Summary

This document discusses various theories of legal systems and their function, such as institutionalist, normativist, and decisionist approaches. It also explores the nature of legal norms, distinguishing them from moral and technical norms, and discusses the relationship between national and international law. The text examines concepts such as objective and subjective rights, and the evolving nature of legal systems in response to social change. It ultimately provides a comprehensive look at constitutional law principles, focusing on the structure, functions, and theoretical underpinning of legal systems.

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CAPITOLO I Ordinamento giuridico L'ordinamento giuridico è l'insieme delle regole e norme che disciplinano i rapporti tra i membri di una comunità, permettendo una convivenza ordinata e pacifica. Le norme dell’ordinamento giuridico regolano quindi le relazioni tra le persone e le istituzioni. Tuttav...

CAPITOLO I Ordinamento giuridico L'ordinamento giuridico è l'insieme delle regole e norme che disciplinano i rapporti tra i membri di una comunità, permettendo una convivenza ordinata e pacifica. Le norme dell’ordinamento giuridico regolano quindi le relazioni tra le persone e le istituzioni. Tuttavia, esistono diverse teorie su cosa sia esattamente un ordinamento giuridico e come funzioni. Ecco le principali teorie sviluppate dai giuristi per spiegare questo concetto: 1. Teoria istituzionalistica del diritto (di Santi Romano, XX secolo, Palermo): secondo Santi Romano, l’ordinamento giuridico non è solo un insieme di norme, ma è l’organizzazione stessa dello Stato che le crea. Per Romano, laddove esiste una società, esiste anche una legge, e viceversa. In questa visione, lo Stato e l’ordinamento giuridico sono intrecciati: dove ci sono istituzioni, c’è un ordinamento. In altre parole, ogni organizzazione istituzionale crea il proprio ordinamento giuridico. 2. Teoria normativistica del diritto (di Hans Kelsen, XX secolo, Praga): Kelsen sostiene che Stato e diritto coincidono, ossia che l’ordinamento giuridico e lo Stato sono una cosa sola. La struttura di questo ordinamento è gerarchica, come una piramide: al vertice si trova la "norma fondamentale" (Grundnorm), dalla quale discendono tutte le altre norme. Le norme subordinate esistono in funzione della norma fondamentale e sono giustificate solo se collegate a quest’ultima. Kelsen descrive la sua teoria come una “dottrina pura del diritto”, poiché ritiene che il diritto debba essere separato dalle ideologie politiche. 3. Teoria decisionista del diritto (di Carl Schmitt, XX secolo): in contrasto con Kelsen, Schmitt ritiene che Stato e diritto siano distinti: lo Stato crea l’ordinamento giuridico, che utilizza per prendere decisioni. Per Schmitt, la forza di uno Stato si manifesta nelle decisioni che prende, le quali si basano sull’ordinamento. In questo senso, il diritto serve allo Stato per esercitare la sua autorità e prendere decisioni rilevanti per il funzionamento della comunità. Norma giuridica La norma giuridica è una regola di comportamento che i membri della società devono seguire per mantenere un ambiente pacifico e ordinato. Le norme giuridiche hanno tre caratteristiche fondamentali: Imperative: devono essere rispettate da tutti, anche quando non sono condivise moralmente. Chi non le rispetta può essere soggetto a sanzioni stabilite dall’ordinamento giuridico. Generali: si applicano a tutti, senza distinzione, garantendo che ogni membro della società rispetti le stesse regole. Astratte: possono essere applicate a una vasta gamma di situazioni simili, coprendo diversi scenari che rientrano nei parametri della norma stessa. Le norme giuridiche si distinguono dalla moralità, che riguarda questioni come la religione o le convinzioni personali. Ad esempio, seguire una religione è una scelta morale che generalmente non è regolamentata dal diritto (eccetto nei Paesi teocratici). Tuttavia, ci sono casi in cui la morale ha ispirato il diritto: per esempio, l’omicidio è condannato sia dal punto di vista morale, soprattutto nella religione cristiana, sia dal punto di vista giuridico nel codice penale. Infine, è importante distinguere le norme giuridiche dalle norme tecniche. Le norme tecniche si applicano a campi come la scienza o l’industria e non sono di per sé obbligatorie. Tuttavia, se inserite in un ordinamento giuridico, queste possono diventare imperative e vincolanti, con sanzioni per chi non le rispetta. Ad esempio, nel contesto legale, esistono norme tecniche sull’uso della posta elettronica nei procedimenti giudiziari, che possono assumere valore vincolante all’interno dell’ordinamento. Il concetto di diritto si articola in due principali categorie: il diritto oggettivo e il diritto soggettivo. 1. Diritto oggettivo: si riferisce all'insieme di norme che regolano i rapporti tra l'individuo e la collettività. Il diritto oggettivo stabilisce regole generali valide per tutti e ha lo scopo di garantire una convivenza pacifica e ordinata all'interno della società. 2. Diritto soggettivo: indica invece quei diritti che tutelano gli interessi dell’individuo, consentendogli di far valere pretese specifiche su persone o beni. In altre parole, è il potere riconosciuto all'individuo di richiedere il rispetto di certi diritti o di determinati obblighi da parte di altri. Il diritto soggettivo dà quindi origine a rapporti giuridici, ossia a relazioni tra parti che assumono ruoli e diritti distinti, chiamati posizioni giuridiche attive e passive. Tra queste posizioni rientrano anche gli interessi legittimi, che sono interessi tutelati dalla legge ma non sufficienti a costituire un diritto soggettivo vero e proprio. Una norma è valida se non contraddice altre norme dell’ordinamento. In caso contrario, può essere dichiarata inefficace. L’ordinamento giuridico, però, è dinamico e in continua evoluzione: deve adattarsi ai cambiamenti sociali, economici e culturali per garantire risposte adeguate alle nuove situazioni. Questo processo di adattamento è sostenuto dallo Stato, che interviene con la sua sovranità per modificare e aggiornare le norme. Negli Stati democratici moderni, il diritto riconosce l’esistenza di diverse formazioni sociali (come stabilito dall’articolo 2 della Costituzione italiana), ovvero gruppi di individui che perseguono scopi comuni e che sono tutelati dalla legge. Un esempio classico è la famiglia, ma rientrano in questa categoria anche i partiti politici, i sindacati e altre organizzazioni collettive che rappresentano interessi comuni. Gli ordinamenti statali includono anche ordinamenti territoriali come i Comuni, che pur rientrando nella struttura dello Stato, godono di una certa autonomia per rispondere meglio ai bisogni delle comunità locali. Le norme giuridiche sono emanate da autorità competenti riconosciute dall’ordinamento stesso. La Costituzione stabilisce le basi fondamentali di tutte le altre norme, incluse quelle definite “primarie” perché emanate dal Parlamento e dotate della stessa forza della legge ordinaria. A partire dal XX secolo, il monopolio dello Stato sulla produzione delle leggi si è indebolito, poiché molte norme che fanno parte dell’ordinamento nazionale provengono da contesti internazionali o comunitari (come l’Unione Europea), influenzando così anche le leggi interne. Tipi di diritto 1. Diritto positivo: è l’insieme delle norme in vigore in un determinato momento storico. È il diritto creato da autorità specifiche e stabilito per essere rispettato. 2. Diritto naturale: è costituito dalle regole e dagli obblighi che derivano dalla natura dell'uomo e che, in quanto tali, si considerano universali. Su questo tema, durante i lavori dell’Assemblea Costituente in Italia, si è discusso se includere nei diritti inviolabili anche quei diritti considerati preesistenti e non creati da nessuna autorità umana, ritenuti fondamento della giustizia universale. Il diritto costituzionale è un ramo del diritto pubblico che studia le norme alla base dell’ordinamento statale, analizzando i limiti e le competenze dei poteri pubblici. Non si tratta più solo di un diritto nazionale: negli ultimi decenni, ha acquisito una dimensione sovranazionale con la nascita di un diritto costituzionale europeo che affianca quello nazionale, come avviene nell’Unione Europea, che garantisce il rispetto dei diritti fondamentali e promuove una gestione condivisa delle politiche e delle leggi tra i diversi Stati membri. CAPITOLO II Lo Stato moderno è l’organizzazione politica che si è sviluppata in Europa tra il XVI e il XVII secolo e si caratterizza come ente sovrano che persegue fini generali per la collettività. Con i Trattati di Westfalia del 1648, che segnarono la fine della Guerra dei Trent'anni, si è affermato il principio della sovranità statale: ogni Stato è autonomo e indipendente dagli altri, senza interferenze esterne da parte di autorità come il Papa o l’imperatore del Sacro Romano Impero. Questo nuovo assetto ha posto però la questione della necessità di regolamentare i rapporti tra gli Stati, per mantenere la pace e la stabilità. Da qui è nata la consapevolezza della necessità di creare una comunità internazionale che gestisse le relazioni tra Stati indipendenti, stabilendo norme sovranazionali per garantire la pace raggiunta con i Trattati. Alcuni includono in questa comunità non solo gli Stati, ma anche le organizzazioni internazionali come le Organizzazioni Non Governative (ONG), l’Unione Europea (UE) e le Nazioni Unite (ONU). Tuttavia, non tutti gli studiosi concordano su questo punto. La comunità internazionale è caratterizzata da alcuni elementi fondamentali che regolano i rapporti tra gli Stati e ne assicurano l’equilibrio: 1. Principi fondamentali: sono regole generali che stabiliscono il quadro di convivenza pacifica e cooperazione tra gli Stati. Questi principi rappresentano i valori condivisi necessari per mantenere l’equilibrio nei rapporti sovranazionali. 2. Consuetudini generali: sono norme non scritte che nascono da pratiche ripetute nel tempo e riconosciute come obbligatorie dagli Stati. Si basano su un elemento oggettivo (il ripetersi costante di comportamenti) e un elemento soggettivo (la convinzione che tali comportamenti siano giuridicamente vincolanti). Esempi di consuetudini generali includono il principio dell’immunità diplomatica, che garantisce protezione ai rappresentanti diplomatici, e le norme sui diritti umani fondamentali, che proteggono gli individui da discriminazioni indipendentemente dalla nazionalità, dalla religione o dalla cultura. 3. Norme pattizie: sono norme che derivano da trattati internazionali, ossia accordi scritti tra Stati. Le norme pattizie hanno un carattere vincolante e non possono essere ignorate. Devono anche essere compatibili con l’ordinamento costituzionale degli Stati che le adottano; in caso contrario, possono essere dichiarate incostituzionali e quindi inapplicabili. Queste norme sono generalmente imperative e inderogabili, ovvero non possono essere violate né modificate unilateralmente da uno Stato. Una questione cruciale nel diritto contemporaneo è la relazione tra l’ordinamento nazionale (le leggi e i principi stabiliti all'interno di uno Stato) e l’ordinamento sovranazionale (le norme e i trattati stabiliti tra più Stati, spesso nell'ambito di organizzazioni come l’Unione Europea o le Nazioni Unite). Esistono due impostazioni principali per interpretare questa relazione: 1. Impostazione dualista: secondo questa visione, l’ordinamento nazionale e quello sovranazionale sono considerati distinti e separati. Ciò significa che le norme internazionali o sovranazionali non hanno effetto diretto all'interno di uno Stato finché questo non le adotta formalmente nel proprio sistema giuridico. Gli ordinamenti, dunque, rimangono autonomi, e per applicare una norma internazionale a livello nazionale, lo Stato deve approvarla attraverso i suoi processi interni. 