa sposa di Renzo che subisce le molestie di don Rodrigo e le cui nozze vengono impedite dal signorotto: compare per la prima volta alla fine del cap. II, quando Renzo la raggiunge e la informa del mancato matrimonio, dopo aver costretto don Abbondio a parlare circa le minacce ricevute dai bravi. È una giovane di circa vent'anni, unica figlia di una vedova (Agnese) con la quale vive in una casa posta in fondo al paese: ha lunghi capelli bruni ed è dotata di una bellezza modesta, che non giustifica una passione morbosa da parte di don Rodrigo (il quale infatti ha deciso di sedurla per una sciocca scommessa col cugino Attilio) e che spiegherà la delusione dei nuovi compaesani quando i due sposi si trasferiranno nel Bergamasco, alla fine del romanzo. Viene descritta come una ragazza molto pia e devota, ma anche assai timida e pudica sino all'eccesso, tanto che si imbarazza e arrossisce nelle più diverse occasioni: passiva e alquanto priva di spirito di iniziativa, viene trascinata nel tentativo di "matrimonio a sorpresa" dalle minacce di Renzo, che promette in caso contrario di fare una pazzia; in seguito, quando si trova prigioniera nel castello dell'innominato, pronuncia il voto di castità che costituirà un grave ostacolo al ricongiungimento dei due promessi e che verrà sciolto alla fine del romanzo da padre Cristoforo. Quest'ultimo è il confessore di Lucia e la giovane ripone nel frate cappuccino una grande fiducia, tanto che inizialmente rivela solo a lui di essere stata importunata da don Rodrigo. Lucia è il personaggio che forse più di ogni altro ha fede nella Provvidenza divina e anche per questo sembra incapace di serbare ogni minimo rancore, persino nei confronti del suo odioso persecutore (è dunque un personaggio statico, a differenza di Renzo che compie un percorso di maturazione all'interno della vicenda). È anche il personaggio che interagisce con figure di potenti, quali Gertrude, l'innominato, il cardinal Borromeo, don Ferrante e donna Prassede. Il suo nome allude al candore della persona, nonché alla martire siracusana che preferì farsi accecare piuttosto che darsi alla prostituzione, così come il cognome (Mondella) rimanda alla sua purezza e castità. Curiosamente, nel Fermo e Lucia era dapprima indicata col nome di Lucia Zarella (I, 1), quando i bravi intimavano a don Abbondio di non celebrare le nozze, poi la giovane viene chiamata Mondella come nella redazione definitiva (II, 8). Pagina 7 PERPETUA È la domestica di don Abbondio, ovvero una donna di mezza età che, avendo passati i quarant'anni (età stabilita dai Sinodi come quella minima per vivere in casa di un sacerdote) ed essendo rimasta nubile, accudisce il curato alloggiando nella sua abitazione: il suo nome proprio è poi diventato, per antonomasia, il nome comune che sino agli anni Cinquanta del XX secolo ha designato la domestica del sacerdote. Compare nel cap. I, quando il curato torna a casa in seguito all'incontro coi bravi, ed è descritta come una donna decisa ed energica, alquanto incline al pettegolezzo (è il motivo per cui don Abbondio è inizialmente restio a rivelarle il ricatto subìto) e dalla battuta salace, per cui rimprovera spesso al curato la sua debolezza e viltà. Ha un carattere spigoloso e sfoga di frequente il suo malumore con il padrone, del quale subisce peraltro "il brontolìo e le fantasticaggini" e con cui ha comunque un rapporto basato su una sorta di ruvido affetto ricambiato (sicuramente è il personaggio che meglio conosce il carattere e l'indole di don Abbondio). È un personaggio di secondaria importanza, protagonista soprattutto di duetti comici con il curato, anche se ha un ruolo decisivo nella vicenda in quanto è lei a far capire a Renzo la verità sul matrimonio rimandato (II); la sua indole ciarliera verrà poi sfruttata da Agnese, che la distrarrà la notte del "matrimonio a sorpresa" (VIII) con chiacchiere riguardanti il fatto che è rimasta zitella. La sua morte a causa della peste è rivelata dal curato a Renzo (XXXIII). Curiosamente, nel Fermo e Lucia era inizialmente chiamata Vittoria (I, 1), per poi diventare Perpetua (I, 6) come nella versione definitiva. RENZO TRAMAGLINO È il protagonista maschile della vicenda, il promesso sposo di Lucia le cui nozze vengono mandate a monte da don Rodrigo: è descritto come un giovane di circa vent'anni, orfano di entrambi i genitori dall'adolescenza e il cui nome completo è Lorenzo. Esercita la professione di filatore di seta ed è un artigiano assai abile, cosicché il lavoro non gli manca nonostante le difficoltà del mercato (ciò anche grazie alla penuria di operai, emigrati in gran numero nel Veneto); possiede un piccolo podere che sfrutta e lavora egli stesso quando il filatoio è inattivo, per cui si trova in una condizione economica agiata pur non essendo ricco. Compare per la prima volta nel cap. II, quando si reca dal curato la mattina del Pagina 8 matrimonio per concertare le nozze: è presentato subito come un giovane onesto e di buona indole, ma piuttosto facile alla collera e impulsivo, con un'aria "di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti"; infatti porta sempre con sé un pugnale e se ne servirà indirettamente per minacciare don Abbondio e costringerlo a rivelare la verità sul conto di don Rodrigo. In seguito progetterà addirittura di assassinare il signorotto, ma abbandonerà subito questi pensieri delittuosi al pensiero di Lucia e dei principi religiosi (anche nel cap. XIII parlerà in difesa del vicario di provvisione, che i rivoltosi vogliono linciare). Il suo carattere irascibile e irruento gli causerà spesso dei guai, specie durante la sommossa a Milano il giorno di S. Martino quando, per ingenuità e leggerezza, verrà scambiato per uno dei capi