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successioni diritto civile legittimari testamento

Summary

Gli appunti trattano della successione necessaria in diritto civile, analizzando i riferimenti normativi, i legittimari (coniugi, figli, ascendenti) e la quota di eredità riservata. Si descrivono le differenze tra quota di eredità e legittima, e come si calcola quest'ultima considerando relictum, debiti e donazioni.

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1 APPUNTI IN TEMA DI SUCCESSIONE NECESSARIA Riferimenti normativi: artt. 536 ss. c.c. 1. PREMESSA Nel campo delle successioni per causa di morte, la libertà testamentaria può entrare in conflitto con le aspettative dei più stretti congiunti del testatore. Per questo aspetto, la disciplina della s...

1 APPUNTI IN TEMA DI SUCCESSIONE NECESSARIA Riferimenti normativi: artt. 536 ss. c.c. 1. PREMESSA Nel campo delle successioni per causa di morte, la libertà testamentaria può entrare in conflitto con le aspettative dei più stretti congiunti del testatore. Per questo aspetto, la disciplina della successione necessaria determina un contemperamento delle varie istanze in gioco. In generale, ricorrendo allo strumento tecnico del testamento, ogni persona fisica può disporre liberamente delle proprie sostanze in vista della sua morte: cioè, può regolare la destinazione post mortem del relativo patrimonio (in mancanza di testamento o relativamente alla parte non coperta da disposizioni testamentarie, si applicano le regole sulla successione legittima). Eppure, in favore di certi soggetti, legati al defunto da un rapporto di “prossimità”, la legge pone un limite alla libertà testamentaria: difatti, l’art. 457, comma 3, c.c. stabilisce che le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari, cioè, in sintesi, la “legittima”. Con riserva di ulteriori precisazioni, si può affermare che la legittima è il diritto di successione che la legge riconosce “necessariamente” a certi soggetti, detti legittimari. Con riguardo a tali ultimi soggetti, poiché il testatore non può pregiudicare i diritti ad essi riservati dalla legge, si parla correntemente di “successione necessaria”, trattandosi, come taluno ha precisato, di una successione che opera anche “contro la volontà del defunto” (espressa nel testamento). Ma il significato della locuzione “successione necessaria” non deve indurre in errore: a) essa non significa che un legittimario deve diventare necessariamente erede, sempre e comunque (ci sono casi nei quali il legittimario non ha bisogno di diventare erede: ad esempio, come vedremo in seguito, quando lo stesso abbia già conseguito quanto gli spetta per legge mediante donazioni compiute in vita dal defunto); b) secondo l’opinione prevalente, tale locuzione non significa neppure che i legittimari acquistino automaticamente la posizione di chiamati all’eredità (e tanto meno di eredi) nel momento dell’aperta successione, anche qualora il testatore abbia disposto del proprio intero patrimonio in favore di altri soggetti. In realtà, lo vedremo meglio in appresso, la tutela dei diritti riservati ai legittimari è affidata ad alcuni strumenti molto complessi. PRECISAZIONI Per intanto, basta aggiungere due precisazioni: 1) la successione necessaria non è un terzo genere di successione, che si aggiunge alla successione legittima, da un lato, e a quella testamentaria, dall’altro: secondo l’opinione prevalente, la successione necessaria e quella legittima possono essere ricondotte al medesimo genere (difatti, si osserva, l’art. 457 c.c. prevede che l’eredità si devolve per “legge” o per testamento, con esclusione di una terza “fonte della successione”); 2) fermo quanto precede, non bisogna incorrere in equivoci linguistici, incoraggiati da certe “assonanze”: quando si parla di “successione legittima” e/o di “eredi legittimi”, si allude, in contrapposizione con la successione testamentaria, alla successione regolata dalla legge in mancanza di testamento (o relativamente alla parte non coperta da disposizioni testamentarie); quando si parla di legittimari, si allude propriamente alla successione necessaria (o, comunque, ai beneficiari dei diritti riservati dalla legge). 2. CATEGORIE DI LEGITTIMARI Il primo punto da chiarire è chi siano i legittimari, cioè i soggetti, strettamente legati al de cuius, cui la legge riserva certi diritti successori. I legittimari sono: 2 1) il coniuge superstite del defunto, al quale, in forza della l. n. 76/2016, è equiparato il relativo unito civilmente; 2) i figli del de cuius (con riguardo alla successione necessaria, dopo la c.d. riforma della filiazione, è venuta meno ogni residua discriminazione fra i figli “legittimi” e quelli “naturali”, oggi detti, rispettivamente, “figli nati nel matrimonio” e “figli nati al di fuori del matrimonio”); 3) solo in mancanza di figli (o di loro discendenti), gli ascendenti del de cuius, come i genitori o i nonni, se ancora in vita all’epoca dell’aperta successione: dunque, questi soggetti non sono sempre legittimari, ma devono considerarsi tali esclusivamente se il defunto non ha avuto figli. Gli altri discendenti del defunto (diversi dai figli, come i nipoti) possono diventare legittimari per rappresentazione: cioè, solo in luogo dei figli (ad esempio, se questi ultimi sono morti prima del de cuius). ATTENZIONE In ragione di quanto precede, non è corretto affermare – genericamente e senza ulteriori precisazioni – che i legittimari sono il coniuge, i discendenti e gli ascendenti del de cuius. 3. POSIZIONE DEL CONIUGE SUPERSTITE Fra i legittimari, il coniuge superstite occupa certamente una posizione peculiare (per semplicità, qui parleremo solo del coniuge, anche se oggi il discorso dovrebbe essere ripetuto, con i necessari adattamenti, anche per l’unito civilmente). In linea generale, si noti, il titolo a succedere del coniuge (nella successione legittima e necessaria) è dato dal rapporto di coniugio con il defunto, esistente all’epoca dell’aperta successione. Dunque: 1) il coniuge separato senza addebito conserva i propri diritti successori; 2) il coniuge separato con addebito e quello divorziato non conservano i diritti successori spettanti al coniuge nella successione legittima e necessaria, ma ad essi è riconosciuto, in presenza di certe condizioni, un “assegno successorio”: a) al coniuge separato con addebito spetta un assegno vitalizio, qualora, al tempo dell’aperta successione, lo stesso godesse degli alimenti a carico del coniuge premorto (v. art. 548 c.c.); b) al coniuge divorziato che versi in stato di bisogno può essere riconosciuto il diritto di conseguire un assegno a carico dell’eredità, qualora lo stesso, al tempo dell’aperta successione, godesse già di un “assegno divorzile” a carico dell’ex coniuge deceduto (v. art. 9-bis l. n. 898/1970). Di là di questo, la peculiarità della posizione successoria del coniuge superstite (come legittimario) dipende dalla circostanza che la legge riserva a tale ultimo soggetto alcuni diritti specifici: 1) il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare; 2) il diritto di uso sui mobili che corredano detta casa. Il riconoscimento di questi diritti è subordinato ad alcuni presupposti, oggettivi e soggettivi: 1) [PRESUPPOSTO SOGGETTIVO]: il soggetto beneficiario deve rivestire la qualità di coniuge superstite del defunto. Si discute, peraltro, se i diritti in esame spettino anche al coniuge separato senza addebito. Ben spesso, in astratto, il quesito è risolto in senso affermativo, ma con una precisazione: se, a seguito della separazione, è cessata la convivenza fra i coniugi e non è quindi possibile individuare una casa adibita a residenza familiare, viene meno il presupposto (oggettivo, ossia l’esistenza di una casa adibita a residenza familiare, appunto) per il riconoscimento dei diritti in rassegna; 2) [PRESUPPOSTO OGGETTIVO]: al tempo dell’aperta successione, deve esservi una casa adibita a residenza familiare e quest’ultima deve essere di proprietà esclusiva del defunto o in comunione fra quest’ultimo e il coniuge superstite. Si discute se i diritti in 3 esame possano essere riconosciuti anche quando, in quel momento, tale immobile fosse in comproprietà fra il coniuge premorto e un soggetto terzo, diverso dal coniuge superstite. Secondo l’opinione prevalente, in presenza dei presupposti indicati, l’attribuzione degli enunciati diritti (diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e diritto di uso dei mobili che la corredano) avviene a titolo di legato ex lege (dunque, si tratterebbe di un’ipotesi di successione a titolo particolare). 