2. Impostazione monista: in questa prospettiva, si considera l’ordinamento sovranazionale come superiore a quello nazionale. Le norme sovranazionali vengono quindi incorporate automaticamente nell’ordinamento nazionale e prevalgono su quest'ultimo in caso di conflitto, ponendo l'ordinamento interno in una posizione subordinata. Tuttavia, questa subordinazione è soggetta a una condizione fondamentale: l’ordinamento sovranazionale deve essere compatibile con la Costituzione dello Stato e rispettare i diritti fondamentali degli individui. Se una norma sovranazionale fosse in contrasto con questi principi costituzionali e fondamentali, non potrebbe essere applicata, in quanto risulterebbe contraria alla tutela dei diritti inalienabili garantiti a ogni individuo. L’articolo 10 La nostra Costituzione italiana include principi che permettono l’integrazione automatica di norme internazionali e sovranazionali nell'ordinamento giuridico nazionale, specialmente grazie all’articolo 10. Questo articolo stabilisce le modalità con cui il diritto internazionale entra a far parte dell’ordinamento italiano e regola anche la condizione giuridica degli stranieri. Articolo 10: - comma 1: Il primo comma dell'articolo 10 prevede l’adattamento automatico dell’ordinamento nazionale alle norme consuetudinarie internazionali, ossia alle norme del diritto internazionale accettate generalmente dagli Stati, senza bisogno di un intervento specifico del legislatore italiano. Tuttavia, questo adattamento automatico incontra dei limiti: le norme internazionali devono sempre rispettare i principi fondamentali della Costituzione italiana, specialmente per quanto riguarda la tutela dell’autonomia personale e dei diritti inviolabili. Inoltre, l’articolo 117, comma 1 della Costituzione, stabilisce che anche le leggi regionali e nazionali devono conformarsi ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. - comma 2: Il secondo comma riguarda i diritti degli stranieri in Italia. Esso stabilisce che lo status giuridico dello straniero deve essere regolato da leggi ordinarie, in conformità con i trattati internazionali sottoscritti dall’Italia. La Costituzione specifica che, anche se esistono differenze tra cittadini e stranieri per quanto riguarda la libertà di circolazione (come previsto dall’articolo 16), gli stranieri non possono essere privati dei diritti inviolabili che spettano a ogni persona, indipendentemente dalla nazionalità. Questo include il diritto a essere trattati dignitosamente e a godere di protezione e assistenza. Attualmente, il Decreto legislativo n. 286 del 25 luglio 1998 regola la condizione dello straniero. Secondo questo decreto, agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia sono garantiti diritti civili e, in caso di permesso di soggiorno superiore a un anno, gli stessi diritti civili degli italiani. Questa norma rispetta gli accordi internazionali sottoscritti dall’Italia, assicurando che gli stranieri e gli apolidi, ovvero coloro che non hanno cittadinanza, possano godere dei diritti fondamentali. - comma 3: Il terzo comma garantisce il diritto d’asilo a chiunque, trovandosi nel proprio Paese d’origine, sia impossibilitato a esercitare le proprie libertà democratiche. Questo principio si collega alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani(articolo 14) delle Nazioni Unite, secondo cui ogni persona ha il diritto di chiedere asilo in altri Paesi in caso di persecuzione. In Italia, chi richiede protezione internazionale può ottenere: Lo status di rifugiato: riconosciuto agli stranieri o apolidi che, temendo persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale o opinioni politiche, non vogliono o non possono tornare nel proprio Paese. La protezione sussidiaria: riservata a chi, pur non soddisfacendo i requisiti per lo status di rifugiato, corre rischi gravi se dovesse tornare nel proprio Paese (come tortura, pena di morte o minaccia grave alla propria vita). L’estradizione Un altro aspetto centrale del diritto internazionale riguarda la disciplina dell’estradizione, regolata in Italia dall’articolo 26 della Costituzione. L'estradizione è il processo attraverso il quale uno Stato consegna un individuo, che si trova sul proprio territorio, a un altro Stato che lo richiede per sottoporlo a processo o per fargli scontare una condanna. Questo istituto si basa sulla cooperazione internazionale e mira a garantire che i responsabili di crimini non trovino rifugio all'estero, eludendo la giustizia. Secondo il comma 1 dell’articolo 26, l’estradizione di un cittadino italiano può essere concessa solo quando sia espressamente prevista da accordi internazionali. Questo significa che lo Stato può estradare un cittadino solo in presenza di trattati specifici con lo Stato richiedente, a garanzia di un rispetto reciproco delle procedure legali tra i Paesi. Il comma 2 dell’articolo 26 stabilisce che, in nessun caso, l’estradizione è ammessa per reati politici, sia per i cittadini italiani che per gli stranieri. Questa norma protegge chi potrebbe essere perseguitato ingiustamente per ragioni legate a opinioni politiche, movimenti di resistenza o ideali contrari a quelli del governo richiedente. Il principio risponde alla necessità di proteggere le libertà democratiche e di evitare l’estradizione verso Paesi che potrebbero usare il sistema giudiziario per reprimere il dissenso politico. Un’eccezione significativa è stata introdotta dalla legge n. 1 del 1967, che ha stabilito che il divieto di estradizione per reati politici non si applica ai delitti di genocidio. Questo riconosce la gravità del genocidio come crimine contro l’umanità, considerato tale da prevalere sulle ragioni politiche. Nell’ambito della cooperazione giudiziaria europea, il processo di estradizione tra Stati membri dell'Unione Europea è stato semplificato grazie alla legge n. 69 del 22 aprile 2005, che ha introdotto il mandato di arresto europeo. Questo strumento facilita e accelera la consegna di individui tra i Paesi dell'UE, in un dialogo diretto tra le autorità giudiziarie, eliminando la necessità di approvazione ministeriale. Il mandato di arresto europeo si applica a crimini gravi e mira a rafforzare la sicurezza comune, favorendo la lotta alla criminalità a livello transnazionale e tutelando la sicurezza dei cittadini europei. Le Organizzazioni internazionali L'articolo 11 della Costituzione italiana stabilisce un principio fondamentale: l'Italia ripudia la guerra, sia come mezzo di offesa contro la libertà degli altri popoli, sia come strumento per risolvere le controversie internazionali. L'Italia, tuttavia, riconosce la necessità di cooperare con gli altri Stati e, in alcuni casi, di cedere parte della propria sovranità per garantire la pace e l'ordine internazionale. Questo principio ha guidato le scelte di politica estera e le adesioni italiane a organizzazioni internazionali e trattati che mirano a mantenere la pace e a proteggere i diritti umani. Nel corso del Novecento, l'Italia ha partecipato a numerosi trattati internazionali e a diverse organizzazioni sovranazionali che riflettono il suo impegno per la pace. Alcuni dei principali esempi di tale cooperazione internazionale sono: 1. Le Nazioni Unite (ONU): L’Italia è stata tra i fondatori delle Nazioni Unite, sottoscrivendo la Carta delle Nazioni Unite il 26 giugno 1945 a San Francisco. L'Italia ha ratificato la carta il 17 agosto 1957 con la Legge 848. Questo impegno ha consolidato l'Italia come membro della comunità internazionale, impegnandosi a rispettare i principi di cooperazione, rispetto della pace e della sicurezza mondiale. 2. La NATO (Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord): Il 4 aprile 1949, l'Italia è stata uno dei Paesi fondatori della NATO, un'alleanza militare con l'obiettivo di garantire la difesa collettiva tra gli Stati membri. La partecipazione dell'Italia alla NATO ha rappresentato un passo fondamentale per la sua sicurezza, soprattutto durante il periodo della Guerra Fredda. Nel 1999, l'Italia ha partecipato alla missione in Kosovo, per difendere le popolazioni perseguitate durante la guerra etnica. Tuttavia, questa missione ha suscitato dibattiti, in quanto sembrava contraddire l'impegno della Costituzione italiana di ripudiare la guerra. L'11 settembre 2001, gli attentati terroristici contro gli Stati Uniti hanno modificato le dinamiche internazionali. In risposta, la NATO ha invocato l'articolo 5 del suo statuto, secondo il quale un attacco contro uno Stato membro è considerato un attacco contro tutti i membri. Questo ha giustificato azioni militari collettive, compresa la partecipazione dell'Italia in missioni di difesa collettiva, facendo riferimento anche all'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che legittima l'uso della legittima difesa. 3. Il Consiglio d’Europa: Il 5 maggio 1949 è stato fondato il Consiglio d'Europa, con l'obiettivo di promuovere una maggiore unione tra gli Stati europei. L'Italia è uno dei membri fondatori del Consiglio d'Europa, che conta oggi 47 Stati membri, molti dei quali non fanno parte dell'Unione Europea. All'interno del Consiglio d'Europa, l'Italia è coinvolta in attività che riguardano la protezione dei diritti umani e la promozione della democrazia. La Commissione di Venezia, una delle principali istituzioni del Consiglio, ha sede a Venezia ed è dedicata alla cooperazione giuridica tra gli Stati membri, cercando di trovare soluzioni comuni su questioni costituzionali e giuridiche. L'Italia ha aderito alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU), firmata nel 1950, che regola la protezione dei diritti fondamentali a livello europeo. L'Italia ha ratificato la convenzione nel 1955, impegnandosi a rispettare e applicare i diritti umani garantiti dalla CEDU, oltre a sottoporsi alla giurisdizione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. L’Unione Europea Il progetto di integrazione europea ha avuto un'evoluzione significativa nel corso del XX e XXI secolo, partendo da iniziative inizialmente economiche per arrivare a una vera e propria unione politica, economica e sociale. Questo processo ha visto l'espansione dell'Unione Europea, passando dai 6 Stati fondatori a un totale di 28 Stati membri, per poi ridursi a 27 dopo la Brexit del 2020. L'integrazione europea ha avuto le sue radici nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, quando gli Stati europei cercarono di evitare conflitti futuri e favorire la cooperazione economica per garantire la pace e la prosperità. Un primo passo importante fu la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) nel 1951, con il Trattato di Parigi. La CECA fu concepita per gestire in modo comune le risorse strategiche di carbone e acciaio, materiali essenziali per l'industria bellica e per la ricostruzione post-bellica. I 6 Paesi fondatori della CECA furono: Italia, Paesi Bassi, Germania, Francia, Lussemburgo e Belgio. Questi Stati, spesso definiti "Europa dei Sei", intendevano evitare conflitti armati tra di loro, creando una cooperazione economica che li legasse reciprocamente. La gestione congiunta delle risorse strategiche aveva come obiettivo principale la prevenzione di una nuova guerra in Europa, garantendo anche la stabilità economica in un contesto di ricostruzione. Accanto alla CECA, vennero creati due altri trattati fondamentali che avrebbero costituito la base dell'Europa unita: 1. La Comunità Economica Europea (CEE): Fondato dal Trattato di Roma nel 1957, questo trattato istituì la CEE e mirava a creare un mercato comune tra i paesi membri, eliminando le barriere doganali e creando un'unione doganale. La CEE rappresentava il passo decisivo verso una integrazione economica più profonda e una cooperazione politica tra gli Stati europei. 2. EURATOM: Sempre nel 1957, fu istituito il Trattato EURATOM, con l'obiettivo di promuovere la cooperazione nel settore dell'energia nucleare tra i paesi membri, garantendo la ricerca e la gestione sicura e pacifica delle risorse nucleari. La creazione di questa comunità dimostrò l’intenzione dell’Europa di cooperare non solo in ambito economico, ma anche nell'ambito dell'energia, ritenuto essenziale per il progresso industriale e la sicurezza. Il Trattato di Maastricht del 1992 segnò una svolta storica nell'integrazione europea, poiché diede vita all'Unione Europea (UE), estendendo notevolmente il suo ambito di cooperazione. Non si trattava più solo di una cooperazione economica, ma di un'unione politica, economica e sociale con obiettivi ben più ambiziosi, tra cui: 1. Mercato Unico: L'introduzione di un mercato unico europeo, che facilitava la libera circolazione di persone, merci, capitali e servizi tra i Paesi membri. 