della rivolta e sfuggirà per miracolo all'arresto; dimostra comunque in più di una circostanza un notevole coraggio, sia durante i disordini citati della sommossa (in cui si adopera per aiutare Ferrer a condurre via il vicario), sia quando torna nel ducato di Milano nonostante la cattura, al tempo della peste (a Milano si introduce nel lazzaretto e in seguito si fingerà un monatto, cosa che gli consentirà di trovare Lucia). È semi-analfabeta, in quanto sa leggere con difficoltà ma è incapace di scrivere, cosa che gli impedirà di diventare factotum alla fabbrica del Bergamasco dove trova lavoro dopo la sua fuga dal Milanese (anche per questo conserva una certa diffidenza per la parola scritta, specie per le gride che non gli hanno minimamente assicurato la giustizia). Rispetto a Lucia si può considerare un personaggio dinamico, in quanto le vicende del romanzo costituiscono per lui un percorso di "formazione" al termine del quale sarà più saggio e maturo (è lui stesso a trarre questa morale nelle pagine conclusive dell'opera). Nel Fermo e Lucia il suo personaggio aveva il nome di Fermo Spolino, mentre il nome Lorenzo era attribuito al sagrestano di don Abbondio, poi chiamato Ambrogio. DON RODRIGO È il signorotto del paese di Renzo e Lucia, un aristocratico che vive di rendita e abita in un palazzotto situato a metà strada tra il paese stesso e Pescarenico: personaggio malvagio del romanzo, si incapriccia di Lucia e decide di sedurla in seguito a una scommessa fatta col cugino Attilio, per poi intestardirsi in questo infame proposito al fine di non sfigurare di fronte agli amici nobili e, quindi, per ragioni di puntiglio cavalleresco. A questo scopo manda due bravi a minacciare il curato don Abbondio perché non celebri il matrimonio fra i due promessi (cap. I), e in seguito tenta senza successo di far rapire la ragazza dalla sua casa (VIII); si rivolgerà poi all'innominato per ritentare l'impresa quando la giovane è protetta nel convento di Gertrude, a Monza, ma l'inattesa conversione del bandito manderà a monte i suoi progetti criminosi (XX ss.). Riesce a far allontanare Pagina 9 padre Cristoforo da Pescarenico tramite l'intervento del conte zio, che esercita indebite pressioni politiche sul padre provinciale dei cappuccini, e in seguito allo scandalo suscitato dalla conversione dell'innominato lascia il paese per trasferirsi a Milano, dove si ammala di peste e viene ricoverato al lazzaretto. Qui morirà, lasciandoci nel dubbio se si sia ravveduto o meno dei peccati commessi (ottiene comunque il perdono di Renzo, cui il nobile agonizzante viene mostrato da padre Cristoforo). Viene presentato come un uomo relativamente giovane, con meno di quarant'anni (ci viene detto nel cap. VI, quando è presentato il servitore che informerà padre Cristoforo del progettato rapimento di Lucia) e di lui non c'è una vera e propria descrizione fisica; appartiene a una famiglia di antico blasone, come dimostra l'appartenenza ad essa del conte zio, membro del Consiglio Segreto e politico influente, anche se il nome del casato non viene mai fatto. Non sappiamo molto del suo passato, salvo il fatto che il padre era uomo di tempra ben diversa e Rodrigo, rimasto erede del suo patrimonio, si è dimostrato figlio degenere. Alla fine della vicenda verrà introdotto il suo erede, un marchese che entra in possesso di tutti i suoi beni e che, su suggerimento di don Abbondio, acquisterà le terre di Renzo e Agnese a un prezzo molto alto, per risarcirli dei danni subìti e consentir loro di trasferirsi nel Bergamasco; in seguito fa anche in modo che la cattura che pesa su Renzo venga annullata, dimostrando quindi di essere un galantuomo ben diverso dal suo defunto parente. Don Rodrigo è ovviamente un malvagio, ma mediocre e di mezza tacca, come più volte è evidenziato nel romanzo: la sua persecuzione ai danni di Lucia non nasce da un'ossessione amorosa, ma è più un atto di prepotenza sessuale di un nobile su una povera contadina, oltretutto a causa di una sciocca scommessa fatta col cugino; egli è il rappresentante di quella aristocrazia oziosa e improduttiva che Manzoni critica spesso e che esercita soprusi sui deboli più per passatempo che per crudeltà gratuita. Compare per la prima volta direttamente solo nel cap. V, dopo che il suo nome è stato più volte evocato e sempre associato a un'aura di terrore, mentre alla sua apparizione il personaggio risulterà assai deludente. Don Rodrigo si mostra timoroso della giustizia e delle leggi, il che lo porta a cercare l'appoggio e la complicità di importanti magistrati come il podestà di Lecco, o di legali come il dottor Azzecca-garbugli, mentre nutre un sincero terrore per tutto ciò che riguarda la religione e l'aldilà, come è evidente nel colloquio con padre Cristoforo nel cap. VI (la frase "Verrà un giorno..." pronunciata dal cappuccino col dito puntato scatena la sua ira e tale gesto ricorrerà nel sogno del cap. XXXIII, quando il nobile si scoprirà ammalato di peste). La piccolezza morale del personaggio è sottolineata nella scena del cap. XI, quando il signorotto attende con impazienza il ritorno dei bravi inviati a rapire Lucia e pensa tra sé alle possibili conseguenze di quell'atto scellerato (soprattutto, pensa alla protezione che l'amico podestà e il nome della famiglia potranno assicurargli) e la sua grettezza emergerà poi nel confronto con l'innominato, personaggio che dimostra una notevole statura morale tanto nella malvagità quanto nel successivo ravvedimento (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo uomo senza originalità e grandezza). Nel Fermo e Lucia la fine del personaggio era decisamente diversa, poiché Rodrigo (moribondo per la peste e in preda al delirio) balzava su un cavallo dopo