Diritto Romano (Capitolo 2) - PDF
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This document explores the relationship between religion and law in ancient Rome, highlighting the role of religion in shaping Roman legal concepts. It analyzes the evolution of Roman law, focusing on the transition from religious to secular forms of legal systems. The text also details the concepts of substantive and procedural law, and types of legal processes.
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Il rapporto tra la religione e il diritto Nel 300 a.C., i patrizi compiono un’ultima e significativa concessione ai plebei: l’accesso alle cariche religiose. Con la lex Ogulnia, viene sancito il diritto per i plebei di ricoprire tutte le cariche sacerdotali, rompendo così l’esclusività pat...
Il rapporto tra la religione e il diritto Nel 300 a.C., i patrizi compiono un’ultima e significativa concessione ai plebei: l’accesso alle cariche religiose. Con la lex Ogulnia, viene sancito il diritto per i plebei di ricoprire tutte le cariche sacerdotali, rompendo così l’esclusività patrizia nel controllo della sfera religiosa. Il fatto che la concessione dell’accesso ai ruoli religiosi sia l’ultima fatta ai plebei, evidenzia la centralità della religione non solo nella vita individuale, ma anche nella struttura sociale e politica della Repubblica. La religione, dal latino “re-ligo”, che significa “ricongiungere”, è il mezzo attraverso cui l’individuo cerca di stabilire un legame con le forze trascendenti che percepisce come potenti e potenzialmente distruttive. Nelle società primordiali, l’essere umano avverte la propria fragilità di fronte a un mondo governato da forze superiori, e il senso religioso permea ogni aspetto della vita. La religione diventa così un tentativo di decifrare la volontà di queste forze, rappresentate dagli dèi, e di conformarsi ai ritmi e alle regole della natura per sopravvivere. Il termine “regola” (regula), infatti, deriva da “regolo”, cioè righello, uno strumento di misura. Prima di essere una norma, la regola è una misura che guida i comportamenti umani in armonia con l’ordine naturale e divino. Quando questo equilibrio si altera, la società rischia di distruggersi, e la “pax deorum”, la pace tra gli dèi, viene minacciata. Il diritto affonda le sue radici in questo contesto religioso. L’uomo non solo deve stabilire un rapporto con le divinità, ma anche creare regole tra i suoi simili affinché la comunità possa vivere in armonia. Il diritto, dunque, nasce dalla necessità di mantenere la “pax deorum”, ma si sviluppa anche come un sistema di prassi orizzontali tra gli uomini. Il termine latino “ius” si lega strettamente a “fas”, che definisce ciò che è lecito nei rapporti con le divinità. Il calendario romano segnava giorni “nefasti” (ne-fas), durante i quali era vietato compiere determinate azioni, poiché contrarie alle leggi divine. “Fas” deriva da un radicale che indica l’azione di parlare o esprimere, suggerendo che l’idea originaria di regola fosse una rivelazione divina, da cui desumiamo per omogeneità le leggi umane. Solo persone dotate di competenze specifiche, i sacerdoti, potevano interpretare queste regole e mediare tra gli uomini e gli dèi. A Roma, questi sacerdoti erano chiamati “pontifices”, termine che significa “costruttori di ponti” tra la comunità umana e il mondo divino. I pontifices decifrano la volontà divina e ne enunciano le regole, conosciute come “mores maiorum”, ovvero le consuetudini degli antenati. Queste consuetudini non erano semplici norme sociali, ma regole sacre, la cui violazione comportava conseguenze non solo umane, ma anche divine. La loro forza coercitiva (possibilità di farli valere) era superiore a quella delle leggi umane, poiché rappresentavano un legame diretto con la volontà degli dèi. L’enunciazione delle leggi da parte dei pontefici avveniva in risposta a situazioni di conflitto. L’esigenza del diritto e della sua individuazione in capo a un soggetto, infatti, non nasce da una volontà astratta di creare regole, ma dalla necessità di risolvere controversie. Nel diritto romano, il conflitto non era considerato solo una deviazione dalla norma, ma una situazione inevitabile che richiedeva soluzioni concrete per mantenere la coesione sociale. Di fronte a una controversia tra due parti, la società romana si poneva la necessità di stabilire delle regole che permettessero di risolvere il dissidio in modo imparziale e autorevole. Il conflitto è pertanto il punto di partenza per l’individuazione di una regola giuridica. Quest’ultima non è solo uno strumento astratto, ma deriva dalla necessità di stabilire chi ha ragione in una determinata controversia, e porta alla codificazione di una regola valida per casi futuri. Da questo deriva una priorità logica del diritto processuale rispetto a quello sostanziale. Diritto sostanziale e diritto processuale - diritto processuale: è l’insieme delle regole che disciplinano il procedimento giudiziario, ovvero il modo in cui una causa viene portata davanti a un’autorità competente, come i magistrati, per essere risolta. Il diritto processuale stabilisce chi ha il potere di decidere, quale procedura seguire e come le parti coinvolte possono difendere i propri interessi. In questo contesto, il processo diventa il cuore del sistema giuridico, poiché è lo strumento attraverso cui la collettività risolve le controversie in modo ufficiale e strutturato. - diritto sostanziale: riguarda i diritti e i doveri effettivi che le persone hanno all’interno della società. Definisce ciò che un individuo può o non può fare, quali sono i suoi diritti di proprietà, le obbligazioni, i contratti, e così via. Il diritto sostanziale entra in gioco solo una volta che le regole processuali hanno stabilito chi ha ragione o torto in una determinata controversia. Il diritto romano, dunque, vede nel processo non solo un meccanismo per risolvere singole dispute, ma uno strumento fondamentale per preservare la pace sociale e l’armonia interna. Il diritto processuale è quindi più che una semplice formalità: è l’essenza del sistema giuridico romano. Esso garantisce che i conflitti vengano risolti in modo ordinato, prevenendo la possibilità di degenerare in faide o rivolte. La struttura giuridica romana si sviluppa così a partire dalle regole procedurali, per poi arrivare alla definizione dei diritti sostanziali che regolano la vita quotidiana. Ciò significa che il diritto soggettivo presupponeva l’azione. Questa prospettiva risultava più marcata riguardo al diritto onorario e al processo formulare in cui trovava espressione. Infatti, determinate posizioni giuridiche acquisivano rilievo giuridico nel momento in cui il pretore proponeva nell’editto quello strumento giudiziario che le contemplasse e tutelasse. Era pertanto l‘esistenza del mezzo processuale che avrebbe potuto consentire la configurazione di una sottostante posizione giuridica soggettiva riconosciuta e tutelata. Il processo Con processo privato si intende il complesso delle attività volte all’accertamento e alla realizzazione di diritti soggettivi, o di situazioni giuridiche soggettive attive. A darvi impulso è il singolo soggetto privato e interviene un organo giudiziario pubblico. Il termine privato sta ad indicare che per molto tempo il processo romano riguardante le liti tra privati ebbe carattere più privato che pubblico. Il processo è volto alla realizzazione dei diritti soggettivi, che hanno fondamento nel diritto sostanziale. Pertanto, il processo è lo strumento essenziale che consente a un soggetto di tutelare i propri diritti e rendere effettiva e coattiva la norma stabilita dall’ordinamento giuridico. Senza un sistema di sanzioni per le violazioni, una norma non potrebbe nemmeno essere considerata tale. Quindi, se il diritto sostanziale fissa le condizioni in cui trova riconoscimento un determinato diritto soggettivo, ciò comporta che chi diviene titolare del diritto soggettivo ha il potere di promuovere un giudizio per far valere le proprie ragioni. Questo potere è detto azione. Ad ogni diritto soggettivo corrisponde pertanto l’azione. Nel diritto romano, infatti, un diritto soggettivo era riconosciuto solo se esisteva un’azione che lo tutelasse; in assenza di tale azione processuale, il diritto stesso non esisteva. Questo chiarisce l’importanza fondamentale dell’azione processuale: senza il processo, l’ordinamento giuridico rimarrebbe un insieme di norme inefficaci; l’azione processuale serviva poi a stabilire l’esistenza o meno dei diritti stessi. Il termine processo deriva dal participio passato latino processum, a sua volta derivato dal verbo procedere, che significa “andare avanti”. Così, anche in ambito giuridico, il processo rappresenta un percorso formale volto a risolvere un conflitto tra due parti, con l’intervento di un organo giudicante che agisce a nome della collettività. Il punto di partenza del processo è il confitto, che sorge quando due soggetti si scontrano in merito a un bene o a rapporti esistenti tra di loro. Se la soluzione diplomatica proposta dalla società civile non è sufficiente, entra in gioco il processo, il cui ruolo consiste non solo nel solvere il conflitto, ma anche nel pacificare le parti. Con il processo si introduce quindi la pacificazione, quel fondamento del diritto romano antico previsto già nelle Dodici Tavole. Ad esempio, una norma contenuta nelle Dodici Tavole prevede che, se una persona rompe l’arto di un’altra e non si raggiunge una pace tra le parti, si applichi la legge del taglione: la parte lesa ha il diritto di infliggere lo stesso danno all’offensore. Questo dimostra come, fin dall’antichità, il processo fosse concepito come strumento di pacificazione. Il diritto cerca sempre di mediare tra le parti affinché raggiungano una soluzione pacifica, e solo in mancanza di questa mediazione si applicano le sanzioni previste dalla legge. L’esito che si realizza all’interno del processo prende il nome di sanzione e corrisponde alla decisione dell’organo giudicante di stabilire un diritto. Per questa ragione, si può dire che il processo abbia una funzione trasformativa: le due parti coinvolte entrano con pretese contrastanti, ma escono con una nuova situazione giuridica. All’inizio del processo, non è chiaro chi abbia ragione, ma al termine una delle parti sarà dichiarata vincitrice, ottenendo il riconoscimento di un diritto e l’altra perdente, risultando con la perdita di tale diritto. Il processo può assolvere a funzioni anche piuttosto diverse, e perciò si hanno tre differenti tipi di processo. Processo di cognizione Il processo di cognizione ha l’obiettivo di accertare l’esistenza di un diritto o di una situazione giuridica e pertanto di averne conoscenza. Si divide a sua volta in tre sottocategorie: - processo di mero accertamento: serve a riconoscere la sussistenza di un diritto o di una condizione giuridica a capo di un soggetto. Ad esempio, potrebbe essere utilizzato per stabilire se una persona è libera o schiava. In caso un cittadino riconosca una persona come schiavo a lui appartenente, attraverso questa tipologia di processo può verificare la sua effettiva condizione. Non ci saranno conseguenze, semplicemente lo schiavo deve riconoscere la sua situazione. - processo di accertamento con condanna: appurata o meno l’esistenza di una situazione giuridica, questo processo impone una condanna, ovvero l’obbligo per una delle parti di comportarsi in modo conforme al diritto riconosciuto (ad esempio, restituire un bene conteso). Il termine condanna si riferisce pertanto a una moltitudine di situazioni, e indica in modo più generale il fatto che, in una sentenza, l’organo giudicante obbliga una delle due parti a tenere un certo comportamento. - processo di accertamento costitutivo: in questo processo, il giudice non si limita a riconoscere un diritto, ma nella sentenza lo crea. Un esempio è un processo di divisione ereditaria, in cui il giudice non solo accerta i diritti dei comproprietari, ma suddivide concretamente il bene tra di loro in quanto i litiganti non sono in grado di farlo. La sentenza del giudice, pertanto, sostituisce la volontà autonoma delle