Evoluzione Umana PDF
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This document discusses the anatomy of the human skeletal system, its functional morphology, and the evolution of bipedal locomotion in primates. It explores the adaptations of the skeleton to upright posture and movement.
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Cap 2.1 Anatomia scheletrica Lo scheletro Lo scheletro umano di un individuo adulto è costituito dalle ossa e da parti residue del primitivo scheletro cartilagineo. Oltre a dare sostegno al corpo, protegge alcuni organi. Le ossa hanno forme alquanto diverse e sono generalmente distinte in ossa cort...
Cap 2.1 Anatomia scheletrica Lo scheletro Lo scheletro umano di un individuo adulto è costituito dalle ossa e da parti residue del primitivo scheletro cartilagineo. Oltre a dare sostegno al corpo, protegge alcuni organi. Le ossa hanno forme alquanto diverse e sono generalmente distinte in ossa corte, lunghe e piatte. Le ossa corte si caratterizzano per avere larghezza, lunghezza e spessore pressoché delle stesse dimensioni; esse sono costituite da tessuto osseo spugnoso, delimitato da uno strato di tessuto osseo compatto. Nelle ossa lunghe, la lunghezza prevale nettamente sulla lunghezza e lo spessore. Esse si trovano specialmente negli arti e appaiono sostituite da un corpo centrale e due estremità; il corpo è formato da tessuto osseo compatto che circonda il canale midollare, le estremità sono invece costituite da tessuto osseo spugnoso contenuto da uno strato di tessuto osseo compatto. Le ossa piatte hanno uno spessore molto ridotto e in sezione appaiono formate da due lamine di tessuto osseo compatto, che delimitano uno strato di tessuto osseo spugnoso. Nelle ossa craniche, le lamine sono definite tavolati esterno e interno, e il tessuto osseo spugnoso interposto assume la denominazione di diploe. La morfologia e le dimensioni degli elementi ossei dello scheletro di un individuo presentano una variabilità legata ala sesso e alla popolazione umana di appartenenza. Il tessuto osseo, che è il costituente prevalente dello scheletro, non è statico, ma dinamico e plastico. Anche al termine dell’accrescimento somatico, le ossa sono in grado di modulare la propria struttura macroscopica e l’architettura istologica in risposta agli stimoli meccanici (omeostasi scheletrica). Le superfici articolari e le aree d’inserzione muscolare possono andare incontro a cambiamenti morfologici correlati alle attività svolte in vita da un individuo (markers o indicatori occupazionali). Cap 2.2 Morfologia funzionale dello scheletro La morfologia funzionale La morfologia funzionale è la disciplina che studia la struttura degli organismi, le proprietà dei materiali che la costituiscono e le leggi fisiche che ne regolano l’interazione con l’ambiente. Si propone di spiegare il funzionamento di un organo, di un’appendice, di un tessuto o di altre parti di un organismo. Lo scopo principale consiste nell’osservazione degli organismi viventi per capire come funzionano e come si comportano. L’applicazione dell’approccio morfologico funzionale allo studio degli organismi viventi fornisce modelli interpretativi per lo studio dei fossili, utili a ricostruire non solo l’aspetto degli organismi estinti, ma anche il loro comportamento. Postura eretta, centro di gravità e dinamica della locomozione bipede I primati hanno mantenuto lo scheletro generalizzato, con la presenza delle clavicole, di cinque dita nelle mani e nei piedi e caratterizzato dall’assenza di forti specializzazioni. La postura di base dei primati é quella quadrupede, in cui il centro di gravità del corpo si trova nella zona vertebrale, anteriormente al bacino. Nella postura eretta dell’uomo, invece, il centro di gravità si trova anteriormente al sacro, tra le due ali iliache. Per mantenere l’equilibrio, la proiezione del centro di gravità di un animale deve cadere nell’area circoscritta dalle estremità in contatto con il substrato. La postura eretta ha quindi imposto una riorganizzazione della parte superiore del corpo per fare in modo che il centro di gravità cadesse nell’area circoscritta dai piedi. La colonna vertebrale, oltre alla cifosi, ha conquistato una seconda curvatura con convessità anteriore (lordosi) a livello della regione lombare. Questa doppia curvatura ha favorito lo spostamento del centro di gravità del corpo tra due ali iliache e quindi la sua proiezione a terra all’interno dell’area circoscritta dai piedi. Adattamenti dello scheletro alla locomozione bipede La doppia curvatura della colonna vertebrale ha portato il cranio ad essere in equilibrio sopra le spalle, invece che posizionato anteriormente ad esse come nei primati quadrupedi. Nell’Uomo la gabbia toracica assume una forma a barile, con le parti più strette superiormente e inferiormente e la parte più larga al centro. Questo cambiamento è associato ad una riorganizzazione della muscolatura della spalla dalle forme arboricole alle forme terricole e bipedi. La forma a barile permette una migliore ossigenazione dei polmoni durante la corsa, che sembra essere una caratteristica molto importante nell’evoluzione umana. Nella pelvi, le ali iliache ruotano mediamente e sono caratterizzate da una doppia curvatura, una sul piano frontale e una sul piano trasversale, conferendo loro la caratteristica forma a cucchiaio. Il riorientamento delle ali iliache ha causato la riorganizzazione dei muscoli coinvolti nel movimento dell’arto inferiore. Il femore è angolato medialmente (ginocchio valgo) con le ginocchia vicine tra loro e la tibia e la fibula perpendicolari al terreno. Il ginocchio valgo diminuisce l’oscillazione mediolaterale del corpo necessaria a far cadere la proiezione del centro di gravità nell’area circoscritta dall’unico piede in contatto con il terreno quando alziamo il piede controlaterale durante il ciclo del passo. Anche il piede ha subito forti cambiamenti. Negli ominini la locomozione bipede sul terreno ha portato a cambiamenti del carico del piede (astragalo e calcagno) che devono sopportare tutto il peso corporeo trasmesso dall’arto inferiore e una diminuzione di lunghezza e curvatura delle falangi delle dita che non servono più ad arrampicarsi sugli alberi. La pianta degli ominini acquisisce due curvature, l’arco sagittale e l’arco trasversale. Cap. 2.6 Metodi di datazione La cosiddetta cronologia relativa consiste nell’applicare gli eventi la relazione logica prima- durante-dopo per disporli in sequenza indipendentemente dalla loro reale età. Ciò si ottiene per mezzo del principio di sovrapposizione e della correlazione stratigrafica, con l’ausilio della biocronologia ed eventualmente dei mutamenti ambientali per le correlazioni inter-sito. Questo metodo non è in grado di determinare velocità e\o durata degli eventi. Diviene molto difficile applicare queste procedure a siti con sequenze brevi o costituiti da un singolo strato. Qualsiasi forma di datazione assoluta di eventi o fossili richiede che esista una quantità dipendente dal tempo, che possa essere misurata con ragionevole precisione. Tra queste quantità quelle più affidabili nella determinazione delle età sono legate a processi di decadimento o di accumulo di radionuclidi, oppure a fenomeni cilici. I primi tentativi di applicare metodi radiometrici alla misura del tempo risalgono agli inizi del XX secolo, ma in realtà lo sviluppo delle tecniche di datazione avvenne soprattutto dopo che il metodo del radiocarbonio (C14) divenne di uso comune in seguito ai lavori di W. Libby. Il buon campionamento è cruciale per la riuscita dello studio geocronologico di una sequenza, sia per quel che riguarda la molteplicità statistica del campionamento, sia perché è necessario sapere esattamente che cosa si stia realmente campionando per poter poi effettuare un’analisi critica dei risultati. L’analisi stratigrafica costituisce un prerequisito fondamentale nella scelta dei metodi di datazione e nel successivo corretto uso e interpretazione dei loro risultati. Lo studio stratigrafico e geoarcheologico della sequenza permettono di campionare le unità significative tralasciando quelle dubbie o rimaneggiate che potrebbero dare risultati anomali o incoerenti. I metodi geocrometrici di datazione sono estremamente numerosi. I metodi basati sul decadimento di singoli radionuclidi o di famiglie di radionuclidi si applicano a materiali che contengono atomi di elementi che includono isotopi radioattivi instabili, soggetti a trasformarsi in altri elementi, stabili o instabili a loro volta, con velocità nota. Poiché è nota la quantità dei