aver visto Lucia e lo spronava al galoppo, cadendo rovinosamente e morendo Pagina 10 così sicuramente in disgrazia (nei Promessi Sposi, invece, la notizia della sua morte giunge al paese solo nel cap. XXXVIII; si veda il brano La morte di don Rodrigo). GLI ANTAGONISTI AZZECCA-GARBUGLI È un avvocato che vive a Lecco ed è intimo amico di don Rodrigo, nonché suo compagno di bagordi e complice delle sue prepotenze a cui trova spesso delle scappatoie legali: è un personaggio secondario ed è descritto come un uomo alto, magro, con la testa pelata, il naso rosso (ciò è dovuto probabilmente al vizio del bere) e una voglia di lampone sulla guancia. Viene introdotto nel cap. III, quando Agnese consiglia a Renzo di recarsi da lui per chiedere un parere legale circa il sopruso subìto da parte di don Rodrigo, che ha minacciato don Abbondio perché non celebrasse il matrimonio: la donna spiega al giovane che quello di "Azzecca-garbugli" è un soprannome (allude alla presunta capacità di sbrogliare le questioni giudiziarie), mentre il vero nome dell'avvocato non viene mai fatto. Renzo si reca nel suo studio, descritto come un luogo decadente che ispira un'impressione di trascuratezza, ed espone il suo caso, ma l'avvocato cade in un grossolano equivoco e scambia Renzo per un bravo, spiegandogli poi come farà a tirarlo fuori dai guai (ovvero subornando testimoni, minacciando le vittime e invocando la protezione dei potenti); in questa occasione viene citata la grida datata 15 ottobre 1627 in cui sono previste pene per chi minaccia un curato, documento che diede a Manzoni l'idea base per il romanzo. Quando Renzo fa il nome di don Rodrigo, l'avvocato va su tutte le furie e caccia via malamente il giovane, restituendogli i capponi che aveva portato in dono e non volendo sentire ragioni. Renzo definirà poi il legale "signor dottor delle cause perse" (cap. V), espressione divenuta in certo modo proverbiale a indicare un avvocaticchio di scarso valore. Il personaggio ricompare nello stesso cap. V, fra i commensali che siedono alla tavola di don Rodrigo nel suo palazzo, quando il padre Cristoforo si reca lì per parlare al signorotto: l'avvocato è piuttosto brillo, col naso più rosso del solito, e indossa il mantello nero che portavano gli uomini di legge; si schermisce in modo goffo quando è chiamato in causa nella sciocca disputa cavalleresca che oppone il conte Attilio e il podestà, e in seguito si produce in un brindisi alquanto scomposto, elogiando la bontà del vino e la magnificenza del padrone di casa in tempi di carestia. Nel cap. XI don Rodrigo medita di rivolgersi all'Azzecca-garbugli per fare accusare Renzo di qualche reato, onde evitare che il giovane possa tornare dopo la fuga dal paese, mentre nel cap. XXV, dopo la conversione dell'innominato e il fallimento dei piani di don Rodrigo, la gente del paese inizia ad Pagina 11 additare l'avvocato e altri "cortigianelli suoi pari" come complici del signorotto, per cui il dottore evita in seguito di uscire per un po'. La sua morte viene menzionata nel cap. XXXVIII, col dire che la sua spoglia "era ed è tuttavia a Canterelli", ovvero un cimitero vicino Lecco dove erano sepolte molte vittime della peste. L'avvocato è presentato come un personaggio buffo e sgraziato, quasi un carattere da commedia (e infatti il suo colloquio con Renzo nel cap. III è una sorta di "commedia degli equivoci"), che rappresenta il decadimento e il degrado della giustizia nel XVII secolo; è anche l'esempio di un vile cortigiano e di un parassita che sfrutta don Rodrigo, mettendosi al servizio dei suoi propositi delittuosi. I BRAVI Erano gli sgherri che nel XVII secolo si mettevano al servizio di qualche signorotto locale, di cui formavano una soldataglia pronta a fargli da guardia del corpo ma anche ad aiutarlo nei suoi soprusi ai danni dei più deboli: il nome deriva dal lat. pravus (malvagio), di cui resta traccia in espressioni quali "compiere una bravata", trascorrere una "notte brava" e simili. Compaiono per la prima volta nel cap. I, nella persona dei due figuri che, su incarico di don Rodrigo, minacciano don Abbondio perché non celebri il matrimonio tra Renzo e Lucia: l'autore li descrive con un abbigliamento particolare che li rende immediatamente riconoscibili, dal momento che portano i capelli raccolti in una reticella verde intorno al capo, hanno lunghi baffi arricciati e un ciuffo che ricade sul volto, sono armati di pistole e di spade. Manzoni cita varie gride dell'epoca in cui i governatori dello Stato di Milano intimavano ai bravi di cessare dalle loro scorrerie, tuttavia queste leggi restavano inapplicate poiché tali individui godevano dell'appoggio di signori potenti, che a loro volta contavano sull'inefficienza della giustizia e sulla connivenza dei pubblici funzionari, per cui i bravi agivano nella totale impunità. Nel cap. III l'autore spiega inoltre che i bravi portavano il ciuffo come segno di riconoscimento e anche per coprire il volto durante le azioni delittuose, ragion per cui varie gride minacciavano pene severe a chi avesse portato i capelli in quella maniera, nonché ai barbieri che li avessero tagliati così ai loro clienti (Renzo dice all'Azzecca-garbugli di non aver mai portato il ciuffo in vita sua, cioè di non essere mai stato un bravo). I bravi nel romanzo sono anzitutto gli sgherri al servizio di don Rodrigo, capeggiati dal Griso: due di loro minacciano don Abbondio all'inizio, altri accolgono padre Cristoforo quando si reca al palazzo del loro padrone (V), altri ancora sono in paese la notte del "matrimonio a sorpresa" (VII) e poi partecipano al tentato rapimento di Lucia (VIII). Il mattino seguente alla "notte degli imbrogli" due bravi sono mandati dal Griso a minacciare il