parti, costituisce in capo a ciascuno una quota effettiva e costituisce dei diritti specifici sul ricavato di vendita che obbliga le parti a compiere. Questa sentenza ha quindi effetto costitutivo. Processo esecutivo Il processo esecutivo mira a dare esecuzione a un diritto già accertato in un precedente processo di cognizione. In quest’ultimo, è stato stabilito il diritto delle parti, ma se la parte obbligata non adempie spontaneamente alla sentenza, è necessario l’intervento dell’organo giudicante per evitare ulteriori conflitti tra privati. All’organo esecutivo viene quindi chiesto di verificare se il soggetto ha già un titolo esecutivo, cioè un documento legale che certifica l’esistenza di un diritto esigibile. Una volta confermato, il processo esecutivo può essere avviato, concludendosi con una sentenza esecutiva che autorizza formalmente l’azione per ottenere l’adempimento del diritto. Ad esempio, in un conflitto sulla proprietà di un bene, gli ufficiali giudiziari, su ordine del giudice esecutivo, possono procedere al pignoramento del bene oggetto della controversia o di un bene equivalente, in modo da garantire che la sentenza venga rispettata. Alcuni diritti, come quelli derivanti da una cambiale (un documento che attesta una promessa di pagamento con una scadenza precisa), sono considerati certi di per sé. In questi casi, è possibile rivolgersi direttamente al giudice esecutivo per far valere il proprio diritto. Una volta verificata la validità della cambiale, il giudice può emettere immediatamente una sentenza esecutiva, che consente al creditore di riscuotere il proprio credito. Processo cautelare Il processo cautelare ha una funzione specifica e può essere accessorio a qualsiasi altro tipo di processo, sia esso esecutivo o di cognizione. Serve a prendere misure preventive, ovvero cautele, per proteggersi da eventuali rischi che potrebbero compromettere l’efficacia di una futura sentenza. Questo tipo di processo si instaura quando, durante un altro processo in corso, o in previsione che un giudizio sarà avviato, è necessario garantire la protezione dei beni che sono o potrebbero essere oggetto della disputa processuale. Ad esempio, nelle more di un giudizio di cognizione con condanna, potrebbe essere avviato un procedimento cautelare per assegnare temporaneamente il possesso di un bene a una delle parti. Si chiede al giudice di assegnare la custodia del bene a qualcuno affinché la parte che dovrebbe cederlo non possa sottrarlo o farlo sparire prima che il processo principale giunga a conclusione. Le misure cautelari emesse dal giudice servono a preservare l’integrità dei beni attuali o potenziali della controversia, impedendo che vengano persi, dispersi o sottratti. L’obiettivo è quello di garantire che i beni rimangano disponibili fino a quando il processo principale non si conclude con una soluzione definitiva. Questo assicura che il risultato finale della disputa non sia compromesso dalla mancanza dei beni contesi Gradi di giurisdizione Il nostro ordinamento giuridico prevede tre gradi di giurisdizione per garantire una decisione definitiva e irrevocabile sulla sussistenza di un diritto. Questo sistema offre la possibilità di riesaminare le sentenze attraverso vari livelli di giudizio, fino a giungere a una decisione che non può essere ulteriormente contestata. - primo grado di giurisdizione: il primo grado è quello in cui la causa viene discussa per la prima volta. Il giudice esamina sia i fatti che il diritto e pronuncia una sentenza che può essere impugnata. - secondo grado di giurisdizione: il secondo grado, o appello, consente di riesaminare gli aspetti sia di fatto sia di diritto della sentenza emessa nel primo grado. In questo stadio, il giudice può rivalutare le prove e riconsiderare la ricostruzione dei fatti effettuata in precedenza, revisionandoli. - terzo grado di giurisdizione: il terzo e ultimo grado è la Corte di Cassazione, che ha una funzione principalmente di controllo sulla corretta applicazione del diritto. In questo grado non vengono riconsiderati i fatti del caso, ma solo la correttezza procedurale e giuridica delle sentenze emesse nei gradi precedenti. Si può eccepire, ad esempio, l’irritualità delle sentenze precedenti o la presenza di vizi procedurali. La Cassazione non può modificare i fatti, ma può annullare le sentenze se rileva errori di diritto. Il processo giuridico si conclude con un fenomeno chiamato “giudicato”. Una sentenza passata in giudicato è quella su cui non è più possibile proporre ulteriori ricorsi o nuovi giudizi. Questo può avvenire in due modi: o si esauriscono tutti e tre i gradi di giurisdizione, oppure, se le parti non presentano ricorso entro i termini previsti, la sentenza diventa definitiva. In tal caso, la decisione è considerata irrevocabile e le parti non possono più riproporre la stessa controversia davanti a un giudice. Le parti in un processo Un sinonimo utilizzato per descrivere il processo è “azione processuale” o “azione giuridica”, termini che evidenziano il coinvolgimento di un soggetto specifico: chi avvia il processo. La parte attiva di un processo, ossia colui che lo mette in moto, viene definita “attore” (dal latino actor), ovvero colui che agisce in giudizio e prende l’iniziativa. Dall’altro lato, la parte passiva è denominata “convenuto” (dal latino convenutus, cioè “colui che è stato chiamato insieme”). Nel diritto latino, il convenuto viene anche chiamato reus, termine che indica colui che è coinvolto in un processo. Nella dinamica del processo, esiste una presunzione per cui chi prende l’iniziativa (l’attore) ha probabilmente ragione, mentre chi è convenuto (il reus) parte da una posizione più svantaggiata, come se avesse torto. Tuttavia, è il processo che, attraverso il giudizio, chiarisce la verità dei fatti e delle ragioni. Il terzo soggetto coinvolto è l’organo giudicante, che rappresenta lo Stato nel compito di risolvere le controversie. Nell’antica Roma repubblicana, questa funzione giurisdizionale era specificamente attribuita al pretore, un magistrato incaricato di amministrare la giustizia. Tuttavia, questa figura riguarda un periodo storico preciso, poiché il giudice può essere un singolo soggetto o un organo collegiale, a seconda del sistema giuridico. Oltre ai principali protagonisti, possono intervenire anche soggetti occasionali, come i testimoni, che contribuiscono al processo fornendo prove o testimonianze. Per questi motivi, il processo può essere inteso come una rappresentazione, simile a una messa in scena teatrale, di un conflitto che viene trasposto e risolto sul piano giuridico. Le tipologie di processo romano Nel corso dell’evoluzione giuridica romana si incontrano più tipi di processo: le legis actiones dell’età arcaica (dall’VIII al II secolo a.C.), il processo formulare o processo per formulas (dal II secolo a.C. fino al II secolo d.C.) le cognitiones extra ordinem o processo per cognitione dell’età classica (a partire dal I secolo d.C.9 D il processo postclassico e quello giustinianeo. Le legis actiones Con il termine legis actiones ci si riferisce alle procedure previste dalla legge delle Dodici Tavole. Queste legis actiones rappresentano gli schemi processuali di base stabiliti da questa legge, costituendo un modus agendi, cioè un modo di agire in giudizio. Le legis actiones nascono come il primo modello processuale nella Roma arcaica; pertanto, rappresentano una trascrizione formale di ciò che originariamente avveniva tra le parti in conflitto. Nelle fonti romane, il termine actio è inteso come strumento per l’esercizio del potere di promuovere un giudizio. Le legis actiones si caratterizzano per tre elementi fondamentali: 1. Tipicità: erano previste in un numero limitato e specifico. Erano actiones solo quelle riconosciute espressamente e singolarmente nelle Dodici Tavole. Queste, infatti, contenevano un elenco di cinque riti processuali tra loro diversi per origini, natura e struttura, che non erano altro che cinque azioni, ognuna a difesa di una diversa posizione giuridica soggettiva attiva. Ne consegue che un’azione era tutelabile se vi era un’apposita actio o un altro idoneo strumento processuale. 2. Formalità: ogni azione doveva seguire scrupolosamente le formule e i gesti stabiliti. 3. Sacralità: le forme non erano solo laiche, ma originavano da un diritto strettamente legato alla religione. Per questa ragione, le parole e i gesti utilizzati nelle legis actiones erano considerati sacri, e pertanto immutabili, simili a formule magiche o religiose. Questa sacralità rendeva la procedura rigida e formale, poiché anche un piccolo errore nella pronuncia delle parole o nei gesti poteva compromettere l’intera azione legale e renderla nulla. Delle cinque legis actiones tre erano dichiarative (o di cognizione), volte cioè all’accertamento di situazioni giuridiche incerte o controverse, mentre due erano esecutive, volte cioè alla realizzazione di posizioni giuridiche certe. Tutte avevano in comune il fatto di essere accessibili solo ai cittadini romani e l’oralità. Il processo per legis actiones Poiché i due contendenti dovevano essere presenti dinanzi al pretore, occorreva che l’attore assicurasse la presenza dell’avversario. Per fare ciò, usava la ‘in ius vocatio’ (‘chiamata in giudizio’), ossia un atto privato in cui una parte, tramite la pronuncia di parole solenni, conduceva l’altra dinanzi al magistrato. Alla chiamata in giudizio non ci si poteva sottrarre e, in caso di riluttanza, l’attore era autorizzato all’uso della forza. Le legis actiones dichiarative avevano una comune caratteristica strutturale, ossia che il processo era diviso in due fasi: ‘in iure’ e ‘apud iudicem’. (Fase) in iure La fase in iure aveva luogo davanti al magistrato (il pretore) e valeva a fissare i termini giuridici della lite. Il pretore aveva il compito di esercitare la giurisdizione (iurisdictio), ovvero “dire il diritto”. In questa fase, le parti sottopongono al pretore i fatti relativi alla lite, il cui ruolo è aiutare le parti a dare una qualificazione giuridica a questi fatti e alle pretese avanzate da ciascuna. L’attore e il convenuto, quindi, esprimono la situazione di fatto che intendono presentare al pretore per ottenere una decisione e, con il suo aiuto, attribuiscono un nome giuridico alle loro rivendicazioni. Il vero momento di inizio dell’actio (azione) avviene quando l’attore, davanti al pretore, racconta ciò che è successo (la fattispecie) ed espone la propria pretesa. A questo punto, il convenuto può scegliere se rispondere o rimanere in silenzio. Se decide di non rispondere, può compiere una confessio in iure (ammissione), tacitamente riconoscendo la validità del diritto affermato dall’attore. In questo caso, il processo si interrompe e il pretore procede a riconoscere il diritto in favore dell’attore. Le certa verba Il linguaggio utilizzato in questo contesto era fortemente caratterizzato da gesti, tanto che veniva considerato di natura sacrale. Le formule verbali utilizzate, chiamate certa verba, erano schemi processuali costituiti da parole specifiche che dovevano essere pronunciate esattamente come previsto, senza variazioni. Queste formule erano di natura magico-sacrale, e qualsiasi errore o modifica nel loro utilizzo avrebbe compromesso l’intero processo, portando inevitabilmente alla perdita della causa. Le certa verba erano considerate fondamentali per garantire chiarezza e sicurezza giuridica in una società che stava costruendo il proprio diritto. Era essenziale che la comunità riconoscesse queste formule come affermazioni inequivocabili. Ad esempio, per rivendicare la proprietà di un oggetto, era necessario pronunciare la formula “res mea est” (questa cosa è mia) e compiere il gesto di toccare l’oggetto in questione. L’uso di parole diverse rispetto a quelle previste portava automaticamente alla sconfitta della parte che le aveva pronunciate, poiché solo le parole esatte garantivano la validità dell’azione legale. Litis contestatio Ma, se il convenuto avesse negato il diritto affermato dall’attore, il processo avrebbe proseguito verso un momento cruciale chiamato litis contestatio. In questa fase, attore e