singoli stabili e instabili inizialmente presente in natura, se si determina la loro quantità attuale è possibile determinare l’età del campione perché è nota la velocità di decadimento di quelli stabili. Tra questi si innoveranno ad esempio il radiocarbonio, il potassio-argon e argon-argon, le serie dell’uranio. Cap. 2.7 L’utilizzo degli isotopi stabili in antropologia (da vedere) Cap. 2.10 Il Quaternario: cronologia, suddivisioni e terminologia Nella storia geologica della Terra, termine Quaternario indica la parte più recente, l’ultima delle tre che scandiscono l’era Cenozoica. Il Quaternario abbraccia la storia evolutiva del genere Homo. Il campo. Di ricerca del Quaternario coinvolge molte scienze e discipline come la sedimentologia, paleontologia, tettonica, geomorfologia, pedologia, antropologica, archeologia e altre, che trovano applicazione nello studio dei depositi e delle caratteristiche degli ambienti marini e continentali. Attualmente il Quaternario include i seguenti stadi: Gelasiano e Calabriano compresi nella Sottoserie Pleistocene inferiore, Chibaniano nel Pleistocene medio, nessuno stadio nel Pleistocene superiore e i tre Stadi recentemente introdotti nella suddivisione della Sottoserie Olocene. Cap. 5.1 La divergenza tra uomo e grandi scimmie antropomorfe e l’orologio molecolare. I più antichi ominini La linea che porta alla nostra specie si è separata da quella che arriva alle due specie di scimpanzé – pan troglodytes e Pan paniscus – le specie di Primati viventi con le quali Homo sapiens condivide un antenato in comune. A livello genetico, le differenze tra Homo sapiens e Pan troglodytes sono dell’ordine dell’1%. Morris Godman aveva stabilito, attraverso l’analisi immunologica delle proteine sieriche di Homo sapiens e delle scimmie antropomorfe, che il genoma del gorilla e dello scimpanzé è più simile a quello dell’uomo ce a quello dell’orango. Godman non era riuscito tuttavia a stabilire i tempi delle separazioni filogeniche tra i quattro gruppi in questione. Vincent Sarich e Allan Wilson hanno stabilito tale cronologia, a partire dalle differenze genetiche, grazie al concetto di , attraverso il quale si possono datare le speciazioni proprio a livello molecolare. Con il passare del tempo e delle generazioni, ogni specie andrà ad accumulare mutazioni differenti, che comporteranno una divergenza sempre più grande tra loro. Considerando che le mutazioni sono essenzialmente neutrali, a prescindere dall’ambiente sarà il tasso delle mutazioni stesse a stabilire il ritmo con cui le specie si allontanano a livello molecolare tra loro. Per stabilire con ragionevole certezza i tempi di divergenza tra le specie, l’orologio molecolare andrà calibrato ogni volta basandosi su fossili o eventi biogeografici, come può esserlo la colonizzazione geografica da parte di una specie, che si possano datare con precisione. L’orologio molecolare non ha incontrato il favore di tutti gli evoluzionisti; diversi evoluzionisti classici non erano propensi ad accettare l’ipotesi. D’altro canto, diversi evoluzionisti molecolari non erano convinti che potesse davvero esistere un orologio molecolare. L’ipotesi è stata approfondita e analizzata negli ultimi decenni, e questo ha portato a notare che in effetti esistono differenze tra le varie specie nei tassi di evoluzione. Laddove la durata delle generazioni è più breve, il numero annuale di replicazioni del DNA per linea germinale è ovviamente più elevato se si ammette che il numero di replicazioni nelle linee germinali per generazione non sia molto differente nei diversi organismi. Ecco perché i roditori, con la durata più breve delle loro generazioni, hanno un tasso evolutivo più veloce di quello dei primati. Vincent Sarich e Allan Wilson hanno applicato l’orologio molecolare alla relazione filogenica tra gorilla, scimpanzé e uomo. Il loro primo passo è stato quello di definire il cosiddetto ID (indice di dissimilarità molecolare), cioè quanto una specie differisca dall’altra per numero di mutazioni. L’ID doveva a quel punto essere rapportato al tempo di separazione, secondo la formula log ID=kT. Mancava ancora il valore della costante k. Per ottenerlo, i due studiosi sono partiti dall’ID, stabilito in base alla variabilità dell’albumina, tra Homo sapiens e le scimmie non antropomorfe del Vecchio Mondo e dal tempo, noto grazie alle evidenze paleontologiche, a cui risaliva la loro divergenza evolutiva. Essendo l’ID in questione pari a 2,3 e il tempo di separazione stimato a 30 milioni di anni fa, hanno dunque ottenuto una costante per milione di anni di 0,012. A questo punto, c’erano tutti gli elementi per stabilire quando si era verificata la separazione tra l’uomo e le scimmie antropomorfe africane. Poiché l’ID, in questo caso, era di 1,13, il tempo a cui risaliva la divergenza evolutiva non poteva essere superiore a 5 milioni di anni fa. Secondo le più recenti analisi del Dna, si é stabilito che il primo a separarsi dall’antenato comune delle grandi scimmie antropomorfe é stato l’orango, circa 14 milioni di anni fa, seguito dal gorilla 10 milioni di anni fa e infine dallo scimpanzé, appena 6 milioni di anni fa. I più antichi Ominini Nell’arco temporale tra il Miocene superiore e il Pliocene inferiore la documentazione paleontologica di Ominidi è estremamente esigua. Per poter attribuire alla nostra linea evolutiva resti fossili rinvenuti in depositi riferibili a questa epoca è necessario individuare specifiche caratteristiche anatomiche che sono presenti in Homo sapiens, anche se non nella stessa identica forma o dimensione. Vi sono numerosi caratteri anatomici e morfologici che sono esclusivi di Homo sapiens nell’ordine dei Primati. È possibile tracciare la comparsa di questi caratteri in momenti diversi della nostra storia evolutiva, con un pattern di evoluzione a. La postura eretta e l’andatura bipede sono caratteristiche anatomiche umane che compaiono per prime nella nostra evoluzione. Fra gli Ominidi Miocenici e del Pliocene inferiore sono state descritte alcune forme i cui resti fossili mostrano evidenze anatomiche dirette, o indirette, di postura eretta a ndatura bipede e come tali dovrebbero essere considerate Ominini a tutti gli effetti. Fra queste la specie più antica è Sahelanthropus tchadensis, i cui resti, datati a circa 7 milioni di anni fa, sono stati scoperti nel 2001 e 2002 nella località di Toros-Mennala, nel deserto del Ciad, in Africa centrale. Il fossile più significativo è rappresentato da un cranio che mostra nella sua base, nell’osso occipitale, una posizione avanzata del foro occipitale, che rappresenta una evidenza indiretta di postura eretta ed è legata alla posizione della testa in cima alla colonna vertebrale. Gli autori descrivono denti canini di dimensioni relativamente ridotte e spessore dello smalto dei denti molari maggiore di quello che si può osservare negli scimpanzé e nel gorilla. Tuttavia, non tutti gli autori sono d’accordo nel considerare Sahelantrhopus come più antico Ominine. A questo rigardo è importante notare che in anni più recenti (2020) è stata descritta una porzione di femore sinistro rinvenuta nella stessa località e attribuito ad un Ominide. Questa evidenza rende più complessa l’interpretazione della posizione sistematica di Sahelanthropus tcadensis. Un’altra specie risalente alle fasi finali del miocene è Orrorin tugenensis, rappresentata da un insieme di fossili, craniali e postcraniali, scoperti nel 2000 nelle Tugen Hills, in Kenya, e datati a circa 6 Ma. Fra uesti fossili quelli certamente più significativi sono 3 frammenti di femore, la cui morfologia complessiva sembra indicare capacità di postura eretta e andatura bipede, anche se le modalità di questa sono ancora oggetto di dibattito. Sono state condotte varie analisi sulla morfologia funzionale di questi femori e i risultati sembrano indicare che sia compatibile con la capacità di questa specie di muoversi con un’andatura bipede, ma che questa modalità di andatura non è comparabile con quella che troviamo nelle forme più recenti della lin evolutiva umana. Tra le forme Mioceniche vi sono anche alcuni resti proveniente da varie località nella media valle del fiume Awash, in Eitiopia e datati tra 5,8-5,2 Ma. Questi sono attribuiti alla specie Ardipithecus kadabba. I pochi resti includono, fra gli altri, un dnte canino superiore e inferiore e un primo premolare superiore e inferiore, tutti del lato destro e tutti appartenenti allo stesso individuo. Alcuni dettagli della morfologia dentaria e il particolare tipo di usura sembrano indicare una certa riduzione delle dimensioni