Breve Storia dello Stato Sociale PDF
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This document, "Breve storia dello stato sociale," provides a historical overview of the development of the welfare state, encompassing its evolution from religious and charitable practices in the medieval period to its modern form. It traces the changing approaches to poverty and social care, highlighting pivotal legislation and movements like the English Poor Law and the French "Hopitaux."
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STORIA DEL PAUPERISMO Lo Stato sociale trova le sue radici dall’inizio delle società e fondamentalmente nasce da pratiche religiose e assistenziali fin dal medioevo, solo successivamente diventerà laico. Il povero svolgeva una funzione importante all’interno della società, vicino alla lettera del Va...
STORIA DEL PAUPERISMO Lo Stato sociale trova le sue radici dall’inizio delle società e fondamentalmente nasce da pratiche religiose e assistenziali fin dal medioevo, solo successivamente diventerà laico. Il povero svolgeva una funzione importante all’interno della società, vicino alla lettera del Vangelo, e offriva ai ricchi un modo per guadagnarsi la salvezza attraverso le opere di carità à la regola dei francescani era di vivere in povertà e di elemosina. Chi si occupava dei poveri? Le Confraternite, gli Ospedali gestiti dalla Chiesa e l’elemosina. Dal XVI secolo il modo di gestire il Pauperismo cambiò à “Ciclo Infernale del Cinquecento” caratterizzato da più vagabondi e mendicanti e rivolte popolari per il pane à il povero diventa uno stigma e una minaccia all’ordine della società. Si divisero in “poveri meritevoli” e “poveri non meritevoli/vergognosi” à chi era dedito al lavoro e volenteroso di cambiamento era ok, chi non lavorava era ozioso e vizioso e non meritevole di aiuto. Nel 1536 in Inghilterra nascono le enclosures (espropriazione di terreni di grandi proprietari terrieri adibiti ad uso comune). Nel 1547 il re di Francia emana “Editto per i poveri di Parigi” per combattere l’ozio dei mendicanti validi e regolamentare gli aiuti ai poveri malati, invalidi e impotenti (leggi simili anche a Roma emanate dai papi). Nel 1572 Elisabetta I prime leggi per il controllo organico dei poveri à Poor Tax (successivamente Poor Law) conferma il ruolo delle parrocchie nella gestione dell’aiuto e crea gli Overseers of the Poor che gestiscono i fondi raccolti attraverso la riscossione delle tasse sui poveri. Chi non era in grado di lavorare veniva ricoverato nelle almshouses, chi poteva lavorare lo faceva all’esterno o nelle workhouses adottate anche da altre zone d’Europa). Chi si rifiutava di lavorare veniva rinchiuso in case correzionali. à nel 1662 si introduce Act of Settlement, il domicilio coatto per tutti i poveri riceventi aiuti dalla Poor Law In Francia vengono emanati due editti da Luigi XIV nel 1657 e 1662 che introducono gli istituti Hopital general (i poveri trovano alloggio in cambio di manodopera). La carità privata continuava a prevalere sulla gestione dello Stato. Nel 1722 Knatchbull’s Act prevede di negare aiuti a chi si rifiutava di essere internato nelle workhouses. Si stima che intorno alla metà del XVIII secolo in Inghilterra si garantissero forme di assistenza per l’8% della popolazione (mezzo milione di persone). IL PROBLEMA DEI POVERI FRA ILLUMINISMO ED ETA’ DELLE RIVOLUZIONI Nel corso del XVIII secolo, nel quadro di una crescente attenzione per la piaga del pauperismo, in tutta Europa si andarono diffondendo istituti analoghi alle workhouses inglesi che puntavano a risolvere, sempre attraverso il ricorso all’obbligo di risiedere all’interno della struttura, il problema della disoccupazione. La Francia nel 1767 aggiunse alla rete degli Hopitaux, queste istituzioni non si rivolgevano unicamente alla categoria dei poveri, ma guardavano all’intero e composito universo della marginalità e devianza, nei confronti delle quali si andava imponendo un più ampio controllo sociale. Secondo le nuove idee illuministiche poteva essere combattuta ed estirpata eliminandone le cause di fondo; al primo posto tra le priorità individuate vi erano naturalmente i lavori che puntavano a fornire occupazione ai poveri “abili” al lavoro discostandosi dalle forme coercitive e il più delle volte disumane. Il Gilbert’s Act del 1782 attenuò fortemente il principio dell’obbligatorietà del ricovero nelle workhouses, che di fatto cominciarono ad accogliere quasi unicamente i vecchi, malati e fanciulli. Con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, secondo la quale allo Stato spettava il compito di “creare ed organizzare un’istituzione generale per l’assistenza pubblica, per allevare i bambini abbandonati, aiutare i malati poveri e procurare lavoro alle persone sane povere che non riescono a procurarselo autonomamente; procurando sia il lavoro sia assicurando i mezzi per l’esistenza a quelli che sono nell’impossibilità di lavorare” (Costituzione dell’anno primo 1793). Questa idea di stato attivo e interventista nei rapporti sociali (tipica dell’esperienza rivoluzionaria francese), trovò solo parziale accoglimento nelle altre realtà europee. Nel 1795 Speenhamland Law (sistema di sussidi) à gli aiuti della Poor Tax dovevano essere determinati secondo una scala collegata all’andamento del pane per avere un reddito minimo indipendente dai guadagni à il “diritto di vivere”. Questo sistema con il tempo è andato a danneggiare le categorie a salario minimo che non usufruivano degli aiuti ma erano comunque sulla soglia di povertà à l’ozio e la miseria accrescono perché i lavoratori scelgono di non vivere di stenti lavorando ma di usufruire degli aiuti delle parrocchie à questo porta ad un allentamento dalle campagne (+ enclosures) che fa decollare la Rivoluzione Industriale. RIFORME SOCIALI E QUESTIONE OPERAIA NEL PRIMO OTTOCENTO All’inizio dell’Ottocento il volto di molte società ed economie europee era profondamente trasformato rispetto al recente passato, il processo di industrializzazione aveva interessato anche l’Inghilterra ma con modalità e tempi differenti. L’incremento demografico e le dinamiche della rivoluzione industriale ebbero forti ripercussioni sulla stratificazione sociale dei vari paesi, sommando alle tradizionali forme di povertà nuove tipologie di miseria e di marginalità. La “questione operaia” divenne progressivamente uno dei temi più spinosi con cui la nascente opinione pubblica inglese dovette fare i conti. Inizialmente fu caratterizzata da delle rivolte e la distruzione delle macchine industriali. Poi nacquero le friendly societes, composte in genere da maestri artigiani già a partire dal primo Settecento e si distinsero per il loro carattere mutualistico, ma anche per il perseguimento di obiettivi di natura più spiccatamente politica a favore dell’ampliamento dei diritti civili e politici. Le condizioni del proletariato industriale continuarono ad aggravarsi, così come restò irrisolta la questione dell’allargamento delle libertà individuali. Il punto massimo della repressione fu toccato nel 1819 con l’episodio del massacro di Peterloo, St. Peter’s Fields, nei pressi di Manchester, dove una manifestazione contro la legge sul divieto di associazione (Combination Acts) venne sciolta con la forza dalle truppe. Il principio mutualistico delle associazioni operaie di mutuo soccorso: i lavoratori sottoscrivevano un patto associativo che prevedeva il versamento periodico di quote che venivano accantonate e quindi utilizzate a seconda delle finalità statuarie per coprire determinati rischi quali le malattie, gli infortuni, la disoccupazione oppure, in caso di morte del socio, per le spese funerarie o per assicurare un sussidio alla vedova o gli eredi. Le associazioni rappresentarono uno strumento di natura previdenziale, con il quale i settori più evoluti delle classi popolari cercarono di supplire, con risorse proprie e in maniera assolutamente autonoma, alle carenze del sistema assistenziale pubblico. Nel 1833 nasce la legislazione di fabbrica che introdusse un minimo di tutela dei ritmi e delle condizioni di lavoro delle donne e dei fanciulli e creò la figura degli ispettori di fabbrica. Nel 1834 Poor Law Amendament Act à abbandono del sistema di Speenhamland (restò valida solo l’assistenza medica; reintroduzione di ricovero coatto nelle workhouses, tutto legato alla residenza + Reform Bill del 1832 = punto di partenza del capitalismo moderno. Nell’Europa continentale la questione del pauperismo continuò a essere affrontata a livello locale senza organici schemi d’intervento di dimensione nazionale. Il fenomeno del pauperismo corrispose un maggior successo, dovuto alla crescente pressione esercitata dall’associazionismo operaio di matrice sindacale. Iniziarono a veicolare le self-help: associazioni analoghe che si diffusero dapprima sul suolo inglese e poi nel resto del continente; si assisté alla creazione di una rete di protezione, su base volontaristica, che tutelava alcuni settori più avanzati dell’artigianato e della classe operaia specializzata, in modo indipendente dallo Stato e dalle organizzazioni religiose che tradizionalmente avevano gestito gli aiuti ai ceti più deboli. La condizione della classe operaia, denunciata da Engels e l’emergere delle rivendicazioni di impronta socialista e marxista imposero quasi ovunque all’attenzione dei governi e dell’opinione pubblica la questione della non differibilità di riforme sociali, che andavano ormai attuate attraverso l’iniziativa e il coinvolgimento in prima persona dello Stato. Nel 1850 si giunse alla creazione di un Fondo pensione nazionale ed esso stabiliva che le Società di mutuo soccorso potevano essere istituite a livello comunale per iniziativa del sindaco o del curato. Gli statuti di queste società dovevano essere sottoposti all’approvazione delle autorità centrali e consentiva di erogare vere e proprie pensioni. I benefici erano collegati alla “buona condotta” delle associazioni che non dovevano assumere il carattere di organizzazioni di “resistenza” né erogare sussidi di disoccupazione per evitare pericolosi riflessi sull’ordine pubblico. La legislazione francese rivelava un approccio più avanzato e l’influsso delle nuove dottrine in campo medico miravano a contrastare la diffusione di epidemie e malattie attraverso il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione à 1868 Securite generale vengono create due casse nazionali di assicurazione contro il rischio di morte e il rischio di infortunio ei lavori agricoli e industriali. Anche in Italia, in particolare dopo il 1848, si ebbe una prima diffusione dei modelli di associazionismo popolare che avevano da tempo attecchito nei paesi economicamente e socialmente più evoluti. Le “società operaie” cominciarono a intervenire anche in un terreno, quello dell’assistenza, che era tradizionalmente gestito dalla Chiesa attraverso le opere pie e altre istituzioni di beneficenza. Il settore della beneficenza era imperniato da un lato sulle opere pie, e dall’altro dalle associazioni private a carattere volontaristico. Nel 1867 in Inghilterra un nuovo Factory Act estese a tutto il comparto industriale la normativa a tutela delle condizioni di lavoro delle donne e dei fanciulli, che era stata introdotta nel 1833 limitatamente al lavoro tessile, la giornata lavorativa fu fissata a 10 ore al giorno e 6 ore e mezzo il sabato. Nel 1871 il Trade Union Act sancì il riconoscimento giuridico delle organizzazioni dei lavoratori e concesse loro la possibilità di stipulare accordi collettivi. Nel 1875 nasceva il Partito social-democratico tedesco e in Italia socialista era ancora nel suo stato embrionale, dove le organizzazioni operaie erano in larga misura egemonizzate da elementi di formazione mazziniana, questi anni che coincisero con il passaggio della Destra alla Sinistra storica videro concretizzarsi le prime leggi a tutela delle condizioni di lavoro delle categorie più deboli. NASCITA DELLO STATO SOCIALE A partire dagli anni Ottanta del XIX secolo l’Europa visse un’intensa stagione di riforme sociali che coincise con l’affermazione di un nuovo ruolo da parte dello Stato. L’Employers Liability Act intervenne a disciplinare la questione degli infortuni sul luogo di lavoro. Questa legge impose l’obbligo per il datore di