Genere e Processi Formativi PDF
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Elena Gianini Belotti
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Summary
Questo documento analizza le questioni di genere nell'istruzione italiana, mettendo a fuoco le disuguaglianze e le discriminazioni che ancora persistono. Il saggio evidenzia l'importanza di un'educazione che promuova la parità di genere e di un'istruzione più equa per garantire il successo di ragazze e ragazzi. In particolare, vengono analizzati gli stereotipi di genere, le scelte di percorso scolastico e la cultura diffusa, che finiscono per condizionare i progetti di vita delle studentesse e degli studenti.
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Genere e processi formativi PREFAZIONE (Elena Gianini Belotti) La parità nell’accesso all’istruzione superiore per i due sessi è stata raggiunta da un pezzo, e da circa vent’anni si è addirittura verificato il sorpasso delle femmine sui maschi, seguito da quello delle università nei primi anni Nova...
Genere e processi formativi PREFAZIONE (Elena Gianini Belotti) La parità nell’accesso all’istruzione superiore per i due sessi è stata raggiunta da un pezzo, e da circa vent’anni si è addirittura verificato il sorpasso delle femmine sui maschi, seguito da quello delle università nei primi anni Novanta. Al maggior numero delle ragazze che frequentano i licei o sono iscritte alle varie facoltà, si aggiunge il loro miglior rendimento, per costruirsi un percorso lavorativo corrispondente ai propri talenti e desideri. Ambizione più che legittima e però sconfitta dalla realtà del mondo del lavoro. Inoltre, a parità di mansioni, continuano a essere pagate le donne, meno degli uomini, uno dei motivi della riluttanza ad assumere giovani donne è che la tutela di una eventuale maternità, garantita per legge, prevede lunghe assenze e costose garanzie. A questo svantaggio si aggiunge la scarsità di aiuti e di servizi per l’infanzia, in più l’uomo addossa alla donna il compito di dedicarsi alla famiglia, lui fa carriera e lei fa il doppio lavoro. Alle professioniste in ambiti tecnologici e scientifici viene tuttora dedicata una buona dose di diffidenza, non viene loro riconosciuta la stessa autorevolezza. A scoraggiarle ancora di più, le scienziate vengono tuttora dipinte come zitelle, eccentriche e solitarie, intelligenti, lucide, razionali sì, ma proprio per questo poco femminili. La segregazione formativa in facoltà umanistiche è considerata esclusivamente un problema delle donne, mentre la preferenza dei maschi per le facoltà scientifiche non viene vissuta come tale, ma come scelta corretta, visto che l’unità di misura imperante è il guadagno e il prestigio. Curiosamente si sorvola sulle ragioni del minor rendimento scolastico attuale dei ragazzi, mentre ci si interroga sulle motivazioni del maggior successo scolastico delle ragazze, quasi fosse considerato anomalo e si sottintendesse che sarebbe normale il contrario. Si insinua il dubbio che le ragazze studino di più e meglio per adeguarsi alle aspettative altrui, per un bisogno divorante di essere approvate, per scarsità di autostima e di coscienza del proprio valore come individui. C’è altro da considerare. Se la parità di accesso all’istruzione è stata conquistata dalle ragazze, non significa affatto che la cultura trasmessa dalla scuola riconosca il ruolo svolto dalle donne nel corso dei secoli, quello che si impara a scuola è un sapere spacciato per neutro e universale che, al contrario, rappresenta esclusivamente il punto di vista maschile e non può che danneggiare il senso di sé e dell’importanza del sesso femminile nel corso della storia. A parte l’abolizione nella scuola dell’obbligo delle famigerate applicazioni tecniche differenziate per sesso, i programmi scolastici non hanno nemmeno cominciato a modificarsi per cancellare questa clamorosa ingiustizia. A giudicare dalle risposte del gruppo di insegnanti, uomini e donne, intervistate da Irene Biemmi, persiste un’ambiguità di fondo sui contenuti dell’insegnamento e sulle sue modalità. Mi domando se gli insegnanti siano disposti a far riflettere i ragazzi sulla cultura tramandata dalla scuola, in cui si celebra il dominio e il potere incontrastato maschile, responsabile della violenza tuttora diffusa in tutto il mondo. Sarebbe molto utile se inducessero a meditare sull’imperante modello virile e sulle forzature che subiscono quando vengono spinti esclusivamente verso l’obiettivo dei successi professionali ed economici. Mentre la dimensione dell’affettività, le relazioni col prossimo, la cura degli altri che richiedono tempo libero, sensibilità, disponibilità emotiva, capacità comunicativa, sono del tutto trascurate. Una critica degli stereotipi di ruolo, tuttora molto rigidi, offrirebbe a ragzze e ragazzi una visione diversa e più aperta del loro destino nel mondo. INTRODUZIONE Parlando di pari opportunità o della cultura di genere all’interno della sucola italiana occorre da subito constatare il ritardo che il nostro sistema d’istruzione segna rispetto all’elaborazione di questa tematica. In parte questo può derivare dal fatto che la scuola è una realtà nella quale discriminazioni e svantaggi femminili non hanno un’immediata e palese visibilità in quanto le donne, sia nel ruolo di docenti che studentesse sono molto presenti. Questo porta a concepire la scuola come un ruolo protetto rispetto al problema della discriminazione sessuale. Il presente contributo da un lato si propone di mettere in luce le questioni di genere ancora aperte in ambito scolastico, dall’altro si pone l’obiettivo specifico di esplorare il ruolo assunto dai docenti nell’elaborazione di tali problematiche. Il problema può essere sintetizzato in una mancata elaborazione da parte della scuola e degli insegnanti di una cultura attenta alla dimensione di genere e al principio delle pari opportunità. Gli esiti di questa scarsa riflessione sono ben evidenti: la scuola non riesce a scalfire minimamente gli stereotipi sessisti che condizionano ancora fortemente i progetti di vita dei ragazzi e delle ragazze. Gli uni e le altre ad esempio, sclegono percorsi di studio che ricalcano esattamente gli stereotipi tradizionali circa le attività ritenute adatte all’uno e all’altro sesso. Le cause di questo insuccesso sono da addebitare evidentemente a una concomitanza di fattori. Fattori esterni alla scuola: l’educazione in famiglia, i messaggi mediatici, un generico maschilismo, ancora presente nel nostro paese. Pare però più utile cercare di individuare alcune possibili cause del problema che agiscono all’interno della scuola per poi, eventualmente, ipotizzare interventi adeguati a rimuoverle. Il volume si struttura in tre parti. Nella prima parte vengono individuate alcune questioni di genere che non hanno avuto ancora una risposta adeguata in ambito scolastico , emerge la necessità di introdurre nella scuola un’azione educativa che promuova realmente più equi modelli educativi e permetta di superare gli stereotipi sessisti. Viene quindi realizzata una rassegna critica della letteratura riguardante l’ingresso delle donne nell’insegnamento. Nella seconda parte si avvia una riflessione sull’importanza dell’approccio narrativo nella ricerca sociale, in campo educativo. Ci si sofferma, quindi, su uno strumento di indagine qualitativo, l’intervista biografica, facendo emergere le sue grandi potenzialità di utilizzo nell’ambito degli studi di genere. Nell’ultima parte vengono infine presentati i risultati di una ricerca empirica condotta su un campione di docenti di alcune scuole secondarie superiori dell’area fiorentina. L’indagine è stata realizzata attraverso una serie di interviste biografiche volte a ricostruire il percorso professionale degli/delle insegnanti con lo scopo di sondare la loro consapevolezza relativamente alle problematiche di genere, sia in merito al rapporto interpersonale con gli alunni dei due sessi, sia in riferimento ai saperi trasmessi nelle rispettive discipline. PARTE PRIMA: DONNE E ISTRUZIONE CAPITOLO PRIMO: RAGAZZE A SCUOLA, TRA SUCCESSO SCOLASTICO E SEGREGAZIONE FORMATIVA 1.1 La conquista del bene-istruzione In occasione della IV Conferenza mondiale sulle donne riunita a Pechino nel 1995 è stata prodotta e adottata una Piattaforma d’azione che contiene gli obiettivi strategici e le azioni da intraprendere per favorire la promozione dell’empowerment delle donne. L’istruzione e la formazione delle donne è stata posta come seconda priorità, dopo la lotta della povertà, in quanto considerata non solo un diritto fondamentale ma anche uno dei migliori investimenti che un paese in via di sviluppo possa compiere per promuovere la propria crescita futura: l’alfabetizzazione delle donne è una chiave importante per migliorare le condizioni di salute, l’alimentazione e l’istruzione nelle famiglie e per consentire alle donne di partecipare al processo decisionale nella società. A distanza di più di un decennio si può constatare che la questione delle pari opportunità e della lotta alle discriminazioni di genere è ancora aperta e attuale, anche se si deve prendere atto di alcuni importanti progressi. L’accesso all’istruzione di base (elementare) è garantito alla stragrande maggioranza dei bambini e delle bambine del mondo. Per quanto riguarda l’istruzione secondaria, molti paesi sono riusciti a ridurre il divario, ma rimangono basse in paesi come l’Africa. L’ultimo Rapporto di monitoraggio globale dell’EFA (education for all) dell’UNESCO ci informa che dei 771 milioni di adulti analfabeti nel mondo ben il 64% sono donne. Nei paesi in cui l’indice di analfabetismo è ancora molto elevato si registra un dato costante: la percentuale di analfabetismo femminile è sempre più elevata rispetto a quella maschile. L’esclusione delle bambine equivale soltanto alla negazione di un diritto umano, ma rappresenta una grave ipoteca sul futuro della società. Le donne che hanno ricevuto un’istruzione tendono a evitare gravidanze precoci e comportamenti a rischio di contagio da HIV, sono favorite nell’avviare attività economiche e negoziare i propri diritti, a cominciare da quelli relativi alla gestione della salute riproduttiva e all’educazione dei figli. Le giovani istruite tendono ad avere meno figli e a distanziare meglio le nascite, i loro bambini sono mediamente meglio nutriti e curati e possono recepire i messaggi delle istituzioni sanitarie sulla necessità di vaccinare i bambini, mantenere misure igieniche e dosare le medicine. L’uguaglianza fra sessi: garantire pari opportunità di accesso all’istruzione è il primo passo da compiere per raggiungere questo ambizioso traguardo. Se ci spostiamo sulla realtà italiana possiamo affermare che le ragazze hanno ormai pieno accesso al bene-istruzione, esattamente come i loro coetanei maschi. Si può altresì sostenere che l’accesso all’istruzione è un requisito necessario ma non sufficiente per la realizzazione di un’effettiva parità tra uomo e donna nella vita politica, civile e lavorativa. Si può parlare di una storica esclusione delle donne dalla cultura ufficiale, dominante, maschile. L’educazione femminile si è configurata nei secoli come una sorta di addestramento volto a svolgere adeguatamente il ruolo di moglie e madre. L’espressione pedagogia dell’ignoranza evidenzia questo tipo di prassi educativa guidata dalla mera necessità di educare la donna al ruolo di femmina dell’uomo. La cultura femminile si delinea quindi come una cultura del privato che si sostanzia in un saper-fare tramandato meccanicamente da una generazione all’altra: le donne più anziane la trasmettevano con la forza dell’exemplum. Uno degli stereotipi più insistenti e dannosi è senz’altro quello della fragilità femminile: una fragilità al tempo stessi fisica, biologica, che si ripercuoteva su una fragilità sul piano dell’apprendimento per cui la donna era considerata incapace di acquisire saperi astratti e teorici. Le ragazze hanno la possibilità di entrare in modo massiccio nelle aule scolastiche e di sedere fianco a fianco ai loro compagni maschi solo a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Fatta eccezione per la scuola elementare in cui si raggiunge la piena scolarizzazione sia maschile che femminile già dal primo dopoguerra, in Italia la scolarizzazione di massa, e di conseguenza, anche la forte crescita della presenza femminile a scuola e all’università comincia a delinearsi negli anni