convenuto hanno già esposto i fatti e, con l’aiuto del magistrato, hanno definito i diritti e le questioni giuridiche oggetto del giudizio. La litis contestatio rappresenta l’ultimo atto della fase in iure, in cui i contendenti compivano un atto solenne di invocazione di testimoni che attestassero il rito compiuto. La litis contestatio è un momento cruciale perché non solo conclude la fase in iure, ma segna anche l’inizio della fase in iudicio. Nell’ambito delle legis actiones, essa ha un effetto estintivo sul piano processuale in quanto le parti non possono più proporre un’azione per lo stesso diritto oggetto del giudizio. (Fase) apud iudicem La fase apud iudicem si svolgeva dinanzi al giudice (iudex) che era stato nominato dal pretore. Di norma si trattava di un privato cittadino che veniva selezionato e nominato (nominatio) per le sue qualità morali e civiche. Questo giudice, erede del ruolo del consiglio degli anziani delle società primitive, doveva essere una persona seria, autorevole, e dotata di equità e senso della giustizia, con la capacità di discernere chi ha ragione nell’ottica del mantenimento della civitas (comunità). Le parti stesse erano chiamate a scegliere il giudice, individuando una figura di comune fiducia che avrebbe incarnato la civitas pronta ad intervenire per trovare una soluzione. Il magistrato dava poi al giudice privato il comando formale di procedere con il giudizio (iussum iudicandi). Invece, nelle liti di libertà e in quelle ereditarie erano chiamati a giudicare organi collegiali pubblici. Compito del giudice, unico o collegiale che fosse, era di raccogliere le prove (fase probatoria) ed emanare la sentenza (iudicium). Le prove, in questa epoca, consistono principalmente nelle testimonianze, poiché la civiltà romana era fortemente basata sulla tradizione orale, e la scrittura era ancora poco diffusa. Infatti, i primi testi giuridici scritti risalgono solo al I secolo a.C. In questa società, la parola aveva un valore sacrale: chi testimoniava non avrebbe mai affermato il falso, poiché lo faceva alla presenza degli dèi, che erano percepiti come attivamente coinvolti nella vita degli uomini, non come entità distanti o astratte. Durante questa fase, le parti diventavano piuttosto passive, poiché era il giudice a esaminare tutte le prove e a determinare l’esito, e perciò non erano obbligate ad essere presenti (una legge delle XII tavole però assegnava la vittoria della controversia alla parte presente dopo il mezzogiorno). Secondo il iussum iudicandi, il giudice doveva necessariamente dare ragione o torto all’attore, non potendo astenersi dal pronunciare un giudizio. La sentenza emessa non era motivata, ma di carattere autoritativo. La mancanza di una spiegazione per la decisione si basava sulla fiducia totale nell’autorevolezza del giudice, che era stato scelto dalle parti proprio per la sua integrità e competenza. Di conseguenza, non esisteva la possibilità di contestare la sentenza o di avviare un secondo grado di giudizio. Il sistema giuridico romano dell’epoca non prevedeva la revisione delle sentenze, poiché si riteneva che il giudice selezionato fosse la persona più autorevole e competente per risolvere la controversia, rendendo inutile qualsiasi ricorso. Le legis actiones più antiche furono la ‘legis actio sacramenti’ e la ‘legis actio per manus iniectionem’. La legis actio sacramenti La legis actio sacramenti fu la legis actio dichiarativa di più largo impiego. Era qualificata ‘generalis’ poicè utilizzabile in ogni pretesa per la quale non fosse prescritto l’esercizio di altra legis actio. Questa prima forma di processo richiedeva che l’attore prestasse un giuramento formale, affermando di avere il diritto che rivendica. Poiché l’attore reclamava un diritto che il convenuto non gli riconosceva, egli trascinava quest’ultimo in giudizio, sfidandolo a pronunciare il sacramentum. Questo rito giuridico è una trasposizione processuale della sfida a duello: un confronto simbolico in cui le parti si impegnano solennemente con un giuramento, ponendo la loro credibilità sotto la supervisione degli dei. L’idea di base è che chi pronuncia un falso giuramento sarà punito dagli dei. La legis actio sacramenti in rem La legis actio sacramenti in rem era impiegata per il riconoscimento e la tutela di posizioni giuridiche soggettive assolute, per le quali era uso parlare di vindicationes. Pertanto, con questa legis actio il proprietario perseguiva la cosa che affermava appartenergli, l’erede perseguiva l’eredità che riteneva sua, e in generale si dirimevano controversie sulla proprietà di un bene. Per quanto riguarda l’applicazione della legis actio sacramenti in rem al caso di chi perseguiva una cosa propria, si procedeva in questo modo: una volta presenti entrambi i contendenti davanti al giudice e presente pure l’oggetto della lite (o un suo simbolo), la parte che aveva preso iniziativa della lite, tenendo in mano una bacchetta (festuca), affermava solennemente che la cosa gli apparteneva. L’altra parte, non volendo acconsentire in silenzio, compiva gli stessi gesti e pronunciava la stessa formula. Nell’antica Roma era cruciale che entrambe le parti fossero certe di affermare il vero, poiché la società avrebbe condannato il bugiardo, relegandolo ai margini come un paria. A questo punto, interveniva il pretore che intimava a litiganti di deporre la cosa. Questi obbedivano, ma dopo si sfidavano reciprocamente al sacramentum. Quest’ultimo, era inizialmente solo un atto sacro compiuto davanti gli dei, ma poi divenne una scommessa di pagare all’ erario, in caso di soccombenza, una somma di denaro, la summa sacramenti. Prima dell’introduzione della moneta, questa garanzia era rappresentata da animali, in particolare pecore (pecunia). Se si perdeva la causa, gli animali venivano sacrificati per espiare la colpa, in un atto sacro di riconciliazione con gli dèi (expiatio). Prestato il sacramentum, interveniva il pretore emanando un provvedimento di forza con il quale assegnava il possesso interinale, o provvisorio, della cosa controversa a quella parte che assicurasse l’intervento di garanti più idonei. Questi assumevano il ruolo di praedes in quanto garantivano che, una volta soccombente, la parte alla quale era stato assegnato il possesso provvisorio, avrebbe restituito la cosa all’avversario. Chiusa la fase in iure, completa di litis contestatio e della nomina del giudice, il giudizio continuava apud iudicem, fase in cui ciascuna parte doveva dimostrare al giudice che la cosa controversa gli apparteneva. Il giudice, raccolte le prove, si pronunciava su quale dei due sacramenta fosse ‘iustum’ (conforme a ius) e quale iniustum (non conforme a ius). Il soccombente pagava poi all’ erario l’importo del sacramentum. Quanto alla cosa controversa, se a vincere la lite fosse stato il contendente al quale era stato assegnato il possesso provvisorio, questo continuava a tenere la cosa presso sé. Nel caso contrario, la parte vittoriosa la cui cosa non venisse restituita avrebbe potuto procedere contro i praedes. Era però anche possibile che al vincitore fosse concesso l’uso della forza per prendere legittimamente il possesso del bene che era stato riconosciuto appartenergli. Nell’epoca più antica, probabilmente il giudice richiedeva un’ordalia, ossia un giudizio degli dèi, spesso tramite un duello fisico. Chi uccideva l’altro dimostrava di avere il favore degli dèi, e quindi di aver giurato il vero. Legis actio sacramenti in personam Nell’età arcaica, la società romana subì cambiamenti che modificarono le esigenze giuridiche, richiedendo un adattamento delle norme e delle azioni processuali. In questo contesto, si svilupparono le actio in personam, che non tutelavano i diritti reali, ovvero quei diritti assoluti che potevano essere fatti valere nei confronti di chiunque, ma i diritti relativi, pertanto posizioni giuridiche soggettive relative. Queste non potevano essere esercitate contro tutti, bensì solo verso un soggetto specifico. Di solito, i diritti relativi erano utilizzati per tutelare obblighi derivanti da contratti o delitti, come ad esempio nel caso di contratti di mutuo o fatti illeciti. Le actiones in personam erano quindi azioni di tipo dichiarativo che avevano come scopo principale quello di accertare e tutelare le pretese creditorie che un soggetto vantava nei confronti di un altro. Erano chiamate in personam proprio perché indirizzate verso una persona specifica. Queste azioni rientrano nel concetto di oportere, cioè l’obbligo di fare qualcosa nei confronti di un’altra persona. A seguito del confronto tra Roma e altre realtà giuridiche, le actiones in personam vengono integrate nel sistema romano. In particolare, emergono tre legis actiones che tutelano questo tipo di diritti, riconoscendo l’importanza delle relazioni obbligatorie e della necessità di farle valere in ambito giuridico. Si possono individuare alcune caratteristiche dell’actio in personam: - generalità: come per l’actio in rem, anche l’actio in personam tutelava qualsiasi tipo di diritto relativo che poteva sorgere da diverse fonti, come contratti o obbligazioni derivanti da illeciti. - presenza del sacramentum: come l’actio in rem, l’actio in personam era un’azione “periculosa” perché comportava il rischio di soccombenza, ovvero la perdita della scommessa di denaro a favore dello Stato. Le azioni, invece, che non comportavano la scommessa di denaro erano dette “sine periculo”. - esercizio: l’actio poteva essere esercitata solo da soggetti liberi e cittadini romani, in particolare da uomini adulti (sui iuris) che non erano sotto la potestà di nessun altro. Solo questi individui erano legittimati sia ad agire in giudizio sia a essere convenuti. Le donne e gli uomini soggetti a potestà non potevano partecipare direttamente al processo civile romano. - struttura bipartita: le azioni di cognizione si dividevano in due fasi, in iure e apud iudicem. Tuttavia, le informazioni che ci sono giunte sull’actio in personam sono frammentarie, in quanto alcuni scritti delle Istituzioni di Gaio che trattavano di questo rito sono andati persi. Il rito romano era strettamente legato alla religione e poteva essere promosso solo nei giorni fasti, cioè giorni che non erano dedicati agli dei (giorni nefasti). Come tutte le azioni di cognizione, l’actio era preceduta dalla ius in vocatio, ossia la chiamata in giudizio del convenuto. In risposta, il convenuto poteva partecipare al giudizio e far iniziare la fase in iure; presentare un garante (Vintex), che gli permetteva di non comparire subito davanti al pretore; utilizzare il Vadimonium, promettendo, tramite un garante (Vades), di comparire in giudizio in un momento e luogo stabiliti; opporsi alla vocatio, obbligando l’attore a ripetere la chiamata alla presenza di testimoni. Se avesse continuato a opporsi, l’attore avrebbe potuto utilizzare provvedimenti esecutivi. In caso di mancato successo nel portare il convenuto in giudizio, l’attore avrebbe perso la possibilità di esercitare il proprio diritto, favorendo quindi chi avanzava le sue pretese con il giusto rispetto delle procedure. svolgimento del processo Fase in iure m Se il convenuto accettava di presentarsi in giudizio, l’incontro avveniva in un luogo simbolico e solenne, come il tempio delle Vestali (sacerdotesse) o il comitium di fronte al pretore, oppure presso il foro romano. Alla presenza dell’attore, del convenuto, del pretore e tre fiaccole, aveva inizio la fase in iure. Durante questa fase, l’attore pronunciava una frase solenne davanti al pretore e al convenuto per affermare il proprio diritto e richiederne il riconoscimento. Si utilizzava il termine latino aio, che significa “dire” o “affermare”, collegato a oro, ossia “bocca”, per sottolineare l’importanza dell’affermazione orale. L’attore doveva compiere una formula orale (certa verba), che si divideva in due parti: la prima parte identificava la pretesa dell’attore, mentre la seconda era la richiesta giudiziale rivolta al convenuto. Pertanto, il creditore insoddisfatto avrebbe agito contro il proprio debitore affermando che gli era debitore di una specifica somma di denaro, e chiedendogli di ammettere