lavoro di risarcire il lavoratore in caso di infortunio e di versare un sussidio in caso di invalidità parziale o totale. Otto von Bismarck decretò l’introduzione di uno schema di assicurazioni obbligatorie in caso di malattia, che intendeva specificamente tutelare i lavoratori con un basso livello di salario. In particolare, la Legge sull’assicurazione di malattia del 1883: prevista solamente per i lavoratori sotto un determinato livello di salario (compresi quelli agricoli), prevedeva il versamento dei contributi da parte degli assicurati e dei datori di lavoro in misura uguale e il restante quinto versato dallo Stato. A fine Ottocento in Europa, al di là delle differenze esistenti tra paese e paese, sul piano delle politiche previdenziali esistono due pilastri comuni dei meccanismi di tutela: il primo, di natura pubblica, era costituito dalle assicurazioni occupazionali; il secondo, di carattere privato, era rappresentato dalle società mutualistiche. Da un lato era la carità legale, erogata da varie istituzioni di natura pubblica facenti capo allo Stato e alle amministrazioni locali; dall’altro, la beneficenza privata, offerta da numerose organizzazioni filantropiche a carattere volontaristico. Con il Public Health del 1875 in UK si cercò di migliorare le condizioni di vita delle fasce più deboli della popolazione, attraverso una maggiore presenza sul piano locale di enti, medici e ispettori sanitari. La svolta si ebbe nel 1890 con la legge che trasformò le Opere Pie in Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) à non poterono più annoverare i membri del clero all’interno di organismi gestionali e passarono sotto il controllo delle Congregazioni di carità (Comuni). Nel 1874 durante la III Repubblica Francese à Legge che limitava gli orari di lavoro per i fanciulli al di sotto di 12 anni e vietava il lavoro notturno in luoghi insalubri (es. miniere ai minori di 16 anni). Nel 1889 in Svezia venne varata una legge che istituiva gli ispettori in fabbrica. Tra il XIX e XX secolo si vide il decollo industriale di quei paesi (quali l’Italia) che fino a quel momento erano rimasti indietro sul piano dello sviluppo economico. Gli effetti di questo cambiamento si rifletterono anche sugli equilibri politici e sociali, determinando l’ulteriore rafforzamento del movimento operaio. Si ebbe così la nascita di partiti politici di orientamento socialista e l’aumento esponenziale di scioperi e altre forme di lotta. L’atteggiamento dei cattolici di fronte a tali cambiamenti fu contraddistinto da un rifiuto del socialismo e altre dottrine di tipo rivoluzionario, aspramente critici verso qualsiasi forma di modernità e verso quei principi laici. Papa Leone XIII pubblicò un’enciclica De Rerum Novarum in cui si ispiravano all’idea di conciliazione tra capitale e lavoro. Questo diffuse l’insegnamento pontificio favorendo la realizzazione di attività e di forme associative, come quello del cristianesimo sociale. Lo stato sociale bismarckiano rappresentò un fondamentale punto di riferimento, ad esempio in Italia durante il governo di Crispi si cercò di affrontare la questione sociale accrescendo il ruolo dello Stato nel settore dell’assistenza e della beneficenza. Né derivò una ridefinizione dei compiti dei Comuni e delle Province: ai primi spettò di provvedere alle spese di vaccinazione e all’assistenza medico-ospedaliera per gli iscritti alle liste dei poveri; alle seconde toccò il mantenimento dei malati di mente, alle due istituzione congiuntamente le spese per l’infanzia abbandonata. Per quanto riguarda gli oziosi e i poveri nulla cambia, continua la difesa dai poveri. A livello europeo, nell’ambito delle assicurazioni sociali, si assistè in questi anni alla progressiva estensione degli schemi “classici” di tutela a categorie di lavoratori precedentemente non assicurate. La Germania nel 1892 rese obbligatoria l’assicurazione contro le malattie per tutti i salariati. In Francia nel 1894 nacque uno schema pensionistico per i minatori. Le assicurazioni furono il principale strumento attraverso il quale si operò un progressivo ampliamento dei confini dei nascenti Stati sociali europei. Tendevano a fornire una copertura soltanto a determinate categorie di lavoratori – in genere si trattava dei settori industriali più avanzati o di quelli sindacalmente più organizzati, in grado di esercitare maggiori pressioni sulla classe dirigente nazionale. In Italia nel 1898 l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro segna la nascita del moderno Stato sociale in IT. Nel 1891 in Danimarca venne per la prima volta riconosciuto il diritto alla pensione di anzianità anche a coloro che avevano superato il settantesimo anno di età e, pur non avendo versato contributi, si trovavano in una condizione di bisogno accertata à nuovo approccio universalistico. LIBERALISTI E SOCIALISTI: DALLE RIFORME D’INIZIO SECOLO ALLA GRANDE GUERRA In Francia si ebbe l’affermazione del “blocco delle Sinistre” formato dai radicali e dai settori più moderati al socialismo. La Repubblica Radicale si distinse per una serie di leggi attraverso le quali cercò di rilanciare il processo di laicizzazione e di modernizzazione del paese. Tra le nuove leggi, una più significativa fu quella del 1905, riguardante l’assistenza obbligatoria agli anziani, infermi e incurabili. Migliorando le precedenti disposizioni confermò l’attribuzione alle istituzioni locali in primis ai Comuni, dell’onere di prendersi cura di chi si trovava nella condizione temporanea o definitiva di non poter provvedere alle proprie necessità. Nel 1910 fu approvata una legge sulle pensioni operaie e contadine che istituì un regime di assicurazione di vecchiaia obbligatorio per tutti i salariati, il cui finanziamento era a capitalizzazione: avveniva sulla base di versamenti effettuati annualmente dai lavoratori, dai datori di lavoro, e in minima parte dallo Stato. Il diritto a percepire la pensione si acquisiva a 65 anni d’età. Questa legge però dimostrò diversi limiti: Il carattere obbligatorio non fu sufficientemente evidenziato e il numero degli assicurati che versavano regolarmente i contributi diminuì rapidamente L’entità dei contributi stessi venne fissata a un livello troppo basso e fece sì che le pensioni fossero esigue L’età pensionabile era troppo alta perché gli operai raggiungevano mediamente 60 anni. In questo periodo in Francia furono approvate le prime leggi sulla protezione della maternità: 1909: garantì alle lavoratrici la reintegrazione nel posto di lavoro e il diritto al riposo per 8 settimane consecutive prima e dopo la nascita 1913 Legge Strauss: il congedo di maternità divenne obbligatorio per 4 settimane e affiancato da una modesta indennità Nel Regno Unito l’elemento più radicalmente innovativo risiedeva nel fatto che, a differenza di quello bismarckiano, il sistema pensionistico inglese veniva esclusivamente finanziato dallo Stato attraverso un incremento della contribuzione fiscale e aveva apportato un’impronta universalistica. È una sorta di anticipazione di welfare state che sarebbe stato edificato in Inghilterra a partire dal 1945. La legge Old Age Pension Act del 1908 pose una particolare forma di assistenza ai cittadini che si traduceva in una pensione per tutti coloro che avessero superati i 70 anni e modulata sulla base del reddito. Ad essa seguirono due provvedimenti altrettanto rilevanti varando uno schema di assicurazioni obbligatorie contro le malattie che era finanziato in parte da contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro, in parte dallo Stato attraverso la fiscalità generale. L’altro provvedimento che andò a completare l’impianto lo potremmo definire lo “Stato sociale lib-lab” britannico del primo Novecento fu lo schema assicurativo obbligatorio contro la disoccupazione (Insurance Act), esso riguardava un gruppo relativamente limitato di lavoratori i quali in caso di perdita del posto di lavoro, avrebbero ricevuto un sussidio settimanale. I sussidi dovevano essere erogati da un fondo assicurativo alimentato con le quote versate dai lavoratori, dai datori di lavoro e dallo Stato. Sin dalla costituzione del ministero Zanardelli-Giolitti all’inizio del 1901, apparve chiara la volontà della classe dirigente liberale di avviare una stagione di riforme con il contributo delle componenti moderate del movimento operaio. La Legge Carcano del 1902 fissava l’età minima per essere ammessi al lavoro in fabbrica, alzata a 13 anni per i lavoratori sotterranei; alle lavoratrici madri era espressamente vietato tornare a lavorare se non fosse trascorso 1 mese dal parto o almeno 3 settimane. Venne poi approvato il Testo Unico sulle leggi sanitarie con il quale si riordinava l’assistenza medica in ambito locale e si puntava a combattere malattie endemiche come la malaria. Nel 1910 attraverso la creazione della Cassa di maternità si giunse a fornire una copertura assicurativa a favore delle lavoratrici in caso di parto o di aborto. Era giolittiana à graduale integrazione delle masse nello Stato liberale, estensione dei diritti di cittadinanza, suffragio elettorale maschile nel 1912 / politiche sociali non così evolute. In America tra 1908 e 1914 Progressive Era : leggi per la tutela del lavoro minorile e femminile, salari minimi, schema di assicurazioni obbligatorie in caso di infortunio sul lavoro (Progressive Party di Roosevelt). LE POLITICHE SOCIALI TRA LE DUE GUERRE Lo Stato, il cui ruolo di direzione e di indirizzo in tutti i settori risultò enormemente accresciuto, si impegnò ad assicurare il benessere dei propri cittadini proprio perché essi stessi rappresentavano una risorsa preziosa per l’ottenimento della vittoria finale. Per quanto riguarda il caso italiano vennero adottati interventi che riguardarono soprattutto l’assistenza agli invalidi o ai familiari dei soldati caduti, venne introdotto l’obbligo assicurativo per tutti i lavoratori e lavoratrici al di sotto dei 70 anni che erano impegnati, con qualunque mansione, negli stabilimenti requisiti dal governo per la produzione bellica. La mobilitazione bellica, infatti, aveva forzatamente proiettato nel processo produttivo industriale la manodopera femminile, in precedenza occupata solo in determinati settori. Tutto questo impose ai principali governi una maggiore attenzione sul piano della legislazione sociale ai problemi delle donne sul luogo di lavoro. La Cassa Nazionale di Previdenza (CNP) venne trasformata in Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali (CNAS) e fu chiamata a gestire nuovi schemi. Si trattò di una svolta importante, e non solo in senso tecnico: lo Stato si fa regolatore di benessere sociale non solo promuovendo l’intervento legislativo ma anche attraverso un contributo diretto mediante il quale si attua un principio di redistribuzione delle ricchezze. Le aspettative furono largamente disattese e il provvedimento ebbe esiti negativi per la carenza di fondi provocata dal basso livello dei contributi versati e per la scarsa presenza sul territorio degli uffici provinciali, comunali e di zona per il collocamento. Apparve quindi caratterizzato da una fragilità di fondo, in larga parte dovuta all’instabilità politica ed economica nel dopoguerra. Metà degli anni 20 in Europa à 4 tipi di assicurazioni: infortuni sul lavoro, malattia o maternità, invalidità-vecchiaia, disoccupazione. Gli schemi di natura occupazionale erano prevalentemente a capitalizzazione, ovvero i contribuiti versati venivano accantonati in uno speciale fondo e utilizzati nel momento in cui servivano al beneficiario, mentre le assicurazioni nazionali erano focalizzate sul fornire a tutti i cittadini un reddito minimo e solitamente finanziate attraverso il prelievo fiscale o altri fondi statali previa attestazione dello stato di bisogno del soggetto à means test= verifica del reddito). Il crollo della borsa newyorkese di Wall Street ebbe un effetto dirompente anche sui sistemi di protezione sociale, innescando un processo di revisione che avrebbe portato al varo di nuove politiche e di nuovi strumenti. Sotto Roosevelt si incrementa la social security con la creazione del New Deal: - Nel 1933 creazione della Federal Emergency Relief Administration - Nel 1935 Social Security Act à istituzione di uno schema di copertura assicurativa obbligatoria per