Diritto e Immigrazioni PDF
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Summary
Il documento affronta il tema del diritto e dell'immigrazione, analizzando le fonti e le competenze in materia di immigrazione tra diritto nazionale e sovranazionale. Viene esaminata la condizione giuridica dello straniero nell'ordinamento italiano e le norme internazionali in materia. Il testo esplora le migrazioni nella prospettiva internazionale e le competenze dell'Unione Europea.
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Diritto e immigrazioni: percorsi di diritto costituzionale I. Fonti e competenze in materia di immigrazione tra diritto nazionale e sovranazionale L’immigrazione nella Costituzione italiana La Costituzione italiana affronta il tema dell’immigrazione nell’art. 10, stabilendo che la cond...
Diritto e immigrazioni: percorsi di diritto costituzionale I. Fonti e competenze in materia di immigrazione tra diritto nazionale e sovranazionale L’immigrazione nella Costituzione italiana La Costituzione italiana affronta il tema dell’immigrazione nell’art. 10, stabilendo che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità con norme e trattati internazionali. Lo stesso articolo garantisce il diritto di asilo agli stranieri che nel paese di origine non possono esercitare le libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, subordinando tale diritto alle condizioni stabilite dalla legge. Tuttavia, al momento della sua redazione, l’attenzione del legislatore era maggiormente rivolta al fenomeno dell’emigrazione italiana all’estero, come testimoniato dall’art. 35, comma 4, che riconosce la libertà di emigrazione e tutela il lavoro italiano all’estero. Nel tempo, il concetto di “straniero” è stato oggetto di una progressiva articolazione normativa e sociale. Oltre ai cittadini di paesi terzi, la categoria comprende i cittadini dell’Unione europea, gli italiani non appartenenti alla Repubblica (art. 51 Cost.) e gli apolidi. In particolare, con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (1992), i cittadini dell’Unione europea hanno acquisito una condizione giuridica distinta e privilegiata rispetto agli altri stranieri. Il d.lgs. n. 286/1998 (T.U. Imm.) ha sancito che la normativa italiana in materia di immigrazione si applica prevalentemente ai cittadini di Stati non membri dell’Unione europea e agli apolidi. Anche all’interno della categoria degli stranieri extra-UE, emergono distinzioni legate alle motivazioni della migrazione: le migrazioni economiche, di natura volontaria, e le migrazioni forzate, connesse a persecuzioni e richieste di protezione internazionale. La “condizione giuridica dello straniero” è un insieme complesso di situazioni giuridiche che definiscono i diritti e i doveri di ogni individuo nell’ordinamento italiano. Essa è influenzata da variabili come il possesso di un permesso di soggiorno e il tipo di titolo detenuto, che determinano discipline specifiche su permanenza, rinnovo, conversione e accesso a diritti e attività lavorative. Questa condizione si è frammentata ulteriormente in due direzioni: orizzontale, distinguendo tra rifugiati, migranti economici, soggiornanti di lungo periodo o privi di permesso, e verticale, in relazione alle competenze territoriali di Regioni ed enti locali. Le differenze interne alla categoria dello straniero, come il trattamento riservato ai soggiornanti regolari o irregolari, sono frutto di scelte normative che riflettono un assetto giuridico costruito per regolamentare l’accesso e la permanenza nel territorio italiano. L’art. 10 della Costituzione tra riserva di legge e fonti internazionali L’art. 10 della Costituzione italiana stabilisce che la condizione giuridica dello straniero deve essere regolata dalla legge, in conformità con le norme e i trattati internazionali, introducendo una riserva di legge rafforzata. Ciò obbliga il legislatore a rispettare precisi vincoli internazionali, definendo una fonte normativa vincolata ma non esclusiva, poiché ammette integrazioni regolamentari che non intacchino la disciplina primaria. L’ordinamento internazionale ha svolto un ruolo determinante nell’evoluzione delle normative italiane in materia di immigrazione. Ad esempio, la legge n. 943/1986, adottata in attuazione della Convenzione OIL n. 143/1975, sancì principi fondamentali come la parità di trattamento tra lavoratori italiani e stranieri e l’accesso ai servizi di welfare. A questi vincoli si aggiunge l’art. 117, comma 1, della Costituzione, che obbliga il legislatore a rispettare i vincoli comunitari e internazionali. L’art. 10, comma 3, introduce inoltre una riserva di legge sul diritto di asilo, garantito agli stranieri che nel loro paese non possono esercitare le libertà democratiche riconosciute dalla Costituzione. Questo diritto si è sviluppato grazie alla Convenzione di Ginevra del 1951 e alla sua ratifica con la 1 legge n. 277/1954, seguita da normative più specifiche come il d.l. n. 416/1989, convertito nella legge n. 39/1990, che regolamenta il procedimento di riconoscimento dello status di rifugiato politico. Tuttavia, l’assenza di una disciplina autonoma per il diritto di asilo costituzionale e l’uso indistinto del termine “rifugiato” hanno portato la giurisprudenza a interpretare l’asilo in base alla normativa sui rifugiati, pur con differenze soggettive tra i due istituti. L’art. 10, comma 1, sancisce inoltre l’adeguamento automatico dell’ordinamento italiano alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, come consuetudini e principi generali comuni alle nazioni civili. Questo meccanismo trasforma tali norme in diritto interno, influenzando anche la disciplina dell’immigrazione. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 306/2008, ha riconosciuto che le norme internazionali che vietano discriminazioni e garantiscono diritti fondamentali rientrano in questa disposizione, con particolare riferimento agli stranieri soggiornanti regolarmente. Il principio di non discriminazione, ritenuto parte dello ius cogens dall’ordinamento internazionale, vieta qualsiasi trattamento differenziato basato su caratteristiche personali, come genere, razza, religione o cittadinanza, e costituisce un fondamento dell’ordine giuridico nazionale e internazionale. Esso assume una valenza generale, colmando le lacune delle convenzioni internazionali e rafforzando la tutela dei diritti degli stranieri, anche laddove la condizione di cittadinanza non sia esplicitamente inclusa tra i motivi di discriminazione proibiti. Le migrazioni nella prospettiva internazionale Le migrazioni sono regolate da una vasta gamma di fonti internazionali, le quali incidono sulla definizione della condizione giuridica dello straniero e si distinguono in due categorie principali. Da un lato, vi sono strumenti generali sui diritti umani che, pur non trattando specificamente la condizione dei migranti, hanno un impatto rilevante poiché garantiscono diritti universali applicabili anche agli stranieri. Dall’altro, vi sono norme internazionali dedicate, che affrontano in maniera mirata alcune specifiche condizioni o status dei migranti. Le fonti di carattere generale includono convenzioni e dichiarazioni di ampio respiro, come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1989. Questi strumenti, nonostante il loro contenuto non sia esclusivamente focalizzato sui migranti, sono essenziali per vincolare gli Stati al rispetto dei diritti fondamentali della persona in quanto tale. Al contrario, tra le fonti specifiche si annoverano strumenti che affrontano questioni legate alla condizione di migrante, come la Convenzione OIL n. 97 del 1949 sulla migrazione per motivi di lavoro e la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato. La dottrina ha evidenziato come i diritti degli stranieri siano stati progressivamente inglobati nell’ambito più generale della tutela dei diritti umani. Questa evoluzione, che ha reso il trattamento dello straniero una questione di rilevanza universale, riflette il carattere solidale delle norme sui diritti umani. Tali norme, definite “a raggiera”, si distinguono per il superamento della dimensione bilaterale tra Stato ospitante e Stato d’origine del migrante, rendendo il rispetto della dignità umana oggetto di interesse collettivo per tutti gli Stati contraenti. Le norme internazionali acquisiscono una maggiore incisività laddove prevedano sistemi di monitoraggio o meccanismi sanzionatori. La CEDU rappresenta un esempio emblematico di tale forza vincolante: oltre a garantire diritti fondamentali, essa permette ai singoli individui, inclusi gli stranieri, di adire la Corte europea dei diritti dell’uomo (art. 34 CEDU). Tra le disposizioni più rilevanti della CEDU in materia di migrazione, l’art. 3 vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, imponendo agli Stati il divieto di allontanare individui verso territori in cui potrebbero subire tali violazioni. L’art. 5 sancisce il diritto alla libertà personale, limitando la detenzione amministrativa dei migranti alle condizioni previste dalla legge. L’art. 8 tutela il diritto alla vita privata e familiare, mentre l’art. 14 vieta qualsiasi discriminazione nell’accesso ai diritti riconosciuti dalla Convenzione, 2 comprese quelle basate sull’origine nazionale. Infine, l’art. 4 del Protocollo n. 4 vieta le espulsioni collettive, obbligando gli Stati a valutare individualmente le situazioni personali dei migranti prima di adottare provvedimenti di allontanamento. Le decisioni della Corte EDU hanno contribuito a rafforzare questi principi, affrontando questioni cruciali come i respingimenti in alto mare, le espulsioni collettive e la tutela dei diritti sociali e familiari. Parallelamente, la Carta sociale europea, pur con un ambito applicativo più limitato, rappresenta un altro strumento fondamentale per la tutela dei diritti sociali, come dimostra la decisione del Comitato europeo dei diritti sociali del 26 gennaio 2021. In quell’occasione, il Comitato ha rilevato violazioni sistematiche dei diritti garantiti dalla Carta in relazione al trattamento dei minori migranti in Grecia, inclusa la mancanza di tutela per i minori non accompagnati. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo rappresenta un ulteriore punto di riferimento, soprattutto per il principio del best interests of the child, che si applica anche ai minori stranieri. Tale principio è reso giustiziabile attraverso il terzo protocollo opzionale alla Convenzione, ratificato dall’Italia nel 2015, che consente di presentare reclami individuali o collettivi al Comitato per i diritti del fanciullo in caso di violazioni. Sul piano interno, l’art. 117, comma 1, della Costituzione attribuisce particolare rilievo alle fonti internazionali, consentendo che eventuali violazioni degli obblighi internazionali da parte della legislazione statale o regionale possano essere oggetto di scrutinio di legittimità costituzionale. Questa disposizione consolida il legame tra gli obblighi internazionali e l’ordinamento giuridico interno, assicurando il rispetto delle norme a tutela dei migranti. Le competenze dell’Unione europea in materia di immigrazione e asilo La regolamentazione della condizione giuridica dello straniero è disciplinata da una serie di fonti dell’Unione europea, le quali si distinguono tra quelle direttamente applicabili in materia di immigrazione e quelle di portata generale, che trovano comunque applicazione in tale ambito. Inizialmente, gli Stati membri dell’UE hanno cercato di mantenere un ampio controllo sovrano su questioni legate all’immigrazione, come le condizioni di ingresso degli stranieri e il loro trattamento giuridico. Tuttavia, con il tempo, si è assistito a un progressivo ampliamento delle competenze dell’Unione europea in questo settore, culminato con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Le disposizioni rilevanti sono contenute nel Titolo V del TFUE (Spazio di libertà, sicurezza e giustizia), in particolare agli articoli 77, 78 e 79. > L’articolo 77 del TFUE disciplina il controllo delle persone e la creazione di un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne. In quest’ambito, il Parlamento europeo e il Consiglio adottano misure relative alla politica comune dei visti e dei titoli di soggiorno di breve durata, ai controlli alle frontiere esterne e alle condizioni per la libera circolazione di cittadini di paesi terzi nell’UE per brevi periodi. > L’articolo 78, invece, si focalizza sull’asilo e impone all’Unione di sviluppare una politica comune per garantire protezione internazionale, rispettando il principio di non respingimento (non-refoulement). Sono previste misure per un sistema europeo comune di asilo, che includono: - uno status uniforme in materia di asilo e protezione sussidiaria; - procedure comuni per l’ottenimento e la perdita di tali status; - norme per determinare lo Stato competente a esaminare le richieste di asilo; - standard relativi all’accoglienza dei richiedenti asilo. > L’articolo 79 regola la politica comune dell’immigrazione, con l’obiettivo di gestire efficacemente i flussi migratori, garantire l’equo trattamento dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti e combattere l’immigrazione irregolare e la tratta di esseri umani. Tra le competenze previste rientrano: - le condizioni di ingresso e soggiorno per i cittadini di paesi terzi, inclusi i ricongiungimenti familiari; 3 - i diritti dei cittadini stranieri regolarmente soggiornanti, comprese le norme sulla libertà di circolazione; - misure per l’allontanamento e il rimpatrio delle persone in soggiorno irregolare. Nonostante le resistenze iniziali, l’UE ha progressivamente esteso la sua azione per regolare l’ingresso e il soggiorno di alcune categorie di cittadini di paesi terzi, delineando tratti specifici della loro condizione giuridica. Normative come la direttiva 2003/109/CE (sui soggiornanti di lungo periodo), la direttiva 2009/50/CE (lavoratori altamente qualificati) e la direttiva 2011/98/UE (permesso unico per soggiorno e lavoro) hanno contribuito a rendere più simile la condizione dei cittadini di paesi terzi a quella dei cittadini europei, specie in tema di diritti civili e sociali. Significativa è stata anche l’interpretazione della Corte di giustizia dell’UE, che ha ampliato la portata dei diritti dei cittadini stranieri soggiornanti. Ad esempio, la Corte ha riconosciuto la parità di trattamento per l’accesso all’abitazione e per il riconoscimento di benefici sociali come l’assegno di natalità e l’assegno familiare. Specifiche normative dell’UE regolano ulteriormente particolari status, come quelli dei lavoratori migranti, dei familiari di cittadini europei e dei titolari di protezione internazionale, ampliando il complesso di diritti garantiti agli stranieri. Accanto alle normative specifiche, l’UE ha adottato strumenti di portata generale applicabili anche ai cittadini di paesi terzi. Tra questi figurano: - la direttiva 2000/43/CE sul divieto di discriminazione razziale o etnica; - la direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro. La Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che ha assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati dopo Lisbona, è un ulteriore riferimento cruciale. Essa sancisce, tra l’altro: - il diritto a condizioni di lavoro equivalenti per i cittadini di paesi terzi (art. 15, par. 3); - il diritto di asilo, in conformità con la Convenzione di Ginevra (art. 18); - il diritto alle prestazioni sociali per chi risiede o si sposta legalmente nell’Unione (art. 34, par. 2); - il divieto di discriminazione (art. 21), che include criteri specifici come origine sociale, lingua e opinioni politiche. Il Nuovo Patto su migrazione e asilo Nel 2020, l’UE ha adottato il Nuovo Patto su migrazione e asilo, che mira a creare un approccio globale alla gestione delle migrazioni, dell’asilo e delle frontiere. Il Patto sottolinea la necessità di un’equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, in linea con il principio di solidarietà (art. 80 TFUE). Tuttavia, l’attuazione di tale principio rimane incompleta, data l’opposizione di alcuni Stati. Tra le proposte normative del Patto figurano: - un regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione con un nuovo meccanismo di solidarietà; - normative per accertamenti pre-ingresso e procedure di frontiera; - la revisione del regolamento Eurodac per l’adeguamento delle esigenze in materia di dati. Si prevedono anche modifiche alle direttive sui soggiornanti di lungo periodo e sul permesso unico, al fine di rafforzare la mobilità dei cittadini stranieri all’interno dell’UE e semplificare ulteriormente le procedure di ammissione per i lavoratori provenienti da paesi terzi. L’ampio ventaglio di normative e proposte legislative dimostra l’importanza crescente del ruolo dell’UE in materia di immigrazione e asilo. Sarà cruciale monitorare l’evoluzione di tali strumenti e il loro impatto sull’armonizzazione delle politiche migratorie tra gli Stati membri. 4 Riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni La disciplina dell’immigrazione in Italia si è sviluppata attraverso interventi progressivi e, rispetto ad altri Stati europei, con un certo ritardo. Una tappa fondamentale è stata l’adozione del Testo Unico sull’Immigrazione (T.U. Imm.), che ha recepito le direttive dell’Unione Europea degli ultimi vent’anni, costituendo ancora oggi la normativa di riferimento, pur in un mutato contesto costituzionale. Già prima della riforma del Titolo V della Costituzione, il T.U. Imm. aveva assegnato a Regioni ed enti locali importanti responsabilità nell’erogazione di servizi e prestazioni sociali per gli stranieri, come previsto dall’art. 3, comma 5, del medesimo testo. Sin dalla fine degli anni ’80, alcune Regioni avevano adottato proprie leggi sull’accoglienza e l’integrazione, anticipando l’evoluzione strutturale del fenomeno migratorio in Italia. Dopo la riforma del 2001, molte Regioni hanno continuato a intervenire, spesso delineando un quadro normativo più aperto rispetto alla legislazione nazionale, con dichiarazioni di principio orientate alla coesione sociale e al multiculturalismo. In materia di asilo, invece, l’intervento dello Stato è stato più tardivo, sollecitato dal Sistema Comune Europeo di Asilo a partire dal 2003, che ha portato alla definizione di norme su qualifiche, procedure e accoglienza dei richiedenti asilo. In base all’art. 117, comma 2, Cost., le materie del “diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea” (lett. a) e dell’“immigrazione” (lett. b) rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato. Questa attribuzione, apparentemente esaustiva, ha dato luogo a numerosi giudizi di legittimità costituzionale, nei quali la Corte Costituzionale ha chiarito che la competenza statale si concentra sulla “programmazione dei flussi di ingresso” e sulla disciplina del soggiorno degli stranieri (Corte Cost., sentt. nn. 300/2005, 156/2006, 50/2008). Tuttavia, secondo la Corte, il controllo statale sull’ingresso e soggiorno si intreccia con altre materie quali assistenza, istruzione, salute e abitazione, ambiti di competenza concorrente o residuale delle Regioni. Il ruolo delle Regioni e i diritti fondamentali degli stranieri La competenza regionale si manifesta in modo evidente in ambiti come assistenza sociale, abitazione, formazione professionale e, in raccordo con la disciplina statale, salute e istruzione. L’immigrazione, infatti, è considerata un insieme di materie che coinvolgono diverse competenze costituzionali, con la “condizione giuridica dello straniero” riferita esclusivamente alle situazioni giuridiche che vedono lo straniero come destinatario o beneficiario. Le modalità di attuazione dei diritti spettano invece a normative concorrenti o residuali delle Regioni, con il limite costituito dalla determinazione statale dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, comma 2, lett. m). In questo quadro, le Regioni possono garantire ulteriori diritti o criteri di accesso più favorevoli rispetto a quanto stabilito a livello statale, ma non peggiorativi. La Corte Costituzionale ha inoltre riconosciuto che, in ambiti di competenza residuale, le Regioni possono estendere diritti fondamentali anche ai migranti irregolari. Ad esempio, la legge regionale toscana garantisce interventi socio-assistenziali urgenti a tutte le persone dimoranti sul territorio regionale, indipendentemente dal titolo di soggiorno, mentre la legge campana assicura l’accesso ai centri di accoglienza a tutti gli stranieri senza sistemazione alloggiativa (Corte Cost., sentt. nn. 269/2010, 299/2010, 61/2011). L’art. 1, comma 4, del T.U. Imm., che qualifica le sue disposizioni come principi fondamentali ai sensi dell’art. 117 Cost., è stato ridimensionato dalla Corte Costituzionale. Questi principi si applicano esclusivamente alle materie di competenza concorrente, mentre nelle materie residuali, come i servizi sociali, le Regioni possono adottare normative in deroga rispetto al T.U. Imm. Ciò nonostante, il T.U. Imm. continua a rappresentare un riferimento fondamentale per le discipline regionali, incluse quelle relative a salute, formazione professionale, casa e prestazioni sociali. 5 Alcuni studiosi hanno interpretato il T.U. Imm. come vincolante per le Regioni nel senso di vietare discipline peggiorative per gli stranieri rispetto al quadro nazionale, considerando le sue disposizioni un livello minimo obbligatorio. Tuttavia, si registra una diversità nelle politiche regionali: alcune Regioni hanno previsto norme più favorevoli in ambito sociale, mentre altre hanno introdotto requisiti come la residenza prolungata per accedere a prestazioni sociali, privilegiando cittadini o comunità stabilite da lungo tempo. Nonostante l’introduzione di norme statali più restrittive, come il d.l. 113/2018, convertito in legge 132/2018, la Corte Costituzionale ha chiarito che le Regioni possono continuare a erogare prestazioni agli stranieri in base alle proprie competenze concorrenti o residuali (sent. n. 194/2019). La Corte ha ribadito che tale possibilità non interferisce con la disciplina statale relativa al rilascio dei permessi di soggiorno, mantenendo quindi una distinzione tra competenze statali e regionali. Le Regioni e i Comuni possono, pertanto, continuare a offrire interventi a favore della popolazione residente, compresi gli stranieri, in linea con quanto previsto dagli artt. 3, 40 e 42 del T.U. Imm., che incoraggiano tali iniziative. Enti locali, immigrazione e accoglienza Gli enti locali svolgono un ruolo centrale nella gestione del fenomeno migratorio, avendo a disposizione un ampio margine di intervento nei servizi per l’immigrazione, come previsto dalla legislazione statale e regionale. È a livello locale che si manifestano i bisogni fondamentali degli stranieri, quali l’accesso alla casa, all’assistenza sanitaria e all’istruzione, esigenze che ricadono sulla responsabilità del governo municipale nell’organizzazione e nell’erogazione dei servizi. Al contempo, l’immigrazione ha rappresentato per i territori un importante fattore di sviluppo, richiedendo una regolazione che coinvolge istituzioni locali, sistemi produttivi e distretti industriali. La dimensione locale è stata riconosciuta come cruciale per l’integrazione sociale della popolazione straniera anche nei principali documenti strategici internazionali, come l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, che sottolinea l’importanza di rinnovare e pianificare gli insediamenti urbani per promuovere coesione, sicurezza e occupazione. Analogamente, il Piano d’azione per l’integrazione e l’inclusione 2021-2027 