dei denti canii e quindi una progressiva riduzione del grado di dimorfismo sessuale. Nel Pliocene inferiore si trovano alcuni fossili che mostrano evidenze di postura eretta. Questi sono attribuiti alla specie Ardipithecus ramidus, datati a 4,4 Ma e provengono dal sito i Aramis, nella media valle del fiume Awash, Eitiopia. Di particolare interesse sono i resti di uno scheletro parziale, con elementi del cranio e del post-cranio. Nell’insieme questi fossili presentano caratteri più derivati nella morfologia della base del cranio e altri più primitivi, come la struttura della mano e del piede. Il foro occipitale ha una posizione avanzata, indicativo di un cranio posto in cima alla colonna vertebrale; le ossa del piede, e in particolare l’articolazione dall’alluce, invece, dimostrano un alluce opponibile, che garantiva una facilità di arrampicamento sugli alberi. La struttura del bacino, nel suo complesso, è un mosaico di caratteri più derivati, che si osservano nei fossili di epoche più recenti, e più primitivi, simili a quanto si può osservare anche negli scimpanzé attuali. La dentatura ostra denti e canini relativamente ridotti e spessore dello smalto dentario relativamente sottile, anche se più spesso di quello delle antropomorfe africane attuali. Nel complesso lo scheletro di Ardipithecus ramidus dimostra una possibilità di postura eretta, ma certamente una limitata capacità di locomozione bipede. L’appartenenza di queste specie agli Ominini non è una ipotesi condivisa da tutti i ricercatori. La postura eretta e l’andatura bipede potrebbero essersi evolute, in maniera indipendente, in linee diverse alla base del “cespuglio” evolutivo umano. Box 2 Il modello “a cespuglio” dell’evoluzione umana L’interpretazione dei resti fossili di Ominidi ritrovati in depositi di epoca Miocenica richiede di stabilire se questi possano appartenere alla più antica specie della linea evolutiva umana, o al più antico scimpanzé, oppure all’antenato comune tra Homo sapiens e Pan troglodytes, cioè prima della divergenza delle due linee evolutive. È necessario fare riferimento a determinate caratteristiche anatomiche. È molto più probabile ce questi resti appartengano a una delle tante specie fossili stintesi senza lasciare discendenza, e cioè dei “rami secchi” dell’albero evolutivo umano. Nel corso delle varie fasi dell’evoluzione umana sono coesistite. Il modello dell’evoluzione umana “a cespuglio” ha sostituito negli ultimi anni il cosiddetto “modello unilineare”. Box 3 Ipotesi sull’origine della postura eretta e andatura bipede La postura eretta è detta anche ortograde, in riferimento al fatto che la colonna vertebrale è perpendicolare al terreno. Una variante della postura ortograde è quella clinograde. In anni più recenti si sta facendo strada un approccio nuovo che ritiene importante integrare l’osservazione della morfologia e del comportamento locomotorio degli Ominidi viventi con i dati derivati dall’analisi dei fossili di specie Mioceniche di Ominidi, con particolare riferimento ai resti postcraniali. Cap. 5.2 Ominini Pliocenci. Gli Autrolopiteci A partire da circa 4 milioni di anni fa le testimonianze fossili della linea evolutiva umana iniziano ad essere più numerose. Nell’arco temporale che copre l’epoca Pliocenica e parte del Pleistocene inferiore sono state riconosciute e descritte almeno 7 specie di Ominini la maggior parte delle quali attribuite al genere Australopithecus. Si tratta di un gruppo di specie i cui fossili sono stati ritrovati in varie zone dell’Africa orientale, meridionale e anche centrale. Sono forme per le quali le evidenze morfologiche disponibili dimostrano una tendenza all’aumento delle dimensioni dentarie e una palese capacità di andatura bipede definita “facoltativa”. Questo variegato “repertorio” di locomozione fu probabilmente una risposta evolutiva al graduale processo di inaridimento del clima in Africa che portò alla progressiva riduzione della copertura vegetale: come conseguenza vi fu la diffusione di spazi aperti alternati a zone con maggiore copertura arborea, e per spostarsi fra queste poteva esser vantaggioso muoversi su due zampe. Australopithecus anamensis La specie più antica, i cui resti fossili sono stati scoperti in Kenya e in Etiopia, in depositi datati tra 4,2 e 3,8 Ma. Il reperto più rilevante è un cranio parziale proveniente dall’area di Woranso. Questo mostra un marcato prognatismo, e la calotta cranica è lunga e stretta: la base dell’arcata zigomatica è posta anteriormente. La capacità cranica è stimata intorno ai 370 cc. Si tratta di mascelle e mandibole caratterizzate da arcate dentarie parallele, una condizione primitiva simile a quella delle antropomorfe viventi, e denti molari di dimensioni più gradi rispetto ad Ardipithecus, e con lo smalto più spesso. Fra i pochi resti postcraniali particolarmente significativa è una porzione prossimale di una tibia scoperta nel sito di Kanapoi che per alcuni caratteri, quali il marcato sviluppo volumetrico della zona al di sotto del piatto tibiale, denota un andamento ad una locomozione bipede. I fossili attribuiti ad A. Anamensis descrivono una specie con una morfologia “a mosaico” Australopithecus afarensis Secondo alcuni studiosi le evidenze fossili disponibili fanno ipotizzare che dalla specie A. Anamensis si sia originata la specie A. Afarensis, distribuita dall’Etiopia alla Tanzania, in una decina di siti, fra 3,9 e 3 Ma. Si tratterebbe di un processo di evoluzione di tipo anagenetico. Altri ritengono invece che la sovrapposizione nella distribuzione temporale fra le due specie, e alcune differenze morfologiche nel cranio siano da interpretare come evidenze di due linee separate, anche se affini. Fra le specie di Ominini Pliocenici A. Afarensis è certamente quella meglio conosciuta. La ricca documentazione è costituita da due crani completi, altri crani parziali, più di 30 mascelle e mandibole, decine di denti isolati e numerose ossa di tutti i distretti dello scheletro postcraniale, di individui adulti e subadulti. Il cranio presenta una cresta sagittale e nucale; il progratismo è marcato. Le arcate dentarie non sono più parallele ma divergenti posteriormente, a creare così un profilo parabolico. I denti premorali e molari sono più grandi di quelli di A. Anamensis, e con lo smalto spesso. I canini sono di dimensioni relativamente più piccole delle specie più antiche. La progressiva riduzione delle dimensioni dei canini porta con sé la scomparsa del diastema. La capacità cranica è compresa tra 400 e 500 cc. Nello scheletro postcraniale la specie mostra numerosi caratteri derivati indicativi di capacità di andatura bipede, sia nella struttura del tronco, del bacino e negli arti inferiori, simili a specie più recenti appartenenti al genere Homo. Nel bacino l’ileo è allungato in senso antero-posteriore e corto in senso supero-inferiore; l’asse del femore è inclinato rispetto all’articolazione con la tibia; nel piede l’alluce è allineato alle altre dita e non più divergente. Al contempo, alcuni caratteri primitivi quali l’arto superiore relativamente lungo rispetto all’arto inferiore; le falangi della mano incurvate; l’articolazione della spalla orientata cranialmente denotano adattamenti per la capacità di arrampicamento sugli alberi. Da questa combinazione di caratteri deriva l’uso del termine “andatura bipede facoltativa”. Ma l’evidenza più significativa della capacità di locomozione bipede di queste forme è rappresentata certamente da una serie di impronte fossili scoperte nella località di Laetoli. È stato possibile stimare le dimensioni corporee della specie attraverso alcune misure delle ossa lunghe. Queste indicano una massa corporea tra i 30 e i 50 kg, con alcuni individui di piccole dimensioni e altri di taglia più grande. L’elevato grado di dimorfismo sessuale è testimoniato anche dai due crani quasi completi, uno maschile e uno femminile, fra i fossili meglio conservati di questa specie. Ricostruire il grado di dimorfismo sessuale in una specie fossile consente di ipotizzare il tipo di struttura sociale, dal momento che nei Primati viventi vi è una precisa relazione tra dimorfismo sessuale e struttura sociale. La scoperta di individue subadulti ha permesso anche di ottenere indicazioni sulle modalità e sui tempi di sviluppo somatico di A, afarensis. Il fossile più significativo è lo scheletro parziale trovato nella località di Dikika, in Etiopia, in depositi datati a circa 3,3 Ma. Il fossile è costituito da un cranio, pressoché completo, più varie ossa postcraniali. Le dimensioni dentarie fanno pensare che si tratti di un individuo