invalidità, vecchiaia, superstiti e indennità per i disoccupati - Nel 1939 diventò a ripartizione e segnò una svolta decisiva nella storia dei sistemi previdenziali; utilizzava contributi versati da tutti i lavoratori per pagare tutti coloro che usufruivano delle prestazioni previdenziali. Questo consentiva di disporre immediatamente di un’ingente quota di capitali e di erogare immediatamente in “corsa” a coloro che usufruivano delle pensioni o delle varie forme di sussidio erogate dagli schemi federali o dei singoli stati (pay as you go - Paygo). LA GERMANIA DI WEIMAR: (SI BASA SU CONSENSO LAVORATORI - difendere diritti lavoratori in quanto individui) Nasce una repubblica fortemente democratica con al governo il partito socialdemocratico fino al 1933 quando sale Hitler al potere. La Germania ha problemi economici e sociali e cercano così di costruire le proprie politiche sociali. Viene sancito il diritto al lavoro e al mantenimento Salvaguardia salute e capacità lavorativa Giurisdizione dei contratti di lavoro: non c’è più contrattazione 1 e 1 ma tra il sindacato si esprime per i singoli e il proprietario della fabbrica Crisi del dopoguerra: Assistenza per tutti i reduci di guerra, donne lavoratrici e per i figli Il sindacato è assolutamente riconosciuto Vengono tagliati i sussidi perché non ci sono più i fondi LA GERMANIA NAZISTA: Si basa su concetto comunità di popolo cercando di superare la società di classe, stimolando la coesione sociale e individuare i dissidenti La storia dell’uomo è un conflitto tra razze umane e la razza tedesca vuole essere unita contro le altre Politiche di Welfare: Soccorso invernale = opera su base volontaria gestita dal partito che permette politiche di beneficenza Opera sociale del popolo tedesco: sistema assistenziale per tutti i cittadini finanziato dal prelievo fiscale. Si basa sul “patto generazionale”, per cui sistema Paygo Considera la società come una società organica, un tutt’uno I diritti del singolo non possono prescindere quello della comunità Pensioni minime con incrementi differenziate basate sul reddito degli ultimi 10 anni di lavoro Germania così elimina il problema della disoccupazione investendo soldi nella politica del riarmo. Hitler investe in qualcosa che non beneficia altro se non il riarmo Lo stato sociale totalitario Le conseguenze della crisi del 1929 sull’economia americana ed europea misero in evidenza tutti i limiti degli schemi di copertura elaborati fino a quel momento; la disoccupazione di massa, la stagnazione, l’inadeguatezza dei tradizionali strumenti di lotta alla crisi riaccesero il dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia e nelle politiche sociali. Riprese in vigore un tipo di Stato sociale di ispirazione bismarckiana, che assunse un carattere “corporativo-autoritario” o totalitario come quello nazional-socialista. Dopo la marcia su Roma, il governo guidato da Mussolini non mostrò l’intenzione di modificare l’approccio di fondo alle questioni sociali. Il Fascismo mostrò chiaramente di voler indebolire e dividere le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori. Allo stesso tempo, con scopi evidentemente clientelari, si inaugurò una politica di attenzione verso determinate categorie, come i dipendenti pubblici, mediante la creazione di appositi enti mutualistici. Il regime fascista va al potere nel 1922 Deve dare risposte alla crisi del dopoguerra Fascismo: dittatura, regime totalitario, vuole organizzare totalitariamente la società in ogni suo aspetto. Idea di mobilitare la società attraverso l’espansione del paese. Il Partito vuole avere consenso delle masse e crearlo attraverso nuova ideologia, vuole che siano entusiaste di far parte del regime fascista. Vengono negati totalmente i diritti e dati solo dal dittatore. Mussolini nel 1922 parla di collaborazione delle classi in quanto la società è organica dove c’è chi comanda, decide e obbedisce Tutte le sue parti collaborano a un grande progetto: “La nazione”. Chiede dunque agli operai di non identificarsi più negli interessi della loro classe ma in quelli della nazione, perché più la nazione è ricca più gli operai saranno ricchi e più si produce più ci sarebbe da distribuire. Il Sistema non è neutrale, ci saranno alcune categorie con più diritti di altre perché magari più necessarie per il controllo sociale o perché dimostra particolare fedeltà come, ad esempio, i militari che hanno concesso a mussolini di ottenere il potere con la marcia su Roma, Mussolini poi applica il riarmo che da più soldi ai soldati e dunque allo scoppio della 2 guerra mondiale vi erano moltissimi generali. A Mussolini interessava la fedeltà per questo attua queste politiche. I ferrovieri erano ostili al fascismo e così nel 1922 vennero licenziati. Vengono centralizzati i sistemi di welfare come l’INAIL e l’INPS Il ruolo della propaganda: I fascisti applicano alla politica tecniche moderne di marketing (simbolo fascismo molto semplice da riprodurre) Non è stato il fascismo a creare un sistema nazionale, era una cosa che esisteva già I fascisti sono riusciti a fascistizzare tutto, facendo credere di essere i creatori del sistema sociale italiano I fascisti hanno un ministero della propaganda come i nazisti, per mobilitare le masse e il consenso La previdenza: 1923 primo provvedimento. Restrizione dell’assicurazione infortuni per gli agricoltori (dal 10 al 15 percento) 60 percento delle richieste respinte dal 20 percento precedente. Liquidate le casse locali dell’assicurazione, tutto accentrato nella CNAS. Le squadre fasciste violente sono pagate dagli agrari Cancellato l’obbligo dell’assicurazione contro la disoccupazione per i lavoratori agricoli. Si pagano i derivati con gli agrari Nel 1928 si alzano le pensioni di invalidità e vecchiaia. Aumenta la platea dei beneficiari (+ gente che può avere pensione) 1935 testo unico previdenza, nessuna novità. Il partito è l’alternativa per l’assistenza dei disoccupati. Sussidi mirati 1934: introduzione degli assegni familiari. 40 ore settimanali per gli operai dell’industria, mancato guadagno compensato dagli assegni familiari 1936 —> assegni concessi solo ai maschi capofamiglia (modello fascista di famiglia), assegni più alti ai lavoratori più agiati (modello classista ma la vita costa di più in città) (i figli degli impiegati possono studiare e avere decoro nel vestiario, i figli dei contadini devono continuare a fare i contadini) Donne: Cacciare le donne dal mondo del lavoro Dal 1927 salari femminili ridotti al 50% di quelli degli uomini 1929 leggi per le donne: garantiti posti di lavoro durante gravidanze (8 sett. di congedo, aumento del sussidio per il parto); 1934 congedo esteso altre 2 sett. —> incentivo alla famiglia (politica natalista) 1936 indennità di parto e aborto anche alle lavoratrici dell’agricoltura (donne in agricoltura sotto tutelate) unico aiuto alla donna al parto —> levatrice + figli + la donna sta a casa Alto tasso di mortalità infantile e di donne durante il parto 1925 Opera Nazionale Maternità e Infanzia OMNI —> aiutare a far nascere e crescere i figli delle donne non sposate + minori abbandonati fino ai 5 anni —> vigilatrice fascista che va a casa a dare supporto alle donne Patronati locali OMNI: Assistenza alle mondine abbandonate e messe incinta dai proprietari + colonie marittime per i bambini OMNI accresce il consenso nei confronti del Duce Previdenza: 1933 nasce INFPS (Istituto Nazionale Fascista Previdenza Sociale) che assorbe la CNAS (1898) e la vecchia classe dirigente —> fulcro di tutte le assicurazioni sociali Coprono la disoccupazione, maternità, distribuiscono assegni familiari, lotta contro la tubercolosi Contributi dell’INFPS formano una cassa utilizzata per investimenti: costruzioni di infrastrutture, bonifiche, salvataggi industriali (dovrebbero occuparsi solo delle pensioni ma i soldi vengono investiti comunque) Strumento di consenso, fondamentale per le politiche locali del regime —> centri di potere che strumentalizzano le industrie per accrescere il potere fascista Cancellano 1° maggio Festa dei Lavoratori —> 21 aprile (nuova festa di Roma) alla sede di Mussolini a Roma distribuiscono libretti di pensione—> macchina di propaganda Dura repressione per chi prova a festeggiare comunque 1° maggio —> Confino in paesi del sud e schedato e sorvegliato dalla polizia fascista e la milizia per tutta la vita 1937 INPS in crisi (basse pensioni) 1938 riforma dell’INPS —> pensioni di reversibilità, automaticità delle prestazioni, abbassamento dell’età pensionabile 1938 leggi razziali contro gli ebrei (esclusione dalla società e dall’economia) Riordino delle Opere Pie: Dal 1890 da Crispi (istituzioni pubbliche di beneficenza) IPB dentro le congregazioni di carità, in ogni comune / le cattoliche rimangono autonome Nel 1923 governo prova a statalizzare le IPB trasformandole in IPAB gestite dalle prefetture 1926 Legge Federzoni —> opposizione dei cattolici Il Partito: 1926 nascono le OA (Opere Assistenziali) dentro il PNF 1931 EOA (Enti Opere Assistenziali Per ottenere consenso: enti finanziati da privati, befana fascista, visitatrice fascista 1937 nasce la GIL (partito grande pedagogo, Gioventù Italiana del Littorio) + OMNI comprende diverse associazioni come l’opera balilla (bambini a 10 anni avevano divisa è un piccolo fucile) Offre attività sportive, culturali, colonie marine/montane Durante le attività i ragazzi avevano il cibo pagato, la famiglia pagava solo la divisa Dona tantissimo consenso al partito La struttura dello Stato diventa sempre più pesante e costosa (molti dipendenti) - macchina che consuma ma produce soldi In Unione Sovietica Avvento dei consumi di massa e diffusione del sistema fordista (taylorismo+automazione) di produzione industriale (basato sulla catena di montaggio e su tecniche di massimizzazione del rendimento dell’attività lavorativa); Accordi tra sindacati e organizzazioni degli imprenditori; Sviluppo nelle economie occidentali come: Piano Marshall che subito dopo la guerra fornì l’aiuto necessario a rimettere in moto le economie dei paesi europei Il bolscevismo puntò a riorganizzare la frammentaria e largamente incompleta struttura della protezione sociale vigente sotto il governo zarista. La famiglia era considerata la “cellula” di base dell’intero impianto socialista; anche lo stato sociale sovietico perseguì prevalentemente fini di controllo sociale e di organizzazione del consenso. Il piano Beveridge William Beveridge nel 1942 pubblicò un rapporto destinato a rivoluzionare il sistema di sicurezza sociale del Regno Unito. Cercava di armonizzare tre differenti metodi previdenziali emersi nel corso dell’evoluzione storica dell’esperienza britannica: quello delle pensioni contributive, quello dei sussidi per particolari categorie disagiate e quello delle pensioni occupazioni volontarie a integrazione di quelle contributive. Si proponeva di completare la trasformazione delle strutture statali a favore della vecchiaia mediante la costituzione di un sistema universalistico senza means-test, invitata a seguire tre principi guida: Tenere conto delle esperienze passate ma senza essere vincolati da esse; Inserire in ogni progetto di trasformazione del sistema previdenziale in un contesto più ampio di politica di progresso sociale; Essere coscienti della necessità di una cooperazione tra Stato e individuo. Emerse così uno stato social-democratico, che non rinunciava ai suoi obiettivi ideologici, ma che si proponeva di raggiungerli attraverso la strada lunga e faticosa delle riforme e della “accettazione del compromesso” cioè dell’economia di mercato. LA COSTRUZIONE DEL WELFARE STATE: PREVIDENZA E ASSISTENZA DAL 1945 AL 1973 I primi anni del secondo dopoguerra furono caratterizzati da un deciso sviluppo delle politiche sociali che, soprattutto nell’Europa del Nord e in Gran Bretagna, univano la forte impronta universalistica degli schemi di protezione sociale a una concezione avanzata del ruolo attivo dello Stato. Ispirato ai principi della “sicurezza sociale” e caratterizzato da assicurazioni nazionali a connotazione universalistica (volte a tutelare i cittadini in quanto tali) e da una rete di servizi pubblici, nasceva un tipo particolare di Stato sociale, il welfare state o “Stato del benessere”. Le origini vanno ricercate in quel processo di