evidenzia il ruolo chiave degli attori locali e regionali nei settori dell’inclusione sociale, dell’occupazione, dell’istruzione, della salute e dell’uguaglianza. Sul piano nazionale, il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, all’art. 13, attribuisce al Comune le funzioni amministrative relative alla popolazione e al territorio comunale, in particolare nei servizi alla persona e alla comunità. Già prima della riforma costituzionale del 2001, il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, aveva trasferito ai Comuni le funzioni amministrative in materia di servizi sociali, finalizzati a rimuovere le situazioni di bisogno e difficoltà che la persona può incontrare. Successivamente, la legge 8 novembre 2000, n. 328, ha introdotto un sistema integrato di interventi e servizi sociali, organizzati secondo i principi del coordinamento con i settori sanitario e dell’istruzione e della concertazione tra diversi livelli istituzionali e con il Terzo settore. Anche se la riforma costituzionale del 2001 ha trasferito la competenza sui servizi sociali alle Regioni, la legge n. 328/2000 ha mantenuto una rilevanza paradigmatica, continuando a influenzare l’organizzazione dei servizi territoriali. Oggi, tale normativa si inserisce in un contesto caratterizzato da nuove competenze regionali, dalla riorganizzazione del Terzo settore e dall’introduzione di nuovi strumenti di finanziamento, anche di matrice europea. Nonostante il mutato quadro normativo, la legge n. 328/2000 ha lasciato in eredità due principi fondamentali: l’integrazione tra politiche e interventi diversi e la cooperazione tra istituzioni pubbliche e soggetti del privato sociale. Questi principi continuano a orientare il welfare locale nel rispondere a bisogni sociali sempre più complessi, compresi quelli della popolazione straniera. Un esempio rilevante è rappresentato dalla rete di accoglienza SPRAR-SIPROIMI, oggi denominata SAI (Sistema di accoglienza e integrazione), che adotta un approccio olistico per l’integrazione degli 6 stranieri. Questo sistema prevede percorsi personalizzati che includono accoglienza materiale, mediazione interculturale, accesso ai servizi, formazione, inserimento lavorativo e abitativo, supporto sociale, orientamento legale e tutela socio-sanitaria. Tali progetti si basano sulle risorse locali e sulle strategie di welfare sviluppate nei territori. Le competenze in materia di immigrazione riconosciute agli enti locali sono state ulteriormente specificate dal T.U. Imm., con riferimento a settori come alloggio, lingua e integrazione sociale, nonché da leggi regionali approvate in ambito di assistenza sociale. Questo ha permesso di delineare a livello locale e regionale un quadro organico di interventi a favore degli stranieri. Tuttavia, le politiche locali non sono sempre uniformi, alternando misure inclusive e restrittive. In alcuni casi, l’accesso ai diritti sociali è stato subordinato a criteri di residenza prolungata, una pratica che rischia di penalizzare gli stranieri rispetto ai cittadini residenti da più tempo. La sussidiarietà orizzontale e il ruolo del Terzo settore Il ruolo del Terzo settore nell’ambito dell’immigrazione e dell’asilo è stato determinante fin dalle prime fasi del fenomeno migratorio. Originariamente, l’assenza di politiche pubbliche adeguate per la prima assistenza ai migranti ha fatto sì che il non profit assumesse un ruolo centrale nella gestione dell’accoglienza, grazie alla sua flessibilità e alla consolidata esperienza in materia di diritti sociali. Questo ruolo è stato poi formalmente riconosciuto dal legislatore con il Testo Unico sull’immigrazione (T.U. Imm.), che prevede il coinvolgimento del Terzo settore in ambiti come istruzione, formazione professionale, accesso all’abitazione e misure di integrazione sociale (artt. 23, 38, 40, 42 e 44). L’art. 42 del T.U. Imm. ha istituito un registro apposito per gli enti che svolgono attività a favore dei migranti, suddiviso in due sezioni: la prima per le organizzazioni che promuovono l’integrazione sociale degli stranieri, e la seconda per quelle che realizzano programmi di assistenza e protezione sociale, come previsto dall’art. 18 del medesimo testo. L’iscrizione a questo registro è una condizione indispensabile per accedere a finanziamenti pubblici e realizzare programmi di protezione sociale rivolti, ad esempio, alle vittime di violenza o sfruttamento, come approfondito in altri capitoli del testo. Il modello delineato dal T.U. Imm. sottolinea un’interazione tra enti pubblici e privati, concepita per integrare e sostenere l’attività degli enti istituzionali in ambiti fondamentali per la vita degli stranieri. Questo approccio trova un fondamento costituzionale nel principio di sussidiarietà orizzontale sancito dall’art. 118, comma 4, Cost., che assegna a Stato, Regioni, Province e Comuni il compito di favorire l’iniziativa autonoma dei cittadini e delle organizzazioni private per attività di interesse generale. Tale modello di collaborazione è stato poi ulteriormente strutturato con il Codice del Terzo settore (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117), che definisce il perimetro delle attività di interesse generale, tra cui l’accoglienza umanitaria e l’integrazione sociale dei migranti (art. 5). Nell’ambito del sistema di accoglienza, il Terzo settore svolge un ruolo cruciale, operando sia nei centri di accoglienza straordinaria sia nella rete SAI (Sistema di accoglienza e integrazione), in collaborazione con gli enti locali. Un aspetto particolarmente innovativo è rappresentato dall’impiego delle procedure di co-programmazione e co-progettazione, disciplinate dall’art. 55 del Codice del Terzo settore. Queste pratiche, originariamente previste dalla legge n. 328/2000 e regolamentate dal d.p.c.m. 30 marzo 2001, hanno permesso agli enti pubblici di sperimentare soluzioni innovative, superando i limiti dei tradizionali schemi di affidamento dei servizi pubblici. La sentenza della Corte costituzionale n. 131/2020 ha consolidato questa impostazione, chiarendo che l’art. 55 del Codice del Terzo settore dà attuazione al principio di sussidiarietà, strutturando e ampliando le pratiche già introdotte dalla legge n. 328/2000. In questo contesto, il Terzo settore non è più considerato un semplice player economico, ma un attore peculiare con una funzione centrale nella gestione di servizi destinati alla popolazione migrante. Tale riconoscimento ha consentito di integrare 7 competenze pubbliche e private, ottimizzando risorse e finanziamenti per rispondere in modo più efficace alle esigenze di accoglienza e integrazione sul territorio. II. L'evoluzione delle politiche legislative in materia di immigrazione e asilo L'Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione L’Italia ha vissuto una profonda trasformazione nel suo ruolo rispetto ai flussi migratori, passando da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione. Nonostante la Costituzione riconosca specificamente la condizione giuridica dello straniero tra i Principi fondamentali, il legislatore italiano ha impiegato molti anni per dare concreta attuazione a queste disposizioni. La prima legge organica in materia di immigrazione è stata adottata nel 1998, ben cinquant’anni dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale. Questo ritardo non trova una giustificazione chiara, sebbene possa essere spiegato con l’evoluzione del fenomeno migratorio stesso. Nei primi decenni della Repubblica, l’Italia era prevalentemente un Paese di emigrazione: fino agli anni ’60, il numero di cittadini italiani che lasciavano il territorio nazionale per cercare lavoro all’estero superava di gran lunga quello degli stranieri che arrivavano in Italia. A partire dagli anni ’70, questa tendenza ha iniziato a invertirsi, con un aumento significativo degli ingressi di stranieri. Le statistiche mostrano che, nel 1960, il saldo tra emigrati italiani e stranieri presenti in Italia era positivo per 192.000 unità a favore degli emigrati. Dal 1973, invece, il saldo si è ribaltato, segnando una progressiva crescita della presenza straniera. Anche se il flusso emigratorio italiano non è mai cessato, con quasi 900.000 cittadini italiani registrati all’estero nell’ultimo decennio, il numero di stranieri presenti sul territorio italiano è cresciuto costantemente dagli anni ’80 in poi, fino a collocare l’Italia tra i Paesi tradizionalmente considerati di immigrazione. Nel 1990, gli stranieri regolarmente presenti erano 781.000, mentre alla fine degli anni 2010 il loro numero aveva raggiunto i 4.230.000, pari al 7% della popolazione complessiva, un incremento dovuto anche all’adesione di Romania e Bulgaria all’Unione Europea. Il picco si è registrato tra il 2015 e il 2017, con oltre 5 milioni di residenti stranieri, spinti soprattutto da flussi di richiedenti asilo e protezione umanitaria. Successivamente, a partire dal 2018, la cifra ha iniziato a diminuire in seguito a politiche normative più restrittive.Secondo i dati Istat, al 1° gennaio 2021, il numero di stranieri residenti in Italia è di 5.035.643 persone, pari all’8,5% della popolazione complessiva. Confrontando questi dati con altri Paesi europei, emerge che otto Stati, tra cui Austria e Grecia, presentano percentuali più elevate. Tuttavia, il confronto è influenzato dalle diverse politiche di acquisizione della cittadinanza adottate dai vari Paesi. Ad esempio, in Francia, nonostante una minore incidenza percentuale della popolazione straniera, il numero di persone nate all’estero è molto più elevato, mostrando come una maggiore facilità nell’acquisizione della cittadinanza porti a una diminuzione del numero ufficiale di stranieri.Anche la mobilità degli stranieri già residenti in Italia verso altri Paesi è aumentata nel tempo: dalle 10.000 cancellazioni dall’anagrafe registrate nel 2002 si è passati a 50.000 nel 2019, segno di una significativa mobilità in uscita. Parallelamente, il numero delle nascite di bambini stranieri in Italia ha contribuito a incrementare il dato complessivo: dal 2007 queste nascite si sono mantenute sopra le 60.000 unità annue, raggiungendo un picco di 80.000 nel biennio 2011-2012, rappresentando stabilmente il 15% del totale delle nascite. La maggior parte degli stranieri regolarmente presenti è in possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo (circa il 63%), mentre tra i restanti il motivo prevalente di rilascio è quello familiare (46,7%), seguito da lavoro (29,4%) e asilo o protezione (16,2%). A questi dati si aggiunge la presenza di stranieri in condizione di irregolarità, difficile da quantificare con precisione. Le stime evidenziano una netta diminuzione rispetto agli anni ’90, quando si superavano le 750.000 unità, contro le meno di 200.000 degli anni più recenti. Tuttavia, questi numeri sono influenzati dalle sanatorie e dalle 8 politiche pubbliche adottate. Ad esempio, tra il 2018 e il 2019, gli stranieri irregolari stimati sono aumentati da 562.000 a 610.000, a causa di un irrigidimento delle procedure per il riconoscimento del diritto di asilo.Questi dati evidenziano come il fenomeno migratorio in Italia sia stato e continui a essere influenzato da numerosi fattori, tra cui le politiche adottate, la mobilità globale e le dinamiche demografiche interne. L’evoluzione della normativa nazionale in materia di immigrazione: dai primi interventi emergenziali alla legge Napolitano-Turco del 1998 L’evoluzione della normativa italiana in materia di immigrazione si è sviluppata in risposta ai cambiamenti sociali e demografici legati ai flussi migratori. Dopo un lungo periodo di inattività legislativa successivo all’entrata in vigore della Costituzione, in cui la disciplina era limitata a disposizioni risalenti al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931, il quadro normativo era