femminile, la cui età alla morte è stata stimata a circa 2,4 anni. La presenza del calco endocranico ha permesso di stimare la capacità cranica, e la relazione tra età e dimensioni celebrali ha portato a ipotizzare dei tempi di sviluppo somatico diversi dalla condizione primitiva. La dieta di A. Afarensis è stata ricostruita da diverse metodologie (analisi delle microusure dentarie e degli isotopi stabili). Il quadro che emerge è quello di una specie con un ampio spettro di risorse alimentari: oltre al consumo di frutta, germogli e semi le analisi suggeriscono un aumento percentuale dell’utilizzo di cibi quali piante erbacee di tipo C4, tipiche di ambienti aperti. Australopithecus africanus L’altra specie del genere A relativamente ben conosciuta è A, africanus, i cui resti provengono da 4 siti in Sudafrica, in un arco di temporale tra circa 3,0 e 2,0 Ma. Fra questi il più importante è il sito di Sterkfontein. Un fossile emblematico di questa specie è quello noto anche come “bambino di Taung” dalla località dove venne scoperto nel 1924. Nella specie A, africanus la struttura del cranio è simile a quella del A, afarensis con alcune significative differenze relative all’apparato masticatorio e alla faccia. I denti molari e premolari sono di solito più grandi di quelli A, afarensis. La capacità cranica media è di circa 450 cc. A livello post-craniale i numerosi resti, fra i quali due scheletri parziali, mostrano altre affinità con A, afarensis, sia nell’andatura bipede facoltativa che nelle dimensioni corporee ricostruite e nel grado di dimorfismo sessuale. La ricca documentazione di fossili di A, africanus dimostra l’esistenza di un’elevata variabilità morfologica, che alcuni autori attribuiscono in parte al dimorfismo sessuale e in parte alla presenza di due specie diverse. La seconda specie è stata battezzata A, prometheus e il suo resto più significativo è uno scheletro parziale proveniente da un’area del sito di sterkfontein datata a circa 3,76 Ma. Australopithecus sediba e altre specie Nel sito sudafricano di Malapa, datato circa a 1,9 Ma, sono stati rinvenuti due scheletri parziali (adulto e subadulto), che sono stati attribuiti dai loro scopritori ad una nuova specie, A, sediba. Questi due scheletri rivelano una morfologia “a mosaico” della struttura corporea, caratterizzata da numerosi elementi più primitivi e altri più derivati verso la condizione tipica del genere Homo, come ad esempio la configurazione del bacino o alcuni dettagli della struttura della mano. A, sediba rappresenta una specie originatasi da A, africanus; altri autori invece considerano i fossili come facenti di una popolazione recente della specie africanus. Sono poi da menzionare altre specie. Tra queste A, bahrelghazali, i cui resti risalgono a 3,5-3 Ma e sono stati ritrovati in Ciad. L’interesse del reperto sta nella sua provenienza, che dimostra che l’areale di queste forme era molto ampio e non limitato all’Africa orientale e meridionale. A, garhi i cui pochi resti fossili risalgono a depositi datati a 2,5 Ma nel sito di Bouri, in Etiopia. Un cranio parziale e altri denti isolati mostrano denti molari più grandi rispetto ad altre specie di A, nel range delle specie del genere Paranthropus. Sono presenti anche resti postcraniali, uno scheletro parziale e altri frammenti di ossa lunghe. La specie Kenyanthropus platyops è stata creata sulla base di alcuni fossili rinvenuti nella località di Lomelwi, sulle sponde occidentale del lago Turkana, in depositi datati a 3,5 Ma. La morfologia del cranio, caratterizzata da uno scheletro facciale appiattito, privo di prognatismo tipico degli altri A, ha indotto i ricercatori di attribuire questi resti ad un nuovo genere. La più recente è A, deyiremeda creata sulla base di fossili scoperti nella località di Burtele, in Etiopia, in depositi datati a 3,3-3,5 Ma. I resti includono una porzione di mascella, mandibole, più alcuni denti isolati. Il corpo mandibolare è spesso e i denti molari sono di piccole dimensioni. Box 1 Lucy, lo scheletro parziale di A, afarensis Del cranio vi sono alcune ossa della volta e mandibola, con alcuni denti premolari e molari. Nello scheletro postcraniale sono state ritrovate molte ossa, con diverso grado di conservazione: la scapola, la clavicola e le ossa dell’arto superiore, quantomeno da un lato. Lo scheletro assiale è rappresentato da alcune vertebre toraciche e lombari e frammenti di coste. L’osso pelvico di sinistra, l’osso sacro e il femore sinistro sono ben conservati. Resti della gamba destra includono frammenti di tibia, fibula e astragalo. Sono presenti anche alcune falangi delle mani e dei piedi. Si trattava di un individuo di ridotte dimensioni corporee, con una statura stimata di poco più di un metro. Il rapporto tra la lunghezza dell’omero e quella del femore indica che l’arto superiore era ancora relativamente più lungo rispetto alla gamba. Le ossa del bacino, e dell’ileo in particolare, rilevano adattamenti ad una andatura bipede. Box 2 Le impronte di Laetoli Nel 1978 il gruppo di ricerca di Mary Leakey fece una straordinaria scoperta mentre erano impegnati in uno scavo nella località di Laetoli in Tanzania: venne portato alla luce uno strato di ceneri vulcaniche consolidate, poi datato a circa 3,66 Ma, nel quale erano impresse le tracce del passaggio di numerosi animali, vertebrati e invertebrati. Su questa superficie fra le numerose impronte vi sono quelle di tra individui, di diverse dimensioni, che si spostavano su due zampe. La morfologia delle impronte era simile a quella di un essere umano moderno, pur con alcune differenze significative. In anni recenti un’altra serie di impronte è stata scoperta a circa 150 metri da quelle studiate in precedenza. Il loro studio, pubblicato nel 2016, ha messo in evidenza che gli individui che lasciarono le impronte avevano dimensione corporee maggiori rispetto a quelli della prima serie di tracce. Box 4 Il cucciolo di A, africanus da Taung Si trattava di un individuo subadulto e comprendeva tutta la parte dello scheletro facciale, la mascella, la mandibola, e la dentizione mista, cioè tutti i denti da latte e il primo molare permanente in fase di comparsa in bocca. Oltre a questo, era conservata parte della base del cranio e parte del calco endocranico naturale, cioè l’impronta della porzione interna della scatola cranica, che riflette la morfologia della porzione esterna del cervello. Dall’analisi del fossile Dart si rese conto che la morfologia della base del cranio, con il foro occipitale rivolto inferiormente, stava ad indicare che l’animale possedeva una postura eretta, in maniera analoga a quanto si può osservare nella specie umana. I piccoli denti canini da latte, le grandi dimensioni relative del calco endocranico, più alcuni dettagli della morfologia di questo, portano a Dart a capire che non si trattava di un fossile di babbuino, ma di un animale capace di postura eretta e con caratteri più derivati nella direzione umana. Cap. 5.3 I cambiamenti climatici ed evoluzione umana: il bivio adattativo Paranthropus e Homo Le ricostruzioni paleoclimatiche e paleoambientali disponibili per il continente africano nella parte finale del Pliocene mettono in evidenza l’instaurarsi di una tendenza globale ad un progressivo raffreddamento del clima associata ad un’alternanza di cicli con clima arido e clima umido più ampi rispetto ai periodi precedenti. Questa condizione ebbe come effetto il verificarsi di periodi di elevata instabilità climatica e numerosi indicatori suggeriscono che questi cambiamenti influenzarono profondamente le comunità vegetali e animali africane. Dal punto di vista faunistico a partire circa 2,6 ma è documentata la comparsa di specie adattate ad ambienti aperti, con una ridotta copertura arborea. A questi fattori selettivi non furono immuni le numerose e già diversificate specie di Ominini del Pleistocene superiore, al punto che il record fossile documenta la comparsa di due linee evolutive ben distinte morfologicamente per cui si parla spesso di un “bivio adattativo”: da una parte i cosiddetti Australopiteci robusti, rappresentati da forme con un’accentuata specializzazione dell’apparato masticatorio, ed estintesi intorno a 1Ma; dall’altra linea dei nostri più antichi antenati, con la comparsa delle prime specie attribuite al genere Homo, caratterizzate da una tendenza alla riduzione dell’apparato masticatorio e da un aumento delle dimensioni cerebrali. Il genere Paranthropus Le specie del genere Paranthropus (Australopiteci robusti) costituiscono una linea evolutiva che comprende le specie e che