2. Moneta Unica (Euro): L'adozione di una moneta unica, l'Euro, che avrebbe comportato la creazione di una zona economica e monetaria integrata. Questo obiettivo venne realizzato nel 1999, con l'introduzione dell'Euro come valuta elettronica e, successivamente, come valuta fisica nel 2002. 3. Politica Estera e di Sicurezza Comune: L'UE divenne anche un attore di politica estera e sicurezza, avviando una politica estera comune, con l'intento di promuovere la pace, la sicurezza e la cooperazione internazionale. 4. Diritti Umani e Valori Fondamentali: Il trattato di Maastricht enfatizzava anche la protezione dei diritti umani, della democrazia e dello stato di diritto all'interno degli Stati membri. 5. Cittadinanza Europea: Il trattato introdusse anche il concetto di cittadinanza europea, consentendo ai cittadini degli Stati membri di godere di diritti come la libertà di circolazione e di soggiorno, e la protezione diplomatica in paesi terzi. Nel corso degli anni, l'Unione Europea ha visto un continuo allargamento. Dopo Maastricht, altri Paesi si sono uniti all'UE, aumentando il numero dei membri da 12 a 28 (prima della Brexit nel 2016). Questo processo ha portato l'Unione Europea ad abbracciare una diversità culturale, sociale ed economica sempre più ampia, rappresentando un modello di cooperazione internazionale per la promozione della pace e dello sviluppo. L'uscita del Regno Unito dall'UE nel 2020, con il cosiddetto Brexit, ha segnato un momento di riflessione per l'Europa, portando ad un'ulteriore discussione sul futuro dell'Unione e sulla sua capacità di affrontare sfide globali come la migrazione, il cambiamento climatico e la sicurezza internazionale. lIl Trattato di Lisbona, il Trattato di Roma e il Trattato di Nizza sono tre tappe fondamentali nella storia dell'Unione Europea, ognuno dei quali ha contribuito a modificare e a rafforzare le sue istituzioni, competenze e obiettivi. Il Trattato di Roma (1957) Il Trattato di Roma, firmato il 25 marzo 1957 e in vigore dal 1° gennaio 1958, è stato uno dei pilastri della costruzione europea. Ha istituito la Comunità Economica Europea (CEE), un'organizzazione che mirava a creare un mercato comune tra sei Paesi fondatori (Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo). L'obiettivo era quello di rimuovere le barriere doganali e promuovere la libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali, ponendo le basi per un'integrazione economica che avrebbe influenzato profondamente lo sviluppo della futura Unione Europea. Allo stesso tempo, il trattato ha istituito anche la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio) e EURATOM (Comunità Europea dell'Energia Atomica), quest'ultimo volto a promuovere la cooperazione sul nucleare pacifico. Il Trattato di Roma ha segnato l'inizio di un processo di unione tra i Paesi membri, che avrebbero progressivamente cercato di costruire una cooperazione più forte, anche in altri ambiti, tra cui la politica estera e la difesa. Il Trattato di Nizza (2001) Il Trattato di Nizza, firmato il 26 febbraio 2001 e in vigore dal 1° febbraio 2003, ha avuto come principale obiettivo la riforma delle istituzioni europee in previsione del grande allargamento del 2004, che ha visto l'ingresso di dieci nuovi Stati membri. Il trattato ha introdotto importanti modifiche nelle modalità di decisione dell'Unione, in particolare attraverso la riforma del voto ponderato nel Consiglio dell'Unione Europea, cercando di bilanciare meglio i diritti dei Paesi membri più piccoli e più grandi. Inoltre, il Trattato di Nizza ha introdotto la maggioranza qualificata in alcuni settori, al fine di rendere il processo decisionale più efficiente. Tuttavia, pur essendo un passo avanti, il trattato è stato visto da molti come insufficiente per affrontare le sfide che l'UE avrebbe dovuto affrontare con l'allargamento e le nuove problematiche politiche e sociali che ne sarebbero derivate. Il Trattato di Lisbona (2007) Il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 e in vigore dal 1° dicembre 2009, ha rappresentato una riforma molto più profonda e strutturale dell'Unione Europea. Questo trattato ha cercato di rendere l'UE più democratica, efficiente e coesa, introducendo una serie di modifiche significative, come la creazione della presidenza stabile del Consiglio Europeo e il rafforzamento del Parlamento Europeo. In particolare, il Trattato di Lisbona ha ampliato la procedura di codecisione, dando al Parlamento Europeo un ruolo paritario con il Consiglio nell'ambito legislativo. Inoltre, con il Trattato di Lisbona, l'Unione Europea ha acquisito la personalità giuridica, diventando in grado di firmare trattati internazionali e partecipare come entità globale agli accordi internazionali. È stata anche introdotta una maggiore enfasi sulla politica estera comune, con la figura dell'Alto Rappresentante per gli Affari Esteri, che ha il compito di rendere più coesa la politica estera dell’UE. Un altro punto cruciale del trattato è l'adozione della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, che ha acquisito valore giuridico vincolante, garantendo la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali dei cittadini europei. L’incompiutezza della costituzione europea La Costituzione Europea è rimasta incompiuta a causa di diversi ostacoli che hanno impedito la creazione di un documento unico per l'Unione Europea. Un primo tentativo significativo, il Trattato Costituzionale del 2004, mirava a semplificare e unire i trattati esistenti, introducendo riforme come un Presidente stabile del Consiglio Europeo e una Carta dei Diritti Fondamentali vincolante. Tuttavia, il trattato fu bocciato in referendum in Francia e nei Paesi Bassi, soprattutto per timori legati alla perdita di sovranità nazionale e al rischio di un'Europa troppo centralizzata. La difficoltà principale è legata alla complessità dell'identità politica dell'Unione. Composta da Stati membri con storie, culture e tradizioni politiche diverse, l'Unione ha avuto difficoltà a definire un'identità comune, con divergenze su temi cruciali come la politica estera e la difesa comune. Questo ha rallentato il processo di creazione di una Costituzione che potesse rappresentare tutti gli Stati membri. Nel 2007, il Trattato di Lisbona ha sostituito il fallito Trattato Costituzionale, ma più che creare una vera e propria Costituzione, ha rappresentato un compromesso. Ha introdotto alcune riforme importanti, come la Carta dei Diritti Fondamentali e una presidenza stabile del Consiglio Europeo, ma non ha portato alla creazione di un sistema giuridico e istituzionale unitario. Un altro ostacolo significativo è stato il timore di molti Stati membri di perdere la propria sovranità. La creazione di una Costituzione Europea avrebbe comportato il trasferimento di poteri dalle singole nazioni a istituzioni sovranazionali, una prospettiva che ha incontrato forte resistenza, contribuendo al fallimento del progetto costituzionale. Inoltre, la complessità istituzionale dell'UE, con la presenza di numerose istituzioni interconnesse, ha reso difficile formulare una Costituzione chiara e comprensibile. Le decisioni politiche e giuridiche complesse spesso risultano difficili da comprendere per i cittadini, ostacolando il processo di unificazione. Infine, esiste un divario tra l'idea di un'"Europa dei popoli" e quella di un'"Europa degli Stati". La democrazia diretta nell'Unione Europea è limitata, poiché le istituzioni principali, come la Commissione Europea, non sono direttamente elette dai cittadini, ma dai rappresentanti degli Stati membri. Questo ha creato la percezione che l'Unione rispondesse più agli Stati nazionali che ai cittadini europei, rendendo difficile creare una Costituzione davvero democratica e rappresentativa. Lo Stato - (termine proveniente dall’incipit del Principe di Machiavelli “ Lo stato è o principato o repubblica”) Lo Stato, inteso come "Stato-persona", è un ente dotato di capacità giuridica, in grado di essere titolare di diritti e obblighi e di entrare in relazione con le situazioni giuridiche dei cittadini. Questo concetto è stabilito dall'art. 114 della Costituzione, che considera lo Stato parte integrante dell'ordinamento repubblicano accanto a Comuni, Province e Regioni. Invece, lo Stato- ordinamento (o Stato-istituzione) si basa su tre elementi fondamentali: il popolo, il territorio e il potere sovrano. Questi elementi sono alla base della definizione di Stato secondo l'art. 7 della Costituzione, che sancisce l'indipendenza e la sovranità dello Stato e della Chiesa Cattolica, ciascuno nel proprio ambito. Popolo, Popolazione e Cittadinanza Popolazione: È il termine che indica tutte le persone che risiedono stabilmente in un determinato territorio e che sono soggette alle leggi dello Stato, anche se non sono cittadine. Popolo: In senso giuridico, si intende l'insieme dei cittadini, ossia coloro che appartengono pienamente alla comunità politica dello Stato. Cittadinanza: La cittadinanza è la condizione di appartenenza a una nazione, che comporta diritti e doveri. Essa ha le sue origini nelle conquiste delle rivoluzioni liberali di fine '700, che hanno sostituito la condizione di "suddito" con quella di "cittadino". In Italia, la cittadinanza è regolata dalla Costituzione e sancisce l'uguaglianza tra i membri della collettività, come previsto dall'art. 3. Inoltre, l'art. 16 della Costituzione garantisce il diritto di ogni cittadino di uscire e rientrare liberamente nel territorio della Repubblica. Il Principio di Bilateralità nei Rapporti tra Stato e Chiesa Il principio di bilateralità nei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica si fonda su un modello di interazione che garantisce l’indipendenza e la sovranità di entrambi gli enti, mantenendo un equilibrio tra autonomia statale e libertà religiosa. Questo principio è formalizzato nell’articolo 7 della Costituzione italiana e attuato dai Patti Lateranensi del 1929 e dalle modifiche intervenute nel corso del tempo, come la revisione del Concordato nel 1984. In linea con tale principio, lo Stato e la Chiesa sono considerati soggetti indipendenti nei rispettivi ambiti, ma la loro interazione avviene attraverso un sistema di intese bilaterali, evitando decisioni unilaterali e favorendo il dialogo. Il principio di bilateralità non si applica solo alla Chiesa cattolica, ma si estende anche alle altre confessioni religiose, come stabilito dall’art. 8 della Costituzione, che permette a queste ultime di stipulare intese specifiche con lo Stato. Questo sistema bilaterale è volto a proteggere la laicità dello Stato, intesa non come indifferenza religiosa, ma come principio di imparzialità che favorisce la convivenza pacifica di diverse sensibilità religiose. La Revisione del Concordato e le Intese con le Confessioni Religiose Il sistema bilaterale tra Stato e Chiesa ha trovato una delle sue manifestazioni più significative nell’Accordo di Villa Madama del 1984, che ha riformato i Patti Lateranensi, allineandoli ai principi della Costituzione. La modifica più rilevante fu l’eliminazione del principio di religione di Stato e l’introduzione di un meccanismo finanziario, l’otto per mille, che permette ai cittadini di destinare una parte delle imposte alla Chiesa cattolica o ad altre confessioni religiose che abbiano stipulato intese con lo Stato. Questa modifica ha rappresentato un passo importante verso un sistema pluralista, che non discrimina in favore di una religione a discapito di altre. Anche l’art. 8 della Costituzione, che riconosce la libertà religiosa e il diritto delle confessioni di organizzarsi autonomamente, ha un’importanza fondamentale. Esso estende il principio di bilateralità anche alle confessioni religiose acattoliche. A tal riguardo, un esempio emblematico è