ridefinizione ideologica e programmatica che si aprì in molte realtà europee e negli Stati Uniti all’indomani della grande depressione seguita al 1929. A favorire la nascita di un nuovo tipo di Stato sociale furono però anche altri fattori: Avvento dei consumi di massa e diffusione del sistema fordista di produzione industriale (basato sulla catena di montaggio e su tecniche di massimizzazione del rendimento dell’attività lavorativa; Accordi tra sindacati e organizzazioni degli imprenditori; Sviluppo nelle economie occidentali come: Piano Marshall (aiuti da USA per Europa dopo guerra) che subito dopo la guerra fornì l’aiuto necessario a rimettere in moto le economie dei paesi europei L’espressione welfare state fu usata in tempo di guerra dall’arcivescovo Temple in contrapposizione al warfare, il perenne stato di guerra con cui il nazismo aveva edificato il proprio Stato. Soprattutto in Italia e Germania si lavorò per codificare questi nuovi diritti sociali/realizzare il completamento delle “libertà liberali” e inserirli nelle proprie Carte costituzionali à Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ONU nel 1948. Si andò costituendo tra il 1945 e gli anni Cinquanta con molti tratti in comune e altrettante specificità nazionali. Il Libro Bianco in Gran Bretagna teorizzava un deciso intervento dello Stato per garantire a ciascun cittadino la pienezza dei suoi diritti sociali attraverso la creazione di un sistema che lo seguisse “dalla culla alla tomba” assicurandogli reddito, alimentazione, alloggio, istruzione e cure mediche. Uno dei pilastri sui quali si costruì l’edificio del welfare state britannico fu il National Insurance del 1946 con il quale si operò un importante riassetto del sistema previdenziale e assistenziale, fu messa in pratica una sorte di nazionalizzazione del sistema pensionistico. Venne quindi varata la riforma dell’assistenza sociale che cancellava le precedenti disposizioni risalenti alle varie Poor Laws, si disciplinarono sussidi destinati a quei cittadini che avessero dimostrato il loro status di bisognosi attraverso il means test dirette soprattutto ai minori. Significativi mutamenti anche nel sistema previdenziale, l’obbligo assicurativo per i principali rischi fu esteso a tutta la popolazione britannica adulta che fu divisa in tre categorie: lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi e disoccupati. Per quanto riguarda le pensioni di vecchiaia gli schemi erano imperniati su una “pensione sociale” di importo fisso riservata a quei cittadini di oltre 70 anni di modeste condizioni economiche e privi di versamenti contributivi, e da una “pensione di base statale” i cui contributi venivano versati settimanalmente dai lavoratori di lavoro e in parte integrati dallo Stato. Vi erano inoltre, le “pensioni di reversibilità” che spettavano al coniuge superstite e in alcuni casi, ai figli minori al momento del decesso del titolare, le indennità per la disoccupazione, rivolte a tutti i cittadini di età superiore ai 18 anni, le prestazioni in caso di infortuni sul lavoro e malattie professionali e quelle di malattia e maternità. La Norvegia aveva infatti varato nel 1936 una riforma delle pensioni di vecchiaia e introdotto uno schema di copertura assicurativa per disabili e non vedenti; in Svezia venne varata una riforma del sistema previdenziale che, abolendo la prova dei mezzi si caratterizzò per l’impostazione fortemente universalistica. In Norvegia si procedette al riordino delle pensioni per i combattenti, militari e civili, che avevano preso parte alla resistenza contro i nazisti, nel 1949 venne introdotta l’estensione della copertura previdenziale ai lavoratori dipendenti di alcuni importanti settori. Sull’esempio del Piano Beveridge e per cercare soluzioni adatte a fronteggiare la difficile situazione sociale, nell’immediato dopoguerra un po' in tutta Europa si formarono commissioni di studio incaricate di vagliare le possibili ipotesi di revisione dei principi schemi previdenziali e assistenziali. Quali fattori determinarono la mancata affermazione dell’universalismo in Italia? Un primo motivo contingente va individuato nella scarsità di tempo e di mezzi in cui poté lavorare la Commissione d’Aragona. I pochi mesi di cui disposero non consentirono loro di studiare in modo approfondito soluzioni che potessero essere immediatamente applicabili al contesto nazionale. Sul piano socioeconomico occorre ricordare che l’Italia del dopoguerra era un paese a forte caratterizzazione agricola, con un sistema di relazioni industriali arretrato, con una limitata diffusione del sistema di produzione tayloristica* e con una quota di lavoratori dipendenti molto più bassa rispetto a quella dei paesi anglo-scandinavi. Questi elementi rendevano più complesso il finanziamento di sistemi di sicurezza sociale di tipo universalistico e l’accettazione da parti di vari ceti sociali, in specie dai lavoratori autonomi. * I princìpi del taylorismo 1. analizzare le caratteristiche della mansione da svolgere, 2. creare il prototipo del lavoratore adatto a quel tipo di mansione 3. selezionare il lavoratore ideale, al fine di formarlo e introdurlo nell’azienda. La Germania era distrutta dalla guerra e divisa in zone d’occupazione, il dibattito tra le forze politiche che faticosamente si andarono ricostituendo ruotò solo marginalmente intorno a provvedimenti concreti. Così la questione della trasformazione dello Stato sociale nazista, che verteva sulla necessità di una razionalizzazione del sistema vigente e sul passaggio o meno a un’impostazione universalistica, s’intrecciò con altre questioni egualmente importanti quali la socializzazione delle grandi industrie, la democrazia economica o la cogestione (forme di compartecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende e alla ripartizione degli utili). Nel 1945 per iniziativa del partito social-democratico nella zona di occupazione sovietica di Berlino e fu preposta alla gestione congiunta degli schemi assicurativa per i lavoratori dipendenti e autonomi. All’inizio degli anni Cinquanta in tutta l’Europa occidentale maturarono le condizioni per l’avvio di una robusta fase di crescita, destinata a protrarsi per oltre un ventennio, che coincise con la progressiva affermazione del welfare state. L’effetto fu quello di trasformare profondamente le strutture previdenziali, estendendo il loro livello di copertura alla totalità della popolazione. Gli schemi a capitalizzazione funzionavano accantonando in un fondo i contributi versati per la copertura di un determinato rischio (infortuni, invalidità, vecchiaia, malattia), questo veniva poi utilizzato per finanziare le prestazioni previdenziali, a proposito del Social Security Act statunitense, il criterio della ripartizione comportava che i contributi versati in un dato momento venissero immediatamente utilizzati per finanziare le prestazioni di quello stesso periodo. Si dava vita a una sorta di “patto generazionale” fra la popolazione attiva, che accettava di finanziare gli schemi previdenziali di coloro che percepivano le pensioni in quel momento, con l’implicita assicurazione che le successive generazioni di lavoratori avrebbero fatto lo stesso nei suoi confronti. Il welfare state svedese divenne welfare state popolare, cioè uno Stato sociale sempre più imperniato sui diritti di cittadinanza piuttosto che sull’appartenenza a una determinata categoria produttiva. Il concetto stesso di pensione cambiava: lungi dall’essere intesa come un sussidio o una elargizione, essa diventava a tutti gli effetti un salario posticipato, il riconoscimento in termini monetari delle mansioni svolte durante l’età lavorativa. In Norvegia fu estesa l’assicurazione malattie a tutti i cittadini e nel 1957 fu eliminata la prova dei mezzi per concessione delle pensioni di base e si dette vita a un sistema previdenziale anch’esso allargato a tutta la cittadinanza, compresi coloro che non avessero potuto versare contributi e fu approvata la nuova legislazione sugli assegni familiari e la riforma in senso universalistico dell’assicurazione contro gli infortuni. A metà degli anni Cinquanta negli ambienti della London School of Economics si fece strada l’idea di una riforma previdenziale che introducesse l’obbligatorietà di pensioni integrative pubbliche per tutti i lavoratori dipendenti; fu accolta con freddezza dalle organizzazioni di rappresentanza dei datori di lavoro, e soprattutto, dalle compagnie assicurative private, ma anche dagli stessi sindacati. Nel 1957 si arrivò a un compromesso: il Labour Party sposò l’idea di una pensione integrativa struttura su queste basi, lasciando tuttavia a certe categorie (quelle impiegatizie e operaie con retribuzioni più elevate) la libertà di svincolarsi contrattualmente, cioè di restare fuori da questo schema e mantenere il trattamento pensionistico vigente. Il governo conservatore fece propri questi principi ispiratori e varò una sua riforma previdenziale, creava un fondo pubblico finanziato attraverso particolari meccanismi di contribuzione con il quale si concedeva alle categorie che ne erano sprovviste una pensione integrativa pubblica collegata al reddito e quindi maggiormente vantaggiosa per i lavoratori dipendenti con salari più alti. In Germania e Francia restarono in funzione schemi previdenziali d’impronta decisamente occupazionale, difficile fu il percorso della Germania sconvolta dalla guerra, per la seconda volta, i principali fondi pensionistici erano stati annullati; la scelta fatta dai nazisti di convogliare oltre il 70% dei fondi di pensione in buoni dello Stato aveva depauperato milioni di assicurati nel momento in cui il regime, e con esso il marco, era crollato e si era scatenata l’inflazione. Si palesò la necessità di giungere in tempi brevi a un sistema che unificasse i vari schemi previdenziali e sostituisse il tradizionale funzionamento a capitalizzazione con uno a ripartizione, di ispirazione anglosassone. Rispetto al passato le pensioni mantenevano il carattere obbligatorio e occupazionale e la strutturazione in casse di categoria; il sistema puntava a erogare ai lavoratori una pensione che garantisse loro uno status analogo a quello raggiunto durante la vita lavorativa. Il sistema previdenziale, dunque, erogava una pensione collegata al salario oltre a fornire una copertura per i rischi di vecchiaia, invalidità e morte, mentre i sussidi di base, volti ad assicurare un reddito minimo a coloro che non rientravano in questi schemi, erano forniti dall’assistenza sociale. Il criterio di finanziamento passava dalla capitalizzazione alla ripartizione con contributi a carattere “tripartito”, ossia versati dai lavoratori e dai datori di lavoro e integrati da appositi fondi del bilancio federale. In Francia la nascita della Securitè sociale e l’adozione del principio del principio della ripartizione in luogo di quello a capitalizzazione sancirono l’estensione della sicurezza sociale a tutti i cittadini e l’inserimento di tutta la popolazione attiva nel quadro di un unico schema assicurativo sulla vecchiaia. Le pensioni di vecchiaia vennero introdotte quelle per commercianti, artigiani e liberi professionisti e nel 1952 quelle per i coltivatori diretti, nove anni più tardi, fu creato un regime di assicurazioni malattie obbligatorio, ma con la possibilità di scegliere l’ente assicuratore. Nacque così un Fondo nazionale di solidarietà che garantiva una “pensione sociale” a tutti coloro che avessero compiuto i 65 anni di età e si trovassero al di sotto di una determinata quota di reddito annuo. Nel 1952 fu istituito un “Fondo adeguamento pensioni” gestito col criterio della ripartizione, che si andò ad affiancare al fondo base che utilizzava il criterio della capitalizzazione. Si innescò un fenomeno destinato a protrarsi anche negli anni successi: quello della mutualità fra le categorie, ovvero il trasferimento dei fondi da una gestione all’altra allo scopo di ripianare eventuali disavanzi e garantire la necessaria disponibilità finanziaria. Anche negli Stati Uniti dove tradizionalmente il welfare state aveva mantenuto un carattere residuale si avvertì l’esigenza di porre maggiore attenzione a questi temi. Si tradusse in particolari nell’ulteriore ampliamento delle coperture e nell’aumento del valore delle pensioni. In Gran