è caratterizzata da un marcato aumento delle dimensioni dei denti molari e premolari e la contestuale riduzione dei denti anteriori. Lo smalto dentario è molto spesso, come in nessun altro genere di Primati. Associato a questo tipo di dentatura vi è un apparato masticatorio potente, con un forte sviluppo dei muscoli masticatori e conseguente sviluppo delle inserzioni muscolari, come documentato dalla esistenza di una cresta sagittale sulla sommità del cranio; il corpo mandibolare è molto grosso e spesso. Lo scheletro facciale è schiacciato. Le arcate zigomatiche sporgono lateralmente. L’interpretazione tradizionale di questi adattamenti morfologici era che questi rispondessero all’esigenza di elaborare cibi duri e di bassa qualità. In ani più recenti, tuttavia, è stata proposta una nuova ipotesi secondo la quale queste specie fossero di fatto dei “generalisti”, e cioè con una dieta di tipo frugivoro e che sfruttasse un tipo di risorse disponibili quando i componenti di una dieta frugivora non fossero stati di facile reperibilità nell’ambiente. Paranthropus aethiopicus È la specie più antica di questo gruppo di forme, rappresentata da resti rinvenuti in Etiopia, Kenya e Tanzania e datati fra 2,7 e 2,3 Ma. Fra questi il più significativo è un cranio quasi completo datato a circa 2,5 Ma. Questo mostra già un marcato sviluppo della cresta sagittale, mentre il prognatismo è ancora evidente. Paranthropus boisei La specie è documentata in una decina di siti in Kenya, Etiopia, Tanzania e anche Malawi. L’elevata numerosità di fossili ha consentito di ricavare informazioni relative alla biologia di questa specie. Fra i fossili più significativi vi è proprio l’olotipo, rappresentato dal cranio di un giovane maschio scoperto nel 1959 nel sito di Olduvai in Tanzania e datato a circa 1,84 Ma. La capacità cranica media in questa specie è di circa 450cc. La struttura dello scheletro postcraniale è poco conosciuta, dal momento che nei siti nei quali sono stati ritrovati fossili di P. Boisei sono presenti anche resti craniali riferiti al genere Homo, per cui l’attribuzione dei resti post-craniali isolati all’uno o all’altro gruppo non è sempre stata possibile. Paranthropus robustus Fossili di Australopiteci robusti son stati trovati anche in Sudafrica. Questi depositi coprono un arco temporale tra circa 2 e 1 Ma. La documentazione fossile è abbondante, mentre i resti postcraniali presentano talvolta problemi di interpretazione. La morfologia complessiva del cranio presenta forti analogie con quella della specie P. Boisei, e per questo motivo si è ipotizzato che le due specie condividessero un antenato comune che potrebbe essere identificato nella specie più antica. Le affinità morfologiche avevano da sempre fatto ritenere che la dieta di queste due specie fosse basata sul consumo di cibi duri e fibrosi. In realtà recenti analisi del contenuto in isotopi stabili del carbonio all’interno dello smalto dentario hanno messo in evidenza un quadro inaspettato. Per la specie P. Robustus vi sono indicazioni per una dieta ad ampio spettro di risorse alimentari, in larga parte simile a quella degli Australopiteci Plioceni, seppure con una maggiore componente di cibi duri e fibrosi; per la specie P. Boisei, invece, le analisi suggeriscono una dieta molto più specializzata e con una prevalenza quasi esclusiva di piante erbacee di tipo C4, tipiche di ambienti aperti o di piante tipo giunchi o papiri, tipiche di margini lacustri. Il genere homo L’altra linea evolutiva di cui si ha una solida documentazione nelle fasi iniziali del Pleistocene inferiore è quella che comprende le specie più antiche convenzionalmente attribuite al genere Homo. In queste specie la struttura del cranio è profondamente diversa da quella delle specie del genere Paranthropus, in quanto mancano le specializzazioni dell’apparato masticatorio e si osserva invece una tendenza all’aumento della capacità cranica assoluta e alla riduzione delle dimensioni dentarie. L’aumento delle dimensioni cerebrali medie rispetto alle forme più antiche è uno degli elementi per i quali questi fossili sono attribuiti al genere Homo. Il fossile più antico riferito al genere Homo è una porzione di mandibola con alcuni denti scoperta nella località di Leni Geraru, in Etiopia, in depositi datati a circa 2,8 Ma. Homo habilis La specie H. Habilis fu descritta nel 1964 sulla base di alcuni resti scoperti dalla famiglia Leakey in depositi della gola di Olduvai datati a circa 1,8 Ma. L’olotipo è costituito da una mandibola con denti, due ossa parietali e 13 ossa della mano riconducibili ad un unico individuo giovane. Le dimensioni dentarie e la stima delle dimensioni indicano chiaramente che non si poteva trattare di un fossile attribuibile alla specie ritrovata negli stessi depositi. I resti più antichi assimilabili a H. Habilis provengono dal sito di Hadar, in Etiopia, e risalgono a circa 2,3 Ma. Il fossile più significativo di questa specie è rappresentato dal cranio indicato come KNM-ER 1813, scoperto della località di Koobi Fora, in Kenya, datato a circa 1,9 Ma. La morfologia complessiva del cranio è a quella di A. Africanus, dal quale si distingue, fra i vari caratteri, per il maggiore sviluppo dell’arcata sopraorbitaria, le ossa nasali prominenti e le dimensioni tra 500 e 800 cc, e questa caratteristica è considerata la principale differenza rispetto agli Australopiteci. L’evidenza di resti postcraniali di H. Habilis sembra suggerire una struttura e proporzione degli alti superiori e inferiori che denota il mantenimento di una capacità di arrampicamento, in maniera non dissimile da quella degli Australopiteci. Homo rudolfensi L’altra specie alla base del genere Homo è H. rudolfensis, di cui si conoscono solo pochi resti craniali e dentari provenienti soprattutto dalla regione di Koobi Fora, in Kenya, in un arco temporale tra 2 e 1,8 Ma. In questa specie la capacità cranica è più grande (range 760-820cc), manca il toro sopraorbitario, la faccia ha prognatismo ridotto, con la base della arcata zigomatica posta a livello del secondo premolare. I denti sono di dimensioni maggiori rispetto a quelli di H. Habilis. Non sono noti resti postcraniali di questa specie. Alcuni autori inquadrano queste specie come Ominini di “transizione” a sottolineare che si tratta di forme che non hanno ancora acquisito una struttura dello scheletro che troveremo poi in tutte le specie più recenti del genere Homo: si tratterebbe quindi di specie di Australopiteci con un cervello di dimensione più grandi. Questa ipotesi lascia aperta la possibilità che queste specie non siano nemmeno da ascrivere nel genere Homo, rendendo pi complesso il quadro di queste fasi dell’evoluzione umana. Cap.5.5 Encefalizzazione Evoluzione celebrale Le grandi dimensioni encefaliche rispetto alle dimensioni del corpo, nei primati e soprattutto nel genere Homo, rappresentano una caratteristica talmente evidente da aver rappresentato un centro focale di attenzione in antropologia durante tutta la storia della disciplina. La paleoneurologia è una disciplina che studia l’anatomia celebrale nelle specie estinte, a partire dalla morfologia del neurocranio, e delle impronte che il cervello lascia sulla superficie della cavità endocranica dei fossili. Le dimensioni enfaceliche sono chiaramente un carattere centrale di questo campo, che considera comunque anche le proporzioni delle varie regioni corticali, i solchi cerebrali, e il sistema vascolare delle meningi. In realtà, per capire l’evoluzione anatomica dell’encefalo, non ci si può limitare a considerare la sua sola morfologia, ma bisogna considerare tutto il sistema cranio-encefalico, ovvero indagare le relazioni funzionali e strutturali tra i tessuti molli e i tessuti duri che, durante la crescita e lo sviluppo, canalizzano e vincolano la morfogenesi arrivando a generare il fenotipo adulto che poi osserviamo a livello macroscopico. Capacità cranica Le grandi dimensioni cerebrali sono talmente evidenti da aver rappresentato per antonomasia la caratteristica distintiva del gruppo. Il termine “encefalizzazione” si riferisce precisamente ad un aumento delle dimensioni relative al cervello. Un aumento abbastanza chiaro delle proporzioni encefaliche lo incontriamo con le prime forme indiscutibilmente umane, come H. Ergaster, che presenta una capacità cranica media di 800 cc. Negli individui generalmente associati al genere H. Erectus questa media arriva a 1000 cc, ma ‘aumento potrebbe essere dovuto ad un incremento generale delle dimensioni corporee. Anatomia e morfologia Due specie possono avere le stesse dimensioni