Cinquanta per poi esplodere durante gli anni Sessanta e Settanta. La rapida diffusione della scolarizzazione negli anni Sessanta va posta in relazione alla riforma della scuola media 1962 che riordinando il ciclo inferiore in senso unitario e rendendolo obbligatorio, ha avuto come effetto immediato una più ampia distribuzione delle strutture scolastiche sul territorio italiano ed una lievitazione del numero di iscrizioni sia maschili che femminili. Si nota una propensione delle ragazze a proseguire gli studi oltre l’obbligo scolastico. Le ragazze si iscrivono e frequentano la scuola in numero sempre maggiore fino a superare, come propensione alla scolarità, la componente maschile nella prima metà degli anni Ottanta. All’università la crescita di partecipazione femminile dal dopoguerra ai nostri giorni è stata ancora più sorprendente che nella scuola superiore, oggi il tasso di scolarità femminile all’università ha raggiunto il 40%, mentre quello maschile si ferma al 31%, l’incremento è avvenuto fra gli anni Sessanta e Settanta. Con la crescita economica e l’emergere dei nuovi bisogni l’istruzione si trasformò da servizio di lusso a servizio di largo consumo in Italia, come nel resto dell’Europa. E’ solo negli anni Novanta che però anche all’università si assiste al sorpasso del tasso di scolarità femminile rispetto a quello maschile. Il processo di femminilizzazione che ha investito il sistema scolastico italiano è testimoniato dall’incidenza della componente femminile sulla popolazione studentesca complessiva. Il fenomeno della scolarizzazione femminile è stato in larga parte determinato da un clima culturale favorevole che incentivava una critica del ruolo autoritario della scuola nel suo aspetto centralizzato e burocratico, e insieme dai contributi innovativi del neo femminismo che spingevano le ragazze a ricercare un'identità nuova proprio attraverso lo strumento dell’istruzione. Mapelli ricorda che questo fenomeno non investe solo l’Italia, ma tutta l’Europa. 1.2 I Successi scolastici delle studentesse Esaminando i dati dell’ultima indagine del Ministero della Pubblica Istruzione sulla scuola italiana possiamo facilmente constatare che i successi femminili nel campo dell’istruzione non si limitano ad un sorpasso numerico sulla componente maschile ma investono direttamente anche il rendimento scolastico ed accademico. Nella scuola, il miglior rendimento femminile è evidenziato dal confronto tra i tassi di ripetenza dei due sessi. Nella scuola elementare lo scostamento tra rendimento maschile e femminile è piuttosto ridotto, nel ciclo medio inferiore invece, l’incidenza delle ripetenze per i ragazzi doppia rispetto alle ragazze, nell’ambito delle scuole secondarie di secondo grado il dato varia in relazione al tipo di scuola frequentato, gli istituti professionali risultano avere la più alta percentuale di non promossi. Come conseguenza di una minore propensione alla ripetenza le donne mostrano una minore tendenza ad interrompere il percorso scolastico, riesce a conseguire il diploma il 77% delle ragazze contro il 65,4% dei ragazzi. Le studentesse risultano più brillanti dei loro colleghi maschi anche rispetto agli esiti dell’esame di fine ciclo. I ragazzi tendono a superare il rendimento femminile proprio nei settori più femminilizzati, il divario di rendimento a vantaggio delle ragazze, viceversa, risulta particolarmente elevato nei settori di studio in cui le donne rappresentano una minoranza. A livello universitario uno dei principali problemi di rendimento rinvia all’elevata dispersione che contraddistingue i percorsi degli studenti: su 100 immatricolati, poco più di 46 riescono a laurearsi. Le donne dimostrano però rispetto agli uomini una maggiore tenacia che si evidenzia in primo luogo nei più elevati tassi di conseguimento del titolo, inoltre esse dimostrano di riuscire meglio degli uomini anche in relazione al tempo impiegato e sul voto di uscita. Gli uomini però eccellono nei settori dove la percentuale di frequenza è in maggioranza femminile e lo stesso vale per le donne in corsi con maggiore incidenza maschile, si può ragionevolmente dedurre che maschi e femmine riescono meglio all’università proprio quando intraprendono percorsi formativi guidati unicamente dai propri reali interessi, senza seguire itinerari di studio precofezionati su base sessuale. Complessivamente le ragazze risultano quindi più regolari nei percorsi di studio, abbandonano meno dei maschi e sono anche più brave in termini di valutazioni finali, la situazione si complica quando si tenta di individuare le cause. Il problema è dovuto in primo luogo a difficoltà di tipo metodologico, dati statistici ancora rudimentali. L’unica cosa certa è che un fenomeno così complesso non può essere compreso individuando un’unica variabile interveniente ma necessita di un approccio di studio interdisciplinare. Volendo sintetizzare la molteplicità di ipotesi avanzate per spiegare il crescente successo femminile negli studi, si può pensare di disporle lungo l’asse mobilitazione-sottomissione. Le studentesse si mobilitano per impossessarsi del bene-istruzione in quanto lo interpretano come uno strumento centrale per costruire una nuova identità personale e un progetto di vita futura appagante. Si può anche ipotizzare che le ragazze abbiano un rapporto diverso con il sapere rispetto ai loro coetanei maschi, più incentrato su di sé, sul piacere di apprendere, al di là di ripercussioni pratiche. La mobilitazione femminile per la scolarizzazione va interpretata all’interno del movimento dell’emancipazione femminile che si è sviluppato alla fine degli anni Sessanta. Investire nell’istruzione ha significato per le donne darsi un’opportunità per cambiare le proprie chances di vita, non solo di tipo lavorativo, ma anche familiare sulla maternità. Sul fronte opposto, l’ipotesi della sottomissione, si palesa un certo scetticismo di fronte all’affermazione di una maggiore abilità scolastica femminile e si avanza l’idea che i successi femminili non siano accreditabili a meriti individuali delle ragazze ma siano invece l’effetto di una maggiore sintonia tra i valori e i comportamenti delle bambine/ragazze e quelli richiesti in ambito scolastico. Per esempio si sottolinea il fatto che il sistema di valutazione utilizzato nelle scuola in qualche modo favorisce le studentessi in quanto premia alcuni atteggiamenti tradizionalmente considerati femminili e viceversa penalizza certi comportamenti più maschili. Nel saggio Dalla parte delle bambine Elena Gianini Belotti descrive in maniera illuminante l’atteggiamento ineccepibile delle bambine della scuola elementare, sottolineando che non si tratta affatto di una predisposizione naturale ma dell’inevitabile conseguenza di un violento condizionamento sociale. Le bambine fin dall’infanzia vengono educate ad essere docili, obbedienti, compiacenti, mentre ai ragazzi viene richiesta indipendenza e autonomia. Le bambine dimostreranno un’efficienza perfetta e nessuna maestra riuscirà a sottrarsi alla tentazione di lodarle, ma proprio queste lodi indeboliranno ancora di più la coscienza del loro valore come individui per mettere l’accento sulla loro funzione di esseri il cui dovere principale è di rendersi utili agli altri. Da una ricerca di Gasperoni risulta infatti una netta superiorità femminile di rendimento quando questo è valutato attraverso gli indicatori istituzionali, ma questa differenza scompare quando la valutazione avviene quando una prova viene strutturata ad hoc. In quest’ultimo caso, i maschi sembrano mostrare prestazioni migliori delle compagne soprattutto nell’area matematico-scientifica. I ragazzi hanno un atteggiamento meno positivo nei confronti dell’educazione rispetto alle ragazze, investono meno in essa e vedono il loro avvenire meno associato all’istruzione ricevuta. 1.3 Il fenomeno della segregazione formativa Il fenomeno della segregazione formativa consiste in una suddivisione sessista, insita nel nostro ordinamento scolastico, che conduce gli alunni dei due sessi a convogliare gli uni verso indirizzi maschili e le altre verso indirizzi femminili.ù Il fenomeno è chiaramente visibile nella scelta della facoltà universitaria. Stando ai dati del Ministero dell’Università e della Ricerca relativi alle immatricolazioni universitarie dell’a.a.2004-2005 le donne risultano concentrate nell’area relativa all’insegnamento, linguistica, letteraria, oltre che nelle discipline mediche, mentre sono poco presenti nella facoltà di ingegneria e nell’area scientifica. Sebbene non esistano barriere formali all’ingresso femminile nei vari campi del sapere, le studentesse continuano a limitare i propri interessi all’interno degli ambiti considerati tradizionalmente di pertinenza femminile quali l’educazione e la cura. Il fatto che quando si parla di segregazione formativa la si identifichi in una problematica esclusivamente femminile può dunque risultare fuorviante, anche se in parte può essere giustificato per il fatto che attualmente sono proprio i settori scientifico e tecnologico che offrono maggiori occupazioni e carriere più prestigiose, sia in termini di riconoscimenti economici e sociali. L’attributo di mascolinità e femminilità a un ramo di studi è dunque piuttosto relativo sia storicamente che rispetto ai diversi contesti culturali, economici e sociali. E’ vero anche che qualunque sia l’area di studi che in dato momento storico gode di maggiore influenza, prestigio e autorevolezza, essa diventa per definizione una roccaforte maschile, e la ragione è abbastanza ovvia: da sempre sono stati gli uomini gli unici detentori del potere culturale. Ci si potrebbe chiedere perché le ragazze decidano di auto-limitare le proprie scelte. Una risposta potrebbe essere questa: le scelte delle ragazze non sono spontanee e intimamente volute ma sono condizionate dal permanere di stereotipi sessisti impressi in primo luogo dalla famiglia, confermati dalla scuola, che spingono le studentesse ad investire prevalentemente in quegli ambiti di studio che condurranno ad uno sbocco lavorativo adatto al proprio sesso. E’ come se a scuola agissero contemporaneamente due curricoli: un primo esplicito, visibile, identico per maschi e femmine; un secondo nascosto, implicito, nel quale si collocano le immagini di sé do studenti e studentesse, le attese delle famiglie sul futuro di figli e figlie, spesso anche le convinzioni e i comportamenti differenziati dei docenti nei confronti degli alunni dei due sessi. Il curricolo nascosto interferisce e incide pesantemente sul curricolo esplicito e sulle scelte dei percorsi formativi di ragazzi e ragazze, anche perché incorpora una precisa visione delle professioni convenienti per l’uno e l’altro sesso. 