Bretagna la vera innovazione riguardò l’Assistenza Nazionale che si occupava delle pensioni sociali spettanti a quei soggetti che si trovavano al di sotto di una determinata soglia di reddito. Venne parzialmente corretto il proprio sistema della prova dei mezzi, volto all’accertamento dello stato di bisogno, e per alcune particolari categorie furono introdotti dei sussidi parlamentari finanziati con i fondi pubblici che erogavano una sorta di “reddito minimo garantito”. La Norvegia nel 1966 attò la riforma delle pensioni di vecchiaia. La nuova normativa prevedeva l’adozione di uno schema obbligatorio comune per i lavoratori dipendenti e quelli autonomi ma, con livelli pensionistici commisurati al reddito. Nello stesso anno in Germania si produsse una svolta politica significativa, che ebbe importanti ripercussioni sulle dinamiche dello Stato sociale. Costretti dalla difficile congiuntura economica i principali partiti decisero di dar vita a una Grande coalizione, si temeva che essa, realizzata con l’obiettivo di risollevare il paese dalle difficoltà economiche, si traducesse in una politica di rigore e di tagli alle spese. Si ebbe un rilancio dell’intervento statale nell’economia e un incremento delle prestazioni previdenziali, assistenziali e sanitarie. Nel 1967 il governo tedesco varò il riassetto degli schemi di invalidità e vecchiaia e di quelli relativi all’assistenza sanitaria modificandone i criteri di finanziamento, tuttavia si mostrarono insufficienti a risolvere i problemi più pressanti. In Francia fu l’instabilità politica e istituzionale, ancor più di quella economica, ad avere ripercussioni sull’evoluzione delle politiche di welfare. Il principale provvedimento fu la cosiddetta “riforma Jeanneney” varata nel 1967 che prevedeva la ripartizione delle prestazioni: Prestazioni destinate alle famiglie furono riorganizzate all’interno di una Cassa nazionale degli assegni familiari Assicurazioni di malattie, maternità, decessi, incidenti sul lavoro, assegni familiari nella Cassa nazionale assistenza malattie Prestazioni pensionistiche furono raggruppate dentro la Cassa nazionale assicurazioni sulla vecchiaia In Italia con la nascita della coalizione di Centrosinistra decise subito l’aumento del 30% delle pensioni contributive e l’incremento delle pensioni minime di invalidità e vecchiaia per gli ultrasessantacinquenni. Questi provvedimenti, che puntavano a adeguare il livello delle prestazioni al costo della vita. Sul finire degli anni Sessanta i sistemi previdenziali dei paesi più avanzati si trovavano in una situazione particolare, da un lato, pur perdurando la tradizionale visione tra quelli tendenzialmente universalistici e quelli a connotazione occupazionale, si erano strutturati per erogare prestazioni alla totalità della popolazione. Nello stesso tempo però il progressivo innalzamento della vita media e i primi segnali della crisi economica che sarebbe scoppiata all’inizio degli anni Settanta palesarono crescenti problemi di sostenibilità. In Italia la coalizione Centrosinistra non riuscì a trovare con le parti sociali un terreno d’intesa che consentisse la realizzazione di un modello di sicurezza sociale di più spiccata impronta universalistica. Anche il sistema previdenziale tedesco nel 1969 venne parzialmente ridisegnato da alcune leggi che rivedevano gli schemi di assicurazione malattie, invalidità, vecchiaia e assistenza sociale, ampliando il numero dei beneficiari e aumentando l’entità delle prestazioni. Si inserì la legge Boulin adottata in Francia nel 1971, essa rivide i criteri di calcolo degli importi delle pensioni di vecchiaia che vennero aumentate e ancora più strettamente collegate al salario percepito durante gli anni lavorativi. In Germania la riforma delle pensioni giunse nel 1972 propose di salvaguardare il potere d’acquisto delle pensioni e in quest’ottica rientrò il principio di collegare l’entità delle pensioni minime al minimo salariale. Molti dei provvedimenti adottati si tradussero in un pesante aggravio per le sempre più esigue risorse pubbliche, erano infatti, le pensioni le principali voci di spesa pubblica in ambito sociale. Di fronte a questi segnali da alcune parti si cercò di sopperire alla carenza di risorse finanziare attraverso un ulteriore aumento della pressione fiscale. L’APOGEO DEL WELFARE: ASSISTENZA SANIRARIA PUBBLICA E NUOVI AMBITI DI TUTELA Nel 1946 il governo britannico votò la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale affidato alle strutture pubbliche, finanziato attraverso il prelievo fiscale e caratterizzato dalla gratuità dei servizi nei confronti di tutti i cittadini indistintamente. Veniva strutturato su tre livelli differenti: Strutture ospedaliere che dovevano fornire assistenza di tipo specialistico e poste sotto il controllo pubblico per mezzo di appositi enti regionali, i quali a loro volta erano collegati al Ministero della Sanità; Prestazioni mediche di base che venivano assicurate ai cittadini da medici generici; A livello locale vennero creati degli organismi con compiti gestionali e di indirizzo e con specifiche competenze nell’ambito delle prestazioni farmaceutiche e dentistiche e dell’organizzazione sul territorio dei medici generici. Questi enti si occupavano di molteplici questioni che andavano dalle campagne di vaccinazione all’assistenza delle madri e dei fanciulli, dai servizi sociali all’assistenza sanitaria domiciliare, ai servizi di ambulanze e di primo soccorso. In Svezia nel 1946 il Parlamento, partendo dalla questione delle spese per le visite mediche e l’acquisto dei farmaci, votò un piano di riassetto complessivo della sanità che, in accordo con una visione che considerava complementari e di importanza strategica previdenza, assistenza e sanità, venne strettamente collegato alle nuove disposizioni in materia pensionistica e assistenziale. La riforma ebbe un grande successo: il servizio sanitario nazionale fu ben presto in grado di erogare prestazioni di alta qualità in un contesto in cui il settore pubblico, specie in ambito ospedaliero, svolgeva un ruolo nettamente maggioritario rispetto a quello privato. La scelta di dar vita a un sistema sanitario di tipo universalistico fu compiuta nel 1973 anche dalla Danimarca, una graduale universalizzazione del sistema di protezione sociale si ebbe anche in Olanda, nel 1964 aveva deciso l’allargamento della copertura assicurativa a tutti i lavoratori dipendenti a prescindere dalla loro categoria e dal loro reddito. Venne introdotto uno schema assicurativo di tipo nazionale destinato ad assicurare ai cittadini la copertura delle “spese mediche eccezionali”, la Repubblica federale tedesca invece, ricostruì il proprio sistema di assistenza sanitaria sulle ceneri di quello di derivazione bismarckiana che lasciava allo Stato unicamente compiti di supervisione. L’assistenza sanitaria continuò a essere strettamente connessa al sistema di assicurazioni occupazionali a carattere volontaristico o di natura privata. In Francia i governi del dopoguerra si rivelarono incapaci di ricomporre in un unico organismo gestionale il complesso mosaico delle varie prestazioni sanitarie e cercarono di perseguire finalità di razionalizzazione e universalizzazione dei servizi. Riuscirono in una parziale riorganizzazione del sistema sanitario rivedendo lo status delle varie categorie mediche e paramediche accorpando i vecchi organismi in un’unica Direzione generale. Fu creato un unico istituto con compiti di controllo sui medicinali à un progetto che assicurava la parziale copertura delle prestazioni mediche a coloro che rientravano negli schemi assicurativi. Negli Stati Uniti una legge riorganizzò il sistema delle prestazioni ospedaliere medico- sanitarie con particolare attenzione alle aree rurali, l’assistenza sanitaria non prevedeva alcuna forma obbligatoria di assicurazione e continuava a essere prevalentemente erogata da soggetti privati. Le casse per la tutela del rischio malattia erano gestite da compagnie assicurative private, casse aziendali che funzionavano sulla base del principio mutuo soccorso o associazioni di tipo volontaristico. In genere il finanziamento ricadeva totalmente sul lavoratore e solo raramente era sostenuto dal datore di lavoro. Tuttavia, si erano mostrate inadatte a coprire le malattie più gravi che comportavano spese medico-farmaceutiche e ospedaliere molto alte. Particolarmente sviluppati furono i programmi nel campo psichiatrico e delle malattie mentali. Quanto all’Italia la strada verso l’universalizzazione delle prestazioni sanitarie si dimostrò particolarmente irta di ostacoli, sull’esempio britannico proposto dalla Commissione D’Aragona, le prestazioni sanitarie restavano quasi esclusivamente imperniate sul sistema delle casse mutue. L’idea di un sistema sanitario nazionale si fece strada nel dibattito politico-programmatico che precedette la costituzione dei governi di Centrosinistra, tuttavia fu accantonata. Nel 1966 giunse a vigore la legge sull’invalidità civile che prevedeva l’erogazione di un assegno mensile da parte dello Stato ai mutilati e agli invalidi affetti di un assegno mensile da parte dello Stato ai mutilati e agli invalidi affetti da una permanente inabilità affettiva, che avessero più di 18 anni e non disponessero di pensioni, assegni o rendite di altro genere. Mostrò, tuttavia, ben presto i suoi aspetti negativi: in assenza di altre forme di assistenza, in molte zone del paese l’assegno di invalidità, gestito con modalità clientelari, divenne più uno strumento di integrazione del reddito che una prestazione da corrispondere a coloro che si trovavano in un effettivo stato di bisogno. La legge Mariotti completò la trasformazione degli ospedali da enti con finalità di diagnosi e terapia in enti con finalità anche di prevenzione e riabilitazione. NUOVI BISOGNI SOCIALI E ALLARGAMENTO DEI CONFINI DEL WELFARE: LAVORO, CASA, ISTRUZIONE Tra gli effetti più vistosi del “trentennio glorioso” che seguì la fine del secondo conflitto mondiale, caratterizzato da un impetuoso ritmo di sviluppo economico, vi furono la crescita demografica e l’aumento delle aspettative di vita. Pur tenendo conto delle specificità nazionali, i vari modelli di welfare favorirono il radicamento di una struttura familiare imperniata sulla dicotomia maschio percettore di reddito/donna prestatrice di cura (male breadwinner regime). Essi andarono a tutelare principalmente le famiglie monoreddito, con il capofamiglia che era in genere un lavoratore dipendente e la donna era impegnata nella cura della casa e dei figli. La copertura interessò anche altre categorie, come i lavoratori autonomi, soltanto a partire dagli anni Sessanta con la diffusione del movimento femminista e le rivendicazioni per l’emancipazione della donna, le forme di tutela furono estese a quei soggetti che fino a quel momento risultavano più penalizzati. Si andò definendo un approccio che considerava responsabilità delle autorità pubbliche individuare criteri di intervento che assicurassero alla massa dei cittadini degli standard abitativi adeguati, privilegiando ovviamente coloro che si trovavano in più stringenti condizioni di bisogno. La legge tedesca del 1950, oltre ad intervenire sull’ammontare degli affitti, introdusse finanziamenti agevolati per i privati in cambio di un controllo pubblico sugli standard abitativi e sull’ubicazione dei nuovi edifici. La costruzione di nuove case per risolvere il problema della penuria di alloggi fu il principale obbiettivo anche dei governi laburisti. L’intervento pubblico fu particolarmente incisivo anche in Francia dove si cercò di favorire la costruzione di nuove case soprattutto attraverso la concessione di agevolazioni finanziarie. A completare il quadro contribuirono le politiche per l’istruzione che furono ovunque caratterizzate dalla scelta di estendere l’obbligo scolastico oltre l’ambito dell’educazione primaria fino a comprendervi quello della secondaria inferiore. L’ACCELERAZIONE DELLA SPINTA RIFORMISTA NEGLI ANNI SESSANTA Kennedy (democratico), con la sua politica della New Frontier, si prefiggeva il rilancio dell’economia e il riconoscimento dei diritti civili e sociali delle etnie e ceti più marginali. Figuravano la parità di diritti per gli afroamericani: accesso alle scuole riservate ai soli bianchi, interventi