encefaliche e lo stesso indice di encefalizzazione, ma cervelli biologicamente molto distinti. Di fatto non siamo riusciti a localizzare grandi differenze sostanziali nel cervello umano, quando lo confrontiamo con le scimmie antropomorfe attuali e con gli ominidi fossili, ma piuttosto tante piccole differenze sparse, che non per questo sono meno fondamentali e meno determinanti a livello cognitivo. A livello cerebrale, infatti, piccole differenze biologiche possono comportare sostanziali differenze comportamentali. Encefalizzazione e comportamento Le variazioni cerebrali sono rilevanti soprattutto considerando che possono essere associate a cambiamenti nel comportamento. Aspetti come il linguaggio o le capacità esecutive possono, in alcuni casi, avere una relazione con cambiamenti macroscopici delle aree cerebrali, delle loro dimensioni o delle loro proporzioni. Altre volte, cambiamenti neurobiologici non sono osservabili semplicemente dell’anatomia macroscopica della cavità endocranica. Le evidenze neurofunzionali confermano che quando interagiamo con uno strumento il corpo lo include nel suo schema tattile e percettivo, e il cervello lo include nelle mappe somatiche e funzionali. Questa capacità di coordinazione e di integrazione tra cervello, corpo e tecnologia coinvolge in particolare le regioni parietali del cervello che hanno subito una espansione nella nostra specie almeno negli ultimi 100.000 anni. Nei Primati le dimensioni encefaliche sono proporzionali alle dimensioni del gruppo sociale, determinando la capacità adattativa del gruppo come unità evolutiva. Queste considerazioni hanno condotto recentemente a una collaborazione più stretta tra antropologia e neuroscienza, e negli ultimi anni lo studio dell’evoluzione cerebrale è stato integrato da nuove discipline come la neuroarcheologia, che studia le risposte biologiche del cervello nei comportamenti associati al registro archeologico, e la archeologia cognitiva, che invece ne considera le basi psicologiche. Encefalizzazione, crescita e sviluppo Nella specie umana le dimensioni del cervello adulto sono il risultato di un processo di encefalizzazione che ha profondamente influenzato l’intera biologia e fisiologia della specie, e soprattutto i processi legati alla sua crescita e sviluppo, sia nella vita prenatale che postnatale. Per cercare di interpretare come un cervello umano abbia condizionato i tempi di sviluppo può essere interessante esaminare alcuni dati relativi alle dimensioni cerebrali umane in confronto dello scimpanzé. Nel far questo, è importante ricordare che, a partire da un omento comune, sia la linea filogenetica umana che quella degli scimpanzé hanno subito cambiamenti evolutivi e specializzazioni, e non possiamo quindi interpretare con certezza il modello delle scimmie antropomorfe come ancestrale e primitivo. Il problema è che, se per il genere Homo la documentazione è scarsa, per le scimmie antropomorfe è quasi nulla. Non abbiamo quindi info sui cambiamenti che sono avvenuti, negli ultimi 5-10 milioni di anni, nelle linee filogenetiche che hanno condotto alle scimmie antropomorfe africane. La crescita del cervello avviene nella specie umana soprattutto dopo la nascita e per un periodo di tempo relativamente lungo. Questo significa che il neonato umano nasce relativamente prematuro. L’aumento dimensionale del cervello umano avviene non solo grazie a tempi di sviluppo post- natale relativamente più lunghi, ma anche grazie ad un tasso di crescita particolarmente elevato soprattutto nel primo anno di vita. Cap. 5.6 Il genere Homo nel Pleistocene inferiore Nel corso del Pleistocene inferiore la presenza di fossili attribuiti al genere Homo inizia ad essere chiaramente documentata per la prima volta anche al di fuori del continente africano. Le evidenze più significative e ben inquadrate cronologicamente provengono dal sito di Dmasisi, in Georgia, ai piedi delle montagne del Caucaso, in depositi datati circa 1,77 Ma. Il campione è composto da 5 crani molto ben conservati che sono stati attribuiti ad un individuo maschio anziano, due maschi adulti, una giovane femmina e un adolescente di sesso incerto. Questi resti mostrano una notevole variabilità morfologica il cui significato è ancora oggetto di dibattito. Alcuni caratteri morfologici li avvicinano ad altri fossili attribuiti alla specie H. Ergaster, mentre altri appaiono essere più arcaici. Oltre ai 5 crani, sono stati scoperte anche alcuni resti postcraniali attribuiti ad un individuo adolescente e a 3 adulti che, nel complesso, mostrano un insieme di caratteri più primitivi, quali le ridotte dimensioni corporee e altri più derivati, quali le proporzioni corporee. L’importanza del ritrovamento risiede nella sua posizione geografica. Nella lunga storia della linea evolutiva umana questa è la prima volta che una specie è documentata in Eurasia. È ipotizzabile che possa aver rappresentato uno dei tanti, ripetuti, eventi di diffusione di gruppi di qualche specie di Homo in direzioni diverse al di fuori dell’Africa, alcuni dei quali portarono una vera e propria colonizzazione di nuove regioni, come documentato in Asia orientale. Homo erectus: un nuovo tipo di ominino La specie H. Erectus appartiene al genere homo. Il nome si riferisce ad un ampio insieme di fossili rinvenuti in Africa e in Asia e che mostra un notevole grado di variazione morfologica, al punto che diversi autori descrivono le forme africane come appartenenti a una specie separata – H. Ergaster – mentre il nome H. Erectus sensu stricto è usato per le forme asiatiche. Le due specie insieme sono indicate anche come H. Erectus sensu lato. I primi fossili di questa specie vennero scoperti nel 1891 dall’anatomista olandese Marie- Eugène Dubois nel sito di Trinil, sull’isola di Java, in Indonesia. A metà degli anni Venti del XX secolo iniziarono una serie di ritrovamenti di fossili nella località cinese di Zhoukoudian, non lontano da Pechino. Ad oggi il più antico reperto assimilabile ad H. Erectus è datato a circa 2 Ma ed è stato rinvenuto nella località di Drimolen in Sudafrica. Si tratta della porzione di calotta cranica di un individuo subadulto la cui morfologia è molto simile ad un altro reperto atribuito ad H. Erectus trovato nella località di Modjokerto in Indonesia. La specie nel suo complesso è distribuita su un arco temporale molto ampio e dalle forme africane più antiche (2 Ma) arrivano fino a tempi ben più recenti – tra 117.000 e 108.000 anni fa dalla località di Ngandong, sull’isola di Java. La documentazione fossile africana di H. Ergaster presenta evidenze di un periodo di coesistenza con H. Habilis. La distribuzione geografica della specie è molto ampia. In Africa orientale i fossili più significativi provengono dalle località di Koobi Fora (kenya), Olduvai e vari siti in Etiopia. In Africa settentrionale resti talvolta attribuiti a questa specie provengono dalla località di Tighenif (Algeria). In Asia sono descritti reperti di H. Erectus da numerosi siti della Cina distribuiti su un arco temporale di circa 1 milione di anni e dell’indonesia da circa 1,3 Ma fino a epoche recenti. L’evidenza asiatica suggerisce quindi che il quadro dell’evoluzione umana nell’Asia orientale è in gran parte dominato da questa specie per un lungo periodo di tempo e su una vasta area geografica. La documentazione fossile di H. Erectus in Europa è controversa. Le evidenze fossili disponibili di H. Erectus s.l. Dimostrano per questa specie una morfologia più derivata, a volte indicata come “premoderna”, che segna una discontinuità con i taxa precedenti e indica un diverso tipo di ominino in molti aspetti della anatomia e del comportamento. Nella specie H. Erectus s.s. il cranio è allungato in senso anto-posteriore, con una marcata protuberanza a livello dell’oso occipitale (toro occipitale); le arcate sopraorbitarie sono molto massicce e costituiscono un toro sopraorbitorio; l’osso frontale è sfuggente; la volta cranica presenta una protuberanza lungo la sutura sagittale, lateralmente alla quale i parietali sono schiacciati, contribuendo così ad una tipica morfologia di questa porzione del cranio nota anche come carenatura. Le forme africane mostrano alcuni caratteri del cranio che lo differenziano dai fossili asiatici, quali il toro sopraorbitorio e quello occipitale meno sviluppati, l’assenza di carenatura e l’osso frontale più curvo. La capacità cranicamedia della specie H. Erectus s.l. È superiore a quella dei fossili di h. Habilis e H. Rudolfensis, con valori medi di circa 800 cc per le forme africane e di 980 cc per le forme asiatiche, pur