1.3.1 Un problema di genere: donne e saperi tecnico-scientifici Tra gli stereotipi più insiti c’è sicuramente quello sull’incapacità femminile a rapportarsi con le discipline tecnico-scientifiche, che comporta l’allontanamento delle ragazze dai percorsi formativi inerenti queste materie, questo non riguarda soltanto l’italia, ma si ritrova nella maggioranza dei paesi, tant’è che è stato oggetto di specifica attenzione alla Conferenza di Pechino del 1995. La critica femminista dell’epistemologia della scienza ha messo in luce il fatto che la rappresentazione della conoscenza scientifica come un processo che richiede la cancellazione della soggettività, dell’affettività, della relazionalità e l’interpretazione della scienza e dlla tecnica come strumenti di potere/ dominio sulla realtà,sono elementi portanti di una cultura scientifica estranea, o quanto meno lontana, dalla cultura femminile. Non a caso l’oggettività, su cui si regge la scienza moderna, è indissolubilmente legata alla mascolinità, così come, per converso, l’emotività e l’irrazionalità equivalgono a tratti stereotipati legati alla femminilità. Sandra Harding, dopo essersi a lungo interrogata sul perché le donne siano state escluse dalla scienza e considerate generalmente inadatte ad accedervi, è arrivata alla conclusione che è più importante forse capire come la scienza possa essere messa in discussione dalle donne nel suo impianto epistemologico. La Harding, scava nel canone dell'oggettività mettendone in risalto le inconsistenze tanto rispetto alla neutralità di genere quanto ad una più ampia neutralità culturale. Nel contesto italiano alla fine degli anni Ottanta è stato realizzato un importante studio in alcune scuole superiori milanesi volto ad indagare l’immaginario scientifico delle ragazze, proprio per comprendere i motivi più profondi delle scelte di lontananza.I risultati sono che le ragazze affiancano ai tradizionali timori di inadeguatezza personale anche critiche aspre ai modi di fare e trasmettere la scienza. Nell’immaginario delle studentesse la scienza dovrebbe essere un’avventura appassionante anziché un cumulo sistematico di dati conoscitivi, le giovani donne si sentono lontane anche dall’empiricità della scienza. leggi oggettive e immutabili e quindi sottratte alla dimensione della soggettività, al riconoscimento del valore emotivo, creativo, inventivo del soggetto scienziato. L’ipotesi di Ulivieri: se la scienza è avvertita e vissuta come qualcosa di mascolino, altro da sé, qualsiasi ragazzina tenderà a sfuggirla proprio per omologarsi alla maggioranza delle scelte proposte dai modelli femminili. L’ipotesi è confermata da Gianini Belotti che parla di un conflitto interiore presente nelle giovani, tra la volontà di affermare il proprio valore intellettuale e la spinta a conformarsi ai canoni sociali di femminilità. L’anoressia mentale, sempre più diffusa oggi tra le adolescenti, è il sintomo di un aspro conflitto di affermare la propria intelligenza e la pressione sociale a conformarsi ai canoni della femminilità, che sono tuttora in antitesi con quella. A questa difficoltà si deve aggiungere anche l’azione degli/delle insegnanti spesso guidata dallo stereotipo secondo cui la riuscita in matematica delle ragazze sia frutto di applicazione, di intuizione naturale quella dei ragazzi, che inibisce ancor più le scelte femminili: lo sguardo altrui esercita dunque una pressione conformista, più o meno esplicita, sulle ragazze. E’ un elemento importante nell’indirizzarsi delle ragazze verso studi più convenzionali. Infine si può supporre che le ragazze abbiano una serie di timori a figurarsi nei panni di una scienziata, solitamente presentata nell’immaginario comune come una donna eccentrica, bizzarra, solitaria, senza famiglia e affetti, disposta a rinunciare alla propria vita privata per amore della scienza concepita come una missione. Le giovani possono temere l’ostilità maschile, verso una donna che invade il loro campo, temono inoltre la prospettiva di una tensione continua per dimostrare che si è brave quanto un uomo, l’eccessiva competitività, l’impegno professionale troppo assorbente che non lascia spazio e tempo per nient’altro. 1.3.2 Gli effetti collaterali della coeducazione Già a partire dalla metà degli anni Ottanta è maturato un acceso dibattito a livello europeo tra i sostenitori della coeducazione di maschi e femmine in classi miste e coloro che sottolineano invece l’importanza di alternare periodi trascorsi in classi miste a periodi in classi separate per rinforzare l’autostima delle ragazze, in questo caso nelle scienze. La scuola del maschile neutro ha rifiutato, occultando, un intero pezzo di vita, pur consentendo il permanere di una serie di stereotipi sulle attitudini di ragazze e ragazzi. Ha operato la pretesa indifferenziata neutralità del sapere scolastico, che in realtà conserva la connotazione maschile, sia nei contenuti che nelle forme di trasmissione. Una simile considerazione è fatta da Adrienne Rich: se esiste un concetto errato è proprio quello dell’istruzione mista coltivare la convinzione che uomini e donne stiano ricevendo lo stesso tipo di istruzione, solo per il fatto che siedono nelle stesse aule, ascoltano le stesse lezioni, leggono gli stessi testi ed eseguono identici esperimenti di laboratorio. Non è così, prima di tutto perché il contenuto stesso dell’istruzione esalta l’uomo ed esautora la donna. La possibile deriva negativa della coeducazione era già stata preannunciata da Norberto Galli ormai trent’anni fa: in altri termini abbiamo riconosciuto l’imprendiscindibilità di favorire il trapasso da una promiscuità di fatto ad una coeducazione intenzionale. Il problema sta quindi non nel porre accanto fanciulli e fanciulle, nel convincimento che le loro interazioni siano formalmente corrette, nell’abitudiarli ad agire in comune senza insistere sulle motivazioni che sollecitano il loro operare, ma piuttosto nel dar vita ad un’educazione progressiva degli atteggiamento, in virtù della quale i coetanei, pur nella differenza, scoprono di possedere una pari dignità personale. La pratica didattica della coeducazione dovrebbe quindi cercare di fornire a tutti e a tutte, in chiave sessuata ma non sessista, gli strumenti per una reale uguaglianza delle opportunità maturando la capacità di alunni ed alunne di riconoscersi diversi ma uguali per valore e reciprocamente interagenti nella relazione e nella socializzazione. Per rendere effettivi i principi della coeducazione si impone come dato urgente una formazione adeguata degli insegnanti affinché all’interno di un gruppo misto non rinforzino gli stereotipi ma imparino a combatterli. Studi condotti in area anglosassone a partire dagli anni Settanta denunciano una differenza di trattamento degli allievi appartenenti ai due sessi, secondo gli insegnanti di scuola elementare intervistati da Clarticoates i bambini pur essendo più difficili da controllare delle bambine, sono allievi più gratificanti e preferibili, anche quando in classe rendono meno delle bambine sono generalmente percepiti come più intelligenti e capaci, a parere di questi stessi insegnanti il successo delle bambine è dovuto più all’impegno che alle capacità. Stanworth ha osservato che le studentesse sentendosi considerate mediocri dai loro insegnanti interiorizzano questa valutazione negativa nella percezione di sé. E’ noto infatti che le aspettative differenziate degli insegnanti nei confronti degli alunni, agendo secondo il meccanismo di profezia che si autoadempie, diventano in qualche modo prescrittive e profetiche perché contribuiscono alla formazione delle aspettative personali degli allievi. Un altro interessante filone di ricerche ha messo in luce differenza di genere nell’interazione docente-alunno nelle classi. Spender, nella sua ricerca Invisible Women, denuncia un atteggiamento discriminante degli insegnanti, anche se spesso inconsapevole, che consiste nel prestare una maggiore attenzione agli allievi di sesso maschile nel dedicare un maggior tempo all’interazione con loro. Per tutta risposta le ragazze tendono a non fare domande, a partecipare poco alle discussioni collettive e diventano in qualche modo invisibili all’interno della classe, offuscate da un protagonismo maschile indotto dagli stessi docenti. Dopo aver preso atto di questi dati alcune studiose femministe hann ritenuto utile sperimentare momenti di separazione delle classi per sesso, proprio per rispondere in maniera più efficace agli interessi e alle esigenze particolari delle ragazze. Il presupposto di fondo di queste iniziative è che la parità può essere realizzata veramente solo se vengono riconosciute le differenze di potenziale tra uomini e donne e se si sviluppano strategie diverse per i due gruppi calibrate sui loro specifici bisogni e interessi: l’educazione segregata per sesso, subita in passato come una forma oppressiva e ghettizante, può diventare una tattica emancipatoria. Per quanto rilevanti e significative siano state le riflessioni della pedagogia della differenza di genere, di matrice femminista, la storia delle istituzioni scolastiche ed educative dell’ultimo ventennio ha dimostrato come ormai non si possa tornare indeitro rispetto al tema della coeducazione che, pur con tutti i possibili limiti, rimane tuttora il quadro di riferimento essenziale, quello che consente di sperimentare ad un tempo l’uguaglianza e la diversità come risorse. Il progetto più ambizioso pare quello di riuscire a promuovere le pari opportunità in classi miste, cercando di valorizzare le specificità femminili e maschili. 1.4 Dalla scuola al lavoro: una difficile transizione Per comprendere appieno gli effetti della segregazione formativa occorre soffermarsi su un aspetto critico che riguarda la transizione del sistema formativo al mercato del lavoro. Questo periodo di incertezza lavorativa, che si concretizza in condizioni di precariato, colpisce in maniera più marcata le donne. Esiste un legamo tra la segregazione formativa femminile e la segregazione occupazionale. I problemi di inserimento occupazionale incontrati dalle donne dipendono, in misura significativa, dai percorsi formativi intrapresi. Per analizzare la questione è necessario porsi una domanda: qual è l’influenza del titolo di studio posseduto rispetto alla sua occupabilità? L’istruzione si rivela un buon investimento a tutela della disoccupazione. Le donne risultano più penalizzate nella ricerca di un’occupazione indipendentemente dal titolo di studio posseduto, anche se complessivamente l’istruzione sembra costituire un fattore di protezione rispetto al rischio di restare disoccupati. L’ultima indagine Istat sull’inserimento lavorativo dei laureati registra un quadro generale sulla spendibilità della laurea sul mercato del lavoro, che risulta attualmente in calo. L’indagine conferma inoltre come, nonostante i tanti avanzamenti registrati sulla componente femminile sul mercato del lavoro, le donne debbano ancora far fronte ad una disparità di trattamento occupazionale rispetto agli uomini, specie nei primi anni della vita lavorativa. Sembra investire anche il piano della qualità del lavoro, tra gli indicatori utilizzati per misurare la soddisfazione professionale dei laureati troviamo: il trattamento economico, le possibilità di carriera, l’utilizzo delle conoscenze acquisite, il grado di autonomia sul lavoro e le mansioni svolte. Lo scarto tra uomini e donne si acuisce soprattutto in corrispondenza della possibilità di carriera ma anche in relazione al trattamento economico: le donne si trovano più spesso degli uomini a svolgere sia lavori per i quali la laurea non è formalmente richiesta, sia lavori che non prevedono un suo effettivo utilizzo. Inoltre, per le donne che hanno iniziato a lavorare già prima di intraprendere degli studi universitari, il conseguimento della laurea risulta assai meno efficace, rispetto agli uomini, nel migliorare le condizioni lavorative. Può essere interessante chiedersi se il tipo di laurea conseguita influisca in modo significativo sulle opportunità di inserimento professionale. Le ultime ricerche confermano questa ipotesi. Le lauree più richieste dal mercato fanno capo alle discipline tecnico-scientifiche. All’opposto incontrano maggiori difficoltà di inserimento professionale i laureati in lingue e letterature straniere, filosofia, scienze politiche e materie letterarie. E’ abbastanza evidente che le valutazioni divergono e si polarizzano su due aree che rappresentano gli ambiti preferenziali di studio, rispettivamente, maschili e femminili. Viene in tal modo confermata l’ipotesi iniziale di una connessione tra la segregazione formativa e la segregazione occupazionale. Un’ulteriore conseguenza della canalizzazione delle studentesse in certi, circoscritti, settori di studio è la limitata varietà di sbocchi professionali femminili: mentre gli uomini hanno la possibilità di spaziare in un ventaglio di posizioni professionali molto ampio, le donne sono occupate in un numero molto ristretto di campi lavorativi, con una concentrazione forte nel settore educativo e nei lavori del terziario. La divisione sessuale del lavoro opera dunque a due livelli: accanto ad una divisione verticale del lavoro (disparità di prestigio e retribuzione) si affianca una divisione orizzontale del lavoro (divisione fra sessi di lavoro e carriere). Scrive a questo proposito Vanna Iori: la divisione di ambiti e spazi caratterizza ancora oggi la sessuazione del lavoro che produce una divisione tra lavori da uomo e da donna, che si differenziano nettamente sia come ambiti sia come competenze. La costante presenza nel tempo e nelle diverse civiltà di questa divisione rivela come l’esperienza lavorativa sia un mezzo per definire la propria identità sessuale. La riflessione di Iori ci stimola a problematizzare il legame tra segregazione formativa e occupazionale, invertendo il rapporto causa-effetto. Se il lavoro costituisce un elemento centrale nella definizione dell’identità di genere, è legittimo pensare che le scelte formative delle ragazze saranno la conseguenza di determinate aspirazioni professionali, a loro volta socialmente tipizzate in base al sesso di appartenenza. Le ragazze si autoescludono dallo studio di certe materie non tanto per mancanza di interesse, quanto piuttosto perché hanno interiorizzato l’estrema difficoltà, in quanto donne, di accedere a determinate posizioni professionali di cui quei percorsi formativi costituiscono lo sbocco naturale. Un’altra variabile che influisce in maniera significativa: lo stato civile. Scrive Paolucci: le donne nubili, in quanto non devono dedicarsi a tutti quei compiti di riproduzione che derivano dal matrimonio, hanno maggiori probabilità di lavorare rispetto a quelle coniugate, ma sono molto meno esposte ai rischi di abbandonare il mercato del lavoro e la loro carriera tende ad avere una durata e una articolazione simile a quella degli uomini. La situazione di disparità che la donna vive nel mondo del lavoro deriva dunque, ancora oggi, dal suo ruolo sociale e familiare. La divisione fortemente asimmetrica del lavoro domestico e del lavoro di cura all’interno della famiglia costituisce un ostacolo alla carriera professionale delle donne, se non addirittura all’impegno professionale stesso. 