sul terreno sociale che contemplavano un’assicurazione statale contro le malattie destinate agli anziani, con un contributo federale per l’istruzione e una riforma in senso meno restrittivo della legislazione sull’immigrazione à le riforme non vennero mai attuate a causa della crisi di Cuba, guerra in Vietnam e assassinio JFK. L’azione riformatrice in Svezia si indirizzò verso la costruzione di una rete di servizi che ebbe come punto di riferimento privilegiato le famiglie e le donne e fu preceduta da alcuni studi preparatori, i consultori familiari avrebbero dovuto seguire le giovani coppie e le donne fornendo consulenza e sostegno in materia di natalità, contraccezione e interruzione di gravidanza, oltre che nella gestione della famiglia. La stagione che vide in Europa l’apogeo del welfare coincise in Italia con la nascita dei governi di Centrosinistra, cioè con la storica alleanza tra i partiti moderati egemonizzati dalla Democrazia cristiana e il partito socialista. Fra gli obiettivi qualificanti della coalizione vi era l’allargamento e il miglioramento del sistema di protezione sociale. Nel 1962 fu varata la legge che istituiva la scuola media unificata e innalzava l’obbligo scolastico ai 14 anni d’età e, poche settimane più tardi, quella che introduceva l’assegno di studio universitario o presalario per gli studenti con redditi familiari bassi. Fu costituito il nuovo Ente Gestione Case per i lavoratori italiani attraverso il quale il governo si proponeva di fornire abitazioni di proprietà a basso costo ai lavoratori concedendo loro agevolazioni creditizie e finanziamenti ad hoc. Il risultato fu un effettivo incremento dell’offerta di abitazioni sul mercato, che però favorì soltanto le categorie dei lavoratori a reddito fisso o con maggiori possibilità di risparmio, i quali potevano accedere ai mutui meno gravosi. Vi fu un’espansione delle case di proprietà, questa fu possibile solo per i ceti con i livelli di reddito medi, o comunque in grado di acquistare abitazioni con un maggior numero di stanze più elevati di quelli delle case popolari. Viceversa, i ceti più deboli videro accentuarsi le difficoltà nel trovare alloggi a buon mercato. UN BILANCIO Il successo dei principi di Beveridge e l’edificazione del welfare state trasformarono i sistemi di protezione sociale e la tendenza comune fu quella a un generalizzato ampliamento della copertura: sia nei paesi a guida social-democratica che in quelli a predominanza cristiano- democratica. All’inizio degli anni Sessanta in tutti i paesi la principale voce di spesa era rappresentata dalle voci di vecchiaia e in tutta Europa si manifestarono crescenti aspettative di ampliamento dei diritti di cittadinanza e delle politiche sociali. Per quanto concerneva il livello di copertura restava una differenza fra i sistemi di welfare a carattere universalistico, cioè finanziati a garantire una protezione minima a tutti i cittadini, e sistemi a carattere occupazionale, volti cioè a tutelare coloro che, attraverso il versamento dei contributi, finanziavano i vari schemi di protezione sociale. I sistemi universalistici “puri” fornivano una copertura rivolta a tutti i cittadini, senza accertamenti dello stato di bisogno o “prova dei mezzi”, integrandola eventualmente con schemi occupazionali a prevalenza pubblici. DAL WELFARE OPTIMISM AL WELFARE PESSIMISM: LA CRISI DEGLI ANNI SETTANTA E OTTANTA A metà degli anni Settanta, l’impatto concomitante di alcuni fattori economico-sociali determinò profonde ripercussioni sulle strutture del welfare state. L’aumento del prezzo del greggio, causato dal primo shock petrolifero, innescato dalla guerra arabo-israeliana del 1973 ebbero pesanti conseguenze sulle economie occidentali e soprattutto su quelle europee. L’impennata nei costi dei carburanti provocò una spirale dei prezzi che accese l’inflazione, mentre la fluttuazione del dollaro sui mercati indebolì tutte le altre monete che persero il loro potere d’acquisto. Ne derivò così una crisi finanziaria e un crollo della produzione, che a sua volta fu causa di un forte aumento della disoccupazione. Soprattutto nel caso dei paesi europei, una delle voci che incidevano maggiormente sulla spesa statale era proprio quella relativa al welfare, il cui tasso di crescita era stato ampiamente superiore all’andamento del PIL. Negli Stati Uniti il primo effetto della crisi fu proprio quello di bloccare le riforme sociali promesse in campagna elettorale da Nixon e avviare una politica economica fatta di tagli alla spesa pubblica. La ricerca di soluzioni atte a fronteggiare la difficile congiuntura caratterizzò anche i paesi europei. Quando però fu chiaro che la crisi aveva caratteristiche sistemiche emersero crescenti critiche nei confronti del welfare state; non fu un caso che alla locuzione positiva “stato del benessere” se ne affiancò un'altra, di accezione negativa: “stato assistenziale”. La crisi fu parzialmente superata solo verso la fine degli anni Settanta, dopo alcune misure volte a limitare l’aumento della spesa pubblica e a incentivare gli investimenti nel settore dell’industria privata, nell’ambito di una più generale politica di contenimento del costo della vita. L’EMERGERE DELLA QUESTIONE PENSIONISTICA Negli Stati Uniti i primi anni Settanta erano iniziati all’insegna di una forte espansione delle spese sociali: venne introdotto uno schema pensionistico riservato ai lavoratori dipendenti, il cui principale obiettivo era quello di garantire loro maggiore equità di trattamento e la possibilità di cumulare differenti periodi lavorativi, venne creato un programma gestito dal governo federale con la collaborazione dei sindacati e di altre organizzazioni di rappresentanza degli interessi. Ben presto, tuttavia, le priorità divennero quelle di contenere l’aumento della spesa pubblica e rilanciare l’economia. In Europa, sebbene la crisi avesse messo in evidenza le crescenti difficoltà di finanziamento degli schemi pensionistici pubblici, confidando sul carattere transitorio della crisi stessa e sulla capacità del welfare state di offrire risposte convincenti, le prestazioni sociali continuarono ad espandersi. Fu poi aumentato l’importo delle pensioni di vecchiaia grazie a meccanismi che prevedevano una più stretta correlazione tra il loro ammontare e la retribuzione percepita, si ebbe un generalizzato abbassamento dell’età pensionabile. Nei paesi scandinavi si ebbero solo riforme volte a migliorare le disposizioni introdotte in precedenza e furono introdotte pensioni integrative di tipo privato. Le nuove pensioni di vecchiaia sarebbero state composte da una pensione di base, uguale per tutti, integrata da una pensione statale, di importo variabile, finanziata da contributi correlati alla retribuzione del lavoratore. La pensione erogata sulla base di questo schema sarebbe stata versata, in caso di morte, al rispettivo coniuge. Ciò produsse un aumento delle prestazioni pensionistiche, ma allo stesso tempo salvaguardò gli interessi delle compagnie assicurative e il ricorso a forme previdenziali integrative di tipo privato. Anche in Francia i primi segnali della crisi del sistema pensionistico si manifestarono verso la metà degli anni Settanta per l’effetto congiunto del difficile contesto economico internazionale e della politica di espansione della spesa pubblica. Nel 1974 la copertura pensionistica fu estesa a tutti i cittadini, si decretò la generalizzazione delle prestazioni riguardanti la famiglia, l’obbligatorietà dell’assicurazione di vecchiaia per tutti coloro che esercitavano un’attività di professione e l’allargamento dell’assicurazione di malattia ad alcune categorie fino a quel momento non coperte (giovani in attesa di prima occupazione). Il rovescio della medaglia fu rappresentato dalla grave sofferenza dei bilanci della sicurezza sociale che fecero registrare un saldo negativo. In Germania la lunga fase di consolidamento ed espansione del sistema di welfare era culminata nella legge del 1972, che realizzò la definitiva universalizzazione, sotto la direzione dello Stato, delle pensioni di vecchiaia. I SERVIZI SANITARI NAZIONALI E IL PROBLEMA DELLA SOSTENIBILITA’ Analogamente a quelle pensionistiche, le politiche sanitarie continuarono a seguire un po' ovunque, fino alla prima metà degli anni Ottanta, le linee d’indirizzo del secolo precedente. La Svezia nel 1970 decide di razionalizzare il sistema e contenerne i costi. Seguirono due riforme con le quali si avviò un decentramento di molti servizi sanitari e si stabilì un tetto di spesa annuale. L’obiettivo del contenimento della spesa fu effettivamente raggiunto, ma non tardarono a manifestarsi alcuni problemi, non ultimo quello della lunghezza delle liste di attesa, specie per i pazienti bisognosi di interventi chirurgici. Fu il primo passo verso la svolta degli anni Novanta, caratterizzata dal “modello Stoccolma”, un sistema sanitario che pur restando prevalentemente sotto controllo pubblico, si avvaleva in alcuni settori di strutture e servizi privati. Nel Regno Unito si andò delineando un aumento delle pensioni, allargamento di alcuni schemi di protezione sociale, controllo dei prezzi, politica di redistribuzione della ricchezza attraverso una tassa sui patrimoni, rilancio delle imprese statali, ampliamento del sistema educativo pubblico a partire dagli asili nido fino alla scuola media. Si trattava di un programma ambizioso che il partito laburista, malgrado il quadro economico poco incoraggiante, cercò di tradurre in pratica con la riforma del 1974, volta a trasformare il National Health Service in un servizio ben organizzato, diffuso nel territorio e gestito con criteri manageriali, ma la cui direzione restasse saldamente in mano al ministero della Salute. L’avvento al potere della Thatcher ne interruppe i lavori e aprì la strada a un deciso riassetto del settore: il Servizio sanitario nazionale aveva palesato gravi limiti gestionali, soffriva di un’eccessiva burocrazia, centralizzazione e di un’inaccettabile tendenza allo scadimento nella qualità dei servizi offerti a fronte di un continuo aumenti dei costi. La via d’uscita proposta era quella di ridurre il ruolo del governo e dei manager di Stato, adottando modelli di organizzazione e di gestione mutuati dal settore privato. Negli Stati Uniti, dove tra il 1968 e il 1972 si puntò a un rilancio delle politiche di “guerra alla povertà” attraverso il potenziamento degli schemi Medicare e Medicaid e una gestione meno restrittiva dei fondi del sistema della social security, facendo crescere le spese di oltre il 30%. Le difficoltà finanziarie caratterizzarono anche il sistema sanitario francese che rimase deficitario mentre cominciarono a circolare previsioni quasi catastrofiche sul futuro (in realtà si rivelarono eccessivamente pessimistiche) e spinsero il governo ad annunciare un primo piano di risanamento, al quale ne seguì un secondo dopo le elezioni politiche del 1978. Entrambi i piani prevedevano un aumento delle entrate mediante l’innalzamento dei contributi e consistenti tagli. Nel luglio 1979 fu predisposto un nuovo piano di risanamento che prevedeva un aumento delle entrate basato sull’innalzamento dei contributi per l’assistenza di malattia. La diminuzione della spesa doveva essere garantita dal blocco dei bilanci degli ospedali pubblici, dall’adozione di un ticket non rimborsabile per alcune prestazioni sanitarie, dal congelamento degli stipendi del personale medico e infermieristico e da una più rigorosa disciplina delle prescrizioni mediche. In Italia, nonostante la crisi internazionale e il difficile clima interno caratterizzato sul piano politico dalla ricerca di un “compromesso storico” fra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, si assistè invece a un deciso rilancio di quelle riforme sociali che il Centrosinistra aveva lasciato inattuate. L’introduzione del regionalismo, rappresentò soprattutto per la sanità, un vero e proprio punto di svolta. Tra il 1977 e il 1978 furono varate leggi sull’inserimento scolastico dei portatori di handicap, sull’interruzione volontaria della gravidanza e sul trattamento sanitario obbligatorio e sulla cura e prevenzione delle malattie mentali, che decretò la chiusura di strutture-ghetto come quelle manicomiali. Rivolto alla totalità dei cittadini e ispirato