o negare. Il debitore-convenuto poteva scegliere di confessare, attraverso la confessio in iure, ammettendo il debito o il diritto richiesto dall’attore. In questo caso, se entro 30 giorni non si procedeva al pagamento o alla soddisfazione del diritto, si potevano attivare azioni esecutive per garantire all’attore la soddisfazione del credito. Se, invece, il convenuto rimaneva in silenzio e non rispondeva, si verificava la situazione di indefectio, che autorizzava il magistrato a effettuare l’addictio del convenuto in favore dell’attore, cioè a trasferire il convenuto sotto l’autorità dell’attore. Oppure, se il convenuto negava il diritto preteso dall’attore (infitiatio), l’attore doveva proseguire con il giudizio, e si giungeva alla pronuncia del sacramentum, svolto in maniera analoga all’actio in rem. Inoltre, se il credito rivendicato era incerto, il pretore poteva incaricare un arbitro per risolvere la questione. Dopo la pronuncia del sacramentum, si procedeva con la litis contestatio, in cui si invocavano solennemente i testimoni, i quali garantivano la correttezza del rito svolto e avevano il compito di certificare che il processo fosse conforme alle regole. Questo atto era fondamentale perché sanciva il principio del ne bis in idem, che stabiliva che una volta conclusa la litis contestatio, non si poteva proporre un nuovo giudizio sullo stesso soggetto tra le stesse parti. Il pretore aveva il compito di garantire la correttezza formale del processo, verificando che le parti fossero legittimate a partecipare al giudizio e che venissero rispettate le formule stabilite dai certa verba. Se le formalità non venivano rispettate, il magistrato poteva decidere di non consentire il proseguimento del giudizio. Se tutte le condizioni erano soddisfatte, il pretore autorizzava la prosecuzione della fase apud iudicem e nominava il giudice privato che avrebbe valutato il caso. Nella fase apud iudicem, il processo si spostava davanti a un giudice privato in un luogo stabilito dalle parti, dove si presentavano attore, convenuto e il giudice stesso. Il ruolo del giudice era quello di valutare le istanze e le prove fornite da entrambe le parti, concludendo il processo attraverso una sentenza che decideva se accogliere o respingere la richiesta dell’attore. A differenza della fase in iure, questa fase era più informale, in quanto l’obiettivo principale era quello di convincere il giudice della validità delle rispettive posizioni. La fase apud iudicem iniziava con un riassunto sintetico della controversia, durante il quale le parti identificavano chiaramente le loro pretese. Tuttavia, questa fase doveva seguire precise regole temporali. Innanzitutto, oltre alla limitazione dei giorni fasti (ossia i giorni in cui era permesso celebrare i riti giudiziari), si doveva svolgere esclusivamente nei giorni profesti, ovvero i giorni lavorativi. Era inoltre fondamentale che le parti si presentassero davanti al giudice privato entro mezzogiorno; in caso contrario, avrebbero subito la soccombenza. Il giudice, dal canto suo, doveva emettere una decisione entro il tramonto dello stesso giorno. Un momento cruciale di questa fase era la peroratio, cioè il discorso che ciascuna parte faceva per sostenere le proprie ragioni. Era possibile affidarsi a un oratore, che svolgeva questa attività gratuitamente, per rappresentare le parti. La peroratio era particolarmente importante per l’attore, poiché l’onere della prova, ossia la responsabilità di dimostrare la validità della propria pretesa, ricadeva unicamente su di lui. Se l’attore non riusciva a fornire prove convincenti o dichiarazioni persuasive, il convenuto poteva limitarsi a rimanere in silenzio senza dover necessariamente controbattere. Le prove, in epoca arcaica, consistevano principalmente nelle testimonianze. Un testimone era una persona terza, convocata per confermare i fatti esposti. Queste testimonianze erano determinanti nella decisione del giudice e influivano direttamente sulla sentenza finale. In mancanza di testimonianze, il giudice valutava altri elementi, come l’attendibilità delle parti e la rilevanza pubblica del caso, prima di prendere una decisione. La sentenza del giudice, basata sulla correttezza o meno del giuramento, era definitiva e non ammetteva appelli o revisioni. Se l’attore risultava vincitore, poteva promuovere un’azione esecutiva per rendere obbligatorio l’adempimento da parte del debitore, garantendo così l’effettivo riconoscimento del proprio diritto, attraverso la legis actio per manus iniectionem. Man mano che la società romana andava evolvendosi dal punto di vista sociale e civile, alla legis ACTIO sacramenti si affiancarono altre tre legis actiones: la legis actio per condictionem, la legis actio per pignoris capionem e la legis actio per iudicis arbitrive postulationem. Le altre legis actiones Legis actio per iudicis arbitrive postulationem La legis actio per iudicis arbitrive postulationem era un’azione era di tipo specialis, poiché poteva essere esercitata solo per la tutela di alcuni diritti relativi. Le controversie trattate riguardavano controversie nascenti da stipulatio, ossia contratti che prevedessero obbligazioni di una somma determinata o la consegna di beni specifici (obligationes certae), oppure controversie sulla divisione dell’eredità e la divisione di beni comuni diversi dall’eredità. Questa legis actio era sine periculo in quanto non era presente il sacramentum. La procedura seguiva una struttura bipartita, con le fasi in iure e apud iudicem, ma in alcuni casi veniva chiamata apud arbitrium. Questo avveniva soprattutto in questioni che richiedevano la divisione di beni, la regolamentazione dei confini o altre controversie tecniche, in cui veniva nominato un arbitro privato al posto del giudice. L’arbitro era solitamente un esperto con competenze specifiche. Durante la fase in iure, l’attore formulava la sua pretesa attraverso le certa verba, specificando la fonte dell’obbligazione (es. un contratto o un diritto ereditario). Se il convenuto negava la validità della pretesa, l’attore richiedeva la nomina di un giudice o di un arbitro per risolvere la controversia. Questo tipo di legis actio rifletteva un’evoluzione del processo giuridico romano in quanto introduceva un elemento più laico nel sistema giudiziario, eliminando il sacramentum e concentrandosi sulla risoluzione dei diritti e delle obbligazioni attraverso una valutazione più tecnica e razionale. Nonostante l’uso delle certa verba fosse ancora richiesto, si osservava una progressiva desacralizzazione del processo, con la richiesta di giudici o arbitri competenti. Legis actio per condictionem La condictio, simile ad altre azioni dichiarative, aveva delle particolarità che la rendevano specialis, poiché veniva utilizzata per crediti riguardanti una determinata somma di denaro (certa pecunia) o per la rivendicazione di altri beni specifici e determinati (certa res). A differenza di altre azioni giudiziarie, era sine periculum, cioè priva del rischio di dover pagare una somma in caso di soccombenza, e seguiva una struttura bipartita. Durante la fase in iure, l’attore era tenuto a presentare la propria pretesa, senza però dover fornire una spiegazione dettagliata del suo fondamento legale ne precisarne la fonte (causa). Quando l’attore citava il convenuto in giudizio, veniva assegnato un termine di 30 giorni (conditio), durante il quale le parti avevano la possibilità di trovare un accordo e presentarsi insieme davanti al giudice. Pertanto, se entro 30 giorni il credito non veniva soddisfatto e l’attore negava, si passava alla fase apud iudicem per la risoluzione formale della controversia. Questo termine rappresentava una sorta di attenuazione dell’aggressività insita nel processo, in quanto offriva alle parti un periodo di tregua per tentare di risolvere la questione in maniera meno conflittuale. Di conseguenza, la tensione e la disparità tra attore e convenuto si riducevano, e il confronto assumeva una forma più equilibrata e pacifica. Legis actio per manus iniectionem Le azioni di carattere esecutivo nel diritto romano erano progettate per garantire l’esecuzione di posizioni giuridiche soggettive già accertate per le quali una legge vi avesse fatto rinvio, assicurando così la sanzione e la sussistenza dell’ordinamento giuridico. Queste azioni si suddividevano in due categorie, ma in realtà si può considerare una forma principale: la legis actio per manus iniectio. La manus iniecti (letteralmente “mettere le mani addosso”) era una forma di esecuzione diretta utilizzata per l’esecuzione di un giudicato in situazioni riconosciute a priori come certe. In questo caso si parla di ‘manus iniectio iudicati’ e si riferisce ai casi in cui fosse stata emessa una sentenza (iudicatum) a favore del creditore per cui l’avversario fosse stato riconosciuto debitore di una somma di denaro. Pertanto, si parla di Manus iniectio pura quando esisteva già un diritto certo e l’attore poteva agire immediatamente per far valere le proprie ragioni; e manus iniectio pro iudicatus quando il convenuto era già stato condannato in un processo di accertamento e serviva uno strumento per eseguire la condanna. In quest'ultimo caso, infatti, il iudicatus (il debitore) era parificato al convenuto che in iure avesse ammesso il proprio debito con la confessio in iure. Il procedimento si svolgeva dinanzi al magistrato giusdicente. Ad avere ruolo attivo era dapprima il creditore il quale, rivolgendosi all’avversario, enunciava tramite i certa verba la fonte del credito che pretendeva spettargli, ne indicava l’importo e dichiarava di manum inicere, afferrando contemporaneamente il preteso debitore. Quest’ultimo aveva due possibilità: o si pronunciava colpevole con la confessio in iure o richiedeva l’intervento di un garante. Questa opzione, nota come vadimonium, consisteva nella nomina di un vindex, il cui intervento lo avrebbe sottratto alla manus iniectio. Il convenuto, infatti, poteva chiedere a un soggetto estraneo alla controversia di garantire per lui. Se il vindex negava il debito e contestava all’attore l’azione esecutiva, in caso di soccombenza del debitore, sarebbe stato condannato al doppio dell’importo del debito riconosciuto esistente. Qualora nessun vindex fosse intervenuto in suo favore, il pretore pronunciava l’addictio del debitore in favore dell’altra parte cosicché questa avrebbe potuto trascinare con sé l’addictus e tenerlo in catene presso di sé per sessanta giorni. Durante questo tempo il creditore avrebbe dovuto condurre il debitore in tre mercati (nundinae) consecutivi e proclamare pubblicamente (in genere con un cartello) l’importo del debito in modo che qualcheduno avesse modo di riscattare l’addictus. La principale funzione di questa procedura era quella di scoraggiare l’inadempimento e offrire all’addictus l’opportunità di prendere coscienza della propria situazione e decidere di pagare il debito. Se ciò non avveniva, il debitore poteva essere venduto come schiavo fuori roma (trans Tiberim, ‘al di là del Tevere’). Questo accadeva poiché il diritto romano stabiliva che nessun cittadino romano avrebbe potuto diventare schiavo a Roma. Oppure il creditore poteva ucciderlo e, in caso di più creditori, questi a norma delle XII tavole potevano spartirsi il corpo del debitore dopo averlo fatto a pezzi, e prendendo le parti del corpo proporzionali all’ammontare del debito che questo aveva contratto. La condizione dell’addictus è definita come paraservile: egli viene trattato come uno schiavo, ma formalmente non lo è. L’idea di infliggere la morte o espellere il cittadino vendendolo a stranieri era in linea con il concetto di auto- conservazione della società. Un soggetto che non pagava i debiti e si rifiutava di ascoltare la civitas era considerato antisociale e disfunzionale, meritevole di espulsione. Questo poiché si riteneva che la civitas fosse fondata sul concetto di fides, ossia sulla possibilità di fare affidamento l’uno sull’altro. Inoltre, la distruzione del corpo mirava a scoraggiare comportamenti del genere in quanto la religione riteneva che il defunto potesse riposare in pace solo se il suo corpo sarebbe