con un ampio range dimensionale. Un’ulteriore differenza tra la specie H. Erectus s.l. E le forme di Homo più antiche risiede nelle dimensioni dentarie che sono in media più piccole della specie più recente, pur con una notevole variabilità. È considerata da molti autori associata ad un cambiamento nel tipo di dieta. Il ragazzo del Turkana, uno scheletro quasi completo rinvenuto nel 1985 presso la località di Nariokotome, sulla sponda occidentale del lago Turkana, in Kenya in depositi risalenti a circa 1,5 Ma. Questa eccezionale scoperta ha permesso ai ricercatori di farsi un’idea della struttura corporea della specie di quasi tutti i distretti anatomici. I resti fossili postcraniali di H. erectus dimostrano che questa specie aveva ormai perso la capacità di arrampicamento. L’articolazione della spalla è rivolta lateralmente e non più cranialmente. La struttura del bacino e dell’arto inferiore mostrano adattamenti ad una locomozione bipede esclusiva (bipedismo obbligatorio), quali l’allungamento relativo del femore e della tibia rispetto alle ossa dell’arto superiore e articolazioni più ampie per meglio resistere alle forse generatesi nella locomozione bipede. Altre indicazioni derivano dall’analisi di impronte fossili di piedi datate a circa 1,5 Ma rinvenuti nella località di Ilerte (kenya). Queste dimostrano una struttura del piede nella quale l’alluce è completamente parallelo all’asse delle altre dita del piede, le falangi delle altre dita sono più corte e l’arco plantare è ben sviluppato. Si tratta di una anatomia del piede sostanzialmente moderna. L’aumento delle dimensioni encefaliche e corporee, una tradizione culturale innovativa e una più raffinata capacità manipolativa sono associati ad un cambiamento nel tipo di dieta che ha riguardato l’introduzione di una maggiore componente di cibi di origine animale quali soprattutto carne ma anche risorse acquatiche. Il primo popolamento in Europa Fra le evidenze archeologiche più antiche sono da menzionare i ritrovamenti effettuati in Italia nella località nota come Pirro Nord (Apricena, Foggia). I più antichi fossili della linea umana in Europa sono invece rappresentati da alcuni resti rinvenuti nel sito chiamato Sima del Elefante nella Sierra di Atapuerca: qui nel 2007 in un deposito datato a ca. 1,22 Ma è stata scoperta una porzione di mandibola umana. L’esemplare è stato genericamente attribuito a Homo sp. Da un altro sito della Sierra di Altapuerca provengono invece numerose evidenze fossili, costituite soprattutto da resti dentari, oltre allo scheletro facciale di un individuo subadulto, che mostrano una combinazione di caratteri più arcaici e caratteri più derivati. La struttura dello scheletro facciale sembra indicare una morfologia che può essere compatibile con quella del possibile antenato comune tra la linea che darà origine ad H. Sapiens e quella che porterà a H. Neanderthalensis. Sulla base di queste considerazioni gli autori crearono una nuova specie ala quale dettero il nome di H. Antecessor, ad oggi riconosciuta solo nel sito di Gran Dolina. Box 1 Il ragazzo di Turkana Stimata una età di morte di 11-12 anni. L’esemplare aveva una struttura complessiva che differiva da quella di H. Habilis e mostrava affinità con H. Sapiens. La struttura era di circa 165 cm la forma del corpo simile all’Uomo moderno che vive a quelle latitudini in Africa. Studi recenti hanno stimato chela statura da adulto sarebbe stata intorno ai 180 cm, con un peso corporeo intorno agli 80 kg. Il cranio mostrava già caratteristiche di H. Erectus s.l. Come la mancanza del mento osseo, la faccia larga e prognata con il naso largo, il marcato sviluppo delle arcate sopracciliari e una capacità cranica di circa 900cc. Studi sulla pelvi di questa specie indicano che era stretta antero-posteriormente e quindi un grande cranio non avrebbe potuto passarvi durante il parto. Questo indicherebbe che i neonati nascessero prima che l’encefalo fosse completamente sviluppato e quindi probabilmente maturavano lentamente ed erano dipendenti dalle loro madri. Cap. 5.7 Il genere Homo nel Pleistocene Medio Il PM è compreso tra 770 e 126.000 anni fa, rappresenta un periodo cruciale nell’evoluzione umana. Verso la fine del PM troviamo l’origine della nostra specie (H. Sapiens) in Africa, come quella dei Neanderthal e dei cosiddetti Denisova in Eurasia. Queste specie umane si sono originate da un comune antenato del PM, oggi generalmente identificato come H. Heidelbergensis. Al contempo, nel PM persistono specie di ominini con caratteristiche più arcaiche: H. Erectus, H. Naledi e H. Florensiensis. Il PM si connota quindi come un momento di transizione tra morfologie più arcaiche e specie umane più derivate, ciascuna con caratteristiche sue proprie, ma che condividono nuovi aspetti di morfologia scheletrica e una maggiore encefalizzazione. Il PM si contraddistingue per un’elevata eterogeneità ambientale che ha fortemente condizionato l’evoluzione degli ecosistemi, delle comunità biotiche e delle popolazioni umane. Cap. 5.8 Il genere Homo nel Pleistocene Superiore Inquadramento ambientale ed adattamento umano Il PS (126-11.700 ani fa) fu caratterizzato da una maggiore dilatazione nell’alternanza glaciale e interglaciale. All’inizio del PS la nostra specie aveva già colonizzato tutte le aree accessibili del continente africano, essendo attestata in Africa del Sud, Africa orientale e Nord Africa. Razie all’abbassamento del livello del mare, H. Sapiens riuscì ad attraversare lo stretto di Bab ed Mandeb per giungere nella penisola arabica circa 90.000 anni fa, mentre altri gruppi seguirono la Northern Route spingendosi a più riprese nel Levante. L’Eurasia del PS era popolata da vari gruppi umani. Tra i principali attori riconosciamo H. Neanderthalensis, originatasi circa 400.000 anni fa in Europa; i Denisoviani separati dai neanderthaliani circa 450\400.000 anni fa e vissuti in Asia centrale fino probabilmente all’arrivo dei sapiens; gli ultimi rappresentanti della specie più longeva, H. Erectus; H. Luzonensis, una specie umana descritta recentemente a partire da resti fossili rinvenuti nella grotta di Callao nell’isola d Luzon e datati circa 67.000 di anni fa. Homo sapiens L’espansine dei primi H.S. In Europa è stata documentata da resti umani rinvenuti presso Baco Kiro e grotta del Cavallo circa 45.000 di anni fa. Nello stesso periodo, circa 50-45.000 anni fa, H.S. Raggiunge anche l’Australia, come suggerito dai resti umani di Lake Mungo e da nuovi risultati ottenuti dal sito Madjedbebe. L’America fu l’ultimo continente ad essere stato raggiunto da popolazioni di H.S. Homo neanderthalensis All’arrivo dei primi H.S., l’Eurasia era abitata da gruppi umani arcaici, come H.N. I N classici presentano una scatola cranica voluminosa e allungata antero-posteriormente, con marcato toro sopraorbitario a doppio arco arrotondato, seguito da una fronte sfuggente e una generale platicefalia, rigonfiamento osso laterale e occipitale, con appiattimento della regione lambodidea, presenza di una fossa soprainiaca e basicranio allungato. Lo spostamento anteriore della regione nasale, associata ad un rigonfiamento delle ossa mascellari e a zigomi sfuggenti fa assumere alla facciaun prognatismo medio-facciale. Con una statura media di circa 160 cm e massa corporea di circa 72 kg, i neandertaliani presentano ossa estremamente robuste con inserzioni muscolari marcate, probabilmente un adattamento risultato di una forte pressione selettiva indotta al clima rigido, in quanto una corporatura tendenzialmente tozza risulta più vantaggiosa per il mantenimento del calore corporeo. I N del P.S rappresentano il gruppo umano arcaico per il quale sono disponibili importanti informazioni genetiche. Oltre a dati relativi a piccole regioni informative del mtDNA ottenuti da numerosi reperti, sono oggi disponibili le sequenze dei genomi mitocondriali di circa venti individui e 10 genomi completi. I dati hanno permesso di ricostruire le relazioni filogenetiche tra N e S, stimando un tempo di divergenza delle due linee evolutive in un periodo compreso tra 750-550.000 anni fa. Per quanto riguarda l’ibridazione con altre specie, recenti studi indicano che le attuali popolazioni non africane condividono con i N una percentuale del loro genoma che si aggira tra l’1,4 e il 2,6%; questa evidenza è correlata al fatto che l’ibridazione tra N e S è presumibilmente avvenuta prima della divergenza fra gli europei, gli asiatici e i paupani, in un periodo di tempo compreso tra 60 e 50.000 anni fa. Diversamente, il flusso genetico avvenuto a seguito di questi eventi