console del paese e l'autore lascia Pagina 12 intendere che potrebbero essere gli stessi che, giorni prima, hanno intimidito don Abbondio. Alcuni di loro vengono nominati, come il Grignapoco che partecipa alla spedizione notturna e lo Sfregiato e il Tiradritto che dovranno accompagnare il Griso a Monza (XI), mentre quando don Rodrigo si reca al castello dell'innominato (XX) lo accompagnano quattro sgherri tra cui il Tiradritto, il Montanarolo, il Tanabuso e lo Squinternotto (si tratta evidentemente di nomi di battaglia, su cui il Manzoni ironizza definendoli "bei nomi, da serbarceli con tanta cura"). Nel cap. XXXIII il signorotto invoca l'aiuto di Biondino e Carlotto, due bravi che il Griso ha allontanato con falsi ordini per consegnare il padrone ammalato di peste ai monatti. Anche Lodovico in gioventù, prima di convertirsi e diventare fra Cristoforo, si circonda di bravacci nel tentativo di farsi difensore dei deboli e degli oppressi, e questi prendono parte alla rissa (IV) durante la quale viene ucciso il servitore di Lodovico e quest'ultimo uccide il signore che l'aveva provocato. Un piccolo esercito di bravi, capeggiati dal Nibbio, circonda infine l'innominato, il quale affida al suo luogotenente e a due suoi uomini l'infame incarico di rapire Lucia (XX): alcuni di loro restano col padrone dopo la sua clamorosa conversione e contribuiscono a difendere il castello durante la calata dei lanzichenecchi (XXX), mentre la gran parte degli altri lasciano la sua dimora e si accasano presso altri padroni. EGIDIO È il giovane scapestrato che vive a Monza in una casa attigua al convento di Gertrude, dedito a varie azioni criminali grazie anche all'appoggio di amici potenti e che intreccia con la monaca una torbida relazione clandestina: viene introdotto nel cap. X, quando vede la giovane suora che passeggia in un cortile interno del chiostro e, allettato anziché intimorito dalla malvagità dell'impresa, ha il coraggio di rivolgerle il discorso. In seguito l'autore ci fa capire, in termini molto reticenti, che i due uccidono una conversa che aveva scoperto la tresca amorosa e ne seppelliscono il corpo nel convento facendo credere che sia fuggita attraverso una breccia nel muro dell'orto (il fatto era narrato con maggiori particolari, anche macabri, nel Fermo e Lucia: cfr. i brani Geltrude ed Egidio, L'uccisione della suora). Nel cap. XX apprendiamo che Egidio è compagno di scelleratezze dell'innominato, che si rivolge a lui per sapere come realizzare il rapimento di Lucia dopo che ha ricevuto l'infame incarico da don Rodrigo: il giovinastro chiede a Gertrude di fare uscire con un pretesto la giovane dal monastero e la monaca, pur riluttante e inorridita da tale richiesta, accetta di compiacerlo. Un suo sgherro segue Lucia dalla casa del suo padrone, dopo che la giovane è uscita dal monastero, precedendola sulla via dove poi finge di Pagina 13 chiederle la strada per Monza per consentire ai bravi dell'innominato di rapirla. In seguito Egidio non viene più nominato, neppure quando (nel cap. XXVII) la mercantessa spiega a Lucia che i delitti di Gertrude sono stati scoperti e che la monaca è stata imprigionata. La sua figura è chiaramente ispirata a quella di Gian Paolo Osio (m. nel 1608), giovane scellerato e assassino che ebbe una relazione con suor Virginia Maria de Leyva (la Gertrude del romanzo) e dalla quale ebbe due figli, prima di farla complice di alcuni delitti: venne condannato a morte e riuscì a sfuggire alla giustizia, per poi finire ucciso in casa di un amico in circostanze poco chiare. Nel romanzo ha un ruolo chiave ma poco sviluppato dal punto di vista narrativo, dal momento che non pronuncia direttamente neppure una battuta e i suoi dialoghi con Gertrude vengono sommariamente riassunti dall'autore, in coerenza col principio di evitare una rappresentazione troppo viva e realistica delle vicende scabrose; non così era nel Fermo e Lucia, in cui la relazione tra lui e la monaca veniva descritta con più ampi dettagli (anche riproducendo i dialoghi dei due amanti) e la tresca vedeva coinvolte anche altre due suore descritte come complici della relazione, nonché dell'assassinio di una terza suora che aveva scoperto il segreto e minacciava di rivelarlo (il delitto veniva materialmente compiuto da una delle due, su ispirazione di Egidio). In seguito Egidio convinceva Gertrude a far cadere Lucia nella trappola, promettendo di sbarazzarsi del cadavere della donna uccisa che lui aveva seppellito in una cantina della sua casa, cosa che turbava oltremodo la "Signora" (il tutto era narrato con uno stile molto vicino al romanzo "nero" e d'appendice diffuso nella letteratura europea del primo Ottocento). AMBROGIO FUSELLA (il poliziotto travestito) È un poliziotto travestito da popolano che si mescola alla folla dei rivoltosi durante il tumulto di S. Martino a Milano: compare nel cap. XIV e la sua attenzione è attirata da Renzo il quale, eccitato dagli avvenimenti della giornata (il giovane ha assistito all'assalto al forno delle Grucce e alla casa del vicario di Provvisione, tratto in salvo da Ferrer) arringa la folla con un improvvisato discorso in cui invoca g i u s t i z i a c o n t ro t u t t i i s i g n o r i prepotenti. Il poliziotto lo prende per uno dei capi della rivolta e in seguito lo avvicina, proponendo di guidarlo a un'osteria dove farlo alloggiare: Renzo cade ingenuamente nella trappola e lo segue, senza sospettare che lo sbirro vorrebbe addirittura condurlo "caldo caldo alle carceri" (l'autore preciserà l'identità e le reali intenzioni dell'uomo Pagina 14 nel cap. XV, benché molti indizi ne svelino le intenzioni già in precedenza). Renzo entra poi nell'osteria della Luna Piena, essendo troppo stanco per proseguire, e