4. LEGITTIMA E QUOTA DI EREDITA’ RISERVATA La disposizione dell’art. 536 c.c. prevede, in generale, che ai legittimari è riservata una “quota di eredità”. Le norme degli artt. successivi (artt. 537 ss. c.c.) stabiliscono, per ciascun legittimario, la spettante “quota di patrimonio”. Ecco il passaggio delicato: la “quota di eredità”, di cui parla l’art. 536 c.c., e la “quota di patrimonio”, di cui agli artt. 537 ss. c.c., non sono la stessa cosa. La prima è la “quota di eredità riservata” al legittimario, la seconda è la “legittima” (o “porzione legittima”) spettante al legittimario. A differenza della quota di eredità riservata, la legittima non è una quota ereditaria in senso proprio, cioè una frazione ideale del patrimonio ereditario, comprensivo di elementi attivi e passivi. Si tratta, invece, di una porzione (non del patrimonio ereditario, ma) di una massa fittizia, individuata secondo i criteri dell’art. 556 c.c. In altre parole, la legittima (o “quota di patrimonio” riconosciuta al legittimario, come la chiama il legislatore negli artt. 537 ss. c.c.) altro non è che un valore ideale, pari all’utile netto che il legittimario ha diritto di conseguire. Difatti, la legittima si calcola sul relictum netto, aumentato dalle donazioni (o dalle liberalità) compiute in vita dal donante. PRECISAZIONE In sostanza, per ricostruire la “massa” sulla quale calcolare la legittima, si deve procedere alle seguenti operazioni: 1) formazione della massa dei beni relitti (relictum); 2) detrazione dei debiti: così ottengo il valore del relictum netto; 3) riunione fittizia delle donazioni: addizione del valore delle liberalità compiute in vita dal defunto al valore del relictum netto. Tutti questi passaggi sono compendiati nella seguente formula: RELICTUM – DEBITI + DONATUM. Ad esempio, ai sensi degli artt. 537 e 542 c.c., l’unico figlio del defunto che non concorra con il relativo coniuge ha diritto alla “metà del patrimonio”. Ciò significa che a tale legittimario la legge riserva una quota di eredità pari al 50%? No: lo abbiamo detto, gli artt. 537 ss. c.c. si riferiscono alla legittima e la legittima non è una quota di eredità. La “metà del patrimonio” è il 50% della massa individuata mediante la c.d. “riunione fittizia”, corrispondente al risultato della seguente operazione contabile: RELICUTM – DEBITI + DONATUM. Immaginiamo, allora, che il defunto sia morto lasciando un patrimonio attivo di 100, con debiti per 20, e che lo stesso (in vita) abbia compiuto donazioni per 200. Si deve procedere alla riunione fittizia: 100 (relictum) – 20 (debiti) + 200 (donatum) = 280 (massa fittizia sulla quale calcolare la legittima). Dunque, nel nostro esempio, all’unico legittimario, figlio del de cuius, spetta una legittima pari a 140, cioè la metà di 280. “140” (legittima o porzione legittima) esprime un semplice valore ideale, il quale, come si è detto, costituisce l’utile netto che il legittimario ha diritto di conseguire. Ma, riprendendo l’esempio formulato, il nostro legittimario come fa a conseguire un valore (legittima) pari a 140? Ecco che torna in gioco la distinzione fra legittima e quota di eredità riservata. Affinché il legittimario possa conseguire la legittima, come utile netto calcolato nel modo appena descritto, la legge riconosce a tale soggetto il titolo di erede: cioè la vocazione a una quota di eredità riservata, che costituisce il titolo per acquistare una porzione di beni ereditari di valore pari alla legittima (in particolare, lo vedremo, quando il legittimario non disponga già di una vocazione, testamentaria o ab intestato, di ampiezza uguale o maggiore). Dunque, la quota di eredità riservata è il mezzo tecnico per conseguire (o acquisire) la legittima. Si tratta, quindi, di 4 stabilire l’ammontare della quota di eredità che consenta al legittimario di conseguire, in qualità di erede, la propria legittima: in proposito, secondo l’opinione più autorevole, la quota di eredità riservata è data dal rapporto fra la legittima (valore ideale spettante al legittimario) e il valore netto del relictum. APPROFONDIMENTO La circostanza che la quota di eredità riservata sia il risultato di una frazione (che ha come numeratore il valore della legittima, calcolato secondo i criteri stabiliti dall’art. 556 c.c., e come denominatore il valore del relictum netto) è molto importante. Bisogna precisare, peraltro, che la rappresentazione sin qui fornita si basa sull’opinione prevalente, ma non del tutto pacifica, secondo la quale il legittimario consegue la legittima come erede (nel modo in appresso specificato). Dunque, se si accoglie tale opinione, occorre considerare che l’erede risponde anche dei debiti ereditari: di principio, in proporzione alla propria quota di eredità. Facciamo un esempio, che serve anche a meglio apprezzare la differenza fra legittima e quota di eredità riservata. Si immagini che Tizio sia morto lasciando un unico legittimario, il figlio Caio. Si aggiunga che il valore dell’asse ereditario è di 110, che i debiti ereditari ammontano a 10 e che Tizio (in vita) ha compiuto donazioni per un valore complessivo di 20. Ora, al figlio Caio spetta una “quota di patrimonio” pari alla metà, cioè il 50% della massa astrattamente e fittiziamente ricostruita ai sensi dell’art. 556 c.c. Dunque, procediamo alla ricostruzione di detta massa e al calcolo della legittima: 110 (relictum) – 10 (debiti) + 20 (donatum) = 120. Il valore della legittima di Caio è pari a 60 (50% di 120). A questo punto, bisogna calcolare la quota di eredità riservata: 60 (legittima) : 100 (relictum netto, cioè relictum – debiti: 110 – 10 = 100) = 6/10. Ecco la quota di eredità riservata: a Caio spetta una quota di eredità pari a 6/10. Ora, 6/10 (quota di eredità riservata) di 110 (relictum) sono pari a 66. Ma 66 è più di 60, cioè del valore della legittima spettante a Caio. Come mai? Perché Caio, come erede, risponde dei debiti ereditari, in proporzione alla propria quota di eredità: dunque, risponde di detti debiti per la quota di 6/10, pari a 6 (6/10 di 10). Caio ha diritto di conseguire 66 dal patrimonio ereditario, ma deve pagare 6 ai creditori ereditari; dunque, una volta pagati i debiti a suo carico, a Caio rimane esattamente 60, cioè la sua legittima (che, come si è detto, rappresenta l’utile netto, cioè depurato da ogni passività, che il legittimario ha diritto di conseguire). Sul piano “numerico” la differenza fra legittima e quota di eredità riservata è molto evidente: la legittima è pari a 1/2 di 120 (60); la quota di eredità riservata è pari a 6/10 di 110 (66). In ragione di quanto precede, la porzione legittima è fissa e predeterminata dal legislatore negli artt. 537 ss. c.c. Ovviamente, questa porzione cambia secondo la categoria di legittimari (figli, coniuge, ascendenti) e l’eventuale concorso di più legittimari, appartenenti alla stessa categoria o a categorie diverse (ad es., più figli, un figlio e il coniuge, ecc.). Un esempio: se il defunto è vedovo (dunque, non vi è coniuge superstite) e lascia un unico figlio, la relativa porzione legittima è pari a 1/2. In mancanza del coniuge superstite, ma in presenza di più figli, a questi ultimi spetta complessivamente una porzione pari 2/3, da dividere fra ciascuno di essi in parti eguali (dunque, se i figli sono due, 1/3 per ogni figlio e così via). Ancora, se il de cuius lascia il coniuge e un figlio, a ciascun legittimario (coniuge e figlio, appunto) spetta una porzione di un terzo, mentre, se con il coniuge superstite concorrono più figli, al coniuge spetta una porzione di 1/4 del patrimonio e ai figli spetta complessivamente una porzione di 1/2, da dividere fra loro in parti eguali (dunque, se i figli sono due, 1/4 per ogni figlio e così via). A differenza della porzione legittima, invece, la quota di eredità riservata non è direttamente stabilita dal legislatore. Per calcolarla, infatti, bisogna compiere, di volta in volta, tutte le complesse operazioni più sopra descritte. In particolare, poiché la legittima si calcola sul relictum netto, aumentato dalle donazioni, e la quota di eredità riservata è data dalla frazione fra il valore della legittima e il relictum netto, l’ammentare di detta quota può variare caso per caso, anche di molto, secondo il numero e l’entità di donazioni compiute in vita dal defunto (del resto, più sono le donazioni fatte in vita dal defunto, più aumenta il valore della legittima e, conseguentemente, anche l’entità della quota di eredità riservata). In proposito, dunque, si parla correntemente di elasticità della quota di eredità riservata. 5. QUOTA DISPONIBILE, QUOTA INDISPONIBILE E LESIONE DI LEGITTIMA 5 Tutte le operazioni descritte (anzitutto, il calcolo del valore della legittima, basato sulla riunione fittizia, cioè sul ricorso alla formula relictum – debiti + donatum) consentono di distinguere la quota indisponibile dalla quota disponibile: cioè, rispettivamente, la porzione del proprio patrimonio del quale il defunto non poteva disporre, in quanto riservata ai relativi legittimari, e la porzione di tale patrimonio della quale il de cuius poteva invece disporre liberamente, senza ledere i diritti dei legittimari medesimi. Così si può verificare, in concreto, se i diritti dei legittimari (ove presenti) siano stati lesi o no, cioè se vi sia stata o no lesione di legittima. ESEMPIO Facciamo l’esempio più semplice: Tizio muore lasciando un unico legittimario, il figlio Caio, e un patrimonio del valore di 100, senza debiti e senza aver compiuto donazioni in vita. Il valore della legittima spettante a Caio è pari a 50 (la metà di 100, in quanto 100 – 0 + 0 = 100). Si può, dire, dunque, che la quota indisponibile (riservata al legittimario) è 50, mentre quella disponibile (di cui il defunto poteva disporre liberamente) è pari a 50. Ciò posto, immaginando che Tizio abbia fatto testamento, si possono dare due casi: 1) se Tizio ha istituito eredi universali il figlio Caio e l’amico Sempronio per la quota di un mezzo ciascuno, non vi è lesione di legittima: Caio consegue, a titolo di erede testamentario, quanto gli spetta come legittima (50% di 100 = 50); del restante 50% dell’eredità Tizio poteva disporre liberamente, come meglio credeva, anche a favore dell’amico Sempronio; 2) se Tizio ha istituito erede il figlio Caio per la quota del 10% e l’amico Sempronio per la restante quota del 90%, vi è lesione di legittima, in quanto la disposizione testamentaria in favore di Sempronio, che non è un legittimario, eccede di molto la quota disponibile: in sostanza, Caio ottiene, a titolo di erede testamentario, meno di quanto gli spetta come legittimario; dunque, l’istituzione di erede in favore di Sempronio si configura come una disposizione testamentaria lesiva della legittima. ATTENZIONE: poiché nel calcolo del valore della legittima (e, conseguentemente, dell’entità della quota di eredità riservata) entrano in gioco anche le donazioni compiute in vita dal defunto, la lesione di legittima può dipendere, oltre che da disposizioni testamentarie (legati o istituzioni di erede), anche da tali donazioni. ESEMPIO Facciamo un esempio molto evidente: Tizio muore lasciando un unico legittimario, il figlio Caio, e un patrimonio del valore di 100, senza debiti. Si aggiunga che Tizio ha designato Caio come unico erede universale, ma, in vita, ha donato 400 all’amico Sempronio. Ora, come unico erede universale, Caio (se accetta l’eredità, diventando così erede) ha diritto di conseguire l’intero patrimonio ereditario, pari a 100, oltre tutto senza dover rispondere di debiti ereditari, inesistenti. Ma tanto basta per appagare i suoi diritti di legittimario? No: egli deve conseguire un valore netto pari a 250: cioè la metà di 500, in quanto 100 (relictum) – 0 (debiti) + 400 (donatum) = 500. Dunque, Caio ha conseguito o può conseguire 100, a titolo di unico erede testamentario, ma deve ancora conseguire 150, come legittimario. Insomma, vi è stata lesione di legittima e questa lesione è dipesa (non da disposizioni testamentarie, ma) dalla donazione compiuta in vita dal de cuius: dunque, è quella donazione a configurarsi come lesiva della legittima (e dunque, come vedremo in seguito, sarà quella donazione a poter essere attaccata dal legittimario leso con l’azione di riduzione). Pertanto, riassumendo, una lesione della legittima (cioè dei diritti riservati dalla legge ai legittimari, può dipendere da disposizioni testamentarie (legati e istituzioni di erede), ma anche da donazioni compiute in vita dal defunto: più propriamente, non solo da donazioni in senso tecnico, ma da qualsiasi liberalità fra vivi; dunque, anche da liberalità “non donative” o donazioni indirette. Difatti, nelle operazioni di riunione fittizia si devono tenere in considerazione anche liberalità “non donative” o donazioni indirette. Del resto, come vedremo in seguito, l’art. 809 c.c. dichiara applicabili anche a tali ultime liberalità le norme dettate in materia di riduzione delle disposizioni lesive della legittima. 