l’intesa firmata nel 2012 con l’Unione Buddhista Italiana, che regola temi come l’assistenza religiosa nelle strutture pubbliche, la formazione dei ministri di culto e l’accesso alle agevolazioni fiscali (incluso l’otto per mille). Analoghi accordi sono stati siglati con altre religioni, come l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, mostrando come il sistema di bilateralità garantisca pari dignità a tutte le confessioni religiose, pur senza riconoscere alcuna religione ufficiale di Stato. Il Ruolo della Corte Costituzionale e i Limiti del Concordato Nonostante il sistema di bilateralità, le intese tra lo Stato e le confessioni religiose non sono illimitate e devono sempre rispettare i principi supremi dell'ordinamento costituzionale. In particolare, la Corte Costituzionale ha più volte ribadito che le norme concordatarie e le intese non possono violare i diritti fondamentali, come il diritto alla libertà religiosa, l’eguaglianza e la dignità umana. In diverse sentenze, la Corte ha sottolineato che le norme derivanti dai Patti Lateranensi o da altre intese non devono essere in contrasto con le disposizioni della Costituzione. Ad esempio, nella sentenza n. 203/1989, la Corte ha esaminato la compatibilità dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche con il principio di libertà religiosa. Essa ha stabilito che tale insegnamento non deve ledere la libertà di scelta degli studenti e deve essere svolto nel rispetto dei principi costituzionali. Analogamente, nella sentenza n. 52/2016, la Corte ha ribadito che la libertà religiosa non giustifica comportamenti che violano i diritti fondamentali, come la discriminazione o la negazione della dignità umana.Nel caso della pandemia, la Corte ha precisato che le limitazioni alla libertà religiosa imposte dalla Legge n. 35/2020erano giustificate dalla necessità di proteggere la salute pubblica e dovevano essere proporzionate e temporanee. La Corte ha riconosciuto che, pur in presenza di una limitazione temporanea della libertà di culto, le autorità religiose e statali dovevano continuare a cooperare per garantire che la ripresa delle celebrazioni avvenisse in condizioni di sicurezza, rispettando le norme sanitarie senza compromettere la libertà religiosa in modo eccessivo. La cittadinanza La cittadinanza rappresenta un aspetto fondamentale della persona umana, riconosciuto dalla Costituzione come un segno distintivo dell'individuo, che comporta diritti e doveri. I cittadini italiani sono tenuti a rispettare specifici doveri costituzionali, come difendere la Patria (art. 52), essere fedeli alla Repubblica e rispettare la Costituzione e le leggi, oltre a esercitare il diritto di voto (art. 48), considerato un "dovere civico”. Un tema dibattuto è l’estensione del diritto di voto agli stranieri non appartenenti all'UE, ma residenti regolarmente in Italia. Sebbene la Costituzione stabilisca che il diritto di voto spetti solo ai cittadini italiani (art. 48), la Corte costituzionale ha aperto a una visione più inclusiva, affermando che una stabile residenza crei una "comunità di diritti e doveri" che va oltre la cittadinanza. Per i cittadini degli Stati membri dell'Unione Europea, la "Legge comunitaria del 1994" consente loro di votare e candidarsi nelle elezioni locali, ma con alcune limitazioni, come l'esclusione dalla carica di vice-sindaco. La Costituzione italiana tutela i diritti fondamentali dell'individuo, tra cui il diritto di uguaglianza (art. 3), che si estende anche agli stranieri in relazione ai diritti inviolabili dell'uomo, come l’assistenza sanitaria. Tuttavia, esiste una differenza fondamentale tra la condizione di cittadino e quella di straniero, quest'ultimo avendo un rapporto temporaneo con lo Stato, mentre il cittadino ha un legame originario e permanente. Per quanto riguarda l’acquisto e la perdita della cittadinanza, la Costituzione non si occupa direttamente delle modalità, ma stabilisce principi fondamentali come il divieto di privare un cittadino della cittadinanza per motivi politici (art. 22). La legge italiana n. 91 del 1992 regola l'acquisto della cittadinanza per nascita, matrimonio, estensione o naturalizzazione. La legge prevede che lo straniero possa acquisire la cittadinanza per matrimonio, residenza legale prolungata o altre specifiche circostanze, come l'assunzione di un impiego pubblico o il servizio militare. Inoltre, prevede la possibilità di perdere la cittadinanza in caso di assunzione di un impiego in un Paese in guerra con l'Italia o di rinunciare alla cittadinanza in caso di acquisizione di una cittadinanza straniera. Gli apolidi, ovvero le persone prive di cittadinanza, sono trattati secondo il principio di piena uguaglianza rispetto ai cittadini italiani, garantendo loro diritti fondamentali. La cittadinanza europea, introdotta dal Trattato di Maastricht (1992), è complementare a quella nazionale e non la sostituisce. I cittadini dell'UE godono di diritti specifici, come la libertà di circolazione, il diritto di voto e di eleggibilità nelle elezioni del Parlamento europeo e nelle elezioni comunali dello Stato membro di residenza, la tutela diplomatica e consolare, e il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo o ricorrere al Mediatore europeo. Questo status garantisce ai cittadini dell'UE pari trattamento giuridico con quello dei cittadini dello Stato ospitante. Territorio Il territorio di uno Stato è lo spazio in cui il popolo esercita la propria sovranità. Esso include la terraferma, le acque interne (fiumi e laghi), il mare territoriale e il suolo, nonché lo spazio aereo sovrastante. Il mare territoriale, definito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, si estende fino a 12 miglia nautiche dalla linea di base e, pur essendo sotto la giurisdizione dello Stato, consente il passaggio inosservato di imbarcazioni. L'unità e l'indivisibilità del territorio nazionale sono principi fondamentali sanciti dalla Costituzione (art. 5), che vietano la secessione, stabiliscono l'autorizzazione parlamentare per trattati internazionali che comportano variazioni territoriali e prevedono il coinvolgimento delle popolazioni locali tramite referendum per le modifiche che riguardano enti autonomi. Inoltre, le Regioni non possono adottare provvedimenti che limitano la circolazione delle persone e delle merci. L'integrazione europea ha trasformato i territori degli Stati membri in uno spazio unico, come sancito dal Trattato di Schengen (1985), che ha abolito le frontiere interne tra gli Stati membri, sostituendole con una frontiera esterna comune. Sovranità La sovranità è il potere supremo di uno Stato all'interno del proprio territorio, che si esercita in modo indipendente rispetto ad altri Stati. Si distingue in due aspetti: Sovranità esterna: riguarda la capacità dello Stato di stabilire un ordinamento giuridico indipendente rispetto agli altri Stati. Sovranità interna: si riferisce alla supremazia dello Stato all'interno del proprio territorio, espressa attraverso il potere di legiferare, amministrare e far rispettare le leggi. In Italia, la sovranità appartiene al popolo, come sancito dall'art. 1 della Costituzione, e si esercita tramite la rappresentanza politica e la partecipazione democratica, inclusi il suffragio universale e il referendum. La sovranità popolare è quindi realizzata attraverso i meccanismi della democrazia rappresentativa e diretta. Tuttavia, la sovranità degli Stati moderni è limitata dalla partecipazione a ordinamenti sovranazionali, come l'Unione Europea, le cui norme influenzano sempre più gli ordinamenti nazionali. Inoltre, il processo di globalizzazione ha comportato una perdita di controllo degli Stati su fenomeni transnazionali, che sfuggono alla loro giurisdizione. CAPITOLO III Il concetto di "forme di Stato" si riferisce al rapporto verticale tra chi detiene il potere supremo (governante) e la società civile (governati). Questo rapporto si configura in vari modi, dando origine a differenti tipi di organizzazione statale nel corso della storia. La distinzione tra Monarchia e Repubblica, sebbene superata come unica classificazione delle forme di Stato, continua a essere rilevante per identificare il metodo di designazione del Capo dello Stato, che è elettivo nella Repubblica e basato su regole di successione dinastica nella Monarchia. a) Il sistema feudale Nel sistema feudale, non esisteva una distinzione chiara tra diritto privato e pubblico. Le caratteristiche principali erano: Proprietà del territorio: il territorio era concepito come proprietà personale del sovrano e dei feudatari. Assenza di potere unitario: non vi era un potere centralizzato, ma una rete di rapporti di natura privatistica, strutturati su base piramidale tramite il “contratto feudale.” Tale contratto prevedeva la concessione di terre e la protezione da parte del signore feudale in cambio di fedeltà e servizi del vassallo. Pluralismo sociale e diritto personale: la società era organizzata in ceti (clero, nobiltà, terzo stato), e le relazioni giuridiche erano regolate secondo le norme del gruppo etnico di appartenenza. Questo sistema di norme personali rifletteva l’assenza di un diritto uniforme, che si affermerà solo con l’avvento dello Stato moderno. b) Lo Stato assoluto Con l’emergere dello Stato moderno tra il XVI e il XVII secolo, le grandi monarchie europee svilupparono lo Stato assoluto, fondato sul principio di sovranità e sulla centralizzazione del potere: Concentrazione del potere: la sovranità era accentrata nelle mani del Re, che deteneva tutto il potere legislativo, amministrativo e giurisdizionale, senza condivisione con il popolo. I funzionari, nominati e revocati dal re, esercitavano l’amministrazione in nome della Corona. Legittimazione divina e patto sociale: sebbene il potere del sovrano fosse teoricamente legittimato dalla volontà divina, si giustificava anche come un "patto sociale," per cui i sudditi accettavano il sovrano in cambio di sicurezza e pace. Il sovrano non era dunque visto come un despota: doveva rispettare leggi divine, naturali e le norme di successione, che garantivano stabilità alla Corona. L’assolutismo conobbe una forma evoluta nel "dispotismo illuminato" del XVIII secolo, come in Prussia e Austria, dove l’obiettivo del sovrano era il benessere collettivo. Questa fase favorì la distinzione tra il patrimonio della Corona e quello privato del sovrano, la creazione di un’amministrazione burocratica professionale e la costituzione di un esercito permanente. c) Lo Stato liberale Le rivoluzioni inglese, francese e americana, che ebbero luogo tra il XVII e il XVIII secolo, segnarono il passaggio dallo Stato assoluto allo Stato liberale di diritto. Il principale tratto distintivo dello Stato liberale è la separazione del potere sovrano tra più organi costituzionali, il che significa che anche il Sovrano è soggetto alla legge. Esempi significativi di questo cambiamento si trovano nelle seguenti dichiarazioni dei Parlamenti: In Inghilterra: documenti fondamentali sancirono il primato della legge: ◦ La Petition of Rights stabilì il principio che nessuno può essere punito con pene non previste dalla legge e che il potere è subordinato al diritto. ◦ Il Bill of Rights limitò i poteri del re e tutelò i diritti del popolo. ◦ L’Act of Settlement stabilì regole di successione al trono e il principio dell’inamovibilità dei giudici. In Francia: l'abolizione dell’Ancien Régime e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino posero le basi per il costituzionalismo moderno e sancirono il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Negli Stati Uniti: la Dichiarazione d’Indipendenza delle tredici colonie dall’Inghilterra affermò che il governo deve basarsi sul consenso dei governati e rispettare i diritti inalienabili dell’uomo. La dottrina liberale del XIX secolo sviluppò ulteriormente la nozione di Stato di diritto, un modello che si impegna a garantire i diritti individuali e il primato della legge, prodotta dal Parlamento. L’equivalente anglosassone, il "Rule of Law", rappresenta il principio per cui ogni soggetto, pubblico o privato, è soggetto alla legge e nessuno è al di