il poliziotto è costretto a seguirlo nella locanda il cui oste lo conosce bene e si lamenta tra sé di averlo tra i piedi in quella giornata tumultuosa. In seguito Renzo mostrerà ingenuamente al suo compagno e agli altri avventori dell'osteria l'ultimo dei pani raccolti a terra al suo ingresso a Milano (XI), affermando di averlo trovato e dicendosi pronto a pagarlo al proprietario, cosa che fa molto ridere la brigata (agli occhi del poliziotto è un'ammissione del fatto che Renzo abbia preso parte all'assalto dei forni). Lo sbirro dice all'oste che Renzo intende fermarsi a dormire e questo è un segnale al padrone del locale, il quale si affretta a chiedere al giovane il nome e il luogo di provenienza: Renzo protesta vivacemente e l'oste gli mostra una copia della grida che impone agli osti di chiedere tali informazioni, suscitando le rimostranze del giovane che ha bevuto molti bicchieri di vino e a cui l'alcool comincia a dare alla testa. Il poliziotto suggerisce all'oste di non insistere oltre per non insospettire Renzo, quindi riesce a estorcergli il nome con un astuto strategemma: propone di dare a ciascuno il giusto quantitativo di pane tramite un biglietto con scritto il nome, la professione e i familiari a carico, dicendo di chiarmarsi Ambrogio Fusella e di svolgere il mestiere di spadaio (si tratta con tutta evidenza di un nome falso); Renzo cade nell'inganno e dice di chiamarsi Lorenzo Tramaglino, dando quindi al poliziotto ciò che gli serve per spiccare in seguito un mandato di arresto nei suoi confronti. A questo punto il sedicente spadaio è soddisfatto e tronca in fretta la discussione con Renzo, affrettandosi ad alzarsi e a uscire dall'osteria, incurante del giovane che vorrebbe trattenerlo per bere un altro bicchiere di vino. Il personaggio è protagonista di un episodio in cui viene mostrata la condotta subdola e assolutamente sleale degli uomini di legge, i quali non sono interessati a svolgere indagini per stabilire la verità, ma solo a trovare dei capri espiatori della rivolta per assicurarli alla giustizia e infliggere punizioni esemplari come deterrente per il popolo (Renzo è giudicato un capo della sommossa in quanto ha fatto un discorso in piazza, il che è sufficiente per ordinare il suo arresto anche in mancanza di prove certe). Ciò è parte della polemica contro l'inefficienza della giustizia che attraversa il romanzo e che avrà ulteriori risvolti nella vicenda degli untori cui l'autore accenna nel cap. XXXII, ripresa nella Storia della colonna infame posta in appendice al libro. IL GRISO È il capo dei bravi di don Rodrigo, al quale il signorotto affida incarichi delicati e commissiona imprese rischiose, come quella di rapire Lucia nella prima parte del romanzo: entra in scena nel cap. VII, quando si intrufola in casa di Lucia e Agnese travestito da mendicante per guardare in giro e curiosare, senza che venga svelata la sua identità (in seguito l'autore spiegherà con un flashback che l'uomo ha effettuato il "sopralluogo" in vista del tentativo di rapimento che si svolgerà la sera stessa). Di lui non c'è una precisa descrizione fisica e Pagina 15 del suo passato ci viene spiegato che, dopo aver assassinato un uomo in pieno giorno, si era messo sotto la protezione di don Rodrigo e aveva guadagnato l'impunità grazie alle aderenze del nobile, per cui è diventato l'esecutore di tutte le malefatte che gli vengono commissionate ("Griso" è certamente un soprannome e in dialetto lombardo significa "grigio", con probabile allusione al carattere sinistro e tetro del personaggio). Viene presentato come uno dei personaggi più odiosi del romanzo, pieno di untuoso servilismo nei confronti del suo padrone e di una certa sicumera che però, alla prova dei fatti, non sempre corrisponde alle sue reali capacità; infatti fallisce l'impresa di rapire Lucia la "notte degli imbrogli" (VIII) e in seguito torna dal padrone con la coda tra le zampe (XI), venendo rimproverato per non aver mantenuto quanto aveva promesso con tanta saccenteria. Reagisce con una certa titubanza all'ordine di don Rodrigo di recarsi a Monza per prendere informazioni circa il convento in cui Lucia si è rifugiata, adducendo il motivo di una taglia che pende sulla sua testa in quella città e attirandosi nuovi rimproveri del padrone, che lo definisce un "can da pagliaio" (con allusione al suo poco coraggio); il bravo compie comunque la sua missione e riferisce poi al nobile dettagli più precisi circa il rifugio di Lucia (XVIII), mentre più avanti accompagna il padrone al castello dell'innominato (XIX-XX). Si accorge infine che don Rodrigo è ammalato di peste (XXXIII) e promette di chiamare un medico per curarlo, mentre in realtà si accorda con i monatti per far portare il padrone al lazzaretto e approfittare della situazione per derubarlo: l'avidità lo spinge a prendere i vestiti di don Rodrigo e a scuoterli per vedere se c'è del denaro, cosa che fa ammalare anche lui di peste (il giorno dopo si sente male, è caricato dai monatti su un carro dopo essere stato derubato a sua volta e qui muore prima di arrivare al lazzaretto). Il modo assai sbrigativo con cui la sua figura esce di scena è indicativo della bassezza morale e della piccolezza del personaggio, alla cui fine l'autore dedica poche righe a metà del cap. XXXIII. I MONATTI Erano gli addetti che durante l'epidemia di peste a Milano nel 1630 avevano il compito di raccogliere i cadaveri dalle strade o dalle case e portarli alle fosse comuni, oppure di trasportare i malati al lazzaretto e di bruciare panni e cenci infetti: storicamente i monatti furono al servizio del Tribunale di Sanità e venivano reclutati fra uomini che non avevano molto da temere dal contagio, o perché già colpiti dal morbo e