di ibridazioni sembra aver avuto un impatto minore nelle popolazioni N; non. Stato infatti individuato nessun contributo recente di S nei genomi degli ultimi N ad oggi sequenziati. Lo sfruttamento delle piume e degli artigli sono alcune tra le principali evidenze non ascrivibili alla sfera utilitaristica del N. La scomparsa dei N, avvenuta circa 40.000 anni fa, rimane un argomento molto dibattuto. Sono state proposte una dozzina di ipotesi, riconducibili a tre macro-categorie. La prima, ricollegata a fattori demografici, mette n luce come la piccola dimensione della popolazione n, unitamente all’aumento consanguineità, può aver portato ad eventi deleteri per la sopravvivenza delle specie. La seconda, ricollegata a fattori ambientali, suggerisce che i N siano stati svantaggiati a) da probabili agenti infettivi portati in Europa da gruppi di S africani, b) dalle condizioni aride e fredde che, nel complesso, hanno causato un deterioramento dell’ambiente, c) dall’aumento delle radiazioniultraviolette a seguito dell’escursione di Laschamps La terza, suggerisce che la causa dell’estinzione dei N sia da imputare all’arrivo dei S e alla conseguente competizione che con questi si è innescata per lo sfruttamento delle stesse risorse. L’uomo di Denisova Il nome deriva dalla località nella quale, per la prima volta, sono emersi resti di questo gruppo umano: la grotta di Denisova, situata vicino al fiume Anui, nel territorio dei monti Altai, si Siberia, Russia. La specie è stata identificata grazie al ritrovamento di una falange distale probabilmente appartenuta ad un subadulto, di cui è stata analizzata la sequenza di genoma nucleare, la quale è risultata essere distinta sia da quella dei N che da S, mostrando tuttavia più affinità con il genoma N. Il più antico resto mano appartenente a Denisovani, un molare deciduo usurato è datato tra 227-128.000 anni fa. Specie di Homo del Sud-Est Asiatico Nel corso del PS, un ominine di ridotte dimensioni corporee oltre che craniche, era presente nella lontana isola di Flore, Indonesia: H. Florsiensis. I primi resti vennero ritrovati nel 2004, nella grotta di Liang Bua, e sono riconducibili a circa 14 individui. L’olotipo della specie, LB1, rinvenuto a Liang Bua, è rappresentato da uno scheletro adulto quasi completo, probabilmente di sesso femminile, che viene descritto come caratterizzato da un mosaico di tratti primitivi, derivati e unici. La capacità cranica di LB1 è di circa 417 cc, estremamente ridotta rispetto a quella di altre specie umane contemporanee. La volta cranica è allungata e bassa, oltre che relativamente larga rispetto all’altezza, e lo spessore delle ossa craniche risulta relativamente elevato. Lo scheletro facciale mostra caratteristiche del tuto simili a quelle dei membri del genere H, ma con dimensioni notevolmente ridotte, proporzionalmente a quelle della volta. Il facciale mostra un moderato grado di prognatismo e la mandibola è priva di eminenza mentale. L’anatomia postcraniale notiamo le ridotte dimensioni corporee, con n’altezza stimata di circa um metro e una massa pari a circa 30 kg. Gli arti superiori sono relativamente allungai. Ulteriori ricerche hanno confermato si tratti di una specie a sé stante, probabilmente discendente da H. Erectus. Homo luzonensis Nel 2007, scavi archeologici presso la grotta calcarea di Callao portarono alla luce un terzo metatarso umano risalente a circa 67.000 anni fa. I valori morfologici hanno permesso di ipotizzare che si trattasse di una specie intermedia tra H. Habilis e H. F o, in alternativa, di una varietà pigmeo di S. Il dubbio venne sciolto nel 2019 quando uno studio prese in esame 12 ulteriori elementi ossei nello stesso livello stratigrafico della grotta di Callao, in cui più di 10 anni prima era stato rinvenuto il metatarso, confermando l’appartenenza di questi resti a una nuova specie umana denominata H. Luzonensis. I denti di L presentano caratteristiche morfologiche e metriche che richiamano S e erectus asiatico. Inoltre, una falange del piede si presenta larga e ricurva, allontanandosi morfologicamente dalla variabilità di S e avvicinandosi a quella di Australopithecus. Homo erectus solensis Ad oggi si ritiene che sia sopravvissuto sull’isola di Giava almeno fino a 117-108.000 anni fa, giungendo sull’isola durante le fasi di regressione marina, quando l’intero arcipelago indonesiano era una gigantesca penisola. I resti fossili scoperti tra il 1931 e il 1933 a Ngandong lungo il fiume Solo, nella regione centrale dell’isola indonesiana Giava, sono stati attribuiti a una sottospecie denominata H. Erectus solensis. Cap. 5.9 Ricostruzione delle origini e delle diffusioni di Homo sapiens: il contributo della paleogenetica Fu Charles Darwin, ne “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale”, a parlare per prio dell’origine africana di Homo sapiens, notando che vi è una maggiore somiglianza tra Homo sapiens e scimmie antropomorfe africane piuttosto che le antropomorfe del sudest asiatico. Nel 1962 l’antropologo Carleton Coon propose il cosiddetto modello di evoluzione e candelabro, secondo il quale, una volta comparso il genere Homo, le diverse popolazioni si sarebbero diffuse in tutto il mondo e i caratteri che contraddistinguono H. Sapiens si sarebbero evoluti ripetutamente e in modo indipendente. Secondo tale modello, oggi superato, la variabilità genetica che caratterizza tutte le popolazioni mondiali sarebbe il risultato di un isolamento genetico avvenuto nel corso di una lunga storia evolutiva. Ad oggi, il modello di evoluzione umana più accreditato è quello dell’Out of Africa, proposto per la prima volta da Chris Stringer e Peter Andrews nel 1988, che prevede un’origine recente di H.S (ca 200.000 anni fa) all’interno del continente africano. La disponibilità di dati molecolari e paleogenetici a partire dalla fine degli anni 80 del secolo scorso in poi, ha fornito prove determinanti a supporto dell’origine unica africana dell’uomo moderno, permettendo di ricostruire filogenesi robuste e introducendo la componente temporale attraverso la stima dei tempi di divergenza delle line molecolari del mtDNA (orologio molecolare). Secondo tale modello, tutti i gruppi umani moderni fuori del’Africa hanno avuto origine e da popolazioni di H.S che, una volta abbandonato il continente africano, hanno sostituito le loro forme umane esistenti. L’uscita dall’Africa Le evidenze genetiche suggeriscono che l’uscita di H.S dal continente africano e la successiva rapida espansione della nostra specie sarebbe stata accompagnata da una drastica riduzione della variabilità genetica. Tutta la diversità del mtDNA al di fuori dell’Africa è compresa nei cladi M e N, che sono i rami derivati dell’aplogruppo africano L3. Questo fatto colloca il lasso di tempo genetico per la dispersone fuori dall’Africa a circa 55-70.000 anni fa, che è l’età di coalescenza dell’aplogruppo L3. Il fenomeno conosciuto come effetto seriale del fondatore fornisce poi una possibile descrizione delle dinamiche alla base della dispersione: l’uscita dall’Arica avrebbe avuto luogo a partire da un gruppo ridotto di individui e la successiva dispersione di H.S in tutta l’Eurasia sarebbe stata determinata da processi ripetuti di espansione nelle regioni non ancora occupate, incremento della dimensione della popolazione e ulteriore diffusione verso altre regioni da parte di un nuovo gruppo di fondatori. Cenni sul popolamento degli altri continenti Un quadro più dettagliato è stato ricostruito per le successive dispersioni in Europa di H.S. Studi paleogenetici su larga scala basati sia sul mtDNA che sui dati genomici, hanno permesso infatti di ricostruire le dinamiche migratorie e popolazionistiche lungo un ampio range temporale che abbraccia il massimo picco dell’ultima glaciazione e arriva fino al Neolitico. Da ca 40:000 anni fa in poi si evidenzia una continuità genetica in Europa. Le oscillazioni climatiche che hanno caratterizzato la fine del P hanno profondamente influenzato le sorti di queste antiche popolazioni dell’Europa, determinando contrazioni ed espansioni di popolazioni, movimenti migratori multipli e rimpiazzamenti. Dopo il massimo picco glaciale, le reti di collegamento e scambio attraverso l’Europa si espansero, a partire dalle regioni più meridionali, si trovano nuove componenti genetiche riconducibili ad aree geografiche più orientai, quali la regione balcanica e anatolica.con la stabilizzazione climatica e l’instaurarsi di condizioni climatiche più favorevoli, le nuove componenti si diffusero anche nelle altre regioni del’Europa centro-occidentale.