sopra di essa. In Inghilterra, la Rule of Law ha una connotazione di carattere formale e procedurale, attuata dai giudici del common law, i cui precedenti giuridici vincolano i giudici inferiori, risultando in una "costituzione non scritta." Negli Stati Uniti, invece, si è optato per una Costituzione scritta. Lo Stato di diritto si caratterizza anche per un’amministrazione burocratica che regola i rapporti tra i poteri pubblici e i cittadini, secondo il principio di legalità. Questo principio implica che la legge sia generale, astratta e non retroattiva, e limita l’intervento dello Stato nei confronti dei cittadini. All’interno dello Stato liberale, si afferma anche il principio della separazione dei poteri: Potere legislativo: definisce le norme generali a cui i privati devono attenersi. Potere esecutivo: emette provvedimenti che incidono direttamente sui cittadini. Potere giudiziario: applica la legge e garantisce la sua osservanza attraverso le sentenze. Lo Stato liberale si fondava sul principio di rappresentanza politica, ma questa rappresentanza era riservata a una ristretta cerchia di cittadini, selezionati per censo e cultura, che potevano esercitare il diritto di voto. Lo Stato liberale aderì al liberalismo economico, che prevedeva il minimo intervento dello Stato in economia, limitandosi a promuovere il libero scambio senza intervenire nelle dinamiche economiche e sociali interne. I principi dello Stato liberale furono profondamente erosi con l’avvento dei regimi autoritari, che annullarono le garanzie dello Stato di diritto e la separazione dei poteri, instaurando governi con poteri concentrati e senza tutela dei diritti fondamentali. d) Lo Stato democratico-sociale L’introduzione del suffragio universale (in Italia, pienamente attuato nel 1946 con l’estensione del diritto di voto alle donne) e lo sviluppo dei partiti di massa segnano il passaggio dal tradizionale Stato liberale del XIX secolo allo Stato democratico-sociale. Questa nuova forma di Stato conserva i principi di garanzia del diritto tipici dello Stato liberale, ma si distingue per l’attenzione rivolta al benessere e ai bisogni della società civile, mediante la protezione sociale e, in alcuni casi, con interventi diretti nell’economia e nella produzione, tipici di uno Stato interventista o Stato imprenditore. Con l’influenza dell’Unione Europea, lo Stato democratico-sociale si è evoluto verso una forma che riduce il suo ruolo nell’economia, a favore di un mercato più aperto e concorrenziale. Nella forma democratica dello Stato sociale, anche la separazione dei poteri ha subito delle trasformazioni significative: Il Parlamento ha visto ridimensionata la sua centralità e talvolta adotta leggi specifiche e dettagliate (“leggi provvedimento”), perdendo la tradizionale caratteristica della generalità e dell’astrattezza delle leggi. Il potere esecutivo ha acquisito maggiore autorità, con un uso più frequente dei decreti d’urgenza, diventando il vero “motore” del sistema e orientando l’indirizzo politico statale. Le autorità amministrative ora cumulano poteri normativi, di regolazione e giudiziali, svolgendo funzioni integrate in vari ambiti. Il giudice non si limita più a essere la “bocca della legge”, ma assume un ruolo attivo nell’interpretazione della legge, contribuendo alla protezione dei nuovi diritti. Questa evoluzione della separazione dei poteri implica una distinzione non più rigida tra legislativo ed esecutivo, ma una distribuzione di compiti tra organi politici di indirizzo e amministrazione e organi di controllo e garanzia. Nello Stato democratico-pluralista, la rappresentanza politica è più articolata rispetto allo Stato liberale, tenendo conto anche dei gruppi etnici e culturali. Un esempio è la rappresentanza delle minoranze in Alto Adige, che hanno diritto a rappresentanti elettivi sulla base della propria identità linguistica e culturale. Inoltre, la legislazione regionale ha il compito di rimuovere gli ostacoli alla piena parità tra uomini e donne, promuovendo pari accesso alle cariche elettive. Diritti sociali nella Costituzione italiana La Costituzione italiana sancisce una serie di diritti sociali e promuove i principi di solidarietà e uguaglianza sostanziale. In particolare, l’art. 2 della Costituzione riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo, richiedendo ai cittadini il rispetto dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale, mentre l’art. 41 tutela la libertà di iniziativa economica privata, ma nel rispetto degli scopi sociali. Tra i diritti sociali previsti dalla Costituzione, troviamo: Diritto al lavoro (art. 4): Il lavoro è considerato fondamentale, non solo per ottenere un reddito, ma anche per consentire una partecipazione attiva alla comunità. Questo diritto implica: ◦ Il diritto a una retribuzione equa e proporzionata. ◦ Il diritto al riposo settimanale e alle ferie retribuite. ◦ La parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici. ◦ Sebbene l’art. 41 non garantisca un diritto soggettivo all’occupazione, esso obbliga lo Stato a creare le condizioni affinché tutti possano trovare lavoro. Diritto allo studio: Garantito tramite borse di studio e sostegni alle famiglie. Diritto al mantenimento e all’assistenza sociale: Per coloro che sono inabili al lavoro e privi di mezzi. Diritto all’educazione e all’avviamento professionale per gli inabili. Diritto alla casa. Diritto alla salute (art. 32): La Costituzione tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse collettivo, garantendo cure gratuite per chi ne ha bisogno. Il diritto alla salute include anche il diritto all’autodeterminazione tramite il consenso informato alle cure mediche. Eventuali trattamenti sanitari obbligatori, come nel caso di malattie infettive, devono rispettare la dignità della persona e sono soggetti all’approvazione del sindaco e alla convalida del giudice per garantire il rispetto della libertà personale (art. 13). Tipi di Stato: struttura accentrata, decentrata e federale Stato unitario Uno Stato è unitario quando è caratterizzato da un unico popolo, organizzato su un territorio comune sotto un’unica sovranità. In questo caso, gli enti territoriali in cui lo Stato è suddiviso, come Regioni, Province e Comuni, non possiedono sovranità propria. I poteri di questi enti derivano dall’autorità centrale e non sono originari, rendendo questo tipo di Stato prevalentemente uni-nazionale. L’Italia, ad esempio, si configura come uno Stato unitario. Un Stato unitario può essere: Accentrato: Quando la maggior parte delle funzioni statali è riservata agli organi centrali dello Stato, riducendo al minimo l’autonomia locale. Decentrato: Quando sono assegnate maggiori competenze agli enti locali. Si può distinguere tra: ◦ Decentramento amministrativo gerarchico: Assegna funzioni e attribuzioni agli enti locali sotto il controllo del potere centrale. ◦ Decentramento amministrativo autarchico o per enti: Consente agli enti pubblici, come Regioni, Province e Comuni, di esercitare le proprie funzioni in autonomia. ◦ Decentramento politico: Avviene quando anche la funzione legislativa è devoluta agli enti locali, come nel caso delle Regioni italiane. Questo tipo di decentramento è caratteristico dello Stato regionale, configurazione assunta dall’Italia. Stato federale Uno Stato federale è formato da diversi Stati membri (o federati), ognuno dei quali ha la propria popolazione, territorio e una sovranità limitata all’ambito interno. La sovranità internazionale rimane esclusivamente in capo allo Stato federale, che è l’unico soggetto riconosciuto a livello di diritto internazionale. Stati federali esistenti includono paesi come Germania, Svizzera, Stati Uniti, Messico, Brasile, Argentina, India, Australia e il Belgio (dal 1993). In Italia, molte forze politiche sostengono l’introduzione di una forma di federalismo, che ha portato alla riforma del Titolo V della Costituzione, concedendo maggiori poteri legislativi e amministrativi alle Regioni. Confederazione Non va confusa con lo Stato federale la confederazione o federazione di Stati, che consiste in un’unione di Stati sovrani, uniti per perseguire interessi comuni mediante un trattato. In una confederazione, i singoli Stati mantengono la propria sovranità internazionale e l’organismo comune è rappresentato da un organo collegiale costituito dai delegati degli Stati membri. La Confederazione Elvetica, per esempio, è stata una confederazione fino al 1848, quando si è trasformata in uno Stato federale pur mantenendo il nome di Confederazione. La nozione di forma di governo Con il termine forma di governo si intende il modo in cui il potere è distribuito e le relazioni tra gli organi dello Stato. Gli organi principali, chiamati organi costituzionali (come Parlamento, Governo, Capo dello Stato e Corte costituzionale), sono posti al vertice dell’ordinamento e operano con una reciproca indipendenza. Essi sono titolari di funzioni di indirizzo (Parlamento e Governo) o di garanzia (Capo dello Stato e Corte costituzionale), che determinano la funzionalità e le caratteristiche della forma di governo adottata. Gli organi costituzionali si distinguono dagli organi di mero rilievo costituzionale (come la Corte dei Conti e la Corte di Cassazione), i quali, pur non partecipando direttamente alle funzioni politiche né essendo essenziali alla struttura costituzionale dello Stato, sono comunque riconosciuti dalla Costituzione, che delega alla legge ordinaria la disciplina della loro organizzazione e attività. Le norme costituzionali relative alla forma di governo sono flessibili, consentendo l’applicazione di prassi e convenzioni costituzionali che, pur non esplicitamente previste, sono comunque compatibili con il modello prescelto. Le Costituzioni degli Stati europei definiscono, mediante disposizioni giuridiche e prescrittive, i meccanismi di funzionamento della forma di governo. a) La monarchia costituzionale e la nascita della forma di governo parlamentare Quando si descrive uno Stato, è fondamentale distinguere due concetti centrali: la forma di Stato e la forma di governo. La forma di Stato definisce i rapporti tra il popolo, il territorio e il potere statale, stabilendo la struttura giuridica e istituzionale su cui si fonda l'ordinamento. La forma di governo, invece, si riferisce alle modalità con cui gli organi costituzionali, come il Parlamento, il Governo, il Capo dello Stato, la magistratura e il corpo elettorale, interagiscono tra loro per esercitare il potere e bilanciarsi reciprocamente. La forma di governo del Regno Unito Il Regno Unito adotta una forma di governo parlamentare, che prevede una separazione dei poteri tra il Parlamento e il Governo. Il Parlamento britannico è bicamerale, composto dalla Camera dei Comuni e dalla Camera dei Lords. La Camera dei Comuni, con 650 membri eletti ogni cinque anni, è il cuore del potere legislativo e ha il compito di formulare leggi, approvare il bilancio e controllare il governo. La Camera dei Lords, composta da circa 800 membri nominati, ha una funzione di revisione delle leggi, ma non può sfiduciare il governo né decidere su questioni finanziarie. Il Primo Ministro, capo del governo, è nominato formalmente dal monarca ma scelto dal partito che ottiene la maggioranza alla Camera dei Comuni. La sua nomina non dipende da un voto di fiducia formale, ma dalla sua capacità di sostenere una maggioranza parlamentare. Il Primo Ministro seleziona i ministri e gestisce l’iniziativa legislativa insieme al governo, concentrando in sé i ruoli di capo del partito, capo del governo e leader della maggioranza parlamentare. Questa centralizzazione conferisce al Primo Ministro una forte influenza politica. La monarchia nel Regno Unito è costituzionale, con il monarca che ha un ruolo cerimoniale e privo di potere esecutivo. La Gloriosa Rivoluzione del 1688 ha limitato i poteri del monarca e consolidato il potere parlamentare. Oggi, il monarca conserva diritti cerimoniali, come la nomina del Primo Ministro e la ratifica delle leggi, ma tali prerogative sono esercitate su consiglio del governo, che detiene il controllo effettivo. Inoltre, il monarca è capo della