ai principi di eguaglianza e dell’uniformità del trattamento, il Servizio Sanitario Nazionale si proponeva di tutelare la salute fisica e psichica dell’individuo attraverso l’erogazione di servizi di prevenzione, cura e riabilitazione. L’organizzazione sanitaria fu articolata in due livelli differenti: quello statale, attinente al ministero della Sanità, aveva principalmente compiti di indirizzo, di coordinamento e controllo; quello locale, soprattutto su base regionale, era imperniato sulle Unità Sanitarie Locali (USL) e a loro volta, articolate in Distretti Sociosanitari di base. Le USL, che per i loro compiti si caratterizzavano come il vero fulcro dell’intero sistema, erano composte dall’insieme delle varie strutture sanitarie operanti a livello comunale o nell’ambito di consorzi o comunità montane, e avevano una struttura mista, in parte di tipo politico e in parte di carattere tecnico. Con la riforma sanitaria al vecchio concetto dell’”assicurazione contro le malattie”, si sostituì quello della “promozione della salute”. Tuttavia, il cattivo funzionamento di molte USL divenute veri e propri centri di potere clientelare, finì per far riemergere gli antichi difetti e per vanificare molti degli aspetti positivi e della riforma. A causa della difficile situazione finanziaria, la riorganizzazione della sanità fu immediatamente accompagnata dalle prime misure di rigore determinate dagli effetti della crisi internazionale e dai suoi riflessi sul piano interno. Fu però con la stagione dei governi di “pentapartito” basati cioè sulla: Democrazia Cristiana, social-democratici, repubblicani e liberali che emerse la necessità di conciliare una linea di maggior rigore con l’opera di revisione e di ammodernamento del sistema di welfare. In ambito sanitario il contenimento della spesa passò attraverso l’aumento del ticket sui farmaci, l’introduzione di altri ticket sugli accertamenti diagnostici e sulle prescrizioni mediche, la limitazione dei farmaci prescrivibili per ogni ricetta, la revisione del prontuario terapeutico, la sospensione di alcune prestazioni sanitarie integrative e il blocco del turn over del personale delle strutture sanitarie. Oltre a rivedere la struttura organizzativa delle USL, essa introdusse nella loro gestione criteri di tipo manageriale che si prefiggevano l’obiettivo di razionalizzarne e soprattutto contenerne le spese. IL FALLIMENTO DEL KEYNESIMO E LA CRISI DEL WELFARE Le maggiori conseguenze della crisi economica si avvertirono sul sistema dell’assistenza sociale e, più in generale, sulla rete di servizi che si era andata costruendo tra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta. In Gran Bretagna le imposte indirette furono abbassate, le rendite improduttive furono congelate e venne creata una speciale agenzia nazionale con l’incarico di vigilare sull’andamento dei prezzi. Il bilancio dello Stato fu ampiamente utilizzato per finanziare la costruzione di nuove abitazioni e per aumentare gli importi delle pensioni per le vedove, per i lavoratori in cassa malattia e per i disoccupati. Ma il ricorso alle tradizionali politiche di interventismo in economia si rivelò alla lunga incapace di contrastare il nuovo fenomeno della stagflazione. Anche in Francia si rispose inizialmente alle difficoltà economiche ricorrendo a politiche di impostazione keynesiana, ritenute sul momento le più adatte ad assorbire l’impatto sociale della crisi. L’importo del minimo salariale fu elevato sensibilmente, così come gli assegni familiari, le pensioni sociali e quelle di vecchiaia. Tuttavia, l’annuncio che i conti della “Cassa nazionale malattie dei lavoratori dipendenti” erano andati in deficit impose una brusca correzione di linea e il governo cercò di arginare la crescita della spesa per l’assicurazione sociale imponendo un aumento dei contributi per l’assicurazione sanitaria e per le pensioni di anzianità. In Germania i problemi cominciarono a manifestarsi in forma più acuta sul finire degli anni Settanta, provò inoltre a fronteggiare il problema della disoccupazione, anche in questo caso determinata dai mutamenti strutturali avvenuti nei processi di produzione, varando un’imposta straordinaria sul reddito. I social-democratici pagarono queste scelte con la sconfitta elettorale del 1982 che segnò l’avvento della Christlich Demokratische che avviò un deciso intervento di riduzione della spesa sociale; i settori più colpiti furono quelli più deboli: i disoccupati, gli anziani, i disabili, coloro che recepivano pensioni minime e bassi sussidi. Gli anni Settanta furono anche per l’Italia un periodo di gravi difficoltà economiche: la fase dell’austerity, peraltro, vide l’adozione di misure di contenimento della spesa che fecero leva più sull’aumento della tassazione indiretta che non sui tagli alle politiche sociali. Particolare attenzione fu posta ai diritti della donna sul diritto alla salute e sul potenziamento dell’assistenza sociale sul territorio. Furono inoltre istituiti consultori familiari e fu rivista la normativa riguardante i mutilati e gli invalidi civili, contemporaneamente per fronteggiare il problema della disoccupazione furono creati i contratti di solidarietà, mediante i quali fu possibile trasferire il personale di aziende in crisi in altri settori, vennero incentivati i lavoratori vicini all’età pensionabile a lasciare il posto di lavoro e furono concesse agevolazioni alle imprese per l’assunzione di giovani. Tra le scelte compiute dai governi pentapartito vi fu nel 1984 di ritoccare verso il basso la cosiddetta “scala mobile”, ossia il meccanismo approntato nel secondo dopoguerra che garantiva l’adeguamento automatico dei livelli salariali all’andamento del costo della vita. UNO SGUARDO COMPARATIVO Gli anni Ottanta confermarono con chiarezza che la crescita economica dei trent’anni gloriosi seguiti alla WW2 si era definitivamente interrotta e si era aperta una nuova fase, durante la quale le politiche sociali sarebbero state oggetto di una continua rimessa in discussione. In Scandinavia i partiti social-democratici presero con decisione la strada del rigore e dei tagli alla spesa pubblica. In Danimarca e in Svezia si ebbe una svolta sul piano ideologico-programmatico: si fecero promotori non solo di una politica fiscale di austerità, ma anche di interventi volti a introdurre elementi di competitività e di mercato in settori tradizionalmente di pertinenza pubblica, compresi quelli legati al welfare. Essa fu originata dalla necessità di dare una risposta alle nuove problematiche innescate dai mutamenti del ciclo economico e della struttura della popolazione. Fu l’inizio di una nuova stagione imperniata sulla dottrina neoliberista destinata a modificare radicalmente l’approccio nei confronti delle politiche di protezione sociale. Di certo al contenimento dei costi del sistema sanitario britannico non corrispose un miglioramento dei servizi, che anzi conobbero un progressivo decadimento. Il neoliberalismo dopo la vittoria elettorale dei conservatori trovò un campo di applicazione anche in Nuova Zelanda e si prefigurava l’idea che lo Stato dovesse ridurre al minimo il proprio intervento nella sfera economica e sociale, lasciando spazio alle capacità autoregolatrici del mercato. Le difficoltà originate dalla crisi economiche degli anni Settanta avevano bruscamente interrotto quel processo di estensione dei confini della protezione che, avviato dopo la Seconda Guerra Mondiale, pareva destinato a protrarsi in modo indefinito. DAGLI ANNI NOVANTA AI PRIMI ANNI DUEMILA: ALLA RICERCA DI UN NUOVO WELFARE La caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione della Repubblica Democratica Tedesca con il conseguente processo di unificazione, il crollo dell’URSS e dei governi ad essa legati aprirono una nuova stagione non solo sul piano degli equilibri nazionali ma anche uno spartiacque importante per le politiche di welfare. Le rivoluzioni dell’89 segnavano la fine non solo di una sfida durata settant’anni nei confronti del capitalismo come sistema economico e della democrazia liberale come ordine politico, ma anche dell’ortodossia riformista nella Sinistra europea nord-occidentale. Si stava sostituendo ora, uno scenario variegato in cui ciascun governo era impegnato nella ricerca del rilancio delle economie salvaguardando il più possibile i principi della sicurezza sociale. Le forze del socialismo democratico si interrogarono sui loro caratteri fondanti e andarono alla ricerca di nuove formule politico-programmatiche adatte al nuovo contesto; venne messa lentamente a fuoco una nuova impostazione delle politiche sociali ed essa puntava alla creazione di un welfare capitalism, cioè un sistema di protezione misto che, pur adottando meccanismi di razionalizzazione e criteri di economicità mutuati dall’approccio neoliberista cercava di evitare lo smantellamento dello stato sociale. Notevoli erano comunque le differenze geografiche: nel Nord Europa, ad esempio il principale problema risiedeva nel sovradimensionamento del settore pubblico, che imponeva, per il riequilibrio di sistema di welfare, una progressiva liberalizzazione dei servizi, che a sua volta avrebbe necessariamente comportato un aumento della disoccupazione. In Gran Bretagna il sistema ancora tendenzialmente universalistico non aveva sviluppato una protezione adeguata proprio per quei soggetti dai tagli della spesa sociale (donne, lavoratori a basso salario) e in Francia e Germania dovevano invece fare i conti un mercato ancora rigido e con livelli salariali che rendevano scarsamente competitive le rispettive economie nazionali. L’Italia viveva il problema di un sistema di protezione sociale misto che presentava disequilibri e disomogeneità. UN NUOVO PATTO PREVIDENZIALE Al centro del processo riformatore furono innanzitutto i sistemi pensionistici, investiti, oltre che da problematiche di carattere tecnico, da fenomeni quali l’aumento esponenziale della popolazione anziana a seguito dell’innalzamento della vita media, al calo della natalità, ai mutamenti del sistema di produzione e alla globalizzazione delle economie occidentali. Le dinamiche demografiche e l’eccesso di spesa pubblica resero necessario un progressivo innalzamento dell’età pensionabile che misero in evidenza le criticità del criterio di finanziamento a ripartizione (Paygo sistem). Si avviò così un processo di ridefinizione del rapporto fra i tre pilastri su cui si fondavano proporzioni differenti da paese a paese, i principali sistemi di protezione sociale: quello delle pensioni sociali o generalmente di tipo pubblico, quello delle pensioni di vecchiaia, e pensioni integrative individuali (a carattere volontario e privato). A partire dagli anni Novanta vennero varate alcune leggi: in Svezia si introdusse il sistema NDC, un metodo di calcolo destinato a tutti i cittadini nati dopo il 1954 che manteneva in vigore il finanziamento a ripartizione, ma su base contributiva e non più retributiva (calcolava la pensione sui contributi versati) e prevedeva pensioni integrative di natura privata. In Francia il sistema pensionistico fu rivoluzionato: s’introdussero pensioni complementari di carattere volontario per alcuni lavoratori del settore privato. L’Italia intervenne con la riforma Dini del 1995 che fu varata in un contesto di gravi difficoltà interne, originate dalla necessità di rispettare i parametri imposti dal Trattato di Maastrischt e quindi di effettuare una serie di interventi volti a ripianare il rapporto tra deficit e PIL. Riorganizzava le differenti tipologie di pensioni esistenti adottando un’unica formula, quella della pensione di vecchiaia e prevedeva il passaggio dalla “pensione sociale” all’”assegno sociale”. L’elemento più significativo fu però rappresentato da un primo parziale abbandono del criterio retributivo e prevedeva che la pensione fosse collegata all’ammontare dell’ultimo stipendio percepito. Alla metà degli anni Novanta nella maggior parte dei paesi europei l’età della pensione degli uomini era di 65 anni, mentre quella delle donne oscillava tra i 56 anni e i 57. Altri elementi comuni furono quelli rivolti a ritardare l’uscita del mercato del lavoro dei soggetti in età pensionabile e a rivedere, in senso restrittivo l’ammontare delle pensioni erogate dallo Stato. I SISTEMI SANITARI ALLA