1.5 Ragazzi, ragazze e stereotipi sessisti E’ importante però sottolineare che non sono soltanto le ragazze ad essere penalizzate da stereotipi sessisti che vincolano le proprie scelte di vita, ma anche i ragazzi: le scelte obbligatorie per i maschi, le scienze e la tecnologia, le virtù considerate maschili, hanno condizionato e condizionano le opinioni, i comportamenti, le fantasie e i sentimenti di molti giovani uomini, non meno di quanto le virtù femminili operino in modo deviante o frenante nell’immaginario di giovani donne condannate al sentimentalismo e all’irrazionalismo, a viversi come incapaci di una serie di compiti cui la società e la scuola, attribuiscono il maggior valore. Trasferendo la questione in ambito formativo, si potrebbe ipotizzare che così come le ragazze hanno difficoltà a rapportarsi con le materie scientifiche in quanto percepite come aride e impersonali, i ragazzi manifestano più difficoltà di apprendimento per quelle materie inerenti il settore della comunicazione e delle abilità sociali proprio per una più generale incapacità di esprimere ed argomentare pensieri e sentimenti. Sarebbe pertante utile pensare ad un orientamento di genere volto ad incoraggiare la diversificazione delle scelte formative e professionali sia dei ragazzi che delle ragazze. L’obiettivo di sostenere la formazione di identità femminili forti non è separabile dall’obiettivo complementare e parallelo di una rinnovata attenzione alla formazione dell’identità maschile. A partire dagli anni Settanta, con un vero e proprio boom negli anni Novanta, si è aperto un filone di studi, i men’s studies, che si propone di dare una lettura nuova del maschile, considerandolo non più come una categoria parziale e complementare al genere femminile. Scrive Sandro Bellassai: i generi sono evidentemente due, ed è quindi necessario studiare entrambe le identità, femminile e maschile, oltre alle dinamiche complesse tra uomini e donne, tra donne e donne e tra uomini e uomini. Ci si può però domandare se la scuola sia pronta a recepire i cambiamenti in atto e magari farsi promotrice di una nuova cultura che riconosca l’uguale valore di donne e uomini, nella loro irrinunciabile diversità. Il passaggio a scuola non riesce a scalfire minimamente il bagaglio di stereotipi e pregiudizi che gli alunni dei due sessi apprendono e interiorizzano in famiglia fin dalla più tenera età: la prova è che le scelte operate al termine di ogni ciclo scolastico ricalcano perfettamente quegli stessi stereotipi. In ogni ordine di scuola agisce ancora oggi una discriminazione sotterranea che consiste in primo luogo nella natura stessa del sapere trasmesso: un sapere spacciato per neutro universale e invece fortemente connotato al maschile. Di fronte a questo quadro demoralizzante si possono però aprire alcuni spiragli per una possibile trasformazione. Da un lato occorre rivisitare criticamente i programmi scolastici, i libri di testo, le materie di insegnamento, cioè l’intera cultura tramandata in modo da rendere visibili i contributi delle donne nelle varie discipline. Dall’altro è fondamentale che gli insegnanti e le insegnanti siano dotati di strumenti critici volti a combattere gli stereotipi sessisti nella loro pratica didattica quotidiana. CAPITOLO SECONDO: DONNE INSEGNANTI E CULTURA DI GENERE: UN INCONTRO MANCATO? 2.1 La femminilizzazione del corpo docente Tra i fattori che contraddistinguono l’attuale condizione della professione insegnante quello che forse spicca con più evidenza è la massiccia presenza femminile. Le donne fanno il loro ingresso nel sistema scolastico italiano nel 1859 con la legge Casati, che prevede sia la formazione delle maestre attraverso apposite scuole, sia il loro ingresso nella professione come docenti nelle scuole elementari femminili. Ma l’ingresso massiccio delle donne nell’insegnamento ha origine con lo stato unitario, quando per sottrarre al clero l’istruzione elementare, la si affida ad insegnanti laici di cui le donne andranno a costituire in breve tempo la maggioranza. La popolazione femminile si configurò da subito come il bacino ideale dal quale attingere manodopera a basso costo, disposta ad intraprendere un’attività giuridicamente poco tutelata e per di più soggetta alla discrezionalità degli amministratori comunali. L’insegnamento elementare si caratterizzò ben presto come attività prevalentemente femminile e ciò malgrado la retribuzione, a parità di condizioni lavorative, fosse addirittura inferiore di un terzo a quella dei maestri. Questo perché, nella seconda metà dell’Ottocento, l’insegnamento costituiva per la donna della piccola e media borghesia urbana e rurale una delle poche attività in cui il suo inserimento era consentito, o quanto meno tollerato. La consapevolezza dell’importanza del consenso delle masse per la stabilità dello Stato indusse la classe dirigente ad enfatizzare la funzione di socializzazione politica che la scuola avrebbe dovuto assumere. I maestri, eletti agenti primari di questo processo di socializzazione/nazionalizzazione, hanno il compito di educare gli alunni all'obbedienza allo Stato, alla conformità ai valori e alle norme dominanti. Per essere idonei a svolgere questa missione i maestri stessi devono porsi come modelli irreprensibili di comportamento, atti ad essere emulati dai ragazzi. Se questi sono i requisiti necessari all’insegnamento, è chiaro che la donna si presta appieno a svolgere questo mestiere, considerata naturalmente passiva. Conseguenza naturale di questa concatenazione di effetti è che nell’arco del primo quarantennio unitario le maestre vanno a costituire la stragrande maggioranza dell’intero corpo docente elementare. Le scuole secondarie restano in larga parte in mano ai professori, mentre alle donne, diplomate presso gli Istituti superiori femminili di Magistero, considerati da sempre università di secondo ordine, resta il campo delle scuole normali ad utenza femminile. Già dai primi del Novecento comincia però a formarsi anche un gruppo sempre più consistente di laureate che entrano nella scuola per ssvolgere la loro attività nel settore dell’insegnamento secondario superiore: la laurea infatti è spesa inizialmente dalla donna soprattutto sul mercato del lavoro scolastico. In questo cammino verso la parità, ancora agli albori, il periodo fascista provoca un brusco arresto, a partire dalla Riforma Gentile del 1923 fino alla Carta della scuola di Bottai del 1939, si assiste ad un continuo e sistematico tentativo di ridimensionare la presenza delle donne nella scuola sia come allieve sia come insegnanti e di riportarle nuovamente nel chiuso di una anacronistica cultura femminile ritenuta per altro qualitativamente inferiore a quella riservata ai maschi. Obiettivo prioritario della politica fascista diventa dunque la piena occupazione maschile, per cui viene data la precedenza agli uomini nell’assegnazione dei posti di lavoro e nella stessa retribuzione, e si cerca di impedire un doppio salario in famiglia con una serie di misure tendenti ad allontanare le donne dal mercato del lavoro. In ambito scolastico questo si traduce in un tentativo programmatico, messo in atto a più riprese dalla riforma Gentile, di favorire i maestri maschi al fine di virilizzare l’insegnamento. Vengono ovviamente chiamate in causa anche le studentesse: una disposizione di legge del 1928 decreta per loro l’obbligo di pagare tasse doppie per l’iscrizione alle scuole superiori e all’università. Nel dopoguerra, abolite le discriminazioni più evidenti, il fenomeno dell’ingresso femminile nell’insegnamento riprende a tutti i livelli allargandosi dall’istruzione di base alla scuola secondaria, in coincidenza con una netta espansione di questo settore con l’avvento della scolarizzazione di massa, mentre l’università rimane ancora monopolio maschile. Le donne costituiscono in Italia l’81% degli insegnanti, la loro presenza però diminuisce al crescere del livello scolastico e con questo presumibilmente, del prestigio sociale attribuito all’insegnamento nei diversi ordini di scuola. Si è parlato a questo proposito di una piramide femminile nella scuola: alla base della piramide stanno le operatrici di asili nido e della scuola materna, poi salendo verso l’alto, col progredire del livello scolastico la percentuale di donne tende ad assottigliarsi. Le donne costituiscono il 99,6% del corpo docente nella scuola dell’infanzia, il 95,4% nella primaria, il 75,6% nella scuola secondaria di I grado e il 59,6% nella scuola secondaria di II grado. Nel mondo accademico italiano invece le donne rappresentano ancora una minoranza con una presenza complessiva pari al 31%, le donne ancora oggi sono accettate nei luoghi della trasmissione del sapere ma tenute lontane dai luoghi della produzione culturale, con particolare riferimento alla produzione del pensiero scientifico. La loro quota si riduce man mano che si passa dal ruolo di ricercatore a quello di associato e di quello ordinario. Malgradi le donne siano la stragrande maggioranza tra i docenti, costituiscono ancora oggi una minoranza tra i dirigenti. Dal 2001/2002 al 2005/2006 la loro incidenza sul totale, tuttavia è lievemente aumentata. 2.2 Le insegnanti, custodi di una cultura sessista e patriarcale Da più parti è stata denunciata una sorta di complicità degli insegnanti e in particolar modo delle donne insegnanti nel perpetuare acriticamente una cultura sessista e conservatrice. Nel 1967 viene pubblicata Lettera a una professoressa in cui i ragazzi della Scuola di Barbiana accusano l’istruzione scolastica di svolgere un’opera di forte selezione sociale, disinteressandosi completamente del retroterra culturale degli alunni. La scuola viene identificata nella figura della professoressa, una sorta di capro espiatorio su cui far ricadere tutti i mali. Nel 1969 in pieno clima di contestazione, vengono pubblicati i risultati di una ricerca sugli insegnanti della scuola media unica condotta da due sociologi, Marzio Barbagli e Marcello Dei. Il titolo del libro, Le vestali della classe media, lascia presagire i risultati dell’indagine. Emerge che gli /le insegnanti svolgono due funzioni sostanzialmente conservatrici: la discriminazione e l’eliminazione dal sistema scolastico degli allievi delle classi sociali inferiori e la trasmissione dei valori dominanti, di quei valori tanto utili per formare il suddito ideale, per addestrare i giovani alla passività e alla subordinazione. Riguardo poi alla provenienza sociale degli insegnanti, emerge che gli uomini provengono in numero maggiore da famiglie umili, mentre le loro colleghe sono figlie in gran parte della piccola e media borghesia. Negli stessi anni la studiosa francese Evelyn Sullerot mette in luce un altro aspetto, le donne sono entrate soltanto là dove gli uomini hanno voluto ammetterle, questo mestiere allora non si tratta di una conquista, ma più spesso addirittura di un abbandono. Nel 1973 Elena Gianini Belotti nel suo saggio Dalla parte delle bambine scrive: le insegnanti sono conservatrici, in ogni senso, e tendono a riproporre schemi educativi, rapporti, valori, gerarchie, così come li hanno ricevuti. Sono creature pavide che hanno scelto una professione che le tiene al riparo da tutto quello che nella vita può succedere di traumatico. Alba Porcheddu cerca di dare una spiegazione a questo atteggiamento conservatore delle insegnanti: il privilegio di accedere all’istruzione scolastica come insegnanti, ha reso le donne le custodi più intransigenti dell’accesso alla cultura dominante e dei valori in essa presenti. La questione è ancora da indagare. Appena pochi anni fa Simonetta Ulivieri, in riferimento al movimento neo-femminista e a quello studentesco degli anni Settanta, si domanda, con una certa perplessità, se e in che misura questi eventi siano riusciti a scalfire gli atteggiamenti e la mentalità delle insegnanti. Nel 1990 Lea Battistoni e Maria Teresa Palleschi pubblicano un testo esito di una ricerca, Nuovi orientamenti ed aspettative della professione docente: le donne insegnanti. Le autrici propongono una rilettura della scuola italiana attraverso le donne insegnanti, assumendo la variabile femminile come variabile critica in considerazione non solo della sua rilevanza statistica, ma in quanto categoria fondante per un’analisi dei mutamenti, in atto e in prospettiva della istituzione scolastica. L’indagine si focalizza su alcune aree nodali che caratterizzano la professione docente andando a rintracciare all'interno di ciascuna gli aspetti tradizionali ma anche i caratteri innovativi introdotti dalle donne. 