stato sepolto per intero. Questa pressione morale si estendeva poi a parenti e amici, in quanto la convenzione religiosa sosteneva che un corpo spezzettato avrebbe condannato l’anima a vagare come un fantasma, disturbando i familiari. L’esecuzione di carattere personale era l’unica ammessa nel processo per legis actiones, senza considerare l’ammontare del debito per formulare la condanna. Per quanto riguarda la manus iniectio pura, il convenuto poteva sottrarsi alla manus iniectio anche se nessun vindex fosse intervenuto per lui, e poteva da sé negare il debito affermato dall’attore, con la conseguenza di dover subire la condanna al doppio in caso di soccombenza. Si applicava qui la regola della liticrescenza, che comportava l’obbligo di pagare il doppio se la contestazione (infitiatio) risultava infondata. Legis actio per pignoris capionem Esisteva la possibilità che alcuni soggetti insolventi potessero beneficiare di un’attenuazione delle sanzioni, soprattutto in relazione alla loro condizione. Inizialmente, questa agevolazione era prevista per i militari. Se un soldato, dopo aver partecipato a una guerra, non disponeva temporaneamente del denaro necessario per adempiere ai propri obblighi, poteva richiedere del tempo. Questa esigenza portò (in un periodo storico successivo) all’introduzione di un’esecuzione patrimoniale, conosciuta come pignoris capio, ossia la “presa del pegno” o il pignoramento (legis actio esecutiva). Con tale procedimento, se si giungeva all’esecuzione forzata, un ufficiale giudiziario poteva avviare la procedura per pignorare i beni del debitore. Tuttavia, per il modo in cui si svolgeva, non è certo se questa procedura possa essere considerata una vera e propria legis actio. La legis actio per pignoris capionem, infatti, non richiedeva la presenza né del magistrato né dell’avversario, e poteva svolgersi anche nei giorni nefasti. L’unico elemento che la accomuna alle legis actiones è l’uso dei certa verba, che venivano pronunciati dal creditore che poi prendeva possesso di cose appartenenti al debitore, e le teneva in pegno (pignus). Tuttavia, mancano molte delle caratteristiche formali tipiche delle legis actiones, come la ritualità e l’esclusività per i cittadini romani. Infatti, la pignoris capio poteva essere esercitata anche tra non cittadini romani. Nonostante ciò, le fonti ci riportano questa pratica come la quinta forma di legis actio, suggerendo una sua appartenenza a quel sistema processuale. Il processo formulare Il processo formulare si sviluppa in risposta ai cambiamenti sociali e giuridici che avvennero a Roma tra il III e il II secolo a.C. In questo periodo, i Romani si espansero verso sud, entrando in conflitto con i Greci e affacciandosi sul Mediterraneo. Le guerre puniche e quelle in Grecia si conclusero nel 146 a.C., e videro Roma diventare padrona del Mediterraneo. Di conseguenza la società romana, inizialmente di carattere agricolo e pastorale, si trasformò rapidamente in una realtà commerciale, e i rapporti giuridici, un tempo confinati all’interno dei confini romani, si estendono a includere anche gli stranieri. Per questa ragione, il processo romano tradizionale, fondato sulle legis actiones, in cui trovavano tutela solo situazioni giuridiche riconosciute dall’arcaico ius civile e che richiedeva l’uso di formule verbali fisse (certa verba) conosciute solo dai cittadini romani, non era più applicabile. Questo sistema, inoltre, si basava sulla fiducia (fides) reciproca tra cittadini, un concetto che non si estendeva agli stranieri. Con l’aumento dei contatti giuridici con altre popolazioni, Roma si trovò ad affrontare un nuovo problema: come gestire i conflitti legali tra cittadini romani e non romani. Nel 242 a.C., per far fronte a questa nuova realtà, viene istituito il pretore peregrinus, una figura specifica che si occupava di amministrare la giustizia nelle cause in cui una delle parti (o entrambe) non fosse cittadina romana. Questo segnò l’inizio di un’evoluzione giuridica che portò alla creazione di una nuova struttura processuale basata non più sui certa verba, ma su formule create dal pretore stesso, i concetta verba. Queste erano formule concepite per qualificare un rapporto come giuridico anche quando coinvolgeva stranieri. Nacque così il processo formulare, o per formulas, che si realizzava in forza dei poteri del pretore (iuris dictio e imperium – derivante da una carica militare). - un esempio di come il nuovo processo formulare adattasse il diritto romano ai non cittadini riguarda il concetto di proprietà. Per i cittadini romani, il diritto di proprietà era espresso tramite il dominium ex iure quiritium, ma per gli stranieri, che non avevano accesso a questo tipo di diritto, vennero create formule equivalenti per riconoscere diritti esclusivi sulla proprietà, sebbene non fossero definiti nello stesso modo. Da queste formule nacque il concetto di proprietà pretoria, un diritto sostanziale riconosciuto dal pretore, simile ma distinto dalla proprietà romana tradizionale. L’abolizione delle legis actiones Poiché le legis actiones si rivelarono sempre più inadeguate alla nuova realtà di Roma, queste vennero gradatamente soppresse. Intorno al 130 a.C. Una l’ex ~ eAebutia abolì la legis actio per condictionem, e più tardi, lex Iulia iudiciaria, fatta approvare da Augusto nel 17 a.C., abolì le restanti legis actiones. La conseguenza fu che il processo formulare andò a sostituire le legis actiones, gli furono attribuiti effetti anche per il ius civile e, con la lex Iulia, divenne il processo privato ordinario. Le parti ordinarie della formula La formula è uno schema standard utilizzato nel processo formulare per gestire diversi tipi di controversie legali. Si tratta di una struttura composta da più partes. Si iniziava con la nomina del giudice (iudicis nominatio) a cui servivano altre parti. Quattro di queste si dicono ordinarie ed erano: intentio, demonstratio condemnatio, adiudicatio, ma non erano tutte necessarie. Vi era poi l’exceptio. Esistevano diverse formule per tutelare varie situazioni giuridiche. L’intentio L’intentio esprimeva la pretesa avanzata dall’attore, la ragione fatta valere. L’intentio caratterizzava la formula, delineandone la natura e consentendo, quando mancava la demonstratio, di stabilire il tipo dell’azione. L’intentio poteva essere certa o incerta. L’intentio certa si verificava quando specifica il fondamento della richiesta dell’attore, indicando chiaramente su quali basi si fonda il diritto che l’attore rivendica. In questo caso, tutti gli elementi essenziali della domanda, come la natura del credito o il motivo dell’azione, sono esplicitamente indicati. - Esempio: si trova nella promessa di dare qualcosa, nota come sponsio. Questo termine, derivato da spondere (verbo proprio del linguaggio religioso), indicava una promessa solenne fatta attraverso parole precise e sacre. La formula utilizzata era: ‘spondes mihi tum dari?’, a cui l’altra parte rispondeva con ‘spondeo’. Solo i cittadini romani potevano utilizzare queste parole, e questo vincolo formale non poteva essere applicato ai cittadini stranieri. Con l’espansione dei rapporti giuridici, i cittadini romani iniziarono a utilizzare lo stesso schema ma con altre parole per stipulare accordi con stranieri. Il pretore, per tutelare tali situazioni, riconobbe queste nuove forme verbali come equivalenti alla sponsio, ma adattate per le interazioni con non cittadini. Nacque così la stipulatio, basata sui concetta verba, che preservava lo schema formale ma lo adattava al contesto del ius gentium. In questo contesto, l’intentio è certa poiché il pretore aveva già uno schema chiaro nel ius civile (la sponsio), che, essendo sacrale e formalistico, rendeva l’individuazione del dovuto inequivocabile; e poiché la nuova pratica giuridica derivava da modelli formali noti, l’intentio poteva essere specifica, basata sulla pretesa dell’attore. Quando l’intentio è certa, non è necessaria la demonstratio. Nelle formule che avevano intentio certa, l’attore avrebbe potuto incorrere in pluris petitio (domanda di qualcosa di più), con la conseguenza di perdere la lite. L’attore incorreva in pluris petitio quando chiedeva al convenuto più del dovuto, ad esempio di pagare cento al posto di novanta. Perdeva così la lite e, per effetto preclusivo della litis contestatio, non avrebbe più potuto ripeterla. Nel caso inverso, si parlava invece di minoris petitio (domanda di qualcosa di meno). Si verificava quando l’attore, creditore effettivamente di cento, avesse agito con una formula nella cui intentio fosse stato dedotto un credito di novanta. Allora, il giudice avrebbe condannato il convenuto al pagamento di novanta e l’attore avrebbe potuto poi, in altro giudizio, richiedere il pagamento del residuo. Il pericolo di pluris petitio non era prospettabile in caso di intentio incerta in quanto non si specificava ciò che l’attore deduceva in giudizio. Si parlava invece di intentio incerta quando questa non contiene la ragione precisa su cui si fonda la richiesta. L’attore non dichiara espressamente su che basi avanzi la sua pretesa, lasciando quindi la domanda in una forma più generica o indefinita. - Esempio: può essere riscontrato in un contratto di compravendita. Nel processo formulare, questo tipo di accordo si basava principalmente sul consenso delle parti, e si sviluppò man mano che la società romana si espanse, rientrando sotto il ius gentium. A differenza delle legis actiones, che non riconoscevano accordi di questo tipo, il processo formulare, specialmente quello davanti al pretore pellegrino, cominciò a tutelare contratti basati sul consenso. Nel caso del contratto di compravendita, l’intentio risulta essere incerta, perché non ci sono leggi specifiche del ius civile su cui basare la richiesta. Di conseguenza, l’intentio è generica: si afferma che Caio deve a Tizio una “qualunque cosa”, lasciando alla discrezione del giudice la valutazione e quantificazione della condanna. Tuttavia, in questi casi di intentio incerta, è necessario appoggiarsi su un fondamento. È qui che interviene la demonstratio. La scelta tra formula certa o incerta dipende dalla natura della controversia e dal livello di specificità che l’attore è in grado o decide di fornire. La demonstratio Se l’intentio esprimeva la pretesa vantata dall’attore, la demonstratio ne indicava la causa, la fonte, i fatti che vi avevano dato vita. Chiarisce in base a quale rapporto giuridico la pretesa dell’attore è tutelata. Non tutte le formule avevano la demonstratio, pertanto si avevano formule astratte in cui la causa non fa espressa (condictio). La demonstratio era collocata prima dell’intentio, e iniziava con la parola ‘quod ‘ in senso causale (poiché). Tutte le formule che non hanno un precedente modello formale nel ius civile, richiedono na demonstratio. La condemnatio La condemnatio è la parte della formula in cui si incarica il giudice di svolgere due possibili azioni: condannare o assolvere, in base alle condizioni indicate nella stessa formula. Essa, insieme all’intentio, costituisce una struttura ipotetica nella formula, in cui l’intentio rappresenta la protasi (“se”) e la condemnatio rappresenta l’apodosi (“allora”). In pratica, il giudice deve stabilire se la pretesa dell’attore sia fondata, e, in tal caso, emettere una condanna. Se la pretesa non è fondata, il giudice deve assolvere. - Esempio: in un caso di stipulatio, la formula potrebbe essere: “Se risulta che Caio ha promesso a Tizio cento, allora tu giudice condanna”. In alternativa, se la pretesa non risulta fondata: “Se non risulta, assolvi”. Questo sistema consente al giudice di sviluppare il processo fino alla sentenza. Comunque, non era ammessa la possibilità del non liquet, cioè di dichiarare di non essere in grado di giudicare. La condemnatio della formula era cosa diversa dalla sentenza di condanna, poiché quest’ultima sarebbe stata possibile se al giudice fossero stati conferiti i poteri relativi dalla condemnatio della formula. Questa doveva invece specificare l’oggetto eventuale della sentenza di condanna e aveva termini tali che la sentenza di condanna avrebbe potuto essere espressa