completato da un sistema di norme amministrative non organiche. Questo scenario normativo frammentato e insufficiente è stato il contesto di riferimento per i primi interventi legislativi che, sebbene parziali e emergenziali, hanno posto le basi per una regolamentazione più organica. Il primo passo significativo fu rappresentato dalla legge n. 943 del 1986, orientata principalmente alla regolamentazione del lavoro degli immigrati extracomunitari e al contrasto dell’immigrazione irregolare, definita allora “clandestina”. Si trattava di una normativa circoscritta all’ambito lavorativo, affiancata da sanatorie che miravano a regolarizzare la presenza di stranieri già nel Paese. Un ulteriore avanzamento si registrò con il decreto legge n. 416 del 1989, convertito nella legge n. 39 del 1990, conosciuto come “legge Martelli”. Questa normativa affrontava il fenomeno migratorio con un’impostazione più sistematica, ma ancora di natura emergenziale, dettata dalla necessità di rispondere all’aumento degli ingressi e all’elevato numero di stranieri in condizioni di irregolarità. La legge Martelli introdusse strumenti importanti per la gestione dell’immigrazione. Fu istituito il permesso di soggiorno, con validità variabile da sei mesi a due anni, e avviata una programmazione statale dei flussi migratori attraverso un sistema di quote basato sulle esigenze economiche e occupazionali. Al contempo, venne attivata una nuova sanatoria per regolarizzare gli stranieri presenti, mentre si rafforzavano le misure di contrasto all’immigrazione irregolare, comprese sanzioni penali per chi la favorisse e meccanismi di espulsione. Sul fronte del diritto di asilo, la legge recepì integralmente la definizione di rifugiato contenuta nella Convenzione di Ginevra, superando la “riserva geografica” precedentemente adottata dall’Italia, che limitava l’applicazione agli stranieri provenienti da determinate aree del mondo. Un ulteriore sviluppo normativo si ebbe con la legge n. 388 del 1993, che recepiva l’accordo di Schengen, segnando un passo avanti nella costruzione di uno spazio comune europeo con la progressiva eliminazione dei controlli alle frontiere interne tra gli Stati membri. Tuttavia, fu solo nel 1998, con la legge n. 40, nota come “legge Turco-Napolitano”, che l’Italia si dotò di una disciplina organica e coerente sull’immigrazione. Questo intervento legislativo si collocava in un clima politico ancora distante dalle forti polarizzazioni ideologiche che avrebbero caratterizzato il dibattito successivo. La legge Turco-Napolitano definì, per la prima volta, la figura dello “straniero”, distinguendo i cittadini di Paesi terzi e gli apolidi dai cittadini dell’Unione Europea, ai quali venne riconosciuto lo status di “cittadini europei”. Uno degli aspetti più innovativi della legge fu il riconoscimento dei diritti fondamentali agli stranieri, indipendentemente dalla regolarità del loro status, stabilendo garanzie minime a tutela della dignità umana. Tra queste, il divieto di espulsione o respingimento per minori, donne incinte o persone a rischio di persecuzione nel Paese di destinazione. Fu inoltre introdotto un permesso di soggiorno speciale per le vittime di violenza o sfruttamento e riconosciuto il diritto a cure mediche urgenti, all’istruzione e alla partecipazione alla vita comunitaria. 9 La normativa stabilì il funzionamento del sistema delle quote per regolare l’ingresso degli stranieri, associando a queste politiche di integrazione per i regolari il riconoscimento di diritti civili, sociali e lavorativi, come l’accesso al lavoro, alla sanità e all’alloggio. Tuttavia, la stessa legge prevedeva anche strumenti di controllo e penalizzazione per l’immigrazione irregolare, tra cui i centri di permanenza temporanea per gli stranieri in attesa di espulsione. Questi centri, nonostante fossero concepiti per garantire necessità di pubblico soccorso, sollevarono preoccupazioni per il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità personale, evidenziando limiti significativi nell’applicazione concreta della normativa. La legge Turco-Napolitano rappresentò dunque un tentativo ambizioso di bilanciare misure di rigore e politiche di integrazione, stabilendo una logica binaria che caratterizzerà a lungo la legislazione italiana in materia di immigrazione. L’irrompere delle ragioni della «sicurezza»: la legge 30 luglio 2002, n. 189 (legge Bossi-Fini) ed altri provvedimenti normativi del centro-destra La legge Bossi-Fini del 2002 rappresentò un punto di svolta nella normativa italiana sull’immigrazione, segnando una netta inversione rispetto alla legge Turco-Napolitano del 1998. La riforma, promossa dalla maggioranza di centro-destra insediatasi dopo le elezioni del 2001, perseguiva un approccio marcatamente repressivo e incentrato sulla sicurezza, considerata prioritaria rispetto a qualsiasi altra dimensione della questione migratoria. Essa si inserì in un contesto politico che enfatizzava il legame tra immigrazione e minacce all’ordine pubblico, riflettendo una visione secondo cui il fenomeno migratorio rappresentava un rischio potenziale per la società italiana. Un elemento distintivo della legge fu l’abolizione del sistema dello “sponsor”, che aveva consentito a cittadini italiani o stranieri regolarmente residenti di garantire l’ingresso di un altro straniero, assumendosi l’onere economico e sociale di tale operazione. Con la nuova normativa, il sistema delle quote annuali, già presente nella disciplina precedente, venne mantenuto ma sottoposto a regole più restrittive. Fu accentuata inoltre la centralità del meccanismo di espulsione, il quale assunse caratteri particolarmente severi: gli stranieri in situazione irregolare erano sottoposti a un decreto di espulsione immediatamente esecutivo, indipendentemente da eventuali impugnazioni o ricorsi. Parallelamente, la legge intervenne sui centri di permanenza temporanea, ampliandone il ruolo e definendoli come strutture finalizzate a trattenere gli stranieri irregolari in attesa di espulsione. Questo sistema, tuttavia, sollevò preoccupazioni legate al rispetto dei diritti fondamentali, poiché l’estensione del trattenimento si traduceva spesso in una limitazione della libertà personale. La normativa inoltre inasprì le sanzioni penali, sia per gli stranieri espulsi che rientravano illegalmente in Italia, sia per chi favoriva ingressi irregolari nel territorio nazionale. Un ulteriore tratto distintivo della legge fu il tentativo di ridefinire la condizione giuridica degli stranieri regolari e irregolari. Se da un lato venivano mantenuti i diritti minimi per i regolari, dall’altro si accentuava la precarietà degli irregolari, rendendo più difficile la regolarizzazione e rafforzando il controllo sul territorio. Questo approccio fu interpretato dalla Corte di Cassazione come un capovolgimento rispetto alla precedente visione solidaristica, che considerava l’immigrazione anche in relazione a fattori strutturali come povertà e lavoro nero. A breve distanza dalla legge Bossi-Fini, vennero introdotte ulteriori modifiche con il decreto-legge del 2004, successivamente convertito in legge. Le nuove disposizioni si concentrarono sull’inasprimento delle misure repressive, facilitando ulteriormente le procedure di espulsione e rafforzando il divieto di rientro per gli stranieri espulsi. Nonostante l’intento dichiarato di rendere più efficiente il controllo dell’immigrazione irregolare, emersero limiti evidenti nella capacità di perseguire gli obiettivi prefissati, mostrando l’incapacità di un approccio esclusivamente repressivo di affrontare la complessità del fenomeno migratorio. 10 Dunque, la legge Bossi-Fini, pur senza stravolgere l’impianto del Testo Unico sull’immigrazione, modificò profondamente l’equilibrio tra accoglienza e controllo, privilegiando un’impostazione che poneva l’accento sulla sicurezza a scapito della tutela dei diritti fondamentali. Il tentativo mancato del governo Prodi (nel 2007) e il «Pacchetto sicurezza» del governo Berlusconi (nel 2008-2009) Con il ritorno al governo del centro-sinistra nel 2006, guidato da Romano Prodi, il tema dell’immigrazione continuò a essere centrale nel dibattito politico, generando contrasti tra gli schieramenti. Tra le iniziative del governo, nel giugno 2007 il Consiglio dei ministri approvò un disegno di legge delega per la modifica del Testo Unico sull’Immigrazione (T.U. Imm.), noto come Amato-Ferrero, dai nomi dei ministri Giuliano Amato e Paolo Ferrero. La proposta, trasmessa al Parlamento dopo il parere favorevole della Conferenza Stato-Regioni, si fermò però alla I Commissione della Camera, senza mai concludere l’iter legislativo. Il disegno di legge partiva dall’assunto che la normativa vigente fosse inadeguata ad affrontare il fenomeno migratorio, definito «strutturale», e proponeva di tornare ai principi della legge del 1998. Le modifiche includevano una programmazione triennale dei flussi migratori, con l’introduzione di liste di lavoratori stranieri disponibili, accessibili direttamente dai datori di lavoro o tramite «sponsor» come enti locali o associazioni professionali. Si prevedeva di agevolare l’ingresso di personale qualificato e talenti, con permessi semplificati di durata fino a cinque anni, e di estendere la validità dei permessi in base alla durata del contratto di lavoro. Per contrastare l’immigrazione irregolare, il disegno di legge proponeva programmi di rimpatrio volontario assistito e la progressiva trasformazione dei centri di permanenza temporanei in strutture di accoglienza non detentive. Tuttavia, la proposta suscitò forti opposizioni, soprattutto da parte del centro-destra, che denunciava rischi di «invasione» e criticava l’ingresso consentito a chi cercava lavoro senza garanzie occupazionali. Le critiche furono particolarmente accese da esponenti come Gianfranco Fini, Isabella Bertolini e Roberto Calderoli, che preannunciarono battaglie in Parlamento e nella società civile. La caduta del governo Prodi nel 2008 pose fine alla proposta legislativa, rendendo il tema immigrazione un argomento centrale nella campagna elettorale successiva. Con il ritorno al governo del centro-destra e l’insediamento del quarto governo Berlusconi nel maggio 2008, il tema dell’immigrazione fu subito prioritario. Durante il primo Consiglio dei ministri operativo, fu adottato il cosiddetto «Pacchetto sicurezza», una serie di provvedimenti legislativi mirati a contrastare l’immigrazione clandestina. Questi includevano un decreto legge (n. 92/2008), disegni di legge per introdurre il reato di ingresso illegale e la banca dati nazionale del DNA, oltre a tre decreti legislativi correttivi in materia di ricongiungimenti familiari, status di rifugiato e circolazione dei cittadini comunitari. Tra le misure più rilevanti del decreto legge, vi erano l’ampliamento delle motivazioni per l’espulsione degli stranieri, l’arresto obbligatorio per la violazione dell’ordine di espulsione e le sanzioni per chi ospitava irregolari a titolo oneroso. Altre norme prevedevano aggravanti per reati commessi da irregolari e restrizioni sull’accesso all’abitazione e sui trasferimenti di denaro all’estero. Ulteriori interventi riguardavano l’obbligo di sottoscrivere un «accordo di integrazione» e di sostenere un test di lingua italiana per ottenere o rinnovare il permesso di soggiorno. Una delle disposizioni più controverse fu l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale, inizialmente punibile con reclusione fino a quattro anni. Dopo un acceso dibattito, la misura fu modificata in sede parlamentare, prevedendo un’ammenda pecuniaria da 5.000 a 10.000 euro. La legge n. 94/2009 confermò comunque un’impostazione orientata a trattare l’immigrazione come un problema di sicurezza pubblica, con ricadute penalizzanti non solo sugli irregolari ma su tutti gli stranieri, inclusi quelli regolari. 