perciò immuni, o più spesso in quanto si trattava di criminali di pochi scrupoli, attratti dal salario e dalla prospettiva di arricchirsi depredando i morti e i malati. Vengono citati nel cap. XXXII dedicato alla peste e l'autore propone varie etimologie del loro nome, nessuna davvero convincente (dal greco monos, secondo la congettura del Ripamonti, dal latino monere, oppure come Pagina 16 storpiatura del tedesco monathlich, "mensuale", con allusione al fatto che essi venivano reclutati mese per mese); è più probabile che il termine derivi dal milanese monàt, "monaco", come alterazione del significato originario nel senso di "affossatore", "becchino" (la questione è tuttora aperta). A Milano i monatti indossavano vistosi abiti rossi che li rendevano immediatamente riconoscibili e portavano al piede un campanello che segnalava la loro presenza, essendo tra l'altro sottoposti al rigido controllo dei commissari di Sanità e dei nobili durante l'esercizio dei loro compiti. Tuttavia l'infuriare del contagio e il numero sempre crescente di malati e di morti accrebbe la loro importanza e, venendo meno chi potesse sorvegliarli, a un certo punto diventarono i padroni delle strade, approfittando del loro ruolo per arricchirsi senza scrupoli: l'autore ricorda che essi depredavano le case dei malati, estorcevano denaro ai sani per non condurli al lazzaretto, arrivavano al punto di diffondere ad arte il contagio per prolungare l'epidemia in quanto loro fonte di guadagno, circondandosi in tal modo di una fama atroce e sinistra. Coerente con tale presentazione è la loro prima diretta apparizione nel cap. XXXIII, quando due di loro vanno a casa di don Rodrigo ammalato di peste per derubarlo e portarlo al lazzaretto, d'accordo col Griso che lo ha tradito: vengono descritti come "due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate" e si dimostrano lesti a gettarsi sul nobile che ha afferrato una pistola e a disarmarlo; mentre uno lo tiene fermo, l'altro collabora col Griso a scassinare uno scrigno contenente del denaro, quindi i due monatti caricano don Rodrigo esanime su una barella e lo portano via di peso. Anche Renzo incontra varie figure di monatti quando attraversa la città sconvolta dalla peste, per recarsi a casa di don Ferrante dove spera di trovare Lucia (XXXIV): in una strada vede quattro grandi carri con i monatti che si affaccendano tutt'intorno, portando cadaveri fuori dalle case e caricandoli sui carri, alcuni con la divisa rossa e altri che indossano pennacchi multicolori come in segno di scherno nel lutto della pestilenza; poco oltre assiste al commovente episodio della madre di Cecilia, una bimba morta di peste che la donna consegna a un "turpe monatto" dandogli del denaro perché deponga il piccolo corpo nella fossa senza spogliarlo, cosa che l'uomo promette di fare colto da una singolare commozione; più avanti vede un gruppo di malati condotti al lazzaretto tra spinte e insulti e chiede a uno dei monatti indicazioni per raggiungere la casa di don Ferrante, sentendosi rispondere in malo modo. Quando ha finalmente raggiunto l'abitazione del gentiluomo viene scambiato per un untore e si salva dal furore della folla saltando su un carro di cadaveri, dove i monatti sono ben lieti di offrirgli protezione: gli dicono con ironia che sotto la loro tutela è sicuro come "in chiesa", quindi uno di loro afferra un cencio da uno dei cadaveri e fa il gesto di scagliarlo sulla folla, che si disperde in tutta fretta per l'orrore. In seguito i monatti sul carro si complimentano con Renzo che credono davvero un untore e al quale dicono, tra le risa di scherno, che fa bene a "ungere" la città: gli offrono da bere del vino da un fiasco (che il giovane rifiuta cortesemente) e uno dei monatti si rivolge in modo macabro e beffardo a uno dei cadaveri, che indica come il padrone del vino e al quale rivolge un grottesco brindisi; il fiasco passa poi di mano in mano, finché resta vuoto e uno dei figuri lo sfascia con un lancio sulla strada gridando "Viva la morìa!". Il carro prosegue il suo viaggio mentre i monatti intonano una canzonaccia, e quando raggiungono il lazzaretto Renzo è lesto a ringraziare i suoi salvatori e ad allontanarsi, mentre uno dei monatti lo chiama "povero untorello" e Pagina 17 osserva ironicamente che non sarà lui a spopolare Milano (ai loro occhi gli untori sono benemeriti, perché spargono il contagio che assicura loro il guadagno). All'interno del lazzaretto Renzo, introdottosi nel quartiere delle donne, indossa un campanello al piede per fingersi un monatto (XXXVI) ed è successivamente apostrofato da un commissario di Sanità che gli ordina di recarsi in una delle capanne dove è richiesto il suo intervento: il giovane si allontana e si china per togliersi il contrassegno, avvicinandosi a una capanna da cui poi sente provenire le voci di Lucia e della mercantessa. Alla fine del romanzo (XXXVIII), nel trarre la morale delle vicissitudini affrontate nella sua vita, Renzo dirà di aver imparato tra le altre cose a non attaccarsi "un campanello al piede", in ricordo di quanto aveva fatto appunto al lazzaretto. IL NIBBIO È uno dei bravi al servizio dell'innominato, suo luogotenente e l'elemento più valido al quale il bandito affida gli incarichi più delicati: compare nel cap. XX, dopo che il suo padrone ha accettato, sia pure con qualche remora, di aiutare don Rodrigo a rapire Lucia dal convento di Monza in cui è rifugiata sotto la protezione di Gertrude (l'innominato gli ordina di andare in quella città e contattare Egidio, suo compagno di scelleratezze dal quale spera di avere sostegno). Poco tempo dopo il Nibbio torna con la risposta di Egidio, che promette che l'impresa sarà "facile e sicura" e fornisce le