solamente in denaro, anche se la pretesa dell’attore fosse stata di diversa natura. Talvolta si verificava che la condanna pecuniaria non superasse certi limiti: la condemnatio era allora integrata da una taxatio. La taxatio è un elemento opzionale della formula che l’attore può richiedere per limitare l’importo della condemnatio. In pratica, consente di fissare un tetto massimo alla cifra che il giudice potrà imporre come condanna. Questo limite viene stabilito all’inizio del processo e vincola il giudice nell’esercizio della sua discrezionalità, impedendogli di superare il massimo concordato. La taxatio è il risultato di un accordo tra le parti, in particolare in casi di azioni arbitrarie, dove la valutazione di un bene oggetto della disputa è rimessa agli arbitri. L’obiettivo è quindi mantenere un controllo sull’entità della condanna, garantendo che non vada oltre il limite prestabilito, pur lasciando margine al giudice per determinare un importo giusto all’interno di quel massimo. In forza ella taxatio si realizzava solitamente il benefícium competentiae, per cui il contenuto non avrebbe potuto essere condannato al di là delle sue possibilità economiche. La condemnatio era sempre presente, tranne nell’azione penale di ingiuria, in quanto si ha che l’intentio è implicita nella condemnatio, che quindi non è necessaria. L’adiudicatio Anche se la condemnatio è una parte essenziale della formula, in alcuni casi può essere sostituita dall’adiudicatio. L’adiudicatio fava solo nelle formule delle azioni divisorie e autorizzava il giudice ad ‘aggiudicare’ ai partecipanti della comunione o ai confinanti parti di quanto era oggetto della divisione o parti definite di terreno a confine. In tali casi, il giudice (o spesso un arbitro) è incaricato di assegnare i beni a chi ne ha diritto, basandosi su quanto stabilito dal diritto successorio o dal testamento. La praescriptio Nella formula poteva pure figurare una praescriptio. Non era propriamente una parte della formula perché era scritta prima della iudicis nominatio. Si suddivideva in praescriptio pro reo e praescriptio pro attore: - la praescriptio pro attore era una sorta di precisazione preliminare che l’attore inseriva per circoscrivere la pretesa. Questo era utile, ad esempio, in rapporti di durata come il contratto di locazione, dove l’attore poteva voler far valere solo una parte del contratto, come il mancato pagamento di un affitto, senza però voler risolvere l’intero rapporto contrattuale. In tal modo, l’attore poteva limitare l’azione alla richiesta di una somma senza compromettere la continuazione del contratto. In questi casi, la praescriptio aveva l’effetto di limitare l’oggetto dell’azione e il carattere preclusivo della litis contestatio a quanto l’atttore volesse o potesse perseguire. - la praescriptio pro reo, invece, era originariamente uno strumento per il convenuto di far valere una contropretesa. Con lo sviluppo del processo formulare, questo diritto si trasformò in un’altra parte della formula chiamata exceptio. L’exceptio L’exceptio si inseriva nella formula dopo l’intentio e prima della condemnatio. L’exceptio permetteva al convenuto di presentare una difesa basata su un fatto che, pur accettando quanto affermato dall’attore, lo esonerava dalla condanna. Sotto l’aspetto formale, era pertanto una condizione negativa della condanna: il giudice avrebbe potuto e dovuto condannare il convenuto solo se le circostanze dedotte nell’ exceptio non risultassero vere; in tal caso avrebbe dovuto assolverlo. Sotto il profilo sostanziale l’exceptio era rimedio pretorio, in quanto istituita dal pretore. In tal modo, l’exceptio rappresentava un mezzo di attuazione dell’equità pretoria, nonché un modo per correggere il ius civile quando la sua applicazione in un caso risultava iniqua. - Esempio: nel caso dell’azione nascente da una stipulatio con cui il promittente (colui che si impegna a pagare) si impegna a pagare cento ma a cui lo stesso promittente oppone l’exceptio doli, il giudice può condannare il convenuto dopo aver verificato due condizioni: una positiva e una negativa. Quella positiva riguardava l’intentio, ed era che il debitore avesse dovuto davvero pagare cento; quella negativa era la circostanza dedotta dall’ exceptio ed era che il creditore non avesse tratto in inganno né comunque fosse in dolo nei confronti del convenuto. Sicché il giudice, dopo aver accertato che il convenuto fosse effettivamente creditore, avrebbe dovuto tuttavia assolverlo una volta verificato il dolo dell’attore. sa richiesta o comunque nel suo Poiché l’exceptio era un rimedio a favore del convenuto, era inserita nella formula a usa interesse. A differenza della praescriptio pro reo, l’exceptio funzionava come condizione per la condanna: il giudice, oltre a valutare la fondatezza delle affermazioni dell’attore, doveva anche accertare che l’eccezione sollevata dal convenuto fosse infondata. Solo in tal caso poteva emettere una condanna. Se l’eccezione risultava fondata, il giudice doveva assolvere il convenuto. L’exceptio impediva lo svolgimento del giudizio, e il pretore vi giungeva quando in iure emergevano delle circostanze tali per cui la pretesa dell’attore, seppur fondata, appariva in concreto contraria all’equità pretoria. Il pretore concedeva l’exceptio, invece, quando quelle circostanze non erano manifeste e venivano contestate dall’attore. Occorreva pertanto procedere a un accertamento, fatto dal giudice nella fase apud iudicem. Tuttavia, non ogni difesa del convenuto era exceptio. Se il convenuto negava l’intentio, non sarebbe occorso modificare la formula in quanto avrebbe semplicemente dovuto, apud iudicem, adoperarsi per negare fondamento all’intentio. L’exceptio era invece necessaria quando, senza di essa, il giudice non avrebbe potuto tener conto di fatti che si voleva venissero presi in considerazione. Come le actiones, anche le excepciones erano tipiche, essendo i relativi modelli contemplati dall’editto. Inoltre, poteva accadere che, a fronte dell’ exceptio del convenuto, l’attore opponesse circostanze che, se verificate, avrebbero fatto apparire iniquo dare corso all’exceptio. Si inseriva allora nella formula, dopo l’exceptio, una replicatio che, se fondata, permetteva di non tener conto dell’exceptio. Le fasi processuali Il procedimento era bipartito, ossia diviso nelle due fasi in iure e apud iudicem. Fase in iure Dopo aver individuato la forma d’azione appropriata, l’attore procedeva con l’in ius vocatio, che non era un atto brutale come nelle legis actiones, ma una convocazione in cui il convenuto era chiamato a presentarsi in giudizio entro un certo termine. Se il convenuto non poteva presentarsi subito, si ricorreva al vadimonium, una forma di garanzia per l’apparizione in giudizio. Si trattava di una stipulatio, cioè una promessa verbale in cui il convenuto si impegnava a versare una somma di denaro all’attore nel caso in cui non si fosse presentato in tribunale. In iure venivano fissati i termini giuridici della lite. Anche nel processo formulare, era necessaria la presenza di entrambe le parti. Il magistrato che la presiedeva era un magistrato con iuris dictio, il che comporta il potere di stabilire il principio di diritto da valere nel caso concreto. Ciò, nel processo formulare, si esplicitava attraverso la datio actionis, con cui il magistrato,approvato il testo della formula concordata tra le parti, concedeva l’azione richiesta. Ebbene, in iure l’attore indicava all’avversario la formula dell’azione che intendeva promuovere facendo riferimento all’albo pretorio. L’albo pretorio conteneva l’editto del pretore, in cui erano contemplati i modelli delle diverse formule, o iudicia. Ad ogni formula poi corrispondeva un’azione questo procedimento prende il nome di editio actionis. Faceva seguito la postulatio actionis, che era rivolta al pretore e mediante la quale l’attore chiedeva che si procedesse con l’azione indicata. Se il convenuto non le ammetteva, aveva luogo un dibattito informale nel quale le parti sostenevano ciascuna i propri punti di vista Se invece il pretore si convinceva da subito che la pretesa di parte attrice fosse palesemente infondata e procedere oltre sarebbe stato inutile, oppure se, pur fondata di diritto, viste le circostanze sarebbe stato iniquo perseguirla, egli poteva denegare l’azione (denegatio actionis). Per effetto della denegatio actionis, la pretesa vantata dall’attore non poteva essere perseguita perché il pretore aveva denegato e non dato l’azione. Tuttavia, questa aveva caratteri diversi dalla sentenza in quanto non era tale e perciò l’attore poteva ripresentarsi in giudizio con lo stesso soggetto e la stessa pretesa. Se invece il convenuto confessava il diritto dell’attore, riconoscendo così la sua pretesa, l’azione terminava e il convenuto veniva definito confessus. Più spesso accadeva che il pretore concedesse l’azione e con la datio actionis dava la possibilità di procedere. La datio actionis presupponeva che di norma le parti avessero concordato il testo della formula da adottare nella specie concreta, approvato dal pretore. La formula consisteva in un breve documento scritto in cui si indicava il nome del giudice che avrebbe emanato la sentenza. Inoltre, al giudice era rivolto l’invito di condannare o assolvere il convenuto a seconda che riscontrasse vere oppure no le circostanze della formula. In questa, pertanto, erano sintetizzati i termini della controversia ritenuti determinanti ai fini della decisione. La litis contestatio Una volta che il pretore fosse d’accordo sul testo della formula si procedeva con la litis contestatio. In questa fase, ognuno aveva un ruolo specifico: - Al pretore spettava lo iudicium dat, cioè la nomina del giudice e lo iussum iudicandi, ossia il comando al giudice di giudicare. - L’attore stabiliva i termini della controversia attraverso lo iudicium dictat. - Il convenuto accettava di sottoporsi al giudizio con lo iudicium accipit. L’ invocazione dei testimoni nel processo formulare era superflua, poiché l’impostazione giuridica della controversia risultava dal documento scritto della formula. La litis contestatio era presupposto indispensabile perché si potesse avere una decisione giudiziale sulla questione controversa e con essa i termini giudici della lite restavano definitivamente fissati così come espressi nella formula. La litis contestatio nel processo formulare produceva tre principali effetti sulla controversia. - Effetto conservativo: congelava la situazione giuridica al momento della litis contestatio. In questo modo la pretesa dell’attore era messa al sicuro e qualunque evento successivo non avrebbe potuto in alcun modo pregiudicarlo. È come una fotografia della lite: il giudice poteva valutare solo gli elementi presenti fino a quel momento, escludendo tutto ciò che succedeva successivamente tra le parti. - Effetto preclusivo: una volta giunti alla litis contestatio, non era più possibile riproporre lo stesso giudizio tra le stesse parti sullo stesso diritto. Questo principio, oggi conosciuto come ne bis in idem, impedisce che lo stesso caso venga giudicato due volte. Nel processo formulare, questo effetto preclusivo si manifestava con la conclusione della litis contestatio, indipendentemente dall’emissione della sentenza. - Effetto estintivo: la litis contestatio estingueva il diritto dedotto in giudizio, consumandolo, ma in senso novatorio. Il diritto non si estingueva semplicemente, ma si rinnovava, trasformandosi in un nuovo diritto. Più precisamente, il diritto originario del convenuto di adempiere all’obbligazione si trasformava in una obligatio iudicati, cioè l’obbligo di conformarsi alla sentenza. Nel processo formulare, la condanna non poteva essere in forma specifica (per esempio, non si poteva obbligare il convenuto a restituire un bene o a compiere una certa azione). L’unica forma di condanna era pecuniaria: il convenuto era condannato a pagare una somma di denaro che sostituiva l’obbligazione originaria. Così, anche se la lite riguardava un bene specifico o una prestazione, l’attore riceveva solo una somma di denaro corrispondente al valore di ciò che era in