6 APPROFONDIMENTO La circostanza che nel contesto della successione necessaria si debbano tenere in considerazione, nei termini e nei modi indicati, anche le liberalità compiute in vita dal defunto spiega come mai una lesione di legittima si possa verificare anche in mancanza di testamento, quando opera la successione legittima. Facciamo un esempio: Tizio, vedovo, muore senza aver fatto testamento e lasciando un unico legittimario, il figlio Caio. Immaginiamo, poi, che non vi siano debiti ereditari e che il patrimonio relitto abbia un valore di 200. Ora, in mancanza di testamento, si apre la successione legittima: dunque, ai sensi dell’art. 566 c.c., mancando il coniuge superstite, a Caio spetta l’intera eredità: cioè 200 (senza debiti, oltre tutto). Aggiungiamo, però, che Tizio (in vita) ha donato all’amico Filano un immobile che al tempo dell’aperta successione vale 600. Ecco, allora, che si profila una lesione di legittima. Difatti, Caio, come erede legittimo, consegue 200, ma, come legittimario, ha diritto di conseguire 400: la metà di 800, in quanto 200 (relictum) – 0 (debiti) + 600 (donatum) = 800. Astrattamente, dunque, una lesione di legittima si può verificare tanto nel contesto di una successione testamentaria, quanto in presenza di una successione legittima. L’entità della lesione può mutare di caso in caso. In proposito, poi, si può distinguere la “semplice lesione” dalla vera e propria preterizione lesiva: 1) si ha “semplice lesione” e, dunque, il legittimario si dice leso, ma non preterito, quando quest’ultimo ha beneficiato di una vocazione ereditaria insufficiente per appagare il proprio diritto di legittima; 2) si ha preterizione e, quindi, il legittimario si dice preterito o pretermesso, quando quest’ultimo non ha beneficiato di una vocazione ereditaria, legittima o testamentaria (ad es., il defunto ha escluso i propri legittimari dal proprio testamento, istituendo un amico come unico erede universale). PRECISAZIONE In linea astratta, non è detto che la preterizione (intesa come la mancanza di una vocazione legittima o testamentaria in favore del legittimario) consenta senz’altro l’esercizio dell’azione di riduzione. Ad esempio, come meglio si dirà in seguito, trattando dell’imputazione ex se, potrebbe accadere che i diritti del legittimario (anche preterito) siano stati soddisfatti mediante donazioni compiute in vita dal de cuius. Come diremo in seguito, la distinzione fra legittimario semplicemente leso e preterito è molto importante per comprendere appieno gli effetti dell’azione (e della sentenza) di riduzione. 6. IMPUTAZIONE EX SE E RELATIVA DISPENSA Giova compiere una precisazione, chiarendo un punto sin qui dato per scontato, anche in taluni degli esempi formulati. I diritti riservati al legittimario a titolo di legittima possono essere soddisfatti sia con disposizioni testamentarie, siano esse legati o istituzioni di erede, sia mediante liberalità compiute in vita dal defunto (in favore dei legittimari medesimi, si intende). Per comprendere appieno la portata dell’affermazione, bisogna anticipare un argomento che sarà ripreso in seguito: si tratta, precisamente, della c.d. “imputazione ex se”, rilevante come condizione per l’esercizio dell’azione di riduzione. Ora, come vedremo in appresso, l’azione di riduzione, esercitabile in presenza di una lesione della legittima, è uno degli strumenti tecnici apprestati dal legislatore per la tutela dei diritti del legittimario. Per l’esercizio di questa azione, la legge pone alcune condizioni. Una di queste, appunto, è l’imputazione ex se. In sostanza, in base alle regole sull’imputazione ex se, il legittimario deve imputare alla (cioè, detrarre dalla) sua porzione legittima le donazioni e i legati a lui fatti dal 7 defunto (non solo, sebbene il legislatore non lo dica espressamente, il legittimario deve imputare anche quanto abbia eventualmente ricevuto a titolo di erede legittimo o testamentario). Semplificando, dunque, l’imputazione ex se (è un onere per l’esercizio dell’azione di riduzione e) serve a determinare il reale valore della legittima. Nel senso che il legittimario potrà concretamente ritenersi leso (e, conseguentemente, potrà esercitare l’azione di riduzione) solo se, all’esito dell’imputazione ex se, risulti che tale soggetto non abbia conseguito dal defunto (nella successione o a titolo di liberalità fra vivi) quanto gli spetta come legittima. ESEMPI ESEMPIO 1. Tizio, vedovo, lascia un unico legittimario, il figlio Caio. Con testamento, Tizio ha istituito erede universale l’amico Filano e ha legato (con legato in conto di legittima) al figlio Caio un immobile del valore di 100. L’asse ereditario ha un valore di 200, non vi sono debiti e Tizio non ha compiuto donazioni in vita. Ora, la legittima di Caio ammonta a 100: la metà di 200, in quanto 200 (relictum) – 0 (debiti) + 0 (donatum) = 200. Ma Caio deve imputare alla propria porzione legittima (100) il legato ricevuto dal padre, del valore di 100: dunque, 100 – 100 = 0. Come si vede, all’esito dell’imputazione ex se, si può dire che Caio ha ricevuto quanto gli spetta come legittimario e, quindi, che lo stesso non può agire in riduzione. ESEMPIO 2. Tizio, vedovo, lascia un unico legittimario, il figlio Caio. In vita, Tizio ha donato al figlio un bene che vale 100 all’epoca dell’aperta successione. Con testamento, inoltre, Tizio ha istituito erede universale l’amico Filano. L’asse ereditario ha un valore di 100, non vi sono debiti e le donazioni compiute in vita da Tizio ammontano a 100 (cioè, l’unica donazione fatta dal de cuius è quella in favore del figlio). In questo caso, il figlio è totalmente escluso dalla successione, in quanto il padre ha istituito erede universale un amico, senza nulla lasciare a Caio per testamento. Eppure, i diritti del legittimario sono comunque rispettati. Vediamo come. La legittima di Caio ammonta a 100: la metà di 200, in quanto 100 (relictum) – 0 (debiti) + 100 (donatum) = 200. Ma Caio deve imputare alla propria porzione legittima (100) la donazione ricevuta dal padre, del valore di 100: dunque, 100 – 100 = 0. Anche in questo caso, all’esito dell’imputazione ex se, si può dire che Caio ha ricevuto quanto gli spetta come legittimario e, quindi, che lo stesso non può agire in riduzione. L’esempio è molto interessante, in quanto dimostra come i diritti di un legittimario possano essere soddisfatti anche mediante liberalità compiute in vita dal defunto (in favore del legittimario medesimo, si intende). Ecco perché, all’inizio, si diceva che la locuzione “successione necessaria” non significa che il legittimario debba diventare “necessariamente” erede, sempre e comunque. Ad esempio, se il legittimario ha già ricevuto dal defunto quanto gli spetta mediante liberalità compiute in vita, non è indispensabile che il primo soggetto divenga erede, in forza di una vocazione “necessaria”, proprio perché, all’epoca dell’aperta successione, non vi è nulla da pretendere a titolo di legittima. ESEMPIO 3. Tizio, vedovo, lascia un unico legittimario, il figlio Caio. In vita, Tizio ha donato al figlio un bene che vale 10 all’epoca dell’aperta successione. Con testamento, inoltre, Tizio ha istituito erede universale l’amico Filano. L’asse ereditario ha un valore di 100, non vi sono debiti e le donazioni compiute in vita da Tizio ammontano a 10 (cioè, l’unica donazione fatta dal de cuius è quella in favore del figlio). La legittima di Caio ammonta a 55: la metà di 110, in quanto 100 (relictum) – 0 (debiti) + 10 (donatum) = 110. Caio deve imputare alla propria porzione legittima (55) la donazione ricevuta dal padre, del valore di 10: dunque, 55 – 10 = 45. In questo caso, Caio non ha ricevuto esattamente quanto gli spetta come legittimario, mancando ancora 45. Dunque, egli potrà impugnare il testamento del padre con l’azione di riduzione, al fine di conseguire i 45 che gli spettano. Fermo quanto precede, l’art. 564 c.c. prevede espressamente che il legittimario può essere dispensato dall’imputazione ex se. In altre parole, il donante o il testatore può dispensare il futuro legittimario, beneficiario di una liberalità fra vivi o di una disposizione testamentaria, dall’onere di imputare alla propria porzione legittima la liberalità medesima o il legato disposto in suo favore. Ovviamente, la dispensa si traduce in un vantaggio non trascurabile per il legittimario, in quanto gli consente di trattenere la liberalità o il legato e di chiedere per intero la legittima. Si discute in merito alla natura giuridica della dispensa dall’imputazione ex