2.3Uno sguardo alla scuola italiana 2.3.1 La condizione sociale degli insegnanti Nel recente volume Gli insegnanti nella scuola che cambia sono pubblicati i risultati di un’indagine realizzata dall’Istituto di ricerca IARD di Milano agli inizi del 1999 per conto del Ministero della Pubblica Istruzione. Un primo risultato che emerge riguarda il declino del prestigio sociale della professione che viene percepito dalla totalità dei docenti ed è accompagnato da un crescente pessimismo riguardo al futuro. Può sembrare un paradosso: più i sistemi scolastici si espandono, più il bene istruzione diventa un bene sociale di importanza generalizzata, più il capitale umano diventa una risorsa cruciale per lo sviluppo sulla quale si misura il grado di avanzamento di un paese, più gli insegnanti come ceto si sentono declassati. La percezione della caduta del prestigio è l’altra faccia dell’espansione quantitativa dei sistemi educativi, è difficile che un ceto sociale si possa considerare appartenente all’élite se la sua consistenza numerica sfiora il milione di persone e inoltre, l’espansione quantitativa si accompagna inevitabilmente ad un abbassamento degli standard qualitativi sia della popolazione studentesca, sia del corpo docente. Tra gli elementi che hanno inciso negativamente va menzionato il problema della formazione iniziale degli insegnanti che nel nostro paese, fino alla seconda metà degli anni Novanta, è stata pressocché ignorata. A questo si aggiunge la mancanza di procedure selettive rigorose che regolino l’ingresso nella professione; le carriere degli insegnanti, hanno costantemente seguito logiche burocratiche e appaiono scarsamente collegate alle capacità professionali dimostrate dai singoli. E ancora, l’Italia è anche uno dei pochi paesi, se non l’unico, in cui non sia prevista una seria valutazione periodica delle prestazioni dei docenti, inoltre le loro retribuzioni sono tuttora fortemente contenute. Altri indicatori utili a delineare il corpo docente in Italia sono: la composizione per età e per genere, le loro origini familiari, la collocazione occupazionale e il livello di istruzione dei loro coniugi, il profilo della loro carriera lavorativa fino all’entrata in ruolo. E’ noto infatti, che a causa delle disparità di genere ancora presenti sul nostro mercato del lavoro e nella nostra società, gli uomini, a parità di ogni altra condizione, tendono a rifuggire dalle occupazioni collettivamente ritenute poco appetibili. La crescita del grado di femminilizzazione di un mestiere costituisce, dunque, un indice alquanto affidabile del declino della sua desiderabilità sociale. Oltre che da un’elevata incidenza di donne, la professione di insegnante è caratterizzata dalla presenza di quote consistenti di soggetti in età matura dovute ad uno scarso ricambio generazionale. Poiché gli accessi alla professione sono regolati principalmente in via amministrativa, non si può affermare con certezza che la composizione per età dei suoi addetti costituisca un ulteriore indice di declino della sua centralità sociale, si può tuttavia legittimamente sostenere che un gruppo professionale costituito da molti soggetti di età matura non fornisca un’immagine particolarmente dinamica e attraente di sé. Anche le origini sociali degli insegnanti stanno mutando in modo tale da rafforzare la riduzione del prestigio riconosciuto alla loro professione. Si registra un incremento consistente di insegnanti provenienti dalle classi popolari. Naturalmente non si può parlare di una vera e propria proletarizzazione delle origini sociali dei docenti: gli insegnanti sono ancora appartenenti agli strati superiori delle classi medie. Si deve però prendere atto di una tendenza: la professione insegnante a causa della sua ridotta appetibilità sociale, attira sempre meno soggetti provenienti dalle classi agiate e sempre più individui originari delle classi meno abbienti. In questo senso l’insegnamento corre il rischio di configurarsi come una sorta di attività da sottoproletariato intellettuale a cui gli strati privilegiati non si dedicano se non in assenza di altre alternative. 2.3.2 La scelta delle donne di lavorare nella scuola La presenza femminile nella scuola deve essere innanzitutto inquadrata nel processo di integrazione delle donne nel mercato del lavoro. Dalla seconda metà del XX secolo, a partire dagli anni Settanta, si assiste alla ricomparsa massiccia delle donne nel mondo del lavoro. La richiesta di lavoro da parte delle donne si diversifica spesso da quella maschile in rapporto alle differenti aspirazioni ed esigenze. La scarsa disponibilità di tempo della donna, contemporaneamente occupata nella gestione della casa e dei figli, la porta ad indirizzarsi verso il terziario, dove gran parte dei servizi sociali e personali possono essere visti come la professionalizzazione di attività che venivano un tempo svolte esclusivamente all’interno della famiglia. Si assiste così ad un nuovo fenomeno: l’aumento dell’offerta di lavoro provoca di conseguenza l’aumento della sua domanda, per la richiesta di servizi necessari a ridurre il peso dei compiti familiari. Si arriva così nel 2000 ad avere nell’Unione Europea oltre il 40% dell’occupazione femminile concentrata nei servizi alle famiglie con punte del 675 nella sanità e nell’istruzione. Altra condizione che ha favorito un tale sbocco lavorativo è la formazione culturale delle donne, che si concentra soprattutto nei percorsi umanistici e amministrativi, che facilita poi l’assunzione nel pubblico impiego. E’ infatti proprio il pubblico impiego che offre particolari condizioni che consentono alle donne di conciliare il lavoro con le esigenze familiari. Non va poi dimenticata la forte incidenza dei condizionamenti familiari e sociali che contribuiscono a creare un’immagine del lavoro di insegnante come una scelta di ripiego per gli uomini e naturale per le donne. Le cause principali della femminilizzazione del corpo docente sono dunque riconducibili al fatto che l’insegnamento viene visto come un’opportunità di lavoro facile, interessante, appetibile, conveniente e per alcuni aspetti anche privilegiata, in quanto consente di conciliare la necessità di percepire un reddito svolgendo un’occupazione, con il ménage familiare, vale a dire le esigenze implicite nel ruolo prioritario che la donna svolge all’interno della famiglia. Pertanto, il rapporto tra sfera pubblica e privata risulta compatibile e consente alla donna la cosiddetta doppia presenza. Molte donne si accontentano dello stipendio, in quanto non costituisce un sostentamento vero e proprio ma un’aggiunta, un’integrazione, un completamento al bilancio familiare, inoltre non percepiscono la remunerazione come un primo riconoscimento di merito lavorativo. La scuola finisce per configurarsi in modo ambivalente, da una parte come luogo di promozione sociale e culturale e dall’altra, come un luogo di segregazione lavorativa femminile che finisce per perpetuare la tradizionale divisione dei ruoli sessuali. Per molte donne tale scelta si configura in definitiva come una non-scelta: si tratta semplicemente di seguire un percorso sicuro, già tracciato, all’insegna della continuità. Questo è quanto emerge nella ricerca dell'Isfol che costituisce una delle poche indagini sul campo condotte in Italia su queste tematiche. 2.3.3 Convenienze e limiti del lavoro di insegnante Può essere interessante domandarsi quali sono i vantaggi e gli svantaggi percepiti dai docenti rispetto al proprio lavoro, la ricerca dell’Isfol mette in luce un quadro alquanto contraddittorio. L’orario di lavoro ridotto viene visto come un fattore positivo, al tempo stesso, viene percepito come insufficiente quando è riferito all’efficacia del lavoro docente. Le docenti sottolineano, da un lato, la pesantezza delle ore a contatto con i ragazzi, ma aggiungono, per converso, che questo orario è assolutamente inadeguato per una buona organizzazione, per esempio per la progettazione e la programmazione collettiva, per l’aggiornamento e l’auto-aggiornamento. Un altro aspetto riguarda l’insegnamento come terreno di autonomia, rispetto alla programmazione delle proprie attività didattiche, rispetto alla valutazione della propria attività, rispetto alla possibilità di aggiornarsi se e quando si vuole, combinare i tempi, la gestione delle giornate. Gli insegnanti sono altresì consapevoli che la riqualificazione della loro professione dovrà passare inevitabilmente attraverso l’introduzione di strumenti di valutazione della qualità e dell’impegno professionale. Altri aspetti riguardano la non-valorizzazione del merito. La maggiore fonte di frustrazione del corpo docente sembra essere tuttavia la mancanza di professionalità dovuta in primo luogo ad una inadeguata formazione iniziale. Nell’ultima ricerca IARD è stato chiesto ai docenti di valutare la formazione ricevuta, relativamente ai seguenti aspetti: a) la preparazione nei contneuti delle materie insegnate, b) la preparazione nella didattica delle discipline insegnate, c) la preparazione nelle abilità didattiche comuni a tutti gli insegnanti, d) la preparazione relativa ai problemi educativi di carattere generale. E’ emerso che la preparazione viene considerata nel complesso insufficiente sotto ogni aspetto dagli insegnanti di tutti i gradi scolastici, con l’unica vistosa eccezione relativa ai contenuti delle materie insegnate che appare poco adeguata solo a livello di scuola materna. La carenza non è tanto sul piano culturale-disciplinare, quanto su quello didattico e psico-pedagogico. Solo negli ultimi anni, il tema della formazione iniziale degli insegnanti è tornato ad assumere un ruolo centrale. Ma è lecito ipotizzare che di questa politica si vedranno i risultati solo in futuro anche perché, saranno poche le nuove leve che nei prossimi anni potranno accedere all’insegnamento. 