disputa. L’obbligazione originaria, quindi, veniva sostituita dall’obligatio iudicati, che imponeva al convenuto di adempiere a quanto stabilito dal giudice. L’attore, se usciva vincitore, non otteneva il diritto a ricevere la prestazione originaria, ma il diritto a ottenere l’esecuzione della sentenza, che consisteva generalmente in un risarcimento monetario corrispondente. Questo diritto rappresentava la base di un eventuale processo esecutivo successivo. Perciò, la civitas non costringeva mai un cittadino a fare qualcosa contro la propria volontà, ma poteva esigere il pagamento di una somma di denaro come conseguenza del giudizio. L’indefensio Poiché la litis contestatio richiedeva la partecipazione di ambedue le parti (il convenuto doveva accipere iudicium), nel caso in cui il convenuto rifiutasse di partecipare al giudizio, quindi senza la sua defensio, l’attore non avrebbe potuto ottenere alcuna sentenza. Contro il convenuto che, presente in iure, assumesse un atteggiamento passivo di non collaborazione all’istituzione della lite, diventando indefensus, il giudice poteva imporre sanzioni molto severe. Non esisteva la possibilità di contumacia (assenza dal giudizio), e chi si sottraeva al processo rischiava di perdere la causa per mancata difesa. Fase apud iudicem La fase apud iudicem aveva luogo dinanzi al giudice, un privato cittadino che riscuoteva la fiducia delle parti. Il giudice poteva essere una persona singola ma vi erano anche organi giudicanti collegiali, come i recuperatores, che giudicavano i processi di maggiore rilievo sociale. In generale, per la scelta dei giudici erano predisposte delle liste speciali compilate sulla base di criteri politici. Come stabilito dalle XII tavole, anche nel processo formulare risultava che se una parte fosse stata assente oltre il mezzogiorno della giornata dell’udienza, il giudice avrebbe deciso in favore della parte presente. Se entrambe le parti erano presenti, si proseguiva apud iudicem e ciascuna esponeva liberamente le proprie ragioni e adduceva le prove che riteneva utili. Sull’attore vi era quindi l’onore di provare la propria pretesa, sul convenuto quello relativo ad eventuali eccezioni, ed entrambi avevano l’interesse di mostrare l’inconsistenza delle prove avversarie. Il giudice raccoglieva le prove, che inizialmente erano principalmente orali e testimoniali. Solo verso il I secolo a.C. si cominciò a dare rilevanza alla prova documentale. Il giudice, inoltre, era strettamente vincolato dai termini della formula che lo invitava, una volta verificate le condizioni, a condannare il convenuto o assolveròGse queste non si verificavano. La fase apud iudicem si concludeva con la sentenza, che era definitiva, non avendo il giudice in qualita alita di privato cittadino superiori gerarchici ai quali si crebbe potuto fare un nuovo appello. Se il convenuto adempiva all’obligatio iudicati, pagava la somma di denaro stabilita; in caso contrario, si rendeva necessario avviare un processo esecutivo per ottenere l’adempimento forzato. Classificazione delle azioni Le actiones erano tipiche e classificabili in alcune categorie. Una prima distinzione è tra azioni civili e azioni onorarie, definite anche azioni pretorie. Erano civili le azioni fondate sul ius civile, pretorie quelle fondate sul diritto onorario. L’appartenenza alle categorie si stabiliva nell’intentio della formula, a seconda che in essa la pretesa apparisse o meno fondata sul ius civile. Erano fondate sul ius civile le pretese di appartenenza ex iure quiritium, di spettanza di un ius, di obbligazione a carico del convenuto espressa come oportere. Ogni pretore riproduceva nell’editto, un documento che ogni pretore pubblicava all’inizio del proprio anno di carica, i modelli delle formule-tipo, sia delle azioni civili sia di quelle pretorie. L’editto rappresentava quindi una sorta di programma giuridico, contenente tutti gli strumenti legali che il pretore prometteva di concedere ai cittadini per tutelare i loro diritti. In esso erano presenti formule generali e astratte, che descrivevano in modo schematico i rimedi giuridici che il pretore avrebbe messo a disposizione durante il suo mandato. Il processo formulare si sviluppò così a partire da azioni che non erano previste dal ius civile. In seguito, alcune di queste azioni formulari ne diventeranno parte integrante. Iudicia bonae fidei I iudicia bonae fidei erano azioni civili di origine preclassica, in cui il dovere giuridico del debitore di adempiere fu espresso in termini di oportere ex fide bona e con essi si diede sin dagli inizi tutela a non giudiziaria anche anun on cittadini. Si trattava di azioni in personam che avevano formula con demonstratio, intentio e condemnatio. L’intentio era certa e il giudice era invitato a stabilire, secondo criteri di buona fede (bona fides) quali fossero gli obblighi a carico del convenuto. In questo contesto buona fede voleva dire correttezza nella vita di relazione: si trattava di buona fede oggettiva per cui si conferiva al giudice un’ampiezza di giudizio maggiore rispetto a quella attribuitagli nelle altre azioni in personam. La clausola ex fide bona avvisava il giudice che poteva esaminare ogni aspetto dei rapporti tra le parti che non rispettasse la buona fede. La fides era il principio che regolava la possibilità di affidamento reciproco tra i consociati. La fides poteva essere bona o mala. La bona fides diventava fondamentale per regolare i rapporti con gli stranieri, poiché in questi casi il solo fondamento su cui si poteva basare la relazione giuridica era la fiducia reciproca e positiva tra le parti. Le azioni di buona fede erano quelle nascenti dai quattro contratti consensuali, ossia compravendita, locazione, società e mandato. Iudicia stricta Le azioni civili in personam, nelle quali il dovere giuridico di adempiere da parte del debitore era espresso come oportere puro e semplice, si dicono iudicia stricta, giudizi di stretto diritto. In tale contesto, il pretore non era tenuto a basare la valutazione del rapporto sulla buona fede, ma piuttosto sui criteri formali stabiliti dal diritto civile. Un esempio tipico è l’actio ex stipulato, un’azione che deriva dalla stipulatio, un contratto verbale solenne. In questo caso, il pretore concedeva un’azione che fondata strettamente sul diritto formale e modellata sull’antico istituto della sponsio. Il ruolo del giudice era perciò quello di verificare se la stipulatio fosse stata eseguita rispettando i requisiti formali necessari. Le azioni pretorie Le azioni pretorie sono alla base del processo formulare e, inizialmente, non erano previste nel ius civile. Alcune di queste azioni ne diventeranno poi parte integrante. Quando il pretore introduceva nuovi strumenti di tutela, lo faceva attraverso la triplice funzione del ius pretorio, che si articolava in tre aspetti principali: - Adiuvare (aiutare): per sostenere il ius civile in situazioni dove necessitava di supporto. - Corrigere (correggere): per adattare il ius civile alle nuove esigenze sociali. - Supplere (supplire): per colmare le lacune del diritto civile. Queste tre funzioni erano volte a integrare e perfezionare il ius civile, intervenendo soprattutto quando il sistema giuridico civile non riusciva a regolare adeguatamente nuove situazioni. Quando il ius civile presentava delle lacune, il pretore creava delle norme innovative che aiutavano il diritto a evolversi e ad adattarsi a contesti sociali più complessi. Alcuni istituti del diritto arcaico, infatti, pur essendo validi in epoche passate, non erano più in grado di rispondere alle nuove esigenze della società. In questi casi, il diritto pretorio interveniva per correggere e adattare tali istituti. Quando il diritto civile non riusciva a fornire una soluzione a determinate questioni, il pretore suppliva, introducendo regole nuove per garantire una giusta risoluzione delle controversie basata sull’equità e le necessità pratiche. Le azioni pretorie potevano essere utiles, con trasposizione di soggetti, e in factum. Azioni utili o ad esemplum Queste azioni si basavano su modelli del ius civile, ma venivano adattate dal pretore per risolvere nuove situazioni o estendere la tutela a casi analoghi. Pertanto, nell’intentio si faceva riferimento all’antico ius civile, il che permetteva di operare con esse un’estensione di azioni civili a situazioni iure civili non contemplate. Erano considerate “utili” e formulate come in ius concepta, trasposte poi in versione formulare. Circa le azioni utili, si può dire che la tutela che si realizzava aveva luogo con diverse modalità. Le azioni utili nelle quali si operava mediante fictio erano dette actiones ficticiae. Nella intentio il giudice era invitato a giudicare sulla base di una finzione giuridica, cioè a giudicare come se esistesse una circostanza in realtà mancante ma che secondo il ius civile sarebbe stata necessaria per dare luogo ad una situazione tutelata. - Esempio: un esempio di azione ficticia si trova nei casi di compravendita consensuale, in cui il venditore non trasferiva la proprietà del bene all’acquirente, ma solo il possesso e il pacifico godimento del bene. In questa situazione, l’acquirente era possessore ma non proprietario. Questo comportava delle difficoltà perché, se un terzo rivendicava la proprietà della cosa venduta e faceva causa al venditore, l’acquirente, non essendo proprietario, non aveva strumenti legali per difendersi efficacemente. Non poteva, infatti, opporre una tutela altrettanto forte alla rivendicazione del terzo. Inoltre, se il terzo otteneva la cosa, l’acquirente, pur essendo possessore, non poteva avvalersi dell’azione di rivendicazione per riaverla, poiché non ne era il proprietario. Trascorso un certo periodo di possesso pacifico dalla compravendita, l’acquirente poteva ottenere la proprietà per usucapione. Tuttavia, se durante questo periodo il terzo rivendicava la cosa, il pretore, durante l’epoca repubblicana, interveniva con un’actio ficticia. Attraverso questa azione, il pretore autorizzava il possessore a difendersi come se fosse il proprietario, accordandogli una tutela equivalente, basata su una finzione giuridica. Azioni con trasposizione di soggetti Nelle azioni con trasposizione di soggetti si adottava un meccanismo diverso. Per dare modo al giudice di condannare il convenuto nonostante il difetto nell’attore di legittimazione attiva (si dice attivamente legittimato il soggetto che può agire in quanto titolare effettivo del diritto soggettivo a prescindere dal fatto che deba prevalere) o, nonostante il difetto nel convenuto di legittimazione passiva (passivamente legittimato era il soggetto contro cui si poteva agire a prescindere dal fatto che debba necessariamente soccombere). In altre parole, queste vennero introdotte per affrontare situazioni in cui un soggetto, formalmente non abilitato a compiere determinati atti giuridici per mancanza di capacità giuridica, agiva comunque per conto di un altro, generalmente con il consenso di quest’ultimo. Pertanto, si indicava nell’intentio il nome del soggetto effettivamente legittimato e nella condemnatio il nome della parte che stava effettivamente in giudizio al posto del legittimato. - Esempio: nel diritto romano classico, alcuni soggetti, come i figli sotto la potestà del padre o gli schiavi, non avevano capacità giuridica piena, il che significava che non potevano concludere contratti o compiere atti giuridici autonomamente. Tuttavia, nella vita quotidiana, soprattutto in ambito commerciale, era comune che padri di famiglia o padroni affidassero incarichi importanti ai figli o agli schiavi, come la gestione di attività economiche. Il problema nasceva quando un terzo soggetto si trovava a stipulare un contratto con uno di questi soggetti incapaci. Poiché, secondo il ius civile, nessuno poteva assumersi obbligazioni per conto di un altro, quel contratto sarebbe stato considerato giuridicamente inefficace, e il terzo non avrebbe potuto ottenere alcuna tutela legale. Perciò il pretore, con le azioni con trasposizione di soggetti, permetteva al terzo di intentare un’azione legale non contro il figlio o lo schiavo, ma contro il pater familias o il