PROVA L’altro settore delle politiche sociali dove i governi dei paesi occidentali intervennero massicciamente fu quello della sanità. Efficienza, equità e qualità per i cittadini, rapporto e integrazione tra settore pubblico tra settore pubblico e settore privato, equilibrio e istanze di coordinamento tra centro e periferia, e soprattutto esigenze di contenimento della spesa furono tra i capisaldi che caratterizzarono l’azione pubblica. Vennero introdotte misure di contenimento dei costi e si adottarono ulteriori criteri di gestione di tipo manageriale. Questi interventi, però non riuscirono ad arrestare la crescita della spesa. I tagli più netti furono operati, proprio in quei paesi, come la Svezia, in cui il livello dei servizi era più alto. L’Italia nel 1992 decise la trasformazione di USL in ASL (Aziende Sanitarie Socali), modificandone le competenze, il funzionamento e i criteri gestionali. A questi interventi di riorganizzazione si affiancarono misure finalizzate a limitare il consumo dei farmaci e a mantenere la prassi del pagamento di una parte dei servizi offerti dal sistema sanitario con il ricorso al classico strumento del ticket. IL DECLINO DEL MODELLO FORDISTA La crisi del ceto medio, e soprattutto quei settori sociali che erano stati al centro delle tutele del welfare state “fordista” durante il trentennio glorioso, si accompagnò a un aumento delle diseguaglianze e all’emergere di nuove forme di povertà. A partire dagli anni Novanta, tra le nuove forme di intervento emersero quelle imperniate sul cosiddetto workfare, ossia sulla tendenza a reinserire i soggetti nel mondo del lavoro fornendo qualifiche e specializzazioni a chi precedentemente non ne disponeva. Il termine workfare si potrebbe tradurre con l’espressione “lavori socialmente utili”, varati tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Nei decenni seguenti, assumendo un’accezione più ampia: il workfare va a indicare quelle politiche sociali che concepivano come temporaneo l’aiuto fornito dagli schemi di protezione sociale e che, in ogni caso, puntavano a (re)inserire nel mercato del lavoro coloro che ne erano temporaneamente esclusi anziché fornire loro aiuti o sussidi a fondo perduto ma fornendo incentivi di tipo monetario o agevolazioni fiscali ai lavori con più basso livello salariale. Altri interventi riguardarono il mercato del lavoro, che si cercò di rendere più flessibile attraverso l’introduzione di nuove tipologie contrattuali. In Italia il processo fu portato avanti sia dai governi di Centrosinistra che da quelli di Centrodestra. Tutto ciò, se da un lato fornì nuova linfa ad alcuni settori, come quelli legati alle nuove tecnologie e al comparto dei servizi, provocò altri problemi: vengono definiti mac- jobs quei lavori temporanei e precari diffusi soprattutto fra i giovani che lavorano nelle catene di fast-food o in molti settori della grande distribuzione (i cosiddetti lavori atipici che ne risentirono maggiormente in senso negativo, non solo sotto il profilo del livello di retribuzione, ma anche e soprattutto su quello pensionistico). Il riaffacciarsi del fenomeno della disoccupazione indusse inoltre molti paesi a sperimentare percorsi alternativi: in Francia venne introdotto il “reddito minimo d’inserimento” concepito come un sostegno alle giovani generazioni. Reddito minimo, sicurezza, flessibilità emersero, soprattutto nelle democrazie nordiche come i capisaldi di politiche volte, da un lato a eliminare alcune rigidità ereditate dal periodo fordista e, dall’altro, a combattere il fenomeno della precarietà e disparità di trattamento tra vecchi e nuovi lavoratori. Scaturirono contratti di lavoro volti a garantire livelli standard di protezione, imperniati su alta flessibilità in entrata e in uscita, ma con forme di protezione graduali; efficienza della rete pubblica di formazione e collocamento; e infine, maggiore coinvolgimento e responsabilizzazione delle imprese nella riqualificazione e ricollocazione dei lavoratori. Sotto questo profilo si mostrarono particolarmente vulnerabili i paesi dell’Europa mediterranea, dove il welfare si era realizzato sulla base di circuiti particolaristico-clientelari che ne avevano spesso moltiplicato gli squilibri; fra questi figurava l’universo giovanile: si profilava un futuro incerto, con lunghi periodi di lavoro precario e la prospettiva di minori coperture previdenziali e sanitarie, o le difficoltà legate all’accesso al credito non solo per il finanziamento di iniziative imprenditoriali autonome, ma persino per l’acquisto della casa. Il ruolo sussidiario doveva essere svolto dalla famiglia e dalla rete parentale, chiamate a supplire alla carenza di servizi pubblici e a offrire quegli ambiti di tutela che, altrove a causa della crescente contrazione della spesa sociale, era divenuto sempre più difficile reperire. SCENARI DEL TERZO MILLENNIO All’inizio del terzo millennio il welfare state stava vivendo un processo di profonda ristrutturazione: non seguiva indirizzi univoci e potrebbe essere definito come una sorta di sperimentazione permanente. È possibile evidenziare, però qualche linea di tendenza che caratterizzò questa fase: l’approccio prevalente era ancora quello che reputava essenziale la riduzione della spesa sociale e la promozione in campo previdenziale di schemi di tipo privato, in un contesto orientato verso la liberalizzazione del mercato e l’introduzione di misure di flessibilità nel lavoro. Uno dei punti cardine del neoconservatorismo applicato allo Stato Sociale verteva sul riconoscimento dei diritti sociali del cittadino, competeva il dovere di contribuire il proprio lavoro un ruolo attivo nella società, al finanziamento e a un efficiente funzionamento degli schemi di protezione sociale approntati dalla comunità in cui egli viveva. Questo invito a una maggiore responsabilizzazione dell’individuo, al diritto-dovere del singolo di sentirsi come parte della collettività. Il dibattito di inizio millennio vedeva schierati da un lato coloro che ritenevano che la diminuzione del prelievo fiscale fosse un mezzo per liberare risorse preziose per il mercato e per il singolo, dall’altro coloro che, consideravano queste scelte demagogiche* (degenerazione della democrazia, per la quale al normale dibattito politico si sostituisce una propaganda esclusivamente lusingatrice delle aspirazioni economiche e sociali delle masse, allo scopo di mantenere o conquistare il potere) e comunque penalizzanti proprio per i ceti medi e per le fasce sociali più deboli. Il risparmio che i cittadini avrebbero avuto in termini di minori gravi fiscali sarebbe stato vanificato dai maggiori costi che essi avrebbero dovuto poi sostenere per usufruire, in caso di necessità, dei servizi dello Stato sociale. Sotto questo aspetto, il vero modo sembrava essere non tanto – o non soltanto – l’abbattimento del prelievo fiscale, quanto la necessità che questo prelievo rispondesse a criteri di equità. Le forme di elusione e di evasione totale avevano raggiunto livelli tali, con pesanti ripercussioni sulle entrate dello Stato e sulle sue capacità di spesa ai fini sociali. Un’altra linea di tendenza, che si richiama in qualche misura all’esperienza dell’Inghilterra thatcheriana, è da rinvenire nel rafforzamento del ruolo delle comunità locali. Si trattò di una scelta che ebbe come principale obiettivo quello di combattere la burocratizzazione e gli sprechi dello “Stato assistenziale” affidando la gestione delle politiche sociali a organismi più snelli e capillarmente distribuiti sul territorio. Rientrano in questo ambito anche quelle forme miste di welfare che affiancavano un terzo settore, costituito dalla rete di organizzazioni non-profit e avrebbe dato luogo non solo a un migliore e più servizio, ma anche in quanto svolto da organizzazioni a carattere volontaristico, una sua migliore sostenibilità in termini economici. Nel 2000 la Commissione Europea, allo scopo di tracciare una linea d’intervento comune a tutti i paesi aderenti all’Unione, pose come obiettivi a breve termine l’adozione di “pensioni sicure e regimi pensionistici sostenibili” e la promozione di programmi per l’integrazione sociale e per l’assistenza sanitaria ugualmente sostenibile e di qualità elevata. I servizi erogati dai singoli Stati membri dovevano rispondere all’ulteriore requisito dell’accessibilità, si venne così definendo un “modello sociale europeo” con il progressivo rafforzamento delle istituzioni di governo comunitarie. Nella seconda metà degli anni Novanta le forze dell’area social-democratica e riformista avevano riconquistato un certo peso nell’area internazionale e una nuova capacità di proposizione sul terreno ideale e politico, cercando nuovamente di introdurre dei correttivi alle contraddizioni più evidenti prodotte dal mercato. L’ambizioso progetto di Giddens proponeva di realizzare un nuovo ciclo di riforme che si configurassero come alternative alle politiche di liberismo assoluto, ma che non cadessero in un ritorno al dirigismo statale degli anni Sessanta e Settanta. Di fronte agli eccessi della burocratizzazione e alle inefficienze dello Stato si venne affermando che anteponeva al tradizionale welfare l’idea di una welfare society più articolata e, grazie al decentramento decisionale e organizzativo realizzato in applicazione del principio di sussidiarietà (indipendenza del più piccolo dal più grande/potente), più efficiente e più “vicina” ai cittadini; fu vista come una possibile risposta ai problemi finanziari del 2008. Evidenziò ulteriormente le difficoltà di questi sistemi di welfare, in particolare quelli dove più grave appariva lo sbilanciamento della spesa sociale in ambito previdenziale e, soprattutto dove, in assenza di una rete efficiente di ammortizzatore sociali, il mercato del lavoro era caratterizzato da eccessive rigidità. Il modello sociale europeo imperniato su un lavoro sicuro, su un sistema di tassazione progressivo e su generose prestazioni sociali da parte delle strutture pubbliche, era andato definitivamente in crisi. Nessuna delle strategie politiche applicate nel periodo immediatamente precedente – neppure quelle neoconservatrici - si era mostrata in grado di risolvere i nodi strutturali che attanagliavano lo Stato sociale e che ne condizionavano la sopravvivenza. TERRA INCOGNITA Le esigenze di contenimento dei costi e di razionalizzazione hanno comportato importanti mutamenti nel funzionamento della “macchina burocratica” dello Stato. In Italia, dopo il drastico irrigidimento dei criteri per accedere alla pensione di vecchiaia introdotto dalla Legge Fornero (pensione a 67 anni) si è cercato a più riprese di introdurre correttivi a quella riforma. Aveva il pregio di mettere in sicurezza i conti della spesa previdenziale, ma allo stesso tempo creava qualche disparità di trattamento fra diverse categorie di lavoratori, alcuni dei quali vedevano di molto allontanarsi l’età del pensionamento. La modifica più significativa è stata quella introdotta dalla legge di bilancio varata nel 2019 dal governo Lega- Movimento 5 stelle presieduto da Conte. Ha previsto la possibilità di uscita del mondo del lavoro per quei lavoratori che avessero versato almeno 38 anni di contributi e con un’età anagrafica di almeno 62 anni. Alla fine del 2021 la nuova legge di bilancio ha modificato queste disposizioni introducendo per un periodo di 12 mesi la “quota 102”: questa misura vista come un primo passo in direzione di una nuova riforma del settore, consente di maturare il diritto alla pensione a coloro che abbiano compiuto 64 anni di età e maturato almeno 38 anni di anzianità lavorativa. Sul piano dei principi ispiratori si è assistito al progressivo affermarsi, soprattutto in quei paesi dove è prevalso l’approccio neoliberista, di un “welfare condizionale”, ovvero di un sistema che ha puntato ad associare le prestazioni sociali a comportamenti “responsabili” dei beneficiari. Ad esso si è affiancato un approccio più soft, il welfare generativo: puntare unicamente sullo Stato e sulla sua capacità di raccogliere le risorse attraverso il prelievo fiscale e redistribuirle ai più bisognosi. Con l’inizio del nuovo millennio il processo di unificazione dei mercati e dell’economia a livello mondiale ha subito un’ulteriore accelerazione; questa nuova grande trasformazione