2.3.4 La rappresentazione della professione: soggettiva, oggettiva, ideale Altro elemento di interesse per delineare le criticità della professionalità docente è la percezione dei docenti circa il proprio ruolo professionale. A tale scopo, nella ricerca curata da Cavalli è stata proposta una tipologia che presenta quattro diverse possibili interpretazioni della figura dell’insegnante: un professionista che fornisce dei servizi sulla base delle competenze specifiche, un impiegato come tanti altri, un funzionario che svolge una funzione pubblica sulla base delle proprie competenze, una persona che ha scelto di svolgere un’importante funzione sociale. I docenti intervistati sono invitati a scegliere, tra queste figure, quella a cui si sentono più vicini (rappresentazione soggettiva), quella che oggi esprime la condizione oggettiva degli insegnanti (rappresentazione oggettiva) e infine quella che dovrebbe rappresentarne meglio l’immagine (rappresentazione ideale). Quanto emerge chiaramente è che mentre la consapevolezza soggettiva e il dover-essere della figura docente coincidono largamente, la percezione attuale della condizione degli insegnanti diverge in modo marcato: quasi nessun intervistato si sente un impiegato e ancor meno pensa che questa possa essere la definizione ideale di tale ruolo, ma oltre la metà ritiene che questa sia effettivamente la situazione attuale. Un’altra importante osservazione riguarda la netta riduzione della definizione ideale dell’insegnante come persona che svolge un’importante funzione sociale che si sposta sulla figura del professionista. Aumenta dunque una visione professionalizzante ,mentre diminuisce la visione vocazionale. Complessivamente l’appartenenza di genere sembra ancora influire sull’immagine ideale, nel senso che la figura del professionista è tuttora più maschile che femminile, ma mentre questo divario è chiaro nella scuola secondaria, nelle elementari la situazione, per i pochissimi maestri presenti, è addirittura nettamente capovolta. Questa circostanza è forse dovuta al fatto che le maestre sentono probabilmente con forza la necessità di superare la funzione di mamma, inoltre i pochi maestri sono mediamente più anziani e sappiamo che in generale la visione professionale è maggiormente presente fra gli insegnanti di età meno elevata. La concezione tradizione dell’insegnamento come vocazione è strettamente connessa con il concetto di maternage: l’insegnamento si configura come una sorta di luogo sublimato del destino materno. In questi ultimi anni l’idea di insegnamento connotato da forti elementi di maternage sta subendo un rinnovamento in relazione al processo di emancipazione femminile. Il ruolo materno assunto dal docente risulta controproducente al processo di conquista di autonomia e responsabilità dei ragazzi. 2.3.5 Motivazione all’insegnamento e identificazione nella professione Nel quadro di incertezza e confusione che regna nel mondo della scuola, emergono però alcuni dati molto netti, emerge tra gli insegnanti un elevato grado di soddisfazione per il proprio lavoro. Già nelle ricerche italiane sugli insegnanti condotte a partire dagli anni Sessanta, si è soliti utilizzare due variabili: il tipo di motivazione all’insegnamento e l’identificazione nella professione. Incrociando le due variabili si individuano quattro tipi di docenti: motivati persistenti (insegnanti che erano motivati all’inizio e ora), motivati delusi (insegnanti che erano motivati e non lo sono più), non motivati adattati (insegnanti che non erano motivati e si sono adattati positivamente), non motivati non adatti (insegnanti che non erano motivati e non si sono adattati). Fra le due ricerche IARD, condotte a dieci anni di distanza, si registra un aumento dei motivati persistenti e dei motivati delusi mentre i non motivati adattati rimangono stabili e si riducono drasticamente i non motivati non adattati. Se facciamo un confronto con le ricerche condotte negli anni Settanta possiamo notare un cambiamento radicale: allora i non motivati non adatti erano il gruppo prevalente 37%, ora sono 11%, mentre i motivati persistenti che sfioravano il 30%, ora hanno raggiunto il 48%. Il cambiamento più considerevole avvenuto nell’ultimo decennio è l’incremento dei motivati delusi, prima erano il 10%, ora rappresentano un quarto degli insegnanti. La differenza di genere influenza in modo significativo la tipologia: le insegnanti sono complessivamente più motivate, mentre i colleghi maschi sono relativamente più numerosi fra i non motivati adattati. Incide anche il basso livello di sindacalizzazione e il livello scolastico, nelle elementari è maggiore la presenza di motivati persistenti, si verificano differenze anche nella materia insegnanti i motivati sia persistenti che delusi insegnano maggiormente materie letterarie e aumentano all’aumentare del grado scolastico. La maggior parte delle insegnanti dichiara un impegno professionale costante, dall’inizio della carriera ad oggi, lo stato d’animo delle insegnanti vede una forte presenza di inquietudine e ansietà all’inizio della carriera. Anche la variabile età risulta significativa: sono gli insegnanti più giovani ad essere affetti da una maggiore inquietudine. 2.4 La svalutazione del modo femminile di fare scuola Qualche anno fa Norberto Bottani ha parlato della crisi del lavoro docente nel libro Professoressa addio, che già a partire dal titolo si ricollega esplicitamente alla già citata Lettera ad una professoressa di Don Milani. L’autore si domanda: a più di venticinque anni di distanza, le professoresse tengono ancora il coltello dalla parte del manico oppure l’aureola di autoritarismo che le circondava è svanita come neve al sole? E’ ancora alle professoresse che occorre rivolgersi per cambiare le scuole? La predominanza numerica delle insegnanti può generare un meccanismo perverso: quello di opacizzare e occultare dietro l’evidenza quantitativa una realtà assai più problematica. Dai dati statistici si potrebbe infatti inferire la convinzione che le donne gestiscono un ampio spazio di potere culturale in un ambito, quello formativo, che le società industrializzate sembrano privilegiare. In realtà, benché le donne si trovino ad avere un ruolo chiave nel sistema scolastico italiano, la loro professionalità non è spesso riconosciuta e valorizzata. L’espressione economia del dono si riferisce ad un’economia particolare in cui le prestazioni offerte non sono misurate né misurabili in quantità equivalenti rispetto alle prestazioni restituite, ma indicano piuttosto la rilevanza del legame sociale tra chi dà e chi riceve e quindi hanno come misura la reciproca soddisfazione delle attese relative ai doni. La loro disponibilità a prendersi cura degli altri è considerata un dono obbligato. Eppure, in modo contraddittorio, nella scuola non sembra affatto diffusa la consapevolezza dell’importanza delle relazioni umane come fondamento dell’esperienza educativa. Il modo femminile di fare scuola, contrassegnato da tratti quali l’emotività, l’espressione degli affetti, l’ascolto, viene in realtà connotato negativamente e socialmente svalutato: viene addirittura accusato di essere la causa principale dell’abbassamento della qualità dell’insegnamento e del degrado della scuola. La studiosa Paola Dal Toso prospetta una figura di insegnante neutro, tecnicamente competente, guidato nella sua azione da una ricerca di scientificità e razionalità, libero da responsabilità soggettive. E’ facile immaginare i rischi di questa modalità di fare scuola che determina una omologazione nell’azione formativa e trascura totalmente il riconoscimento delle identità individuali e le differenze di genere. Per ovviare a tali rischi occorre maturare una prospettiva pedagogica che sia mirata a valorizzare la specificità femminile/maschile e la diversità di genere come risorsa, individuando anche iniziative metodologiche in tale direzione. Alcune ricerche svolte in ambito organizzativo mostrano che le donne impegnate professionalmente hanno un sistema di valori guida diverso dagli uomini, imperniato sullo schema mentale della collaborazione piuttosto che su quello della competizione. Ci sono forse buoni motivi per ipotizzare una declinazione femminile anche nella professione docente. Vita Cosentino lo afferma con certezza: un’idea di scuola relazionale, in cui la qualità e la soddisfazione si giocano in presenza nel fare lì bene il proprio lavoro, nell’assistere alla crescita umana e intellettuale di studenti e studentesse, è di matrice femminile. Niente a che vedere con la vecchia idea di scuola come trasmissione unilaterale di conoscenze, in cui l’altro è percepito come un vaso vuoto da riempire, che è un’idea di stampo maschil-patriarcale, e che oggi neppure gli uomini che fanno una buona scuola condividono più. 2.5 Donne, uomini e formazione di genere L’ingresso delle donne a scuola fu interpretato inizialmente come una grossa opportunità per emanciparsi, successivamente le insegnanti si sono accomodate nel loro ruolo, limitandosi a trasmettere in maniera passiva una cultura sessista e patriarcale. E’ quella che Simonetta Ulivieri ha definito la colpa storica delle donne, è vero però che negli ultimi anni pare che la situazione stia lentamente cambiando. Sono dunque attesi e auspicabili, profondi mutamenti anche all’interno del genere maschile: i percorsi che le donne hanno attuato nella storia dell’ultimo quarantennio, hanno determinato cambiamenti all’interno del proprio e dell’altro sesso, mutando i termini della relazione femminile/maschile. Ora spetta agli uomini rivedere la propria identità, la propria differenza, attraverso un percorso di consapevolezza di sé. Nel caso specifico della scuola, l’attenzione alla dimensione di genere, metabolizzata e sperimentata da alcune donne insegnanti, può divenire il fondamento per ridisegnare una nuova professione, aperta e desiderabile anche per l’altro genere, che si basi su un’attenzione alle differenze individuali e sia più rispettosa delle peculiarità dei singoli. La formazione ad una consapevolezza di genere può diventare quindi una risorsa per ritrovare un senso per la propria professione, intrecciando questa stessa ricerca con quella più personale su di sé.L’assunzione del punto di vista di genere nell’attività di insegnamento non può che divenire totalizzante e coinvolgere non solo l’attività didattica, ma anche il modo di porre a critica la cultura scolastica e in generale, e la scuola è uno specchio ritardato di ciò. Concludendo, nel nostro paese c’è un’insoddisfazione diffusa rispetto al nostro sistema scolastico, in particolare gli insegnanti vivono un sentimento di disincanto dovuto ad aspettative deluse, compensi mancati, progetti falliti. L’elevata presenza di donne nella scuola è tradizionalmente individuata come una delle potenziali cause di questa crisi e del declino progressivo del prestigio sociale connesso alla professione docente. Si rende a questo punto necessario un cambiamento di rotta: le insegnanti devono capovolgere il binomio professionalità/femminilizzazione da negativo a positivo, valorizzando le proprie peculiarità professionali e la cultura di cui sono portatrici. Donne e uomini congiuntamente hanno la possibilità di intraprendere un percorso di consapevolezza di genere che si potrebbe sostanziare in tre traguardi fondamentali: consapevolezza della propria identità sessuata, consapevolezza delle diverse esigenze di alunni e alunne, consapevolezza del sessismo insito nel sapere. PARTE SECONDA: METODO NARRATIVO E RICERCA DI GENERE CAPITOLO TERZO: LA RISCOPERTA DEL SAPERE NARRATIVO 3.1 Sapere scientifico e sapere narrativo La facoltà di narrare è per quanto sappiamo, una costante umana eppure solo in tempi relativamente recenti la narrazione sembra aver assunto piena cittadinanza nell’ambito delle scienze umane e sociali. L’attenzione per la ricerca narrativa deve essere inserita in un più ampio ripensamento dei paradigmi su cui si fondano le scienze sociali; un ruolo chiave va attribuito alla svolta post- moderna che può essere vista all’origine della cosiddetta “era della narrazione”. Jean Francois Lyotard parla del cambiamento del sapere nel passaggio dalla società moderna a una nuova era, post-moderna, caratterizzata dal pluralismo dei modelli di conoscenza e dal riemergere del sapere narrativo. Il senso della svolta post-moderna può essere rintracciato nella fine dei grandi racconti e nel sospetto che il pensiero narrativo sia più capace di cogliere la verità dell’esistenza umana di quanto non lo sia il pensiero logico, astratto scientifico. Jerome Bruner distingue la distinzione tra pensiero logico-scoientifico( finalizzato alla categorizzazione e alla riduzione degli eventi a leggi generali) e pensiero narrativo( mirato alla comprensione e all’interpretazione dei significati e al modo in cui gli individui organizzano la propria esperienza basandosi sull’intenzionalità dell’azione umana). 3.2 il problema della verità Frattura fra i discorsi scientifici( i primi traggono la propria autorevolezza dal fatto di basarsi su verità assolute, naturali ,presenti sul mondo) e letterari( contenuto soggettivo di creatività e di invenzione che li caratterizza: dar forma a realtà fittizie attraverso uno stile di discorso evocativo). Mentre il discorso letterario è falso perché crea una realtà, quello scientifico è vero perché si limita a riportare una realtà esterna, osservabile. (svalutazione della narrazione, cattiva scienza o non-sapere). Già negli anni successivi della seconda guerra mondiale, la distinzione tra scienza e fiction tende a farsi meno netta, in conseguenza di una pluralità di approcci che hanno tendenza destabilizzante rispetto alle certezze del pensiero scientifico tradizionale. 