11 Il «Pacchetto sicurezza» introdusse altre misure simboliche e pratiche, come la possibilità per associazioni di cittadini di organizzare «ronde» per segnalare situazioni di disagio sociale o minacce alla sicurezza urbana. Tuttavia, tale disposizione fu successivamente dichiarata parzialmente incostituzionale, come alcune altre norme ritenute discriminatorie e in contrasto con i diritti fondamentali degli immigrati. Gli interventi «di aggiustamento» tra il 2011 e il 2015 e il «decreto Salvini» del 2018 (poi modificato dal «decreto Lamorgese» del 2020) Nel periodo compreso tra il 2011 e il 2015, la legislazione italiana sull’immigrazione ha conosciuto ulteriori sviluppi, in larga parte condizionati dalla necessità di adeguarsi a direttive europee. Si è registrata una particolare attenzione verso l’immigrazione forzata, legata a esigenze di protezione internazionale, mentre minore rilievo è stato attribuito a quella per motivi economici o familiari. Tra gli interventi normativi, la legge 2 agosto 2011, n. 129, convertendo il d.l. 23 giugno 2011, n. 89, ha recepito la direttiva 2008/115/CE (nota come «direttiva rimpatri») e completato l’attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari. Questo intervento si è reso necessario a causa della mancata attuazione nei termini previsti della direttiva rimpatri, che aveva creato incertezza nell’applicazione della normativa interna, in particolare dell’art. 14 del T.U. Imm., e sulla sua compatibilità con il diritto dell’Unione Europea. La Corte di giustizia dell’Unione europea, con la decisione El Dridi del 28 aprile 2011, ha sancito l’incompatibilità dell’art. 14, comma 5-ter, del T.U. Imm. con la direttiva rimpatri, dichiarandolo inapplicabile. Ciò ha imposto una revisione delle norme penali relative alla procedura amministrativa di espulsione degli stranieri, affrontata con il citato decreto legge. Questo decreto ha altresì introdotto disposizioni riguardanti i cittadini comunitari, applicando criteri meno rigidi per valutare le cause ostative al diritto di ingresso e soggiorno. Di segno opposto, invece, le misure riservate agli stranieri non regolarmente soggiornanti, tra cui l’estensione del periodo massimo di trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione (CIE) fino a 18 mesi. Parallelamente, è stata regolata la possibilità di rimpatrio volontario assistito, riprendendo un’idea già presente nel disegno di legge Amato-Ferrero, demandando a un decreto del ministero dell’Interno il compito di definire programmi di rimpatrio in collaborazione con organizzazioni internazionali, enti locali e associazioni. Le successive normative, adottate tra il 2012 e il 2015, hanno continuato a recepire direttive europee: il d.lgs. 6 luglio 2012, n. 109, ha introdotto sanzioni contro i datori di lavoro che impiegano stranieri irregolari, mentre il d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24, ha implementato misure per contrastare la tratta di esseri umani e proteggere le vittime. Inoltre, il d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, ha dato attuazione a due direttive relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e alle procedure comuni per il riconoscimento e la revoca dello status di protezione. Sul finire del decennio, l’immigrazione è tornata al centro del dibattito politico, in particolare con il governo Conte I e il «decreto Salvini» (d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132). Questo decreto ha introdotto modifiche significative in materia di protezione internazionale e di contrasto all’immigrazione irregolare. Tra le novità più rilevanti si annoverano l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari e il divieto di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo, finalizzato a ridurre l’afflusso di stranieri. Una misura simbolica, nota come politica dei «porti chiusi», ha attribuito al ministro dell’Interno il potere di vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale, con l’intento di bloccare gli sbarchi di migranti. Questo intervento, tuttavia, ha sollevato perplessità da parte del Presidente della Repubblica, che ha richiamato gli obblighi costituzionali e internazionali, in particolare quelli derivanti dall’art. 10 della Costituzione italiana, e ha espresso dubbi sulla compatibilità delle sanzioni previste con il principio di proporzionalità. 12 Con il governo Conte II, il tema è stato affrontato con il «decreto Lamorgese» (d.l. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 173), che ha apportato alcune modifiche alle misure introdotte dal decreto Salvini, sebbene in modo non radicale. Tra le principali innovazioni vi sono interventi sui permessi di soggiorno, sul sistema di accoglienza e integrazione, sulle procedure di asilo e sul soccorso in mare. Questi interventi testimoniano la persistente necessità di adattare la normativa nazionale ai mutamenti delle dinamiche migratorie e agli obblighi imposti dall’Unione Europea, senza tuttavia risolvere le tensioni politiche e sociali che caratterizzano il dibattito sul fenomeno migratorio. Alcune chiavi di lettura della legislazione in tema di immigrazione L’analisi dell’evoluzione normativa in materia di immigrazione consente di evidenziare alcune riflessioni generali. In primo luogo, emerge la scarsa coordinazione nell’attuazione della doppia riserva di legge prevista dall’art. 10 della Costituzione. La condizione giuridica dello straniero è stata regolata dalla legge n. 40/1998, mentre il diritto di asilo è stato disciplinato in maniera frammentaria, attraverso interventi parziali volti principalmente a recepire norme internazionali e comunitarie (tema trattato più diffusamente nel capitolo 4). Questa mancanza di coordinamento ha generato una legislazione poco chiara, in cui non si distingue nettamente tra migrazioni forzate e migrazioni economiche, né tra la condizione dei rifugiati e quella dei richiedenti asilo. Sebbene alcune sovrapposizioni siano inevitabili per garantire una disciplina uniforme, le due tipologie di migrazioni richiederebbero un approccio legislativo più differenziato. Un ulteriore elemento di riflessione riguarda la logica di sicurezza pubblica che ha orientato la legislazione nazionale. Da un lato, si osserva una tutela progressivamente maggiore degli stranieri regolari, con una sostanziale equiparazione della loro posizione a quella dei cittadini italiani, salvo per prerogative riservate al popolo italiano (approfondite nel capitolo 7). Dall’altro lato, si registra una crescente restrizione delle tutele per gli stranieri irregolari, in coerenza con la volontà di limitare l’arrivo di persone prive di titolo per l’ingresso e il soggiorno. Tuttavia, questa impostazione appare distante dalle garanzie dell’art. 10, comma 3, della Costituzione, relative alle migrazioni forzate, e solleva dubbi di coerenza rispetto al principio del riconoscimento dei diritti fondamentali a ogni persona, ribadito dalla Corte costituzionale. Infine, emerge una significativa dissonanza tra la legislazione nazionale e quella regionale. Mentre il legislatore statale si è concentrato prevalentemente sulla repressione dell’irregolarità e sul controllo degli ingressi, le Regioni hanno adottato misure mirate a favorire l’integrazione sociale, culturale e civile degli stranieri presenti sui rispettivi territori. Tale contrapposizione, pur potendo apparire razionale in astratto, si configura in pratica come il risultato di politiche non coordinate, aggravate dalla scarsità di risorse economiche a disposizione delle Regioni. Ciò ha spesso reso difficilmente attuabili le enunciazioni di principio sull’uguaglianza nella tutela dei diritti fondamentali tra cittadini e non cittadini. III. Ingresso e soggiorno sul territorio nazionale L’ingresso dei cittadini di Paesi terzi: principi di riferimento In linea generale, come affermato dalla Corte costituzionale, i cittadini stranieri non vantano un diritto acquisito all’ingresso o al soggiorno in uno Stato diverso dal proprio. Tale possibilità è subordinata all’ottenimento delle autorizzazioni previste dall’ordinamento dello Stato ospitante e al rispetto delle sue disposizioni. In particolare, «le ragioni della solidarietà umana non possono essere affermate al di fuori di un corretto bilanciamento dei valori in gioco», per garantire un ordinato flusso migratorio e il controllo delle frontiere (Corte cost., sent. n. 353/1997). La regolamentazione dell’ingresso e del 13 soggiorno dello straniero implica una valutazione di molteplici interessi pubblici, quali la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli internazionali e la politica migratoria nazionale. Tale valutazione spetta al legislatore ordinario, che dispone di ampia discrezionalità, purché le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli (Corte cost., sentt. nn. 206/2006 e 148/2008). Il Testo Unico sull’Immigrazione (T.U. Imm.) disciplina l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dei cittadini di Paesi terzi nel titolo II, con previsioni specifiche sulle autorizzazioni, le modalità di rilascio dei permessi di soggiorno e le procedure di espulsione. L’art. 4 del T.U. Imm. stabilisce che lo straniero può entrare nel territorio nazionale solo se munito di passaporto valido o documento equipollente e di visto d’ingresso, salvo casi di forza maggiore, e attraverso i valichi di frontiera autorizzati. Tuttavia, alcuni cittadini stranieri sono esenti dall’obbligo del visto per soggiorni fino a 90 giorni per motivi quali turismo, affari o studio (ad esempio, cittadini di Albania, Australia, Stati Uniti, Brasile). Gli ingressi possono avvenire tramite: Visti di breve durata: validi fino a 90 giorni; Visti di lunga durata: comportano il rilascio di un permesso di soggiorno con la medesima motivazione indicata nel visto. Il visto è un’autorizzazione rilasciata dalle rappresentanze diplomatiche o consolari italiane all’estero, che consente l’ingresso entro un periodo determinato. Il permesso di soggiorno, invece, è rilasciato dal Questore e autorizza la permanenza sul territorio nazionale. Per ottenere l’ingresso, lo straniero deve dimostrare di possedere documentazione idonea a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno, nonché mezzi economici sufficienti per l’intero periodo e il ritorno al Paese di origine, salvo per i permessi di soggiorno per motivi di lavoro. Limitazioni e divieti di ingresso L’ingresso può essere negato per motivi di ordine pubblico, sicurezza dello Stato o a seguito di condanne per reati gravi, come quelli relativi a stupefacenti, reati sessuali o favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Inoltre: - Non possono entrare gli stranieri espulsi, salvo autorizzazione speciale o decorso del periodo di divieto di reingresso. - Gli stranieri segnalati nel sistema informativo Schengen o in base a accordi internazionali sono respinti per gravi motivi di ordine pubblico, sicurezza nazionale o relazioni internazionali. Ingressi per motivi di lavoro Per l’ingresso legato a lavoro subordinato, stagionale o autonomo, il decreto flussi stabilisce annualmente le quote massime di stranieri ammissibili. Tali criteri sono definiti nel documento programmatico sulla politica dell’immigrazione, che dovrebbe essere approvato ogni tre anni e contenere: - Le azioni previste in cooperazione con altri Stati, organizzazioni internazionali e istituzioni comunitarie. - Le misure economiche e sociali a favore degli stranieri presenti in Italia. Questo documento, da sottoporre al Parlamento per parere, dovrebbe essere accompagnato da una relazione annuale sui risultati ottenuti. Tuttavia, negli ultimi anni, tale documento non è stato adottato, e le quote sono state stabilite in via transitoria tramite decreti del Presidente del Consiglio. A causa della crisi economica, gli ingressi per lavoro sono diminuiti, lasciando spazio ad altre motivazioni, come i ricongiungimenti familiari. Alcune quote di ingresso sono riservate: Ai cittadini di Paesi con accordi bilaterali sull’immigrazione. 