istruzioni per portare a termine il rapimento della ragazza, quindi l'innominato incarica il Nibbio di occuparsene e disporre tutto secondo le indicazioni del giovinastro amante della "Signora". Il Nibbio torna a Monza con una carrozza e due bravi, con l'aiuto dei quali rapisce Lucia che è stata fatta uscire dal convento con un inganno di Gertrude: mentre uno sgherro d'Egidio distrae la ragazza fingendo di chiederle un'indicazione sulla strada per Monza, il Nibbio la afferra per la vita e la caccia nella carrozza, che poi riparte a spron battuto con a bordo la prigioniera. Lucia, terrorizzata, tenta subito di fuggire ma viene trattenuta dai bravi, quindi sviene e mentre è priva di sensi il Nibbio ordina ai compagni di prendere i fucili senza farli vedere alla ragazza, che definisce un "pulcin bagnato che basisce per nulla" (sarà lui a parlarle quando rinverrà e a tenerla ferma, mentre i compari sono invitati a non farle paura). Quando Lucia riprende i sensi tenta nuovamente di gettarsi fuori dallo sportello, viene tuttavia trattenuta e il Nibbio le ordina di tacere, minacciandola di tapparle di nuovo la bocca col fazzoletto; la giovane inizia poi a pregare i suoi rapitori di lasciarla andare, al che il Nibbio la esorta a calmarsi dicendole che, se l'avessero voluta uccidere, l'avrebbero già fatto, poi le rivela che è stato loro ordinato di Pagina 18 rapirla e ovviamente rifiuta di indicare il nome del loro padrone. Alla fine del lungo viaggio la carrozza giunge al castello dell'innominato (XXI), dove Lucia è obbligata a salire sulla portantina insieme alla vecchia ed è indotta a non urlare dal Nibbio, che le fa "gli occhiacci del fazzoletto"; l'uomo corre poi a fare il suo rapporto al padrone, come ordinato dalla vecchia, e riferisce che tutto è andato secondo i piani, anche se, ammette, avrebbe preferito uccidere Lucia piuttosto che sentire i suoi pianti e le sue preghiere durante il viaggio, cosa che lo ha mosso a "compassione". L'innominato è sbalordito a una tale affermazione e chiede ulteriori spiegazioni al suo luogotenente, il quale definisce la compassione come la paura, poiché quando uno "la lascia prender possesso, non è più uomo", aggiungendo altri dettagli "pietosi" circa lo spavento di Lucia, le sue suppliche, il suo mortale pallore. Alla fine l'innominato gli ordina di andare a riposare in attesa di ulteriori ordini e dopo questo episodio non compare più nel romanzo (ignoriamo, pertanto, se egli sia rimasto col padrone dopo la sua clamorosa conversione). Benché il suo ruolo sia secondario, il Nibbio ha comunque una parte essenziale nel ravvedimento dell'innominato, poiché parlando della compassione provata per Lucia suscita nel padrone la curiosità di recarsi a vederla nella stanza dov'è prigioniera, incontro dal quale nasceranno poi i rimorsi che spingeranno il bandito a voler incontrare il cardinal Borromeo e poi a pentirsi pubblicamente. Il suo ruolo fra i bravi dell'innominato è simile a quello del Griso per don Rodrigo, anche se rispetto a quello il Nibbio si mostra più umano (sulla carrozza ordina ai compagni di non spaventare inutilmente Lucia ed egli stesso evita di essere troppo duro con lei) e proprio questo suo lato "compassionevole" sarà poi decisivo nella positiva svolta della vicenda. Il nome allude all'uccello rapace ed è evidentemente un epiteto di battaglia, come nel caso degli altri bravi indicati nel corso del romanzo. IL NOTAIO CRIMINALE È il funzionario addetto alla giustizia criminale che trae in arresto Renzo a Milano, il giorno seguente il tumulto di S. Martino in cui il giovane è rimasto coinvolto pur non avendo commesso alcun delitto: compare nel cap. XV, dopo che il poliziotto travestito ha avvicinato Renzo all'osteria della Luna Piena e gli ha estorto con uno stratagemma il nome per spiccare contro di lui un mandato di cattura, dopo aver tentato inutilmente di servirsi dell'aiuto dell'oste (costui aveva chiesto a Renzo di dirgli il nome in virtù di una grida, che prescrive ai gestori di locande di registrare tutti coloro che vi alloggiano per dormire). È lo stesso oste a recarsi al palazzo di giustizia, a tarda sera, per rendere testimonianza di fronte al notaio circa i fatti che sono avvenuti alla sua taverna: il Pagina 19 magistrato lo informa che la giustizia sa già il nome di Renzo e accusa velatamente l'oste di non dire tutta la verità, poiché il giovane ha portato nell'osteria un pane rubato durante l'assalto ai forni (in realtà Renzo l'aveva raccolto in terra al suo ingresso in città) e ha sobillato gli altri avventori con parole sediziose (mentre si è limitato a inveire contro le gride che, a suo dire, non garantiscono la giustizia alla povera gente). L'oste riesce con furbizia e diplomazia a eludere le insinuazioni del notaio, il quale cerca di convincerlo che la giustizia colpirà in modo implacabile i rivoltosi e gli chiede dove si trovi ora Renzo: l'oste ribatte che il giovane sta dormendo alla locanda e il notaio gli ordina di sorvegliarlo e di non farlo scappare, cosa che tra l'altro dimostra tutta l'impotenza e la scarsità di mezzi della giustizia, nonostante l'atteggiamento tracotante e pieno di alterigia del funzionario (l'oste ne è ben consapevole e tutto il dialogo è pieno di sottintesi ironici, con il locandiere che bada solo a proteggere i suoi interessi e si tiene alla larga dalle questioni giudiziarie). Il mattino dopo il notaio si reca all'osteria in compagnia di due birri, per trarre in arresto Renzo che viene svegliato nella sua stanza mentre è ancora in preda al sonno: il funzionario è preoccupato, poiché venendo lì ha notato nelle strade la presenza di molti gruppi di popolani e teme che si preparino altri disordini, come il vociare crescente che proviene