3.3 le funzioni delle narrazioni 3.3.1 l narrazione come strumento di produzione di senso e di costruzione dell’identità Le narrazioni appaiono strumenti utili a render conto della complessità del mondo contemporaneo, con le sue contraddizioni e ambiguità. Sono preziosi strumenti di interpretazione e attivazione dei processi di interpretazione e attribuzione di significato alla realtà circostante. Umberto Eco sostiene la principale ragione della narrativa, capacità di dar forma al disordine dell’esperienza. Attraverso la narrazione gli individui realizzano un processo di sense-making, cioè di costruzione di significato; consiste in una costruzione retrospettiva di una sequenza di eventi che serve a spiegare l’esito di una storia nei termini dell’inizio, integrando i dettagli in una catena continua di casualità. Le narrazioni rappresentano quindi strumenti per la costruzione identitaria perché nel raccontare di noi e degli altri prendiamo parte alla creazione del nostro e dell’altrui senso del sé; la narrazione consente di sviluppare l’identificazione con gli altri sia la dimensione della differenziazione. È quindi attraverso uno stretto legame tra costruzione identitaria e processo narrativo perché è soprattutto attraverso la narrazione che gli individui cercano di produrre dei è coerenti e soddisfacenti sullo sfondo dei valori e delle aspettative della cultura di riferimento. 3.3.2 la narrazione come strumento di ricerca: l’intervista biografica Dalle due funzioni esaminate(produzione di senso e costruzione dell’identità) ne discende una terza:quella di costruire strumenti di ricerca. La ricerca narrativa si colloca nell’ambito della ricerca ideografico-qualitativa, ovvero in un ambito di analisi della realtà sociale finalizzata alla comprensione ermeneutica dei fenomeni, connessioni di significato, dei contesti in cui vengono generati. -“intervista in profondità” si possono sondare tramite questo modo di interrogazione, a un livello di maggiore profondità gli argomenti oggetto d’indagine. -“L’intervista ermeneutica” insiste sui principi di ascolto e dialogo. -“l’intervista discorsiva” mette in evidenza la presenza di un discorso che intercorre tra tra le due figure implicate nell’interazione di intervista, il normale fluire dialogico tra due persone.(non è strutturata ma sociale) -“l’intervista narrativa” centra il focus sulla specificità della narrazione. -“L’intervista focalizzata” ,centrata sull’argomento, che intende indagare su un preciso ambito della vita delle persone , per individuare i meccanismi e i processi sociali che lo regolano. -“racconti di vita”, si chiede ai soggetti intervistati di parlare liberamente di uno degli aspetti della propria vita, e “ le storie di vita” , non c’è un focus che verte su un segmento specifico ma solo l’invito a parlare di sé, della propria vita intera. Storia di vita: Olagnero e Saraceno affermano che la storia di vita è un insieme organizzato in forma cronologico narrativo, spontaneo e pilotato, esclusivo o integrato con altre fonti, di eventi, esperienze, relativi alla vita di un soggetto e da lui trasmesse direttamente o indirettamente a un’altra persona( life history, studi di caso che non comprendono solo il racconto della vita di una persona ma anche i materiali biografici secondari, che non sono stati raccolti tramite relazione diretta con il narratore; history è una cronaca, un racconto in terza persona in cui il ricercatore presenta l’esperienza di un singolo individuo utilizzando le proprie parole) Atkinson: una storia di vita è la storia raccontata più onestamente e completamente possibile che una persona sceglie di raccontare circa la vita che ha vissuto, è costituita da ciò che la persona ricorda della sua vita e degli aspetti di questa che la persona vuole che gli altri conoscano, come risultato di un’intervista guidata da un’altra persona.(life story lungo racconto in prima persona in cui un singolo individuo presenta l’esperienza che ha vissuto nel corso di tutta la sua esistenza o un periodo significativo di essa. -“Intervista biografica” racconto più onesto possibile fatto da una persona a un ricercatore che guida l’intervista di un segmento della propria esperienza o dell’intero percorso della propria vita; ciò che la persona ricorda, sceglie di raccontare, vuole che altri conoscano. (centralità del racconto, intenzionalità, memoria, interazione sociale, direttività del ricercatore) Forma di ricerca partecipante dove le figure dell'intervistato e dell’intervistatore contribuiscono alla produzione del materiale empirico; il soggetto intervistato è un attore sociale in grado di raccontare in prima persona il mondo sociale di cui fa esperienza. 3.4 approcci narrativi pregi e difetti L’intervista narrativa ha l'obiettivo di sollecitare storie relative all’esperienza degli intervistati con lo scopo di suscitare processi di costruzione di senso. Una caratteristica rilevante è il tipo di relazione che si instaura tra intervistatore e intervistato. L’intervistatore non ricopre ruolo neutro e distaccato ma interviene attivamente nella costruzione della storia al fine di migliorare la qualità del materiale prodotto pur con la cautela di non influenzare il contenuto. Raccogliendo storie abbiamo un accesso diretto all’interpretazione dei soggetti e quindi dobbiamo credere a ciò che riferiscono. Ciò che conta è che il racconto autobiografico possa ritenersi degno di fiducia più che vero; impegno alla sincerità del racconto e alle regole stabilite nel patto. Critiche: assenza di standardizzazione, mancanza di rappresentatività del campione, impossibilità di generalizzare i risultati. Visti questi limiti questa tipologia viene utilizzata: per sondare e esplorare un tema di ricerca, per far emergere i temi principali o per approfondire un fenomeno. 3.5 l’approccio biografico nella ricerca educativa Introdotta in italia nell’ambito dell’educazione degli adulti da parte di Duccio Demetrio (pensiero narrativo legato allo sviluppo della scienza cognitiva e delle relazioni sociali) Susanna mantovani afferma che il racconto della propria storia di vita risulta essere importante in ambito dell’autoformazione, la narrazione può diventare strumento per la promozione di un modello di apprendimento basato sui processi di negoziazione e costruzione congiunta di significati.La riflessione è un elelemnto fondamentale per la narrazione e l’apprendimento, come atteggiamento metacognitivo e guardarsi dall’esterno Diega orlando Cian sostiene che per l’educatore l’accento va posto sull’autobiografia in quanto il fine è aiutare sé stesso o l’altro all'auto riflessione; mentre per il ricercatore si tratta si una biografia per comprendere contesto socio culturale di inserimento.Quindi l’approccio biografico può essere utilizzato con due diverse finalità: dall'educatore come metodo terapeutico e dal ricercatore come metodo conoscitivo. CAPITOLO 4 :FARE RICERCA NARRATIVA 4.1 la trascrizione dell’intervista Le interviste vengono registrate su nastro magnetico. La trascrizione dell’intervista rappresenta una fase molto critica perché si deve gestire il rimanere conformi a ciò che è stato espresso dall intervistato e la necessità di operare alcuni interventi che comportano perdita di info. Nonostante i suoi evidenti limiti la scrittura ha un ruolo fondamentale: oggettivazione di un messaggio volatile, essa consente di esercitare una maggiore profondità di analisi. Una volta che il testo parlato è trasformato in testo scritto, prende avvio la fase successiva dell’analisi: l’interpretazione del testo 4.2 la fatica dell’atto interpretativo Umberto Eco afferma che il testo è una macchina pigra che chiede al lettore di fare parte del proprio lavoro, guai se un testo dicesse tutto quello che il destinatario dovrebbe capire. Eco utilizza la metafora della “passeggiata nel bosco” per esplicitare la necessità di porre limiti alla libertà di interpretazione: non può essere privata l’interpretazione, non si possono cercare fatti e sentimenti che riguardano solo l'interprete, non si puo seguire solo l’intentio lectis ignorando l’intentio operi( interpretazione piu plausibile) E’ importante tenere di conto il rapporto tra micro (l’intervista ) e il macro(contesto, inserire le interviste all’interno del contesto di riferimento. Il lettore deve essere attento e competente. Le narrazioni non parlano da sé ma richiedono interpretazioni, il materiale di intervista le parole degli intervistati, non sono mai trasparenti ma deve essere sempre accompagnata da un intento interpretativo del ricercatore. Dare importanza al modo in cui le narrazioni vengono sviluppate. Le narrazioni non devono essere frazionate ma vanno considerate in modo olistico, frammentazione altererebbe dimensione sequenziale e strutturale della narrazione impedendo di cogliere le dinamiche di costruzione di senso. 4.3 la scrittura La fase della stesura del rapporto di ricerca costituisce un momento delicato che merita approfondimento, decidere modo in cui presentare gli esiti della sua analisi ai lettori. Si tratta di un resoconto dettagliato e rigoroso della propria attività di ricerca che prevede la definizione della cornice concettuale di riferimento, discussione delle metodologie adottate e procedure utilizzate. La scrittura e il linguaggio non si limitano alla mera funzione di comunicare al pubblico dei lettori fatti o significati che esistono in un mondo là fuori ma divengono forme attive di costruzione del mondo e del pensiero. Tre tipologie di atteggiamenti: 1. atteggiamento illustrativo, le parole degli intervistati vengono utilizzate al fine di illustrare le affermazioni del ricercatore e a suffragare le ipotesi partenza 2. atteggiamento restitutivo: la parola degli intervistati considerata in grado di fornire da sola i significati utili alla comprensione dei fenomeni sociali , ricercatore si rifiuta di ridurre i testi in concetti, interpretazioni, frasi ipotetiche. 3. Atteggiamento analitico: obiettivo di mettere in luce il processo di produzione di senso che ha luogo attraverso la costruzione narrativa, ricostruendo il progetto di senso degli intervistati La scelta dello stile espositivo è una strategia comunicativa rivolta ai singoli lettori. Tipo di scrittura riflessiva nel testo scientifico che non si esime dal rappresentare un indagine degli eventi di così come sono stati percepiti. Ogni resoconto scientifico rappresenta soltanto uno dei modi possibili di narrare processo di ricerca. CAPITOLO QUINTO METODI DI CONOSCENZA TRASVERSALI AL GENERE 5.1 Esiste una metodologia femminista? Che cosa significa fare ricerca di genere si deve constatare che soprattutto nel caso italiano si evidenzia una carenza per quanto riguarda la riflessione metodologica. La scelta dei metodi non viene tematizzata e per quanto siano palesi determinate scelte questi ragionamenti divengono oggetto autonomo di attenzione. Spostandosi fuori del panorama italiano si può osservare che il dibattito sul metodo sia stato un punto di riferimento essenziale: prima ancora del che cosa conoscere assume importanza il come conoscere. A partire dagli anni 70 studiosi in gran parte anglo americane aprono un dibattito che dà vita a quella che oggi definita è riconosciuta come la metodologia femminista. Non esistono veri propri manuali che formino la brava ricercatrice femminista. Le ricercatrici femministe si propongono di assumere una prospettiva diversa da quella dell'osservatore distante che indossa le vesti dell'arbitro neutro e oggettivo. La questione femminile è ancora in mano al femminismo liberale con i suoi obiettivi di emancipazione parità. La critica femminista si indirizza il modello tradizionale della produzione del sapere scientifico e ne denuncia l'apparato concettuale maschil, il suo essersi diretto come sapere universale e neutro che impedito di vedere la realtà ricca di soggetti sessuati e ha escluso dal proprio campo d'indagine l'esperienza sociale delle donne. Questa considerazione a partire dagli anni 80 porta ad una insoddisfazione verso quelle pratiche di ricerca femministe che adesso vengono definite scientifiche. Particolarmente critica verso questo approccio è Sandra Harding secondo la quale non è possibile conoscere le donne e le loro vite aggiungendo informazioni su di loro ad un corpo di conoscenza che prende gli uomini e le loro vite, come la norma. In questo progetto di individuazione di categorie c'è una tematica che viene immediatamente posta al centro dell'attenzione: l'esperienza. Si tratta della categoria più innovativa prodotta dal pensiero femminista: mentre il metodo scientifico tradizionale cerca di superare i limiti del soggetto della conoscenza postulando l'intelletto che si pone fuori e al di sopra delle proprie esperienze particolari, il metodo femminista pone personale quotidiano come oggetto privilegiato di indagine. L'esperienza si estende e comprende anche la posizione di ricercatore/della ricercatrice. La metodologia femminista rivendica un atteggiamento non autoritario che rompa la struttura verticale del rapporto tra ricercatori e oggetto di ricerca: si tratta di due entità distinte che vanno a costruire una relazione significativa che Varese esplicita e raccontata. Altra caratteristica fondante della metodologia femminista e l'attenzione posta racconto. La contestualizzazione dei problemi della ricerca le condizioni in cui questa avvenuta le difficoltà i ripieghi le sorprese vengono ampiamente descritti perché costituiscono materiale importante che fa parte la ricerca. Ricerca femminista e di tipo qualitativo: interviste in profondità, osservazione partecipante, ricerca azione, raccolta di materiali biografici, storie di vita sono le metodologie più frequentemente utilizzate. 