Chiesa Anglicana e rappresenta lo Stato in occasioni ufficiali, senza influire direttamente nelle decisioni politiche. Il Regno Unito non ha una costituzione scritta in senso tradizionale, ma una costituzione non scritta, composta da documenti storici, leggi e convenzioni. Tra i principali documenti costituzionali ci sono la Magna Carta (1215), che limita l’autorità del re e garantisce diritti fondamentali, la Bill of Rights (1689), che sancisce la supremazia del Parlamento, l'Act of Settlement (1701), che regola la successione al trono, il Great Reform Act (1832), che riforma il sistema elettorale, l'Human Rights Act (1998), che integra i diritti della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nel diritto britannico, e la House of Lords Act (1999), che riduce il numero dei pari ereditari nella Camera dei Lords. Il sistema parlamentare britannico ha evoluto la monarchia costituzionale, con il governo che, inizialmente presieduto dal re, divenne politicamente responsabile di fronte alla Camera dei Comuni. Questo passaggio, dal governo di un monarca assoluto a un governo parlamentare, si consolidò nel periodo vittoriano, con il modello Westminster che prevede un legame fiduciario tra Parlamento e Governo, rendendo quest'ultimo sempre politicamente responsabile verso la Camera dei Comuni. Il rafforzamento del ruolo del Primo Ministro ha portato a una crescente centralizzazione del potere, pur mantenendo formalmente il monarca come capo dello Stato. b) I caratteri della forma di governo parlamentare in Italia e in altre esperienze europee La forma di governo parlamentare è caratterizzata dalla relazione fiduciaria tra il Parlamento (potere legislativo) e il Governo (potere esecutivo). Nella Costituzione italiana, questa relazione fiduciaria è al centro del funzionamento politico, con alcuni elementi distintivi anche rispetto ad altri ordinamenti europei. La forma di governo parlamentare in Italia La forma di Stato italiana è una democrazia rappresentativa, in cui i cittadini eleggono i principali organi costituzionali dello Stato e degli enti territoriali. L'Italia è anche uno Stato di diritto, che riconosce ai cittadini diritti civili fondamentali, tutelati da una magistratura indipendente, e richiede che lo Stato rispetti le leggi. Inoltre, è uno Stato sociale, che garantisce assistenza e previdenza obbligatorie, e uno Stato pluralistico, caratterizzato dalla presenza di autonomie territoriali con poteri propri. Regioni ed enti locali possono adottare politiche differenziate rispetto a quelle centrali. Tuttavia, nel corso del tempo, difficoltà strutturali e politiche hanno ostacolato la piena realizzazione di questi obiettivi. L'Italia adotta una Repubblica parlamentare, in cui il Parlamento è il centro del potere legislativo e il Governo deriva la sua legittimità dalla maggioranza parlamentare. Il Presidente del Consiglio, capo del Governo, seleziona i membri del governo, tra cui ministri e, talvolta, vicepresidenti e sottosegretari. Pur non avendo un ruolo esecutivo, il Presidente della Repubblica svolge una funzione di garanzia, intervenendo nelle fasi cruciali del processo politico, come nella nomina del Presidente del Consiglio e nell’accettazione delle sue dimissioni. Inoltre, dopo le elezioni, il Governo deve ottenere la fiducia di entrambe le Camere del Parlamento, e se questa viene meno, è obbligato a dimettersi. La Costituzione italiana stabilisce le caratteristiche fondamentali della forma di governo parlamentare, con particolare enfasi sulla relazione fiduciaria tra il Parlamento e il Governo. Alcuni degli aspetti più rilevanti di questo sistema sono i seguenti: Il Capo dello Stato: Il Presidente della Repubblica non partecipa all'indirizzo politico del Governo, che spetta esclusivamente al Parlamento e al Governo. Tuttavia, il Presidente della Repubblica ha compiti di garanzia per assicurare il corretto funzionamento della relazione fiduciaria tra i poteri. Tra i suoi compiti principali vi è la nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri, e in caso di crisi di governo (ossia quando vi è un "irrimediabile dissidio" tra l’esecutivo e il legislativo), il Presidente ha la facoltà di sciogliere le Camere. Fiducia e responsabilità politica: La stabilità del Governo dipende dal sistema di fiducia: il Governo deve ottenere e mantenere la fiducia di entrambe le Camere del Parlamento. Se una delle Camere nega la fiducia iniziale o approva una mozione di sfiducia (art. 94 della Costituzione), il Governo è obbligato a dimettersi. Sebbene il Parlamento possa porre la fiducia su specifiche decisioni politiche, non può farlo su alcune questioni, come le inchieste parlamentari, la modifica del regolamento o la verifica delle elezioni. Responsabilità collegiale e individuale: L'articolo 95 della Costituzione stabilisce la responsabilità collegiale del Governo, che opera come un collettivo, ma con una responsabilità individuale dei singoli ministri. In altre parole, se un ministro non è d’accordo con la linea politica del governo o compie azioni incompatibili con il programma, può essere sfiduciato e dimettersi, portando eventualmente alle dimissioni anche dell’intero Governo, se necessario. La forma di governo parlamentare in Germania La Legge Fondamentale della Germania (1949) prevede un sistema di governo parlamentare che ha delle specificità rispetto al modello italiano, noto come Cancellierato. Rapporto fiduciario: In Germania, il rapporto fiduciario si instaura tra il Bundestag (la Dieta federale) e il Cancelliere (Capo del Governo). Il Cancelliere è eletto a maggioranza assoluta dal Bundestag, su proposta del Presidente federale. Se non si raggiunge la maggioranza assoluta, può essere sufficiente una maggioranza semplice, ma il Presidente federale deve valutare se nominare un Cancelliere con tale consenso debole. Responsabilità politica: A differenza dell'Italia, la responsabilità politica del Governo tedesco non è collegiale, ma riguarda solo il Cancelliere. I ministri sono responsabili soltanto nei confronti del Cancelliere, che guida l'indirizzo politico del Governo. Non esiste la possibilità di sfiducia individuale nei confronti dei singoli ministri, ma solo nei confronti del Cancelliere. Se il Bundestag approva una mozione di sfiducia nei confronti del Cancelliere, il Governo deve dimettersi, ma solo se il Bundestag è in grado di eleggere un successore. Governabilità e stato di emergenza legislativa: In caso di conflitto tra il Cancelliere e il Bundestag, se la sfiducia viene espressa ma non è possibile eleggere un nuovo Cancelliere, il Presidente federale può dichiarare uno stato di emergenza legislativa, permettendo al Governo di continuare a governare con la cooperazione del Bundesrat (la Camera alta). La forma di governo parlamentare in Spagna Anche la Spagna adotta un sistema di governo parlamentare, ma con un Capo dello Stato monarchico. Elezione del Presidente del Governo: Il Presidente del Governo (equivalente al Primo Ministro) viene scelto dal Congresso dei deputati tramite una maggioranza assoluta. Il rapporto fiduciario in Spagna intercorre solo con il Congresso dei Deputati e può essere revocato se il Congresso approva una mozione di sfiducia costruttiva. In caso di sfiducia, un nuovo candidato viene immediatamente nominato dal Congresso, il che garantisce la continuità del Governo. Responsabilità politica: Come in Italia, se il Presidente del Governo subisce una sfiducia, egli e l'intero Governo sono obbligati a dimettersi. Inoltre, se il Governo non ottiene la fiducia su un programma o su una dichiarazione politica, il Presidente del Governo e il suo esecutivo devono rassegnare le dimissioni. c) La forma di governo presidenziale Il modello presidenziale di governo, come delineato nella Costituzione degli Stati Uniti d'America del 1787, è caratterizzato dalla separazione dei poteri tra i principali organi dello Stato: il Presidente, il Congresso e il Sistema Giudiziario. Il Presidente: Il Presidente degli Stati Uniti è eletto direttamente dal popolo per un mandato di quattro anni. In questo sistema, il Presidente ricopre sia il ruolo di Capo dello Stato che di Capo del Governo, assumendo sia la funzione esecutiva che quella di indirizzo politico. Il Presidente è responsabile della gestione dell'esecutivo, e ha il potere di guidare la politica interna e estera del Paese, ma anche di presentare il bilancio, inviare messaggi al Congresso e promuovere misure politiche. Il Congresso: Il Congresso è l'organo legislativo, composto da due camere: la Camera dei rappresentanti e il Senato. La Camera dei rappresentanti è composta da membri eletti in base alla popolazione degli Stati, mentre il Senato ha 100 membri, con ciascuno degli 50 Stati che elegge due senatori, indipendentemente dalla popolazione. Il Congresso ha il potere di legiferare e di esercitare un controllo sull'esecutivo, tra cui il potere di approvare leggi, dichiarare guerra e autorizzare il bilancio. Inoltre, può eseguire il controllo politico attraverso l'impeachmentdel Presidente, qualora venga accusato di gravi crimini. Meccanismi di bilanciamento e controllo reciproco: Il sistema presidenziale degli Stati Uniti si fonda su un forte bilanciamento dei poteri. Il Presidente ha il potere di veto sulle leggi approvate dal Congresso, che può essere superato solo con una maggioranza qualificata di due terzi in entrambe le camere. In questo modo, il Presidente ha il potere di bloccare leggi, ma il Congresso può comunque esercitare il suo ruolo legislativo se è in grado di raggiungere la maggioranza richiesta. La Corte Suprema: Un elemento centrale nel sistema presidenziale è la Corte Suprema degli Stati Uniti, che è composta da nove giudici nominati dal Presidente, con mandato a vita. La Corte Suprema svolge un ruolo cruciale nel controllo di costituzionalità delle leggi, sia statali che federali, e il suo pronunciamento è vincolante per i tribunali inferiori. Questo sistema di giustizia indipendente funge da garanzia di equilibrio e stabilità all'interno del sistema politico. d) La forma di governo della V Repubblica francese La Francia adotta una forma di governo semi-presidenziale, introdotta dalla Costituzione della Quinta Repubblica nel 1958, che combina elementi del regime parlamentare e presidenziale. Questo sistema prevede due figure esecutive principali: il Presidente della Repubblica e il Primo Ministro. Il Presidente è eletto direttamente dal popolo con un sistema a doppio turno, che garantisce una maggioranza assoluta e rafforza la sua autorità. Possiede ampi poteri, soprattutto in politica estera e difesa, e ha la prerogativa di nominare il Primo Ministro, sciogliere l'Assemblea Nazionale, indire referendum e nominare membri del Consiglio Costituzionale. Sebbene giochi un ruolo centrale nel definire l'indirizzo politico del paese, spesso deve agire in sintonia con il Parlamento. Il Primo Ministro, nominato dal Presidente, è il capo del Governo e attua le politiche stabilite dal Presidente, dirigendo l'amministrazione pubblica. Tuttavia, in caso di coabitazione, ovvero quando il Presidente e il Parlamento appartengono a schieramenti politici opposti, il Primo Ministro assume un ruolo più indipendente, concentrandosi principalmente sulla politica interna, mentre il Presidente si occupa delle questioni internazionali. In questa situazione, il potere esecutivo è più distribuito, e il Presidente conserva il controllo sulla politica estera e difesa. Il Parlamento francese è bicamerale, composto dall'Assemblea Nazionale e dal Senato. L’Assemblea Nazionale ha un ruolo centrale nel processo legislativo, mentre il Senato svolge un ruolo secondario. In generale, quando il Presidente ha una maggioranza parlamentare favorevole, il Primo Ministro agisce come subordinato e il Presidente esercita un controllo diretto sul Governo. Il sistema semi- presidenziale consente quindi un equilibrio tra i poteri, che può variare a seconda della situazione politica, ma favorisce comunque la stabilità politica, anche in presenza di conflitti tra il Presidente e il Primo Ministro. La figura di Charles de Gaulle Charles de Gaulle (1890-1970) è