dall'esterno sembra confermare; l'uomo teme che Renzo possa trovare l'appoggio di altri rivoltosi, dunque preferisce tenerlo buono ed evitare di portarlo via con la forza, nel timore che nascano tafferugli. Per questo finge di acconsentire quando Renzo chiede di essere condotto da Ferrer e accetta di restituirgli il denaro e la lettera di padre Cristoforo che gli aveva sequestrato, facendo poi cenno ai birri di non farlo adirare e di non reagire alle sue provocazioni (Renzo ha intuito che il notaio ha paura e decide di approfittarne per tentare la fuga alla prima occasione). Il magistrato gli fa mettere i "manichini", una sorta di manette che gli stringono i polsi, quindi cerca di convincerlo a seguirlo con le buone, senza dare nell'occhio quando sarà in strada e promettendogli che appena sarà sbrigata questa formalità Renzo sarà libero di andarsene: il giovane capisce che sono tutte menzogne e, una volta in strada, inizia ad attirare l'attenzione dei passanti, finché un gruppo di sediziosi non circonda la comitiva con fare minaccioso. Renzo chiede aiuto e dice che lo stanno arrestando perché ha gridato "pane e giustizia", quindi i birri lo lasciano andare e il notaio tenta di mescolarsi alla folla, in cui tuttavia non può passare inosservato per via della cappa nera che indossa e lo rende facilmente riconoscibile. Un popolano lo indica come un "corvaccio" e incita la folla contro di lui, anche se il notaio riesce a sottrarsi alla calca e a scampare miracolosamente al linciaggio. Il personaggio è parte della critica manzoniana contro l'inefficienza e le storture del sistema giudiziario del XVII secolo, in quanto il notaio non è interessato a stabilire la verità ma solo a trovare un malcapitato da arrestare per i torbidi del giorno prima: Renzo è giudicato colpevole ben prima di essere interrogato e ciò sulla base di congetture e convincimenti personali, come appare chiaramente dal dialogo con l'oste della Luna Piena (in cui il notaio si comporta da grande inquisitore e usa il tipico linguaggio delle gride, attribuendo a Renzo dei crimini che non solo il giovane non ha commesso, ma per i quali non esiste alcuna prova). Il giorno dopo si comporterà in modo ben diverso e assumerà un atteggiamento comico pur di sottrarsi a una situazione difficile, fino a uscire di scena in modo Pagina 20 ridicolo e vedendo fallire tutti i suoi stratagemmi (l'autore ironizza su di lui, anche col dire che il notaio faceva parte degli amici dell'anonimo autore del manoscritto). PODESTÀ DI LECCO È il magistrato che amministra la giustizia a Lecco, colui al quale (come ricorda l'autore) toccherebbe "a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo": in realtà il podestà è un amico del signorotto e frequentatore della sua casa, per cui si può immaginare che il giudice, se proprio non è complice delle sue malefatte, è tuttavia disposto a chiudere un occhio su di esse e a farsene compiacente (nel cap. XI don Rodrigo, nell'attesa che il Griso e i bravi compiano il rapimento di Lucia e tornino al palazzo, riflette sulle possibili conseguenze legali e osserva che "Il podestà non è un ragazzo, né un matto", alludendo alla sua condiscendenza riguardo il delitto commesso). È un personaggio secondario e appare direttamente per l'unica volta nel cap. V, quando padre Cristoforo si reca al palazzotto di don Rodrigo per parlare con lui e lo trova seduto a tavola con i suoi convitati, tra cui appunto il podestà che è impegnato in una frivola disputa cavalleresca col conte Attilio: quest'ultimo sostiene che un cavaliere ha legittimamente bastonato il servo che gli ha consegnato la sfida a duello per il fratello, mentre il podestà afferma che l'ambasciatore è persona sacra e inviolabile (è chiaro che a nessuno dei due interessa minimamente della sorte del messaggero, la loro è una sciocca e oziosa disputa di codici cavallereschi). Il podestà si mostra infervorato nella questione e sostiene le sue tesi con dotte citazioni (il Tasso, il diritto romano, sillogismi latini...), che però svelano la vacuità e la saccenteria del personaggio; ciò emerge soprattutto nel successivo discorso, quando il podestà, parlando della guerra in atto per la successione del ducato di Mantova, tesse un bizzarro e sconclusionato elogio al conte-duca Olivares, primo ministro spagnolo (il magistrato si mostra acceso sostenitore degli Spagnoli nella guerra, ovviamente, e si vanta di essere in stretti rapporti col castellano di Lecco, ovvero il comandante della guarnigione militare della città). Egli si rivela anche piuttosto superficiale e ignorante, dal momento che vuole correggere Attilio ma storpia malamente il nome del condottiero boemo Wallenstein (lo chiama "Vagliensteino", con pronuncia spagnoleggiante) e più avanti deforma in modo ridicolo anche quello del cardinale Richelieu, che diventa "Riciliù". Più oltre (XI) sarà proprio il conte Attilio a definirlo "gran caparbio, gran testa vota, gran seccatore d’un podestà", aggiungendo però che è "un galantuomo, un uomo che sa il suo dovere", alludendo quindi anch'egli alla sua compiacenza riguardo le malefatte del cugino (Rodrigo accusa Attilio di contraddirlo sempre e di irritarlo, mentre a lui serve la protezione del magistrato). Pagina 21 Nel cap. XVIII il podestà riceve un dispaccio da Milano in cui gli si ordina di indagare su Renzo, fuggito in seguito al tumulto del giorno di S. Martino, quindi il magistrato esegue con estrema "diligenza" una perquisizione nella casa del giovane filatore di seta, mettendo tutto a soqquadro. La notizia della sua morte per la peste è data a Renzo dall'amico che lo ospita al suo ritorno in paese dal Bergamasco (cap. XXXIII). Pagina 22

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