5.2 I racconti maschili e femminili. In Italia la filosofa Adriana cavare ero afferma che la propensione alla narrazione appare storicamente più pronunciata tra le donne e pare funzionale a superare la dipendenza da forme di sapere scientifico che tende a cancellare l'esperienza. Cavare ero rintraccia una sorta di affinità elettiva tra le donne e il racconto dovuta ad una loro maggiore disponibilità alla narrazione soprattutto biografica. Le amicizie tra donne vivono attraverso lo scambio di storia. Per gli uomini vale l'esatto contrario: il fatto che l'amicizia maschile sia raramente di tipo narrativo, ossia che molti uomini preferiscono parlare di cose o di cosa sono invece di chi sono è del resto un sintomo assai interessante. Gli uomini forse sono particolarmente Pudi chi rispetta la possibilità discostare il velo è prendere atto delle storie che si nascondono dietro la facciata della quotidianità. È possibile osservare anche l'esistenza di due diversi stili di narrazione ottobre autobiografica tra donne e uomini: un modello maschile lineare e ordinato contrapposta ad un modello femminile più articolato e olistico. Terza parte : la ricerca empirica : i racconti degli insegnanti e delle insegnanti. Premessa metodologica: Oggetto di studio e strumento di indagine. Nella prima parte del lavoro ho fatto emergere alcuni nodi problematici concernenti rapporti tra donne e istruzione rispetto al quale il nostro paese emerge la carenza di studi e ricerche. Nella seconda parte ho presentato una riflessione di tipo metodologico sulla ricerca narrativa dimostrando una stretta affinità che la lega alle proposte metodologiche avanzate dalle studiose femministe per indagare le questioni di genere. E sulla base dei risultati di questa analisi che si è andata strutturando la mia indagine sul campo. Indagine si propone di sondare l'attuale consapevolezza degli insegnanti e delle insegnanti relativamente alle problematiche di genere. L'obiettivo è quello di verificare se e come è stato recepito quel grande patrimonio culturale di ripensamento dei saperi tradizionali emerso dagli studi femministi degli ultimi decenni. L'obiettivo ultimo è quello di valutare la possibilità di intraprendere quel percorso di consapevolezza di genere: consapevolezza della propria identità, consapevolezza delle diverse esigenze alunni e alunne, e consapevolezza del sessismo insito nel sapere trasmessa a scuola nelle varie discipline. Per analizzare la cultura di genere prodotta dagli insegnanti e dalle insegnanti nel mondo della scuola occorre ascoltare sia racconti femminili che quelli maschili. A fare da supporto a questo progetto c'è una concezione del genere come costrutto relazionale è come pratica sociale che si costruisce e si modifica in funzione delle diverse modalità con cui uomini e donne strutturano reciprocamente i propri rapporti. Lo studio del pensiero degli insegnanti può aprire prospettive nuove in un campo di studi che in Italia è ancora in larga parte da esplorare. Per la mia indagine sul campo ho condotto una serie di interviste biografiche ad insegnanti di alcune scuole secondarie superiori dell’area Fiorentina volte a ricostruire il loro percorso professionale. I temi trattati: la traccia di intervista. La ricerca è stata condotta utilizzando uno strumento di indagine qualitativo, una modalità di intervista aperta e flessibile basata sulla traccia contenente alcuni nodi tematici centrali. Ho costruito una traccia di intervista che fosse funzionale a due obiettivi fondamentali. Da un lato doveva fungere da guida per la conduzione delle interviste offrendo in maniera sintetica ma esauriente la costellazione di argomenti che mi interessava toccare per ricostruire un quadro coerente intorno alla domanda portante da cui è nata l'idea stessa della ricerca ed evitando eccessiva dispersione dei temi trattati. Dall'altro lato la traccia deve essere sufficientemente duttile per consentire un'apertura al nuovo, temi immergevano spontaneamente nel corso dei colloqui. Uomini e donne sono stati sollecitati a raccontare i propri percorsi professionali, il proprio modo di concepire la scuola e il rapporto con gli studenti, senza che fossero rivolte loro domande puntuali riguardanti il tema delle pari opportunità. Soltanto nella parte finale delle interviste i docenti sono stati sollecitati a rispondere a specifiche domande riguardanti alcuni temi cruciali inerenti il rapporto tra scuola questioni di genere, tra cui: il contrasto tra il successo scolastico delle ragazze e la difficoltà di inserirsi nel mondo del lavoro; gli effetti della femminilizzazione del corpo docente; il problema della sessualizzazione del sapere. Il campione Sono state realizzate interviste biografiche ad un campione di 20 insegnanti di alcune scuole secondarie superiori dell'area fiorentina. Si è tenuto di conto di due variabili fondamentali: il genere è l'etá. Relativamente al genere ho scelto di condurre la ricerca su insegnanti di sesso maschile e femminile, in uguale proporzione. In seguito si è deciso di distinguere due fasci di insegnanti, quelli che insegnano da meno di 10 anni è quel che lavora nella scuola da più di 20 anni inserendoli in uguale percentuale nel campione. Per nominare membri delle due categorie ho preferito utilizzare la distinzione tra esperti-novizi. La composizione del campione in base alle due variabili è finalizzato a portare avanti un duplice confronto tra generazioni e tra uomini e donne. Capitolo sesto La scelta della professione Nella fase preliminare delle interviste i docenti sono stati sollecitati a raccontare la propria storia professionale, spiegando perché hanno deciso di intraprendere questo lavoro, a partire da quali motivazioni ed aspettative. Sono emersi racconti nei quali si legge nell'interesse degli stessi docenti a ripercorrere a ritroso e ad argomentare il proprio percorso professionale. Nella vecchia generazione di insegnanti la scelta connotata da tratti di semplicità e linearità che contrattano con la complessità problematicità che caratterizza invece racconti la nuova generazione. È possibile ricondurre la varietà dei percorsi di ingresso nella scuola dei docenti a tre tipologie fondamentali: non scelta scelga primaria scelta condizionata dalla situazione del mondo del lavoro. Le risposte della vecchia generazione di insegnanti si collocano in prevalenza nelle prime due categorie; quelle della nuova generazione nell'ultima delle tre. La discriminante maggiore a questa domanda è il fattore generazionale. 6.1. Non scelta(ingresso causale, non programmato ma con estrema facilità) Alcuni docenti parlano del proprio ingresso nell'insegnamento come frutto del caso, di una strana combinazione. Non si tratta di una scelta voluta e maturata ma un occasione capitata. 6.2. Scelta primaria (sogno nel cassetto) Molti invece dichiaro di aver sempre voluto fare questo lavoro: insegnamento pare in questo caso come parte integrante del proprio progetto di vita. 6.3 Scelta condizionata dalla situazione del mondo del lavoro Un giovane insegnante sollecitato a riferire i motivi della scelta della sua attuale professione esordisce dicendo: il discorso è che spesso non si decide. Oggi come oggi si decide poco, non si possono decidere tante cose nella vita perché il sistema del mercato del lavoro è piuttosto ristretto in Italia.Oggi come oggi si decide poco ciò indica quanto sia difficile per un giovane inserirsi nel mondo del lavoro magari con l'obiettivo legittimo di intraprendere un percorso lavorativo coerente con il proprio percorso universitario. Un dato generalizzato che distingue la vecchia dalla nuova generazione è riscontrabile nel fatto che la maggior parte dei giovani insegnanti arriva scuola dopo aver sperimentato altri lavori. Alcuni giovani insegnanti, uomini, raccontano forse con un po' di rimpianto il fatto di non aver potuto intraprendere la carriera universitaria o comunque di aver dovuto interrompere certe attività di ricerca avviata all'università, ma si lasciano comunque aperta una possibilità per il futuro. Qualcuno giudica la scuola “castrante” da certi punti di vista proprio perché non consente di partecipare a convegni o ad altre iniziative culturali. C'è chi, non rimpiange l'ambiente universitario sostenendo che all'università si fa più didattica e ricerca e quindi in fin dei conti si fa un lavoro molto simile all'insegnamento. Anche tre docenti della vecchia generazione: ci sono donne che hanno sperimentato un lavoro di ricerca università ma poi per motivi di maggiore stabilità hanno scelto di insegnare. In tutti e tre i casi si rimarca l'estrema facilità di accesso all'insegnamento contrapposta la precarietà congenita all'ambiente universitario, oltre che una differenza in termini di competitività lavorativa. Molti giovani docenti prima di dedicarsi all'insegnamento hanno avuto altre esperienze lavorative in aziende, alcune volte in parallelo all'università. Questi lavori non sembra però aver dato sufficienti gratificazioni in quanto considerati lavori sterili, impersonali. Da qui la scelta di cambiare e dirigersi verso un lavoro più improntato alle relazioni umane. In tutti questi casi il lavoro di insegnante non è concepito assolutamente come un ripiego ma preferito ad altre attività considerati meno stimolanti. Ben diversa invece la situazione riferita da alcune donne che raccontano di essere state respinte da certi contesti lavorativi prima di dedicarsi all'insegnamento. 6.4 Le motivazioni della scelta Nello specifico le motivazioni addotte per giustificare la scelta troviamo anche in questo caso significative differenze generazionali. Possiamo distinguere due macro categorie: le motivazioni esterne, cioè i vari condizionamenti sociali e familiari che hanno inciso sulla scelta; le motivazioni interne cioè i fattori personali, intimi, talvolta connotati in senso utilitaristico,che hanno influenzato la decisione di insegnare. Tra coloro che sono stati certamente condizionati da motivazioni addotte dall'esterno ci sono quegli insegnanti che hanno vissuto in pieno il 68 e dichiarano di aver sentito un desiderio forte di lavorare nella scuola essendo spinti da un forte impegno sociale e civile. La famiglia incide implicitamente nella scelta anche nel caso sia composta da genitori e insegnanti. Due giovani docenti raccontano di aver sentito inizialmente una sorta di ripudio istintivo per il lavoro dei genitori ma poi, da adulte, hanno cambiato prospettiva vedendone i lati positivi. Sul versante delle motivazioni interne abbiamo invece la testimonianza di una insegnante che ammette che nel suo caso la decisione di insegnare stata fortemente influenzata dalla possibilità di conciliare lavoro con impegni familiari: “poi volevo e ho avuto dei figli, per cui senza mamma, senza suocera, questo lavoro è stato proprio indispensabile per poter stare a casa con loro. Ecco il motivo per cui ha insegnato.” Altri due insegnanti menzionano invece come causa scatenante della scelta il fatto di poter essere economicamente indipendenti dalla famiglia il prima possibile. C’è chi invece pone al centro della scelta il fatto di sentirsi portato per inseg