una figura centrale nella storia politica della Francia e un protagonista della creazione della Quinta Repubblica. Durante la Seconda Guerra Mondiale, De Gaulle guidò la Francia Libera contro l'occupazione nazista, rifiutando la resa della Repubblica di Vichy. Dopo la fuga a Londra, con l'appoggio di Winston Churchill, lanciò il famoso Appello del 18 giugno 1940, incitando alla resistenza contro i nazisti. Nel 1943 fondò il Comitato francese di Liberazione nazionale ad Algeri, che divenne il Governo provvisorio della Francia. Al termine della guerra, De Gaulle introdusse importanti riforme, come il diritto di voto alle donne e la creazione di un moderno sistema di sicurezza sociale. Fu presidente del Consiglio nel 1945, ma si dimise nel 1946 a causa di disaccordi con la Costituzione della Quarta Repubblica. Successivamente, nel 1958, tornò alla politica per risolvere la crisi algerine, come capo del Governo, redasse la Costituzione della Quinta Repubblica, rafforzando i poteri presidenziali. Eletto presidente nel 1958 e rieletto nel 1965, De Gaulle attuò politiche di decolonizzazione (in particolare riguardo all'Algeria) e mantenne una posizione di indipendenza politica, opponendosi all'influenza degli Stati Uniti e rifiutando il coinvolgimento della Gran Bretagna nella Comunità Economica Europea. Il suo governo fu messo alla prova dalla crisi del maggio 1968, ma De Gaulle riuscì a mantenere il potere vincendo le elezioni legislative. Tuttavia, dopo aver perso un referendum sulle riforme del Senato e della regionalizzazione nel 1969, si dimise, ritirandosi a Colombey-les-Deux-Églises. Morì nel 1970, lasciando un'eredità di indipendenza politica e forza istituzionale. e) La forma di governo direttoriale Il sistema direttoriale è esemplificato dalla Confederazione Svizzera, che è uno Stato federale con una struttura unica che separa rigorosamente i poteri. Il Direttorio (Consiglio Federale): In Svizzera, non esiste una figura di Capo dello Stato. Al suo posto, l'Esecutivo è costituito da un Direttorio o Consiglio federale, composto da sette membri, che sono eletti dall'Assemblea federale (il Parlamento) per un periodo di quattro anni. Ogni membro del Consiglio federale è responsabile di un Dipartimento (ministero) e agisce collettivamente nelle decisioni di governo, ma non esiste un "leader" vero e proprio tra di loro. In pratica, il governo è collegiale e le decisioni vengono prese in modo collettivo. Struttura bicefala: Sebbene il governo sia collegiale, in pratica non esiste una figura di Presidente del Consiglio o di un Capo dello Stato. Il sistema è basato sulla collegialità e sull'idea che tutti i membri del Consiglio federale abbiano eguali diritti e doveri. La decisione collettiva e la rotazione della presidenza annuale tra i membri del Consiglio federale rappresentano il cuore del sistema direttoriale. Separazione e indipendenza: La Svizzera adotta una rigida separazione dei poteri, in cui il governo (Direttorio) non è revocabile durante il mandato e non si prevede lo scioglimento anticipato del Parlamento. Inoltre, la stabilità del sistema è garantita dalla pluralità politica e dalla decisione collettiva. La democrazia diretta e i numerosi referendum sono strumenti che coinvolgono direttamente i cittadini nelle scelte politiche, offrendo un altro livello di partecipazione e di controllo sulle decisioni governative. CAPITOLO IV Costituzione e Poteri Costituenti La Costituzione è la legge fondamentale di uno Stato, il pilastro dell’ordinamento giuridico che garantisce la convivenza pacifica e democratica tra i cittadini. Essa contiene principi e norme che regolano l’organizzazione politica, le libertà fondamentali e i diritti dei cittadini, limitando il potere delle istituzioni e stabilendo un equilibrio tra di esse. L’elaborazione della Costituzione è frutto del potere costituente, un’autorità speciale che si manifesta in momenti di svolta storica, come rivoluzioni o transizioni da regimi autoritari a democrazie, e che appartiene al popolo o a un’assemblea rappresentativa. Una volta approvata, la Costituzione diventa il riferimento per i poteri costituiti, ovvero le istituzioni che operano secondo le regole stabilite nel testo fondamentale. Le Costituzioni possono essere classificate in base a diversi criteri. Per quanto riguarda la loro resistenza alle modifiche, si distinguono Costituzioni flessibili, modificabili tramite il normale processo legislativo, e rigide, che richiedono procedure aggravate per essere cambiate. La Costituzione italiana del 1948 è un esempio di Costituzione rigida, poiché l’articolo 138 stabilisce un iter complesso che include due votazioni successive da parte di ciascuna Camera e, in certi casi, un referendum confermativo. Dal punto di vista politico, alcune Costituzioni, come lo Statuto Albertino del 1848, sono concesse da un sovrano ai cittadini, mentre altre, come quella italiana, sono votate, ossia frutto di un processo partecipativo che coinvolge il popolo o i suoi rappresentanti. Rispetto al contenuto, si distingue tra Costituzioni corte, che disciplinano solo l’organizzazione dello Stato e pochi diritti fondamentali, e Costituzioni lunghe, che includono una vasta gamma di diritti civili, economici e sociali. La Costituzione italiana appartiene a questa seconda categoria, poiché tutela, tra gli altri, il diritto al lavoro, alla salute e all’istruzione. Infine, ogni Costituzione riflette il contesto storico in cui è stata redatta: ad esempio, la Costituzione italiana nasce dalla volontà di superare il fascismo e consolidare una democrazia fondata sulla dignità umana, l’uguaglianza e la giustizia sociale. La Costituzione può essere analizzata anche nella sua dimensione formale e materiale. La Costituzione formale è il testo scritto che raccoglie i principi fondamentali dello Stato, mentre quella materiale comprende le pratiche e le interpretazioni che emergono nella realtà e che possono, in alcuni casi, divergere dal testo originario. Quando ciò accade, si rende necessario un allineamento, che può avvenire modificando la Costituzione formale per riflettere i cambiamenti sociali o riaffermandone la preminenza rispetto agli usi consolidati. La Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, è un documento fondamentale che ha segnato il passaggio dal regime fascista a una democrazia parlamentare. È stata redatta dall’Assemblea Costituente, eletta a suffragio universale, in cui erano rappresentate le principali forze politiche dell’epoca: cattolici, socialisti, comunisti e liberali. Questo ampio dibattito ha dato vita a una Costituzione condivisa e inclusiva, che tutela valori universali e diritti fondamentali. Le sue caratteristiche principali sono la rigidità, che garantisce la stabilità dei suoi principi attraverso un procedimento aggravato per le modifiche, la lunghezza, che abbraccia un ampio spettro di diritti e doveri, e la partecipazione democratica, che si riflette nel principio della sovranità popolare sancito dall’articolo 1. La Costituzione italiana si suddivide in diverse parti: i principi fondamentali (articoli 1-12), che stabiliscono i valori essenziali della Repubblica, come la sovranità popolare, l’uguaglianza e il ripudio della guerra; la parte dedicata ai diritti e ai doveri dei cittadini (articoli 13-54), che tutela le libertà personali, politiche e sociali, e impone doveri come la solidarietà economica e sociale; l’ordinamento della Repubblica (articoli 55-139), che disciplina l’organizzazione dei poteri dello Stato, come il Parlamento, il Governo e la Magistratura; le autonomie locali (articoli 114-133), che riconoscono l’autonomia delle Regioni, delle Province e dei Comuni; e infine le garanzie costituzionali (articoli 134-139), che comprendono il ruolo della Corte Costituzionale, organo preposto a vigilare sulla legittimità delle leggi. Negli ultimi anni, la Costituzione italiana è stata al centro di importanti dibattiti politici e riforme. Tra questi, la riforma costituzionale del 2016, che proponeva di superare il bicameralismo perfetto per rendere più snella l’attività legislativa, ma che è stata respinta attraverso un referendum popolare. Questo episodio ha dimostrato l’importanza del coinvolgimento dei cittadini nelle scelte costituzionali e l’attaccamento al modello vigente. Sul piano dei diritti, la Costituzione è stata un riferimento fondamentale per affrontare nuove sfide, come la crisi ambientale e i diritti digitali, temi che richiedono un’interpretazione dinamica e attenta ai cambiamenti sociali e tecnologici. In sintesi, la Costituzione italiana rappresenta un baluardo di democrazia e giustizia, un testo vivo che guida lo sviluppo del Paese verso un futuro più equo e inclusivo. La revisione costituzionale La revisione costituzionale in Italia è regolata dall'articolo 138 della Costituzione, che stabilisce un iter "aggravato" per garantire che le modifiche alla legge fondamentale dello Stato siano ben ponderate e ampiamente condivise. L’obiettivo di questo procedimento è bilanciare la stabilità costituzionale con la necessità di aggiornare il testo per rispondere alle nuove esigenze politiche, sociali e culturali. Il processo si articola in diverse fasi, che vanno dalla proposta di revisione alla sua eventuale promulgazione, passando attraverso la discussione parlamentare e, in alcuni casi, un referendum popolare. Il procedimento inizia con la presentazione della proposta di revisione, che può essere avanzata da uno dei seguenti soggetti: una o entrambe le Camere del Parlamento, 500.000 elettori, cinque consigli regionali o un quinto dei membri di una Camera. Una volta proposta, la modifica deve essere approvata da ciascuna Camera del Parlamento, ma l’iter richiede due deliberazioni separate, distanti almeno tre mesi l’una dall’altra. Nella prima votazione, è sufficiente una maggioranza semplice, mentre nella seconda è necessaria la maggioranza assoluta dei membri di ciascuna Camera. Tuttavia, se nella seconda votazione la proposta ottiene i due terzi dei voti in entrambe le Camere, essa entra direttamente in vigore senza bisogno di un referendum. In caso contrario, la proposta può essere sottoposta a referendum se lo richiedono almeno 500.000 elettori, cinque consigli regionali o un quinto dei parlamentari. Se il referendum conferma la modifica, questa diventa legge. Un esempio significativo di revisione costituzionale sottoposta a referendum è la riforma Renzi-Boschi del 2016, che mirava a superare il bicameralismo perfetto e a ridefinire i rapporti tra lo Stato e le Regioni. Nonostante l’approvazione parlamentare, il referendum popolare respinse la proposta, dimostrando l'importanza del consenso popolare in tema di revisione costituzionale. La vicenda ha evidenziato come una modifica della Costituzione, anche se approvata dal Parlamento, necessiti di un’ampia legittimazione popolare per essere valida. L'articolo 138 distingue inoltre tra le leggi di revisione costituzionale e le leggi costituzionali. Le leggi di revisione modificano direttamente il testo della Costituzione, mentre le leggi costituzionali trattano ambiti specifici ad essa collegati, come il caso della riforma del Titolo V, che nel 2001 ha ridefinito i poteri delle Regioni e degli enti locali. Queste ultime non modificano il testo della Costituzione in modo diretto, ma operano dentro i margini da essa stabiliti. Nonostante la possibilità di modificare la Costituzione, la legge fondamentale dello Stato pone limiti chiari alla revisione. L'articolo 139 stabilisce che la forma repubblicana dello Stato è intangibile, vietando ogni tentativo di restaurare la monarchia o alterare la natura repubblicana dell'ordinamento. Questo principio è stato sancito in maniera definitiva dal referendum istituzionale del 1946, che ha determinato la transizione dalla monarchia alla Repubblica, una scelta che non può più essere messa in discussione. Oltre a questi limiti espliciti, esistono anche limiti impliciti alla revisione costituzionale. I principi fondamentali della Costituzione, come la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2), il principio di uguaglianza (articolo 3), la