se. Generalmente, però, si afferma che la dispensa deve essere espressa. APPROFONDIMENTO 8 In senso tecnico, si dice che la liberalità compiuta in favore del legittimario con dispensa dall’imputazione ex se grava sulla disponibile. Difatti, in mancanza di dispensa, detta liberalità graverebbe sulla quota indisponibile, cioè sulla pozione legittima spettante al legittimario beneficiario (tanto è vero che quest’ultimo dovrebbe sottrarre dal valore della legittima il valore della liberalità ricevuta senza dispensa). Facciamo un esempio per comprendere il funzionamento della dispensa. Tizio, vedovo, dona all’unico figlio Caio un bene del valore di 10, con espressa dispensa (contenuta nell’atto di donazione) dall’onere di futura imputazione ex se. Con testamento, poi, Tizio istituisce erede universale l’amico Filano. Alla morte di Tizio, Caio è l’unico legittimario e Filano, accettando l’eredità di Tizio, ne diventa l’unico erede universale. L’asse ereditario ha un valore di 100, non vi sono debiti ereditari e Tizio (in vita) non ha compiuto altre liberalità, diverse da quella eseguita in favore di Caio. La legittima di Caio ammonta a 55: la metà di 110, in quanto 100 (relictum) – 0 (debiti) + 10 (donatum) = 110. Ma, in forza della dispensa contenuta nell’atto di donazione, Caio non deve imputare alla propria porzione legittima (55) la donazione ricevuta dal padre, del valore di 10. Dunque, Caio può trattenere la donazione di 10 e, in più, può reclamare per intero la propria legittima, pari a 55. Il vantaggio è evidente. Difatti, in mancanza della dispensa voluta dal padre, Caio avrebbe dovuto imputare la donazione di 10 e, conseguentemente, avrebbe potuto reclamare, a titolo di legittima, solo 45 (55 – 10, appunto). APPROFONDIMENTO L’art. 564 c.c. stabilisce che “la dispensa non ha effetto a danno dei donatari anteriori”. La norma si riferisce al caso in cui il de cuius (in vita) abbia compiuto più donazioni in favore di soggetti diversi. Il contenuto della regola è molto complesso: in sostanza, senza entrare troppo nel merito, il legislatore si è preoccupato di fare sì che la dispensa dall’imputazione non si traduca in uno svantaggio per i beneficiari di donazioni anteriori a quella fatta in favore del legittimario con tale dispensa. Ben spesso, la ratio della regola enunciata è ricondotta al principio di “irrevocabilità delle donazioni”. 7. AZIONI A TUTELA DEL LEGITTIMARIO LESO Abbiamo detto che il legittimario il quale non consegua quanto gli spetta a titolo di legittima si dice leso (o preterito). Abbiamo precisato, inoltre, che la lesione della legittima può dipendere, secondo i casi, da disposizioni testamentarie (legati o istituzioni di erede) e/o da liberalità compiute in vita dal defunto. In proposito, un dato molto importante da tenere in considerazione è questo: le disposizioni lesive (siano esse disposizioni testamentarie o liberalità fra vivi) non sono per ciò solo nulle o automaticamente inefficaci. In realtà, si tratta di disposizioni perfettamente valide e (provvisoriamente) efficaci, ma riducibili. In altri termini, per quanto valide e (provvisoriamente) efficaci, le disposizioni lesive sono soggette a possibile riduzione: cioè, il legittimario può impugnarle (in sede giudiziale) con l’azione di riduzione, al fine di renderle inefficaci/inopponibili nei propri confronti (ecco perché, si dice, una disposizione lesiva è pienamente efficace sino a quando non venga ridotta con una sentenza di riduzione). Difatti, la tutela del legittimario leso (o preterito) si basa sull’esercizio di alcune azioni molto particolari. La migliore dottrina ne individua tre, strettamente connesse, ma che non bisogna confondere: 1) l’azione di riduzione delle disposizioni lesive della legittima; 2) l’azione di restituzione contro il beneficiario della disposizione lesiva ridotta; 3) l’azione di riduzione contro l’eventuale terzo avente causa dal beneficiario della disposizione lesiva ridotta. 7.1. AZIONE DI RIDUZIONE 9 La prima azione a tutela del legittimario leso (o preterito) è quella di riduzione. Si tratta di un’azione di impugnativa negoziale volta a ottenere una sentenza di accertamento costitutivo. La legge prevede che lo scopo dell’azione di riduzione è quello di “reintegrare la quota riservata ai legittimari” (lesi o preteriti). Più precisamente, secondo la ricostruzione più attenta, lo scopo di detta azione è duplice: a) accertare la sussistenza e l’entità della lesione; b) ottenere l’inefficacia/inopponibilità della disposizione impugnata nei confronti del legittimario che abbia esercitato tale azione, limitatamente a quella parte della disposizione medesima che ecceda la quota disponibile, determinando la lamentata lesione della legittima. Dunque, l’effetto più appariscente e importante della sentenza di riduzione, come sentenza di accertamento costitutivo, è appunto quello di rendere inefficace/inopponibile (in tutto o in parte) la disposizione ridotta nei confronti del legittimario vittorioso in riduzione: cioè, solo nei confronti del legittimario che abbia esercitato l’azione di riduzione, ottenendo tale sentenza; ecco perché talvolta si dice che quella delle disposizioni ridotte è un’inefficacia/inopponibilità “sopravvenuta” e “relativa” (in quanto, appunto, essa dipende dal vittorioso esperimento dell’azione di riduzione e vale solo per il citato legittimario). APPROFONDIMENTO Ai sensi dell’art. 557 c.c., l’azione di riduzione può essere esercitata dai legittimari (lesi o preteriti), dai loro eredi o aventi causa. Per semplicità, anche negli esempi formulati in appresso, noi ipotizzeremo che l’azione di riduzione sia esercitata dal legittimario, come accade il più delle volte. Secondo l’opinione prevalente, l’azione di riduzione si prescrive nel termine ordinario di dieci anni. Discussa, peraltro, è l’individuazione del dies a quo: secondo un orientamento, la prescrizione decorre (di principio) dall’apertura della successione, salvo che l’azione debba essere esercitata contro un’istituzione testamentaria di erede, nel qual caso, invece, il dies a quo dovrebbe identificarsi nella data dell’accettazione da parte del chiamato beneficiario della disposizione lesiva. Un passaggio delicato, ma molto importante: secondo l’opinione più accreditata, il legittimario vittorioso in riduzione acquista i beni oggetto delle disposizioni ridotte, non in forza della sentenza di riduzione, ma sulla base della vocazione necessaria resa operativa da tale sentenza (dunque, a titolo di erede). In altri termini, la sentenza di riduzione non determina un trasferimento patrimoniale dal beneficiario della disposizione ridotta al legittimario vittorioso in riduzione, in quanto, lo ripetiamo, quest’ultimo acquista i citati beni come erede, cioè direttamente dal defunto. In sostanza, succede questo: la sentenza di riduzione rende inefficace/inopponibile, nei confronti del legittimario vittorioso, la disposizione ridotta; di riflesso, una volta che la disposizione impugnata è divenuta inefficace con la sentenza di riduzione, la vocazione necessaria di tale legittimario diventa operante. PRECISAZIONE Si è detto che il legittimario vittorioso in riduzione acquista i beni oggetto della disposizione ridotta (e, dunque, inefficace/inopponibile nei confronti di tale legittimario) per effetto della vocazione necessaria resa operativa dalla sentenza di riduzione. A rigore, peraltro, questa affermazione ha un senso se la disposizione ridotta è un legato (di specie) o una donazione compiuta in vita dal de cuius, in