14 Ai lavoratori di origine italiana. A chi ha partecipato a programmi formativi nei Paesi di origine. Questa impostazione evidenzia, tuttavia, una carenza di pianificazione strutturata per la gestione complessiva dei flussi migratori. I visti di ingresso Il visto di ingresso, come anticipato, è un’autorizzazione rilasciata dalle rappresentanze diplomatiche o consolari italiane nello Stato di origine o di residenza dello straniero. Queste rappresentanze, organi periferici del Ministero degli Affari Esteri, esercitano un ruolo cruciale nella gestione degli ingressi sul territorio nazionale. In determinati casi, sulla base di specifici accordi internazionali, i visti emessi dalle autorità diplomatiche o consolari di altri Stati sono equiparati a quelli italiani per soggiorni di durata non superiore a tre mesi. Normativa applicabile e tipologie di visto La disciplina dei visti di ingresso si fonda su regolamenti europei e norme nazionali. In ambito comunitario, i riferimenti principali sono il Regolamento n. 767/2008, che regola il sistema di informazione sui visti e lo scambio di dati tra Stati membri, e il Codice comunitario dei visti (Regolamento n. 810/2009), che stabilisce criteri uniformi per i soggiorni di breve durata. Sul piano nazionale, l’art. 4, comma 5, del T.U. Imm. recepisce accordi internazionali esentando dall’obbligo del visto i cittadini di specifici Paesi terzi, individuati dal Ministero degli Affari Esteri. Inoltre, il Decreto Ministeriale 11 maggio 2011, n. 850, elenca i requisiti di rilascio e le tipologie di visti, differenziandoli in base ai motivi di ingresso. Tra questi, si annoverano i visti per: adozione, affari, cure mediche, lavoro (autonomo o subordinato), motivi familiari, studio, turismo, vacanze-lavoro e volontariato. Diniego del visto e obbligo di motivazione Il rilascio del visto può essere negato qualora non sussistano i requisiti previsti dalla normativa, ad esempio per motivi di sicurezza o in caso di pregresse condanne penali. Sebbene la normativa richieda la motivazione del diniego solo per specifiche tipologie di visti (lavoro subordinato, autonomo, ricongiungimento familiare, cure mediche, accesso a corsi universitari), la giurisprudenza ha ampliato questa esigenza, imponendo la motivazione anche quando il rifiuto si fondi su rischi per l’ordine pubblico o la sicurezza. Un caso specifico riguarda il ricongiungimento familiare, dove il diniego può essere emesso solo se lo straniero costituisce una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato, o di Paesi con cui l’Italia ha accordi sulla libera circolazione. Tale impostazione mira a bilanciare il diritto alla sicurezza con la tutela dell’unità familiare, evitando automatismi tra condanne pregresse e il divieto di ingresso. In ogni caso, il diniego di visto può essere impugnato davanti all’autorità giurisdizionale competente. Proroga del visto Un’importante innovazione è stata introdotta dalla legge 23 dicembre 2021, n. 238, che ha modificato il T.U. Imm. inserendo l’art. 4-ter, relativo alla proroga del visto. Secondo questa disposizione, il Questore della provincia in cui si trova lo straniero può prorogare il visto per soggiorni di breve durata fino al limite massimo di 90 giorni, previsto dal Regolamento (CE) n. 810/2009. Tale proroga è concessa in presenza di: Motivi di forza maggiore o ragioni umanitarie che impediscono al titolare di lasciare il territorio degli Stati membri prima della scadenza del visto. Ragioni personali serie che giustifichino l’estensione del periodo di validità. 15 Queste previsioni evidenziano la necessità di una gestione flessibile e umanitaria dei casi che richiedono il prolungamento della permanenza oltre i termini ordinari, rafforzando così la tutela dei diritti dello straniero in situazioni eccezionali. Il soggiorno dei cittadini di Paesi terzi: tipologie di permesso di soggiorno e relativa durata I cittadini di Paesi terzi che entrano regolarmente nel territorio italiano possono soggiornarvi se muniti di un permesso di soggiorno o di un titolo equipollente, rilasciato dall’autorità competente di uno Stato dell’Unione Europea, nei limiti e alle condizioni stabilite da specifici accordi internazionali. Richiesta e rilascio del permesso di soggiorno Come previsto dall’art. 5 T.U. Imm, lo straniero deve richiedere il permesso di soggiorno al Questore della provincia di residenza entro otto giorni lavorativi dall’ingresso in Italia. Tale permesso è rilasciato per svolgere le attività indicate nel visto d’ingresso o previste dalla normativa vigente. La procedura di richiesta varia in base alla tipologia di permesso: Per numerosi permessi è possibile inviare la domanda tramite gli uffici postali, utilizzando un apposito kit, grazie alla convenzione tra il Ministero dell’Interno e Poste Italiane. Per i permessi relativi al lavoro subordinato o al ricongiungimento familiare, lo straniero deve recarsi presso lo Sportello Unico per l’Immigrazione, istituito presso la Prefettura. Al momento della richiesta, lo straniero è sottoposto a rilievi fotodattiloscopici e deve versare un contributo economico compreso tra 80 e 200 euro, salvo esenzioni per particolari permessi come quelli per richiesta di asilo. Gli importi sono stati adeguati in conformità al principio di proporzionalità sancito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con tariffe fissate a: - 40 euro per permessi di durata superiore a 3 mesi e inferiore a 1 anno. - 50 euro per permessi da 1 a 2 anni. - 100 euro per permessi UE di lungo periodo o per lavoratori specializzati. Tipologie e durata del permesso di soggiorno Il permesso di soggiorno è strettamente connesso alle motivazioni del visto d’ingresso e ai criteri stabiliti dal T.U. Imm. e dal regolamento di attuazione (art. 11 d.p.r. n. 394/1999). Tra le principali tipologie figurano i permessi per: Motivi lavorativi (autonomo o subordinato). Motivi familiari, ricerca, studio, giustizia (es. per procedimenti penali in corso). Richiesta asilo, integrazione minori o cittadinanza. La durata del permesso varia in base alle esigenze documentate e al motivo di ingresso. In generale: - Fino a 3 mesi per visite, affari o turismo. - Fino a 1 anno per corsi di studio o formazione (rinnovabile annualmente per corsi pluriennali). - Fino a 2 anni per lavoro subordinato a tempo indeterminato, lavoro autonomo o ricongiungimento familiare. - Fino a 9 mesi per lavoro stagionale, con possibilità di permessi pluriennali per stranieri che abbiano già lavorato in Italia nei 5 anni precedenti. Accordo di integrazione Il rilascio del permesso di soggiorno richiede la sottoscrizione dell’accordo di integrazione (art. 4-bis T.U. Imm.), che prevede un sistema a crediti. Lo straniero si impegna a raggiungere obiettivi specifici entro il periodo di validità del permesso, generalmente 2 anni, prorogabili di 1 anno. 16 La perdita totale dei crediti comporta la revoca del permesso e l’espulsione dal territorio italiano, salvo alcune eccezioni (es. titolari di permessi per asilo o motivi familiari). L’accordo non si applica a categorie vulnerabili, come minori non accompagnati, vittime di tratta o violenza. Soggiorni di breve durata Per visite, affari, turismo o studio inferiori a 90 giorni, regolati dalla legge 28 maggio 2007, n. 68, lo straniero non necessita di permesso di soggiorno. Tuttavia, deve presentare una dichiarazione di presenza alla Polizia di Frontiera o alla Questura entro 8 giorni dall’ingresso in Italia, se proveniente da un altro Stato dell’area Schengen. Questa articolata disciplina risponde alla necessità di bilanciare la regolamentazione dei flussi migratori con la tutela dei diritti fondamentali e le esigenze di sicurezza nazionale. Rinnovo, revoca e conversione del permesso di soggiorno Rinnovo del permesso di soggiorno Per permanere in Italia oltre la durata indicata nel permesso di soggiorno, lo straniero deve richiederne il rinnovo entro 60 giorni dalla scadenza. Il rinnovo è subordinato alla verifica del mantenimento delle condizioni previste per il rilascio iniziale e al rispetto di altri requisiti stabiliti dal Testo Unico sull’Immigrazione (T.U. Imm.). Anche in questa fase, lo straniero è sottoposto a rilievi fotodattiloscopici. Revoca del permesso di soggiorno Il permesso può essere negato, non rinnovato o revocato nei seguenti casi: Mancanza o perdita dei requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno. Pericolosità per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato, specialmente in presenza di condanne per reati di particolare gravità. L’art. 5, comma 5, T.U. Imm. prevede una tutela specifica per chi ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare. In tali casi, l’amministrazione deve considerare: - La natura e l’effettività dei vincoli familiari. - L’esistenza di legami familiari e sociali con il paese d’origine. - La durata del soggiorno in Italia. La Corte costituzionale, con sentenze come la n. 172/2012 e n. 202/2013, ha sottolineato l’importanza di un bilanciamento ragionevole tra sicurezza pubblica e tutela dei diritti fondamentali dello straniero. In particolare: - Le decisioni sul permesso di soggiorno non possono basarsi esclusivamente su una condanna penale; è necessaria una valutazione concreta della pericolosità attuale dello straniero. - L’impatto su legami familiari, specie in presenza di figli minori, deve essere attentamente ponderato, in linea con l’art. 8 della CEDU, che tutela il diritto alla vita privata e familiare. Conversione del permesso di soggiorno Il permesso di soggiorno può essere convertito in una tipologia diversa da quella originaria, a seconda delle esigenze dello straniero e dei requisiti previsti. Ad esempio: - Un permesso per motivi di studio o formazione può essere convertito in un permesso per lavoro subordinato o autonomo. - Un permesso per lavoro stagionale può essere trasformato in uno per lavoro subordinato a tempo indeterminato. La conversione richiede il rilascio del nulla osta da parte dello Sportello Unico per l’Immigrazione e deve avvenire nell’ambito delle quote di ingresso stabilite dal decreto flussi. Tuttavia, alcuni permessi 17 di soggiorno, come quelli per motivi familiari, consentono già l’esercizio di un’attività lavorativa senza necessità di conversione. Le modifiche introdotte dal d.l. n. 130/2020 hanno ampliato la possibilità di conversione in permessi per motivi di lavoro per chi possiede permessi originariamente rilasciati per protezione speciale, calamità, residenza elettiva, cure mediche, attività sportiva, motivi religiosi, o per assistenza a minori. Questa riforma mira a favorire l’integrazione degli stranieri che, inizialmente entrati in Italia per motivi diversi dal lavoro, abbiano successivamente trovato un’occupazione stabile. Tempi di rilascio, rinnovo e conversione La normativa prevede che il permesso di soggiorno sia rilasciato, rinnovato o convertito entro 60 giorni dalla presentazione della domanda. Tuttavia, nella pratica, questo termine è spesso disatteso. Durante l’attesa, la regolarità della presenza dello straniero sul territorio italiano è garantita dal possesso della ricevuta che attesta la presentazione tempestiva della domanda. Questa disciplina, che regola il rinnovo e la conversione del permesso di soggiorno, riflette l’equilibrio tra l’esigenza di controllo sui flussi migratori e la salvaguardia dei diritti fondamentali della persona e della famiglia. L’ingresso per motivi di lavoro e il contratto di soggiorno Ingresso per motivi di lavoro subordinato e autonomo L’ingresso in Italia per motivi di lavoro, sia subordinato (anche stagionale) che autonomo, è regolato dalle quote stabilite nei decreti flussi, previste dall’art. 3, comma 4, del T.U. Imm.. La gestione della procedura per l’assunzione di lavoratori subordinati è affidata allo Sportello Unico per l’Immigrazione presso la Prefettura. Il datore di lavoro (italiano o straniero regolare) può: - Presentare una richiesta nominativa di nulla osta per un lavoratore specifico residente all’estero. - Richiedere un nulla osta per un lavoratore presente in liste apposite, dopo la verifica presso i Centri per l’Impiego dell’indisponibilità di manodopera già presente in Italia. Dopo le verifiche necessarie, lo Sportello Unico rilascia il nulla osta entro i limiti stabiliti dal decreto flussi. Successivamente: 1. Gli uffici consolari del Paese d’origine rilasciano il visto di ingresso. 