dominus, che avevano implicitamente o esplicitamente autorizzato l’atto, per ottenere il rispetto del contratto. Pertanto, la formula di queste azioni era strutturata in modo tale che, nella intentio, si menzionasse il figlio o lo schiavo come parte del rapporto contrattuale, quindi, il nome del soggetto effettivamente legittimato; invece, nella condemnatio, veniva indicato il padre o il padrone come il soggetto che avrebbe risposto giuridicamente per l’atto compiuto, ossa il nome della parte che stava effettivamente in giudizio al posto del legittimato. Perché il pretore concedesse quest’azione, era necessario che fosse chiaro che il pater familias o il dominus avessero autorizzato (anche implicitamente) il figlio o lo schiavo a compiere quell’atto. Questo autorizzava implicitamente i terzi a fare affidamento sulla validità giuridica di quel rapporto. In pratica, il pretore tutelava l’affidamento dei terzi, garantendo che potessero commerciare o stipulare contratti senza il rischio di vedere il proprio accordo dichiarato nullo. Questa soluzione era particolarmente importante in un contesto di espansione dei commerci. Il diritto romano classico non riconosceva la rappresentanza diretta, per cui non si poteva agire in nome e per conto di un altro. Tuttavia, era fondamentale che i figli o gli schiavi di fiducia potessero svolgere attività commerciali per conto dei capi famiglia, altrimenti l’economia si sarebbe paralizzata. Le azioni con trasposizione di soggetti permettevano di far fronte a queste esigenze pratiche, mantenendo comunque un collegamento con il rigido schema del ius civile. Azioni in factum Queste azioni, dette in factum concepta, si distinguevano dalle azioni in ius. Infatti, nelle azioni in factum si prescindeva del tutto dal ius civile e ci si basava su fatti specifici, di fronte ai quali si trovava il pretore senza che esistesse un precedente nel ius civile. Pertanto, si invitava il giudice a condannare o assolvere a seconda che verificasse o non che certi eventi avevano avuto luogo. Il pretore costruiva così una formula per risolvere il caso concreto, che in seguito poteva essere adottata anche dai pretori successivi. Actiones in rem e actiones in personam La distinzione tra actiones in rem e actiones in personam è presupposta nel regime dell’antica legis actio sacramenti n rem. Da essa deriva la distinzione dei diritti soggettivi patrimoniali in diritti reali e diritti di credito. Le azioni in personam si riferiscono a un diritto personale o relativo, cioè un diritto che una persona fa valere nei confronti di un’altra persona specifica. Al contrario, le azioni in rem riguardano diritti assoluti su una cosa determinata, e il diritto fatto valere si rivolge a chiunque, non a una persona specifica. Nelle azioni reali la pretesa dell’attore è erga omnes e si affida al giudice, nell’intentio della formula, il compito di accertare la spettanza dell’attore di un potere assoluto sulla cosa per cui si controverte. Sicché nell’intentio figurava solo il nome dell’attore e non si individuava una persona specifica (incertam personam); a questo si univa quello del convenuto nella condemnatio. Pertanto, nelle azioni reali, la persona si determinava al momento dell’azione, ovvero nella litis contestatio, e quindi si aveva che l’azione reale seguiva la cosa. Dunque, si poteva proporre azione penale contro chi possedeva il bene che ne era oggetto, o che comunque aveva con esso una relazione al momento dell’esercizio dell’azione. Invece, nelle azioni in personam l’attore si affermava creditore ed assumeva che l’avversario, suo debitore, era tenuto verso di lui ad un certo comportamento. Dunque, la pretesa era diretta verso un soggetto determinato e l’azione aveva carattere relativo poiché il nome del convenuto figurava, insieme a quello dell’attore, nell’intentio (certamente personam). Il debitore era certo e determinato sin da prima dell’esercizio dell’azione perché il creditore si pretendeva tale nei confronti dell’avversario sin dal momento in cui sorgeva la relativa obbligazione. Erano azioni in personam la condictio, i giudizi di buona fede e le azioni penali. La formula della condictio aveva struttura molto semplice in quanto composta solamente da intentio e condemnatio. Se il credito vantato era costituito da una certa somma di denaro, la condictio assumeva la denominazione di actio certae creditae pecuniae Azioni reali e azioni in personam avevano diverso regime processuale. Contro il convenuto, che rifiutasse di difendersi (indefensus), rifiutasse cioè la defensio di fronte ad un’azione in personam, il pretore poteva o dare corso all’esecuzione sulla persona autorizzando l’attore a trascinare presso di sé l’avversario e tenervelo in stato di assoggettamento, oppure dare corso all’esecuzione patrimoniale e pertanto, come primo provvedimento, autorizzare l’attore ad immettersi nel possesso di tutti i beni del convenuto. Tuttavia, vi era la possibilità del convenuto di non defendere rem ma in questo caso avrebbe dovuto consentire all’avversario l’esercizio del diritto che questi reclamava. Si parla al riguardo di translatio possessionis (trasferimento del possesso). Le azioni arbitrarie Sono dette arbitrarie le azioni la cui formula conteneva la clausola restitutoria, o arbitraria, per cui il giudice, verificata l’intentio, prima di procedere alla condanna avrebbe dovuto invitare il convenuto a restituire, e condannarlo solo in caso di mancata restituzione. Questo tipo di azioni si trovava spesso in relazione con le azioni in rem, dove l’attore aveva un diritto assoluto su un determinato bene e preferiva riaverlo piuttosto che ottenere solo un risarcimento economico. La clausola arbitraria giovava così sia al convenuto, che avrebbe evitato la condanna al pagamento di una somma che poteva non disporre, sia all’attore che avrebbe conseguito in natura l’oggetto della sua pretesa. Nelle azioni arbitrarie, se il convenuto su invito del giudice non avesse restituito, l’attore avrebbe potuto stabilire l’importo della condanna pecuniaria (litis estimatio), sotto vincolo di giuramento. Per questo, era frequente che l’attore giurasse un valore superiore a quello di mercato attribuendo alla res un valore affettivo. Era quindi più conveniente per il convenuto restituirla per essere assolto. Ad avere la clausola restitutoria erano soltanto le azioni reali. Quando la clausola restitutoria mancava, il giudice avrebbe dovuto condannare il convenuto pure se questi avesse soddisfatto le pretese dell’avversario, in quanto per i termini della formula bisognava fare riferimento alla situazione giuridica al tempo della litis contestatio. Azioni penali e azioni reipersecutorie Altra fondamentale classificazione delle azioni è quella tra azioni penali e reipersecutorie, che soddisfano due diverse funzioni legate al trattamento degli illeciti. Di fronte a un atto illecito (delictum), lo Stato romano riconosceva due esigenze: una funzione punitiva e una risarcitoria. Con le azioni penali, il privato, vittima di un illecito, perseguiva dall’autore di esso una pena,che aveva funzione punitiva. La pena poteva essere corporale o pecuniaria: se corporale, veniva inflitta dall’attore, se pecuniaria, era da lui percepita. La funzione punitiva mirava a scoraggiare comportamenti dannosi per la comunità, facendo sì che chi commetteva atti illeciti fosse punito come esempio per tutti. Con le azioni reipersecutorie, invece, si perseguiva la res, intesa come ogni interesse patrimoniale leso nel quale chi agiva pretendeva di essere reintegrato. La funzione era pertanto risarcitoria. Erano certamente penali le azioni in cui la condanna fosse in un multiplo del valore di una cosa o comunque del pregiudizio subito dall’attore. Le due funzioni – punizione e risarcimento – potevano coesistere. Per lo stesso illecito, era possibile intentare sia un’azione penale, per infliggere una pena, sia un’azione reipersecutoria, per ottenere un risarcimento. Queste due azioni, sebbene basate sulla stessa fattispecie, perseguivano interessi differenti: la prima mirava alla punizione e la seconda alla compensazione del danno. Dunque, per stabilire con certezza la natura dell’azione, bisognava fare riferimento al rispettivo regime giuridico. Le azioni penali potevano essere esercitate solo contro colui che aveva compiuto l’atto illecito, non contro i suoi eredi, come invece avveniva nelle reipersecutorie. Inoltre, le azioni penali si cumulavano contro più responsabili, se gli attori dell’illecito erano diversi. Questa avrebbe potuto essere esercitata per intero contro ognuno di essi, se l’azione conto uno non precludeva quella contro gli altri perché tutti avrebbero dovuto pagare l’intera pena. Nelle azioni reipersecutorie, invece, il cumulo era escluso e se l’interessato otteneva qualcosa che riguardava anche altri avrebbe dovuto dividerla con essi. Inoltre, in alcuni periodi della tarda Repubblica, era possibile intentare entrambe le azioni per lo stesso caso, una penale e una reipersecutoria (con una possibile condictio in aggiunta), per ottenere sia la pena sia il risarcimento. Da qui la possibilità di cumulare, se nascenti dallo stesso illecito, azione penale e azioni reipersecutoria. Un esempio di queste azioni miste potrebbe essere l’actio legis Aquiliae, che permetteva di perseguire sia una sanzione punitiva sia una risarcitoria. Le azioni penali potevano essere civili o pretorie. Quelle pretorie potevano essere esercitate non oltre l’anno dalla commissione dell’illecito, erano quindi annali. Depenalizzazione del diritto romano Dagli inizi del principato ebbe inizio un lento e graduale processo di depenalizzazione e le azioni penali subirono temperamenti: si proposero azioni non penali contro gli eredi nei limiti dell’arricchimento, ossia solo nella misura in cui essi abbiano tratto vantaggio dall’illecito commesso; e si ammettono deroghe sempre più ampie al principio del cumulo tra azione penale e reipersecutoria. I rimedi pretori Nell’ambito del processo formulare, il pretore apprestava di rimedi sui propri in tre direzioni: adiuvare, corrigere, supplere. Rientravano tra i rimedi pretori la denegatio actionis, l’exceptio, le actiones utiles, le azioni con trasposizione di soggetti e le actiones in factum. Tuttavia, ve ne erano altri. Gli interdicta Siccome interdicere voleva dire proibire, gli ordini processuali, soprattutto pretori, che vietavano determinati comportanti vennero detti interdicta. Gli interdicta erano emessi su domanda di un privato e contro altro privato e si basavano sul potere di imperium del pretore (il potere amministrativo) piuttosto che sul potere giurisdizionale. Con il processo formulare, gli interdetti divennero ordini condizionati, non più necessariamente divieti, e potevano essere prohibitoria (vietavano), restitutoria (ordinavano di restituire) ed exhibitoria (ordinavano di esibire). Dunque, il pretore, presenti i due contendenti, procedeva ad esaminare sommariamente (cognitio sommaria) le ragioni degli interessati ed emanava l’interdictum. In questo ordine si stabiliva che, se il convenuto avesse riconosciuto l’esistenza dei presupposti, avrebbe obbedito all’ordine del magistrato, facendo così concludere rapidamente il processo. Invece, se non avesse ammesso l’esistenza dei presupposti presenti nell’interdetto, il convenuto poteva chiedere, prima di allontanarsi dal cospetto del pretore, adducendo delle ragioni su cui il pretore farà una valutazione di sussistenza, l’instaurazione di un processo di accertamento formale per provare l’esistenza dei diritti del convenuto sulla cosa. Per farlo, si utilizzava l’agere per sponsionem, una formula derivata dalla legis actio sacramento, in cui il destinatario dell’interdetto sfidava l’attore a impegnarsi solennemente (sponsio) a pagare una somma qualora risultasse sconfitto. Se l’esito era contrario all’ intimato, contro di lui l’attore poteva esercitare quegli strumenti processuali per ottenere l’interdictum. Questo, come provvedimento di carattere amministrativo, consisteva in un comando a smettere il turbamento dell’attore. Gli interdetti erano i principali strumenti di tutela del possesso. Nel di