quanto, di principio, disposizioni di questo genere hanno per oggetto uno o più beni determinati. Se, invece, la disposizione ridotta è una disposizione a titolo universale (in particolare, un’istituzione testamentaria di erede), è chiaro che la sentenza di riduzione consente al legittimario di conseguire una quota astratta di eredità o l’”integrazione” della propria vocazione, insufficiente (dunque, non beni determinati, i quali, semmai, potranno essere assegnati in sede di divisione). Il funzionamento di questo complesso meccanismo è particolarmente evidente in caso di riduzione di donazioni lesive. Immaginiamo che il defunto (in vita) abbia donato all’amico Filano un immobile 10 del valore di 100. Immaginiamo altresì che, all’epoca dell’aperta successione, detta donazione si riveli lesiva nei confronti di Caio, figlio del de cuius, e, dunque, che il legittimario ottenga una sentenza di riduzione contro il donatario Filano (si supponga, per semplicità, che la donazione sia ridotta per intero, cioè per il complessivo valore di 100). Ora, per effetto della donazione, quando il defunto era ancora in vita, il bene donato è fuoriuscito dal patrimonio del donante, con la conseguenza che, al tempo dell’aperta successione, esso non si trovava all’interno del patrimonio ereditario. Eppure, con la sentenza di riduzione la donazione ridotta è resa inefficace/inopponibile nei confronti del legittimario vittorioso: dunque, con riguardo al figlio del de cuius, il bene donato si considera “rientrato” o “mai uscito” dal patrimonio ereditario. Conseguentemente, Caio può acquistare a titolo di erede il bene che (nei suoi confronti si considera) rientrato o mai uscito dal patrimonio ereditario. In tutto questo, coerente con l’opinione prevalente, una cosa è chiara: nel momento dell’apertura della successione, il legittimario (come tale) non è automaticamente chiamato all’eredità, con riguardo alla quota di eredità riservata, in quanto, nei suoi confronti, la vocazione necessaria (che consente di acquisire la legittima o la porzione mancante a titolo di erede) è un effetto “mediato” della sentenza di riduzione (dunque, bisogna attendere il vittorioso esercizio dell’azione di riduzione). Si dice, infatti, che il legittimario chiede la legittima come terzo (in quanto la vocazione necessaria non è ancora operativa) e la ottiene come erede (in forza di tale vocazione, resa operativa con la sentenza di riduzione). APPROFONDIMENTO Fermo quanto precede, gli effetti dell’azione di riduzione sono parzialmente diversi secondo che il legittimario sia semplicemente leso o pretermesso. LEGITTIMARIO LESO (MA NON PRETERITO) Se il legittimario è leso, ma è stato comunque beneficiato da una vocazione legittima o testamentaria, tale soggetto possiede già il titolo per diventare erede: basta, infatti, che accetti l’eredità. Ciò si verifica, ad esempio, quando il defunto ha fatto testamento e ha istituito erede il legittimario, ma in misura insufficiente per fargli conseguire quanto gli spetta per legge a titolo di legittima. In questo caso, l’azione di riduzione serve a rendere inefficaci/inopponibili le disposizioni lesive e a rendere operativa la vocazione necessaria, la quale, però, semplicemente integra la (o si aggiunge alla) vocazione testamentaria insufficiente del legittimario vittorioso in riduzione (si ha un concorso fra vocazione testamentaria e vocazione necessaria, allo scopo di consentire al legittimario di conseguire esattamente quanto gli spetta a titolo di legittima). Dunque, la sentenza di riduzione non procura (“ex novo”, se così si può dire) al legittimario il titolo di erede, titolo che quest’ultimo già possiede, se ha accettato l’eredità. N.B.: vi sono alcune ipotesi particolari, molto complesse, nelle quali le cose non stanno esattamente così: ad esempio, quando il legittimario è stato istituito erede universale dal defunto, ma quest’ultimo (in vita) ha compiuto donazioni eccedenti la disponibile, determinando, quindi, una lesione. In un caso come questo, si dice, la successione necessaria, provocata dalla sentenza di riduzione, non rappresenta un’autonoma ragione di vocazione all’eredità, ma semplicemente integra il contenuto economico della vocazione (nel nostro esempio, testamentaria) di cui il legittimario ha già beneficiato. LEGITTIMARIO PRETERITO Il legittimario preterito non è chiamato all’eredità (e non è nemmeno erede) sulla base di una vocazione legittima o testamentaria, in quanto il de cuius lo ha totalmente escluso dalla successione. Dunque, anche con riguardo al legittimario preterito, la sentenza di riduzione rendere inefficaci/inopponibili le disposizioni lesive e rendere operativa la vocazione necessaria nei confronti di tale legittimario. La differenza sta nel fatto che la citata sentenza procura al legittimario preterito il titolo di erede, titolo che prima (di quella sentenza) mancava al legittimario medesimo. In sintesi, all’epoca dell’aperta successione, il legittimario preterito non è chiamato all’eredità, ma diventa erede per effetto della sentenza di riduzione: in proposito, si noti, non è necessario un formale atto di accettazione, in quanto, secondo un’opinione autorevole, tale atto è assorbito/sostituito dall’esercizio dell’azione di riduzione. 11 La legge (lo abbiamo anticipato) pone alcune condizioni per il fruttuoso esercizio dell’azione di riduzione. Nello specifico, si tratta di due condizioni dell’azione: 1) in primo luogo, il legittimario deve procedere all’imputazione ex se (salvo il caso della dispensa, ovviamente): dunque, in mancanza di espressa dispensa, deve imputare alla propria porzione legittima quanto abbia eventualmente ricevuto dal defunto a titolo di legato o di liberalità fra vivi (ma anche, secondo l’interpretazione prevalente, come erede legittimo o testamentario); solo se, una volta compiuta l’imputazione ex se, rimane una lesione a carico del legittimario, quest’ultimo può legittimamente agire in riduzione; 2) in secondo luogo, ma solo se si tratta di agire in riduzione contro soggetti che non siano chiamati all’eredità insieme al legittimario, quest’ultimo deve accettare l’eredità con beneficio di inventario: la regola si riferisce all’ipotesi in cui il legittimario, seppure leso, sia comunque chiamato all’eredità in forza di vocazione legittima o testamentaria; in questo caso, se il legittimario non accetta con beneficio di inventario, non può chiedere e ottenere la riduzione delle donazioni e/o dei legati fatti a favore di soggetti che non siano a loro volta chiamati all’eredità. APPROFONDIMENTO Una precisazione importante: secondo l’opinione prevalente, la condizione dell’accettazione con beneficio di inventario non vale per il legittimario preterito. Difatti, se tale legittimario diventa erede solo all’esito della sentenza di riduzione e sino a quel momento non beneficia di un’efficace vocazione ereditaria, non ha senso affermare che lo stesso debba accettare l’eredità con beneficio di inventario per poter agire in riduzione. In presenza di tutte le condizioni descritte, il legittimario può agire in riduzione, ma non è libero di scegliere quali disposizioni impugnare. In proposito, infatti, la legge impone un preciso ordine e stabilisce le modalità della riduzione: 1) in primo luogo, si devono ridurre le disposizioni testamentarie (legati e istituzioni di erede): queste disposizioni si riducono proporzionalmente, sino alla misura necessaria per reintegrare i diritti del legittimario; 2) solo se la riduzione delle disposizioni testamentarie