sovranità popolare (articolo 1) e l’unità indivisibile della Repubblica (articolo 5), sono considerati irrinunciabili e non soggetti a modifica. Una revisione che negasse questi principi fondamentali, ad esempio, modificando il riconoscimento dei diritti inviolabili o consentendo la secessione di una Regione, sarebbe inaccettabile e sarebbe considerata illegittima. Questi principi rappresentano la base della legittimità della Costituzione stessa e qualsiasi modifica che li violasse sarebbe in contrasto con l'identità e la natura della Repubblica. Le Fonti dell'Ordinamento Giuridico Le fonti dell'ordinamento giuridico italiano rappresentano i pilastri normativi che definiscono la struttura e il funzionamento del sistema giuridico. Il termine "fonte" indica sia gli atti che producono norme giuridiche, sia i documenti che permettono di conoscerne il contenuto. Tali fonti si classificano in diverse categorie in base alla loro origine, rango e funzione, garantendo la coerenza e l’efficacia dell’ordinamento. Tra le fonti di produzione, che generano norme giuridiche, spiccano la Costituzione, le leggi ordinarie approvate dal Parlamento, e gli atti normativi del Governo come i decreti legislativi e i regolamenti. La gerarchia normativa è fondamentale: ogni fonte deve rispettare quelle di grado superiore, pena la sua illegittimità. La Costituzione, al vertice del sistema, stabilisce i principi fondamentali e i diritti inviolabili, costituendo il parametro di riferimento per tutte le altre norme. Le fonti di cognizione, come la Gazzetta Ufficiale, sono gli strumenti attraverso cui le norme vengono pubblicate, consentendo ai cittadini e agli operatori del diritto di prenderne conoscenza. Senza questa pubblicazione ufficiale, una norma non può entrare in vigore. Il sistema delle fonti del diritto rappresenta l'insieme delle origini da cui provengono le norme giuridiche che regolano la vita sociale, politica ed economica di un paese. Le fonti sono classificate in base alla loro natura e alla loro capacità di generare obblighi giuridici. Esistono due categorie principali di fonti: le fonti-atto e le fonti-fatto. Queste categorie si distinguono per il processo con cui le norme vengono create e la loro modalità di riconoscimento all'interno dell'ordinamento giuridico. Le fonti-atto sono quelle che derivano da atti formali e volontari, emanati da un'autorità competente. Questi atti sono espressione della volontà di un organo che ha il potere di legiferare e di creare norme giuridiche generali e astratte, destinate a regolare comportamenti e situazioni in modo universale e vincolante. Tra le fonti-atto troviamo: leggi, decreti legislativi, regolamenti governativi. Le fonti-fatto, al contrario, non derivano da un atto formale di autorità, ma da prassi o comportamenti ripetuti nel tempo che, con il passare degli anni, acquistano valore giuridico. In altre parole, si tratta di norme che emergono dal comportamento costante e uniforme degli individui o degli organi dello Stato. Le fonti-fatto sono più difficili da identificare e formare, ma una volta che si consolidano nella prassi, diventano parte integrante dell’ordinamento giuridico. Tra le fonti-fatto troviamo: consuetudini e convenzioni costituzionali. Le antinomie normative, ossia i conflitti tra norme giuridiche che trattano lo stesso argomento in modo contrastante, rappresentano una problematica ricorrente in ogni sistema giuridico. Per risolvere tali conflitti, l’ordinamento giuridico si affida a una serie di criteri ordinatori delle fonti, strumenti che aiutano a determinare quale norma debba prevalere in determinate circostanze. Questi criteri sono essenziali per garantire la coerenza e l'efficacia del sistema normativo e si fondano su principi logici, giuridici e costituzionali. I principali criteri ordinatori sono il principio cronologico (Lex posterior derogat legi priori) , il principio di specialità (Lex specialis derogat generali), il principio gerarchico e il principio di competenza, ognuno dei quali riveste un ruolo fondamentale nel risolvere le antinomie. Il principio cronologico è uno degli strumenti più comuni per risolvere i conflitti tra norme giuridiche. Secondo questo principio, quando due norme in contrasto trattano lo stesso argomento, prevale la norma più recente. Ciò riflette l’intenzione del legislatore di aggiornare o modificare la normativa preesistente, adattandola a nuove esigenze sociali, politiche ed economiche. La norma più recente, quindi, annulla o modifica implicitamente la precedente, in quanto si ritiene che quest'ultima non sia più adeguata o che le nuove disposizioni rispondano meglio alle necessità del momento. Il principio cronologico può manifestarsi in vari modi: Abrogazione espressa: quando la nuova legge annulla esplicitamente la precedente. Abrogazione tacita: avviene quando la nuova legge è incompatibile con la vecchia, senza abrogarla formalmente. Abrogazione implicita: quando la nuova legge disciplina interamente una materia già trattata dalla norma precedente, sostituendola integralmente. Tuttavia, esistono delle eccezioni. Ad esempio, se la norma anteriore ha un carattere speciale o eccezionale, essa prevale anche se è più vecchia rispetto alla norma generale, in quanto si considera che risponda a esigenze più specifiche. Il principio di specialità stabilisce che, tra due norme in conflitto, prevalga quella più specifica, anche se la norma più generale è più recente. In altre parole, una norma che regola un caso particolare ha priorità su una norma che tratta lo stesso argomento in termini generali. Questo principio si fonda sull'idea che una legge che disciplina un caso particolare sia più adeguata rispetto a una norma generale, poiché risponde in maniera più dettagliata alle esigenze specifiche del caso. Il principio di specialità si applica in vari contesti, come nei conflitti tra leggi di diverso livello o quando una norma particolare deve prevalere su una normativa generale. Ad esempio, una legge che regola il diritto sanitario ha maggiore specializzazione rispetto a una norma che tratta più ampiamente il diritto della salute in generale. Il principio gerarchico è uno degli strumenti più cruciali per risolvere i conflitti tra norme di rango diverso. Esso stabilisce che, in caso di contrasto tra una norma di rango superiore e una di rango inferiore, prevale sempre la norma di rango superiore. La gerarchia normativa è strutturata in modo che le norme superiori, come la Costituzione, le leggi ordinarie, i decreti legislativi e i regolamenti, abbiano più autorità rispetto alle leggi inferiori, come quelle regionali o le disposizioni inferiori. In pratica, il principio gerarchico serve a garantire che non vi siano conflitti tra leggi di diversa importanza, mantenendo l’ordine all’interno dell’ordinamento giuridico. Se una norma inferiore entra in conflitto con una norma di rango superiore, quest'ultima prevale, e la norma inferiore viene dichiarata invalida, in quanto non può contrastare con quella di maggiore importanza. Questo principio permette di salvaguardare la stabilità e l’efficacia dell’intero sistema giuridico, assicurando che le leggi fondamentali dell’ordinamento non siano minate da disposizioni di minore valore giuridico. Il principio gerarchico comporta anche un effetto ex tunc, ossia retroattivo, quando una norma inferiore viene dichiarata invalida. Gli effetti giuridici della norma inferiore sono annullati a partire dal momento in cui essa è stata adottata, come se non fosse mai esistita. Al contrario, una modifica o invalidità di una norma superiore avrà effetto ex nunc, cioè solo per il futuro, senza incidere sugli atti giuridici già prodotti prima della decisione. Il principio di competenza stabilisce che, quando due norme incompatibili entrano in conflitto, quella emanata dalla fonte competente prevale su quella emanata da una fonte incompetente. Questo principio è fondamentale per il rispetto della divisione dei poteri, assicurando che le normative siano emesse da organi che abbiano la legittimazione per farlo. In caso di conflitto tra leggi regionali e normative statali, ad esempio, il principio di competenza impone che le leggi statali prevalgano se le regioni non hanno la competenza per legiferare su quella materia. Il principio di competenza è anche applicabile ai conflitti tra normative nazionali e normative europee, con le normative europee che prevalgono nel caso in cui gli Stati membri non rispettino le leggi comunitarie. La Corte Costituzionale, nel caso italiano, interviene per risolvere conflitti tra leggi regionali e leggi statali, annullando quelle che violano la competenza esclusiva dello Stato. La forza attiva e la forza passiva delle norme giuridiche sono concetti cruciali per comprendere come le norme in conflitto si relazionano tra loro. La forza attiva si riferisce alla capacità di una norma di produrre effetti giuridici, ossia la sua capacità di influire concretamente sui soggetti giuridici a cui è destinata. Le norme di forza attiva sono quelle che hanno il potere di disciplinare comportamenti giuridici e di generare effetti vincolanti. La forza passiva, al contrario, riguarda le norme che, in caso di conflitto, non possono produrre effetti giuridici, in quanto vengono annullate o disapplicate dalla norma con maggiore forza attiva. Una norma di forza passiva non può prevalere su una norma superiore e, se in conflitto, sarà disapplicata. Nel sistema giuridico, il concetto di forza attiva e passiva è determinato dal principio gerarchico: la norma di rango superiore ha una forza attiva maggiore e prevale su quella inferiore, che viene annullata per incompatibilità. Nel sistema giuridico, le fonti del diritto possono essere classificate in fonti tipiche e fonti atipiche, sulla base della loro formale previsione all’interno della Costituzione o di specifiche disposizioni normative. Le fonti tipiche sono quelle espressamente previste dalla Costituzione o da altre norme di rango primario, che definiscono in modo chiaro la loro natura, procedura di formazione e ambito di applicazione. Queste fonti garantiscono la certezza del diritto e costituiscono il nucleo centrale dell’ordinamento giuridico. Tra le principali fonti tipiche troviamo: La legge costituzionale, la legge ordinaria, regolamenti, trattati internazionali. Le fonti tipiche si distinguono per la loro prevedibilità formale, ovvero il fatto che la loro esistenza e validità siano chiaramente disciplinate dall’ordinamento giuridico. Le fonti atipiche, al contrario, non trovano una specifica previsione nella Costituzione o in altre norme scritte. Esse derivano da elementi non codificati ma riconosciuti come giuridicamente rilevanti in base al contesto sociale, alla tradizione o alla prassi. Queste fonti rispondono all’esigenza di adattare il diritto alle mutevoli condizioni della realtà, garantendo una certa flessibilità al sistema giuridico. Tra le fonti atipiche più rilevanti troviamo: Le consuetudini, le interpretazioni giuridiche consolidate, la giurisprudenza: La distinzione tra fonti tipiche e atipiche si basa principalmente sulla formalità della loro previsione e regolamentazione all’interno del sistema giuridico. Le fonti tipiche sono esplicitamente disciplinate e seguono procedure stabilite, garantendo maggiore certezza e uniformità. Al contrario, le fonti atipiche si fondano su elementi non codificati e sono meno rigide, il che le rende più adatte a rispondere alle esigenze di adattamento e interpretazione del diritto. Questa distinzione non implica necessariamente una gerarchia tra le due categorie, ma evidenzia il diverso ruolo che ciascuna svolge nell’ordinamento. Le fonti tipiche costituiscono la struttura formale del diritto, mentre le fonti atipiche rappresentano un complemento che consente al sistema di evolversi e rispondere alle esigenze pratiche. Adattamento delle fonti nazionali al diritto internazionale L'adattamento delle fonti nazionali al diritto internazionale riguarda il processo attraverso cui gli Stati adeguano le proprie normative interne alle obbligazioni d

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