2. Lo straniero, una volta in Italia, deve firmare il contratto di soggiorno presso lo Sportello Unico entro 8 giorni dall’ingresso. Contratto di soggiorno per lavoro subordinato Il contratto di soggiorno è una particolarità del sistema italiano e rappresenta un accordo tra datore di lavoro e lavoratore straniero. Include: - La garanzia, da parte del datore di lavoro, di un alloggio conforme ai requisiti di legge. - L’impegno del datore a sostenere le spese di rientro del lavoratore nel Paese di origine. Questa disciplina mira a evitare costi per lo Stato in termini di welfare e rimpatrio, ma potrebbe scoraggiare i datori di lavoro dall’assumere lavoratori stranieri rispetto a quelli già presenti in Italia. Spesso, infatti, questa procedura formale serve a regolarizzare rapporti di lavoro già esistenti, piuttosto che creare nuove opportunità. Durata del permesso di soggiorno per lavoro In seguito alla stipula del contratto di soggiorno, il lavoratore può ottenere: Un permesso di soggiorno a tempo determinato (durata massima: 1 anno). Un permesso a tempo indeterminato (durata massima: 2 anni). 18 Conformemente alla direttiva 2011/98/UE, il permesso per lavoro riporta la dicitura “permesso unico lavoro”, che autorizza soggiorno e attività lavorativa. Perdita del lavoro e attesa occupazione La perdita del posto di lavoro non comporta la revoca automatica del permesso di soggiorno. - Il lavoratore può iscriversi nelle liste di collocamento per la durata residua del permesso o per un periodo minimo di 1 anno. - In alternativa, può ottenere un permesso per attesa occupazione, valido anche per la durata di eventuali prestazioni di sostegno al reddito. Lavoro stagionale Per i lavoratori stagionali, l’art. 24 del T.U. Imm. prevede: Nulla osta al lavoro stagionale, rilasciato dallo Sportello Unico per l’immigrazione. Durata limitata al periodo lavorativo, con possibilità di rinnovo pluriennale. Per garantire migliori condizioni di vita, il datore deve dichiarare e documentare la disponibilità di un alloggio idoneo. Ai lavoratori stagionali già ammessi in Italia è riconosciuta priorità per il rientro nei cicli stagionali successivi. Inoltre, possono richiedere la conversione del permesso stagionale in un permesso per lavoro subordinato, entro i limiti delle quote stabilite. Lavoro autonomo L’ingresso per lavoro autonomo è disciplinato dall’art. 26 del T.U. Imm., con i seguenti requisiti: Risorse economiche adeguate per l’attività da intraprendere. Rispetto delle normative italiane relative alla specifica attività (es. iscrizione ad albi professionali, se necessaria). Certificazione che attesti l’assenza di ostacoli al rilascio di autorizzazioni o licenze. Disponibilità di un alloggio idoneo e di un reddito minimo superiore alla soglia di esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria. Ingressi fuori quota Alcune categorie professionali possono entrare in Italia al di fuori delle quote dei decreti flussi, secondo l’art. 27 del T.U. Imm. Tra queste: - Dirigenti o personale specializzato di società con sede in Italia. - Professori universitari, lettori madrelingua o di scambio. - Infermieri professionali. - Artisti e tecnici per eventi culturali, teatrali o sportivi. Infine, specifiche norme regolano l’ingresso per attività di volontariato e ricerca (artt. 27-bis e 27-ter). Questa articolata disciplina cerca di bilanciare il fabbisogno del mercato del lavoro con l’esigenza di controllo dei flussi migratori, garantendo tuttavia tutele per i lavoratori stranieri e prevedendo strumenti per una loro integrazione regolare. L’immigrazione altamente qualificata e la “Carta blu UE” Ingresso dei lavoratori altamente qualificati L’ingresso dei lavoratori stranieri altamente qualificati è una categoria speciale regolata al di fuori delle quote stabilite annualmente dal decreto flussi. Questa procedura, introdotta nell’ordinamento italiano recependo la direttiva 2009/50/CE, mira ad attrarre lavoratori stranieri con qualifiche superiori, favorendone l’ammissione e la mobilità per soggiorni di durata superiore a tre mesi. Tale politica si inserisce in una più ampia strategia europea per: 19 - Rendere l’UE più competitiva e attrattiva a livello globale. - Sostenere la crescita economica e la competitività dell’Unione. Requisiti per l’accesso Per essere ammessi in questa categoria, i lavoratori stranieri devono possedere: Un titolo di istruzione superiore di durata almeno triennale. Una qualifica professionale superiore rientrante nei livelli previsti dall’art. 27-quater del T.U. Imm. Procedura di ammissione La domanda di nulla osta per l’ingresso è presentata dal datore di lavoro presso lo Sportello Unico per l’Immigrazione. Essa deve includere: 1. Proposta di contratto di lavoro o un’offerta vincolante della durata minima di un anno, per un’attività che richiede una qualifica professionale superiore. 2. Documentazione comprovante i titoli di istruzione e la qualifica professionale del lavoratore. 3. Stipendio annuale lordo garantito, pari ad almeno tre volte il livello minimo previsto per l’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria. La “Carta blu UE” Ai lavoratori qualificati ammessi con questa procedura viene rilasciato uno specifico permesso di soggiorno, denominato “Carta blu UE”. Diritti riconosciuti: I titolari godono di diritti economici e sociali equiparati a quelli dei cittadini dello Stato ospitante, fatta eccezione per alcune restrizioni relative al mercato del lavoro. Accesso al mercato del lavoro: Durante i primi due anni, i titolari della Carta blu possono esercitare solo l’attività per la quale è stato rilasciato il permesso. Cambiare datore di lavoro richiede un’autorizzazione preliminare dagli uffici competenti. Mobilità intra-UE: La normativa facilita il soggiorno legale e il trasferimento dei titolari di una Carta blu UE rilasciata da altri Stati membri, promuovendo la mobilità interna all’Unione. Il 20 ottobre 2021 è stata adottata la nuova direttiva (UE) 2021/1883, che ha sostituito la precedente normativa del 2009. Gli Stati membri sono tenuti a recepirla entro il 18 novembre 2023. - Obiettivi principali: - Creare un sistema più attrattivo per i lavoratori altamente qualificati provenienti da paesi terzi. - Introdurre procedure di ingresso più rapide. - Stabilire criteri di ammissione più flessibili e inclusivi. - Ampliare i diritti riconosciuti, con particolare attenzione alla mobilità interna all’UE. Questa disciplina aggiornata mira a rispondere alle esigenze del mercato del lavoro europeo, offrendo opportunità semplificate per attirare competenze elevate e favorire la competitività degli Stati membri. Il permesso per motivi familiari e il ricongiungimento familiare Permesso di soggiorno per motivi familiari L’art. 30 del T.U. Immigrazione disciplina il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari, tutelando l’unità familiare e i diritti dei minori. Tale permesso può essere concesso nei seguenti casi: 1. Ricongiungimento familiare: allo straniero entrato in Italia con un visto specifico per ricongiungimento familiare o al seguito di un familiare già soggiornante. 2. Matrimonio: agli stranieri che abbiano contratto matrimonio in Italia con: - Cittadini italiani o dell’UE; - Cittadini stranieri regolarmente soggiornanti. 20 3. Parentela con cittadini italiani o UE: al familiare di cittadini italiani o dell’UE, oppure di stranieri regolarmente soggiornanti in Italia. 4. Genitore di minore italiano: al genitore straniero, anche naturale, di un minore italiano residente in Italia, indipendentemente dal possesso di un valido titolo di soggiorno. Il permesso per motivi familiari consente: L’accesso a servizi assistenziali; L’iscrizione a corsi di studio o formazione professionale; L’iscrizione alle liste di collocamento; Lo svolgimento di lavoro subordinato o autonomo. In alcune circostanze (es. morte del familiare, separazione legale), può essere convertito in permesso per lavoro subordinato, autonomo o per studio. Coesione familiare e ricongiungimento sur place Alcuni casi consentono agli stranieri già presenti in Italia di ottenere il permesso per motivi familiari sulla base di legami con cittadini italiani, UE o stranieri regolarmente soggiornanti. Questi procedimenti, definiti “coesione familiare” o “ricongiungimento sur place”, si distinguono dal ricongiungimento familiare ordinario, che riguarda familiari residenti all’estero. Ricongiungimento familiare ordinario Regolato dall’art. 29 del T.U. Immigrazione e dalla direttiva 2003/86/CE, consente a uno straniero regolarmente soggiornante in Italia di far entrare e soggiornare un familiare residente all’estero. Familiari ammessi: - Coniuge non separato; - Figli minori; - Figli maggiorenni a carico, con invalidità totale che impedisce l’autosufficienza; - Genitori a carico, se non hanno altri figli nel paese di origine e gli altri figli non possono sostenerli per gravi motivi di salute. I legami di parentela devono essere documentati da certificazioni ufficiali, con possibilità di ricorrere al test del DNA, a spese degli interessati, in caso di dubbi sull’autenticità. Tutela dell’unità familiare La Corte costituzionale distingue tra: Diritto all’unità familiare (costituzionalmente garantito): riguarda coniuge e figli minori. Interesse all’affetto familiare: applicabile ai figli maggiorenni e ai genitori, bilanciabile con altri interessi rilevanti. Requisiti per il ricongiungimento familiare Lo straniero deve dimostrare: 1. Disponibilità di un alloggio idoneo, conforme ai requisiti igienico-sanitari e abitativi; 2. Reddito minimo annuo, derivante da fonti lecite, non inferiore all’importo dell’assegno sociale, aumentato della metà per ogni familiare da ricongiungere; 3. Assicurazione sanitaria (per genitori ultrasessantacinquenni), o iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale. Procedura di ricongiungimento familiare La domanda va presentata allo Sportello Unico per l’Immigrazione, che verifica i requisiti e rilascia il nulla osta. Il nulla osta viene inviato al consolato per il rilascio del visto. Una volta entrato in Italia, il familiare deve presentarsi entro 8 giorni per richiedere il permesso di soggiorno alla Questura. 21 I rifugiati godono di una disciplina specifica (art. 29-bis T.U. Imm.), che elimina i requisiti di reddito e alloggio richiesti agli altri stranieri. Il permesso può essere concesso anche ai familiari già presenti sul territorio nazionale, privi dei requisiti per la protezione internazionale. Tutela dei minori L’art. 31 del T.U. Immigrazione prevede: Rilascio del permesso per motivi familiari ai minori conviventi con il genitore regolarmente soggiornante; Autorizzazione del Tribunale per i minorenni per ingresso o permanenza di un familiare del minore residente in Italia, in caso di gravi motivi connessi allo sviluppo psicofisico del minore. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che il provvedimento autorizzatorio tutela principalmente lo sviluppo psicofisico del minore, bilanciando: - Il diritto alla vita familiare del minore; - L’interesse pubblico alla sicurezza e al controllo delle frontiere. La valutazione tiene conto di fattori come: - Età del minore; - Grado di integrazione in Italia; - Possibilità di mantenere legami familiari in caso di rimpatrio. Con il d.l. n. 130/2020, il permesso di soggiorno per assistenza minori (art. 31, comma 3, T.U. Imm.) può essere convertito in permesso per lavoro. Questo rappresenta un ulteriore strumento per garantire stabilità alle famiglie e ai minori coinvolti. Protezione speciale e permessi per casi speciali (cenni e rinvio) Con la riforma del d.l. n. 113/2018 è stato eliminato il permesso per motivi umanitari previsto dall’art. 5, comma 6, del T.U. Immigrazione. Tuttavia, il d.l. n. 130/2020 ha reintrodotto un sistema di salvaguardia, prevedendo che il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno debbano rispettare gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano. Tale clausola si collega strettamente all’art. 19 T.U. Imm., che vieta l’espulsione o il respingimento dello straniero verso Stati dove potrebbe subire persecuzioni, tortura o trattamenti inumani e degradanti, o qualora l’allontanamento violi il diritto alla vita privata e familiare, salvo ragioni di sicurezza nazionale o pubblica. Protezione speciale Nei casi in cui lo straniero non ottenga protezione internazionale (come approfondito al cap. 4, par. 7), la Commissione territoriale può segnalare al Questore la possibilità di rilascio di un permesso per protezione speciale. Tale permesso, della durata di due anni e rinnovabile: - Consente di lavorare e accedere a percorsi di istruzione o formazione; - È convertibile in permesso per motivi di lavoro, se sussistono i requisiti. Se lo straniero non ha presentato domanda di protezione internazionale, il rilascio del permesso richiede un parere obbligatorio e vincolante della Commissione territoriale, adottato tempestivamente per garantire la celerità del procedimento. Permessi di soggiorno per casi speciali A seguito del d.l. n. 113/2018, accanto alla protezione speciale, sono previsti specifici permessi di soggiorno per casi speciali, come di seguito dettagliato: Permesso per motivi di protezione sociale (art. 18 T.U. Imm.): 22 Concesso in situazioni di violenza o sfruttamento grave accertate durante operazioni di polizia, indagini o procedimenti giudiziari. La durata è di 6 mesi, rinnovabile per un anno o per la durata necessaria a fini di giustizia. Consente l’accesso a servizi assistenziali, studio e lavoro, ed è convertibile in permesso per lavoro o studio. Permesso per vittime di violenza domestica (art. 18-bis T.U. Imm.): Concesso per casi di violenza o abuso accertati nell’ambito di procedimenti per reati come maltrattamenti in famiglia, lesioni, sequestro di persona, stalking, e violenza sessuale. Ha una durata di 1 anno, è convertibile in permesso per lavoro o studio e consente di lavorare e accedere a servizi essenziali. Permesso per vittime di sfruttamento lavorativo (art. 22, comma 12-quater T.U. Imm.): Rilasciato a stranieri che collaborano con l’autorità giudiziaria in procedimenti contro datori di lavoro responsabili di sfruttamento grave (ad esempio, lavoro minorile o condizioni particolarmente degradanti). Ha una durata di 6 mesi, rinnovabile, ed è convertibile in permesso per lavoro subordinato o autonomo. Permesso per cure mediche (art. 19, comma 2, lett. d-bis T.U. Imm.): Rilasciato per gravi condizioni di salute che comporterebbero un grave pregiudizio in caso di rientro nel Paese di origine. La durata corrisponde al periodo indicato nella certificazione sanitaria, è rinnovabile finché persistono le condizioni di salute ed è convertibile in permesso per lavoro. Permesso per calamità (art. 20-bis T.U. Imm.): Previsto in caso di gravi calamità naturali nel Paese di origine che impediscono il ritorno in sicurezza. Ha una durata di 6 mesi, rinnovabile, e consente lo svolgimento di attività lavorativa. Permesso per atti di particolare valore civile (art. 42-bis T.U. Imm.): Rilasciato per comportamenti straordinari, come il salvataggio di vite o azioni a beneficio della collettività. Ha una durata di 2 anni, è rinnovabile, e può essere convertito in permesso per lavoro autonomo o subordinato. Il permesso UE per soggiornanti di lungo periodo L’articolo 9 del Testo Unico sull’Immigrazione disciplina lo status del titolare di un permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, istituito con la direttiva 2003/109/CE. Questo titolo di soggiorno mira a promuovere l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi stabilitisi a lungo termine negli Stati membri, contribuendo alla coesione economica e sociale. Requisiti per il rilascio Per ottenere il permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, è necessario che: Lo straniero abbia risieduto regolarmente in Italia per almeno 5 anni; Disponga di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale; Sia in grado di dimostrare, nel caso di richieste estese ai familiari, un reddito sufficiente ai sensi dell’art. 29, comma 3, lett. b), T.U. Imm., e un alloggio idoneo conforme ai parametri igienico-sanitari previsti dalla legge; Superi un test di conoscenza della lingua italiana, a meno che non siano applicabili esenzioni specifiche. Il permesso UE per soggiornanti di lungo periodo conferisce al titolare uno status privilegiato rispetto agli altri stranieri, con una serie di diritti distintivi: Libertà di circolazione sul territorio nazionale; Possibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa subordinata o autonoma, senza necessità di stipulare un contratto di soggiorno, salvo i lavori espressamente riservati ai cittadini italiani; 23 Accesso alle prestazioni di assistenza sociale, previdenza sociale, sanitarie e scolastiche, e possibilità di usufruire di alloggi di edilizia residenziale pubblica, previa dimostrazione della residenza effettiva in Italia; Partecipazione alla vita pubblica locale, nei limiti della normativa vigente. Condizioni di allontanamento e revoca L’allontanamento del titolare è subordinato a gravi motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato, considerando fattori come l’età, la durata del soggiorno in Italia, i legami familiari e sociali, e le conseguenze dell’espulsione. Il permesso può essere revocato in caso di: Acquisizione fraudolenta; Mancanza delle condizioni originarie per il rilascio; Assenza dal territorio dell’Unione per oltre 12 mesi consecutivi. A seguito della legge n. 238/2021, il permesso ha una validità di 10 anni (ridotta a 5 anni per i minori di 18 anni), pur mantenendo la natura permanente dello status di soggiornante di lungo periodo, salvo i casi di revoca. Valore del documento e specificità per titolari di protezione internazionale Il permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, in corso di validità, costituisce un documento di identificazione personale (art. 9, comma 2, T.U. Imm.). Ai sensi della direttiva 2011/51/UE, il titolo può essere rilasciato anche ai titolari di protezione internazionale (rifugiati o beneficiari di protezione sussidiaria), senza richiedere la documentazione relativa all’idoneità dell’alloggio. Normativa per titolari di permessi rilasciati da altri Stati membri L’art. 9-bis T.U. Imm. regola i casi di soggiornanti di lungo periodo titolari di un permesso rilasciato da un altro Stato UE. Essi possono: - Entrare e rimanere in Italia per fino a 3 mesi; - Richiedere un permesso per periodi superiori, dimostrando di disporre di mezzi di sussistenza non occasionali e motivando il soggiorno con lavoro, studio o formazione professionale. Disciplina per i titolari di Carta Blu UE L’art. 9-ter T.U. Imm. disciplina i titolari di Carta Blu UE emessa da un altro Stato membro. Questi possono ottenere il permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, includendo nel calcolo del periodo richiesto la residenza maturata nell’Unione, purché abbiano trascorso almeno 2 anni in Italia. IV. Asilo e protezione internazionale Il diritto di asilo nei lavori dell’Assemblea Costituente L’articolo 10, comma 3, della Costituzione italiana riconosce e garantisce il diritto di asilo come uno dei Principi fondamentali. Esso stabilisce che: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». 24 La disposizione, proposta nella I Sottocommissione della Commissione dei 75 da Giorgio La Pira e Lelio Basso, venne formulata in termini molto simili al testo finale. Essa fu approvata senza opposizioni in questa fase preliminare. Nella discussione in Commissione emersero alcune perplessità sulla formulazione. In particolare: - Umberto Terracini (Partito Comunista) sostenne un “diritto di asilo ampio”, ma ne auspicò una definizione più precisa per evitare ambiguità, ispirandosi al Preambolo della Costituzione francese. - I democristiani Uberti e Cappi respinsero la proposta di restringere il diritto, sostenendo la necessità di una tutela piena della libertà e di una difesa del diritto di asilo come strumento di garanzia per chiunque fosse perseguitato. - Giorgio La Pira, richiamando l’origine religiosa del diritto di asilo, ne sottolineò la funzione universale: accogliere chiunque vedesse violata la propria libertà, senza distinzioni ideologiche. Il confronto si riaprì con posizioni articolate: - I comunisti proposero di circoscrivere il diritto agli stranieri perseguitati per aver difeso i diritti del lavoro o lottato contro le dittature, in particolare il fascismo. - I socialisti, invece, difesero un’interpretazione più ampia, rifiutando limitazioni di natura politica o ideologica e richiamandosi al principio dell’ospitalità sacra. - Il Fronte dell’Uomo Qualunque avanzò un emendamento per ridurre ulteriormente l’ambito di applicazione del diritto, limitandolo a chi fosse perseguitato per azioni compiute in difesa delle libertà garantite dalla Costituzione italiana. Il dibattito si focalizzò soprattutto su due aspetti: Il livello della violazione delle libertà: si discusse se il diritto di asilo dovesse essere garantito a chi subiva una violazione in concreto (effettiva) o anche in astratto (prevista formalmente ma non attuata). La riserva di legge: venne aggiunta la clausola “secondo le condizioni stabilite dalla legge” per garantire un’attuazione normativa più dettagliata. Alla fine, le proposte di limitazione presentate da comunisti e socialisti furono respinte, così come quelle più restrittive del Fronte dell’Uomo Qualunque. Il testo approvato mantenne una formulazione ampia e universale, che privilegia la tutela delle libertà democratiche rispetto ad altre preoccupazioni, come l’eventuale afflusso massiccio di stranieri. Il diritto di asilo, così come inserito nella Costituzione, riflette la volontà di riconoscere una tutela ampia e concreta ai perseguitati, ispirandosi alle esperienze vissute sotto il regime fascista. I costituenti optarono per una formulazione aperta, rinviando alla legge ordinaria il compito di definire i dettagli applicativi senza, tuttavia, condizionare l’effettività del diritto alla successiva regolamentazione normativa. La dimensione soggettiva del diritto di asilo: l’interpretazione delle «libertà democratiche» La formulazione dell’art. 10, comma 3, della Costituzione lascia margini interpretativi importanti, specialmente per individuare le condizioni che rendono uno straniero titolare del diritto di asilo. Tra queste: - Non vi è distinzione tra apolidi e cittadini di uno Stato straniero. Il riferimento costituzionale al «suo paese» include implicitamente anche gli apolidi, dato che nessuna lettura riduttiva emerge dai lavori preparatori o dalla logica della norma. - Non è necessaria una concreta persecuzione: il diritto di asilo si applica anche in presenza di un pericolo potenziale di violazione delle libertà democratiche. Il concetto di «libertà dem