è insufficiente, residuando ancora una lesione da eliminare, allora si può procedere alla riduzione delle liberalità compiute in vita dal defunto, secondo un preciso ordine cronologico: di principio, bisogna partire dalla liberalità più recente e, ove necessario, procedere via via alla riduzione delle liberalità più risalenti nel tempo. APPROFONDIMENTO A rigore, secondo l’ordine imposto dal legislatore, a essere ridotte per prime – quindi, ben prima delle disposizioni testamentarie – dovrebbero essere le eventuali quote ab intestato (v. art. 553 c.c.): dunque, le quote degli eredi divenuti tali in forza di vocazione legittima, qualora il legittimario concorra alla successione con tali eredi (legittimi, ma non legittimari). Si discute, tuttavia, se la riduzione delle quote ab intestato, ai sensi dell’art. 553 c.c., sia “automatica” o sia comunque necessario che il legittimario agisca in riduzione. La questione è molto complessa e dibattuta. Un dato molto importante da ricordare è che il legittimario non può rinunciare all’azione di riduzione (e, dunque, alla tutela della propria legittima) in data anteriore all’aperta successione. La regola crea notevoli inconvenienti, soprattutto con riguardo alle donazioni. Si immagini che Tizio, sposato con due figli, doni un proprio bene all’amico Filano. Ora, Filano sarà certamente lieto di aver ricevuto la donazione, ma quest’ultima è “a rischio”: difatti, dopo la morte di Tizio, i relativi legittimari (figli e coniuge), se lesi o preteriti, potrebbero impugnare la donazione con l’azione di riduzione, con tutte le conseguenze negative per Filano. L’inconveniente non può essere 12 eliminato a priori, chiedendo al coniuge e ai figli di Tizio (futuri legittimari) di rinunciare preventivamente all’azione di riduzione, così da “stabilizzare” la donazione (ciò perché, lo si è detto, i legittimari possono rinunciare all’azione di riduzione solo dopo l’apertura della successione, dunque, nel nostro esempio, dopo la morte di Tizio). APPROFONDIMENTO Si discute se, ben prima dell’apertura della successione, i (futuri legittimari) possano rinunciare a un’altra azione, che analizzeremo in seguito: cioè, l’azione di restituzione contro i terzi aventi causa dal beneficiario delle disposizioni ridotte. 7.2 AZIONE DI RESTITUZIONE CONTRO I BENEFICIARI DELLE DISPOSIZIONI RIDOTTE Se la sentenza di riduzione rende inefficaci/inopponibili le disposizioni ridotte nei confronti del legittimario vittorioso, con tutte le ulteriori conseguenze evidenziate più sopra, è chiaro che, dopo tale sentenza, il legittimario medesimo può chiedere e ottenere al beneficiario di quelle disposizioni la restituzione dei beni che ne formano oggetto: in particolare, può farlo esercitando la seconda azione posta a sua tutela, cioè l’azione di restituzione contro il beneficiario delle disposizioni ridotte. Peraltro, a rigore, l’esercizio di questa azione ha un senso se il legittimario vittorioso in riduzione non è già nel possesso dei citati beni e se le disposizioni ridotte sono legati o liberalità fra vivi. 7.3. AZIONE DI RESTITUZIONE CONTRO GLI AVENTI CAUSA DAI BENEFICIARI DELLE DISPOSIZIONI RIDOTTE Se il beneficiario della disposizione ridotta (in particolare, donazioni e legati) ha alienato a terzi i beni oggetto di tale disposizione, il legittimario vittorioso in riduzione può chiedere ai subacquirenti (quindi, i terzi aventi causa dal citato beneficiario) la restituzione dei beni medesimi. Dunque, la restituzione dei beni oggetto delle disposizioni ridotte può essere richiesta, da parte del legittimario che ha ottenuto la riduzione in proprio favore, sia ai beneficiari immediati di quelle disposizioni (donatari e/o legatari, secondo i casi, se questi ultimi non hanno alienato i beni da restituire all’esito della riduzione) sia agli eventuali subacquirenti dai beneficiari medesimi (in sostanza, salve le precisazioni compiute in appresso, il fatto che tali beni siano stati nel frattempo alienati non è incompatibile con la loro restituzione al legittimario, non in assoluto, almeno). APPROFONDIMENTO La norma di riferimento è quella dell’art. 563 c.c. Questa norma considera esclusivamente il caso dell’alienazione di beni donati, ma si ritiene che la stessa sia applicabile, nei limiti della compatibilità, anche quando la riduzione abbia colpito una disposizione testamentaria (e il relativo beneficiario abbia alienato a terzi i beni oggetto della disposizione medesima). Tuttavia, l’azione di restituzione contro il beneficiario della disposizione ridotta, che non abbia alienato il bene oggetto di tale disposizione, e l’azione di restituzione contro i terzi subacquirenti dal beneficiario medesimo non devono essere confuse, trattandosi di azioni diverse. Tralasciando la natura delle due azioni citate, la differenza si apprezza immediatamente sul piano operativo. Per regola generale, infatti, il legittimario vittorioso in riduzione non può liberamente e immediatamente agire in restituzione contro il terzo avente causa dal beneficiario della disposizione ridotta. Difatti, dapprima tale legittimario deve escutere il patrimonio del beneficiario della disposizione ridotta (in sostanza, deve chiedere a tale ultimo soggetto il pagamento dell’equivalente 13 in denaro del bene alienato a terzi). Solo se il citato beneficiario è trovato insolvente, nel senso che il relativo patrimonio è insufficiente per soddisfare le aspettative del legittimario, quest’ultimo può agire in restituzione contro il terzo subacquirente e recuperare da quest’ultimo il bene oggetto della disposizione ridotta. Un’altra peculiarità: quando al legittimario è consentito di agire in restituzione contro il terzo subacquirente, in quanto il beneficiario della disposizione lesiva è stato trovato insolvente, il terzo medesimo può decidere di “riscattare” il bene oggetto di tale disposizione: cioè, può decidere di evitare la restituzione del bene (in natura), essendo interessato a conservarne/recuperarne la titolarità, pagando al legittimario l’equivalente in denaro. 8. EFFICACIA RETROATTIVA DELLA SENTENZA DI RIDUZIONE Si osserva comunemente che (salvi alcuni limiti o temperamenti, che vedremo a breve) la sentenza di riduzione ha efficacia retroattiva: non solo fra le parti, ma anche, in certa misura, nei confronti dei terzi. L’affermazione si basa essenzialmente su due circostanze: 1) una volta ottenuta la sentenza di riduzione, il legittimario vittorioso recupera (con l’azione di restituzione) i beni oggetto delle disposizioni ridotte – in particolare, immobili e mobili registrati – liberi da ogni peso o ipoteca eventualmente costituiti dal beneficiario di tali disposizioni (art. 561 c.c.); 2) dopo la riduzione, lo si è detto, l’azione di restituzione può essere esercitata anche nei confronti dei terzi aventi causa dal beneficiario delle disposizioni ridotte, sia pure a certe condizioni (art. 563 c.c.). Tutto questo crea inconvenienti non trascurabili nei traffici giuridici, con particolare riguardo ai c.d. “immobili con provenienza donativa”, cioè acquisiti a titolo di donazione dall’attuale proprietario o dal relativo dante causa. ESEMPI ESEMPIO 1. Tizio, coniugato con due figli, dona all’amico Caio l’immobile “A”. Caio, a un certo punto, ha bisogno di denaro e quindi, per procurarsi la somma necessaria, decide di stipulare con la banca “X” un mutuo garantito da ipoteca sull’immobile “A”. L’”addetto” della banca “X” rifiuta di concludere detto contratto di mutuo, in quanto l’immobile “A” ha una provenienza donativa: difatti, l’”addetto” teme che un domani, dopo la morte di Tizio, i relativi legittimari possano impugnare la donazione e recuperare l’immobile da Caio libero da ogni ipoteca (compresa quella eventualmente costituita a favore della baca “X”, con tutte le conseguenze negative nei confronti dei creditori ipotecari). Si tratta di una possibile ricaduta di quanto previsto dall’art. 561 c.c. Il problema non si può superare chiedendo ai (futuri) legittimari di rinunciare anticipatamente all’esercizio dell’azione di riduzione, in quanto, lo si è detto, la rinuncia a quell’azione è ammissibile solo in data successiva all’aperta successione del donante. ESEMPIO 2. Tizio, coniugato con due figli, dona all’amico Caio l’immobile “A”. Successivamente, Caio decidere di vendere tale bene a Sempronio, interessato all’acquisto. A un certo punto, però, Sempronio scopre che l’immobile ha una provenienza donativa e decide di non stipulare il contratto di vendita: difatti, egli teme che un domani, dopo la morte di Tizio, i relativi legittimari impugnino la donazione e possano chiedere la restituzione dell’immobile. Certo, non è detto che, all’apertura della successione di Tizio, vi sia una lesione tale da giustificare la riduzione della donazione, ma, potenzialmente, il rischio permane. Ancora, si può spiegare a Sempronio che il legittimario vittorioso in riduzione non può chiedere liberamente la restituzione ai terzi aventi causa dai beneficiari delle disposizioni ridotte, dovendo prima escutere infruttuosamente il patrimonio di tali ulti soggetti, ma il rischio permane. Ancora, si può spiegare a Sempronio che, anche qualora il donatario possa agire in restituzione contro il terzo subacquirente del bene oggetto della disposizione ridotta, tale subacquirente può comunque riscattare il bene medesimo pagando l’equivalente in denaro, ma la prospettiva non è allettante: difatti, se il terzo avente causa ha acquistato a titolo oneroso, si trova, in sostanza, a pagare due volte lo stesso bene, avendo dapprima pagato il corrispettivo dovuto al dante causa, beneficiario della disposizione ridotta, e trovandosi poi a dover pagare anche il legittimario. Il problema non si può superare chiedendo ai (futuri) legittimari di rinunciare anticipatamente all’esercizio dell’azione di riduzione, in quanto, lo si è detto, la rinuncia a quell’azione è ammissibile solo in data successiva all’aperta successione del donante. 14 Nel disegno originario del c.c., del 1942, le regole enunciate trovavano un unico temperamento, tutt’oggi esistente: in particolare, il temperamento previsto (lo ripetiamo, anche nel regime vigente) dalla norma dell’art. 2652, n. 8), c.c. Si deve considerare, infatti, che la domanda di riduzione contro disposizioni che hanno per oggetto beni immobili deve essere trascritta ai sensi dell’art. 2652, n 8), c.c. La norma appena evocata dispone che, se tale domanda è trascritta dopo dieci anni dall’apertura della successione, la sentenza di riduzione non può pregiudicare i terzi che hanno acquistato a titolo oneroso diritti in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda medesima. Per meglio comprendere il senso della regola, soffermiamoci sul caso del terzo subacquirente di un immobile oggetto di donazione ridotta. Ora, secondo quanto si è detto, il legittimario vittorioso in riduzione può chiedere al subacquirente di tale immobile la relativa restituzione, a condizione che il beneficiario della donazione ridotta sia stato trovato insolvente. Eppure, ai sensi dell’art. 2652, n. 8), c.c., anche se il citato beneficiario è stato trovato insolvente, l’acquisto del terzo subacquirente è fatto salvo – nel senso che il legittimario vittorioso in riduzione non può pretendere da lui la restituzione dell’immobile – in presenza delle seguenti condizioni: 1) la domanda di riduzione è stata trascritta dopo dieci anni dall’apertura della successione; 2) il terzo subacquirente ha acquistato a titolo oneroso (la regola non funziona se l’acquisto di tale ultimo soggetto è avvenuto a titolo gratuito); 3) il terzo subacquirente ha trascritto il proprio acquisto prima della trascrizione della domanda di riduzione. Come si vede, la regola non può funzionare sempre, anche perché uno dei relativi presupposti è che la domanda di riduzione sia stata trascritta dopo dieci anni dall’apertura della successione. Di recente, allora, il legislatore ha modificato gli artt. 561 e 563 c.c., introducendo altri due temperamenti: 1) sebbene la donazione sia stata ridotta, i pesi e le ipoteche costituiti dal donatario rimangono efficaci se la riduzione è stata domandata dopo 20 anni dalla trascrizione della donazione (“salvo in questo caso l'obbligo del donatario di compensare in denaro i legittimari in ragione del conseguente minor valore dei beni, purché la domanda sia stata proposta entro dieci anni dall'apertura della successione”: v. l’art. 561 c.c.); 2) sebbene la donazione sia stata ridotta, il legittimario vittorioso in riduzione non può chiedere la restituzione dell’immobile oggetto di tale donazione al terzo avente causa dal donatario, qualora siano trascorsi più di 20 anni dalla trascrizione di tale donazione. Evidentemente, anche questi temperamenti non risolvono del tutto i problemi associati alla “circolazione dei beni con provenienza donativa”, in quanto 20 anni (dalla trascrizione della donazione) sono un lasso di tempo abbastanza consistente. PRECISAZIONE In ogni caso, il termine ventennale di cui agli vigenti artt. 561 e 563 c.c. può essere sospeso da alcuni dei futuri legittimari mediante un atto di opposizione alla donazione, che deve essere trascritto e notificato al donatario e ai suoi aventi causa. APPROFONDIMENTO L’esigenza di limitare i problemi legati alla circolazione degli immobili con provenienza donativa ha portato una parte degli interpreti ad approfondire le modalità di riduzione di alcune liberalità non donative (o donazioni indirette). Difatti, ai sensi dell’art. 809 c.c., la disciplina della riduzione si applica anche a tali liberalità. Ma la riduzione di tali ultime liberalità pone alcuni problemi, qualora il bene “uscito” dal patrimonio del donante non 15 corrisponda al bene acquisito dal donatario. L’esempio caratteristico è quello della c.d. “intestazione di bene sotto nome altrui”. Si immagini che Tizio voglia procurare all’amico Caio la proprietà dell’immobile “A”, da adibire a residenza di tale ultimo soggetto. Allora, se Tizio è proprietario dell’immobile “A”, costui può certamente donarlo all’amico, realizzando una donazione in senso tecnico. Se, invece, l’immobile “A” appartiene a un terzo, Sempronio, Tizio ha due principali alternative (in particolare, se si ritiene che la donazione di bene altrui sia nulla): a) può acquistare l’immobile da Sempronio e poi donarlo all’amico, sempre con una donazione in senso tecnico; b) può ricorrere a un meccanismo più complesso, che realizza una liberalità non donativa (o “donazione indiretta”), non essendo previsto il perfezionamento di una donazione in senso tecnico: in particolare, l’amico Caio acquista l’immobile da Sempronio, con un normale contratto di compravendita, rispetto al quale il padre Tizio rimane estraneo e non diventa parte sostanziale e/o formale, ma il prezzo di vendita (che dovrebbe essere pagato dal figlio, in qualità di parte acquirente) è pagato da Tizio, con denaro proprio e per spirito di liberalità nei confronti del figlio, direttamente nelle mani del venditore Sempronio. In questo modo, molto più complesso, si ottiene (sostanzialmente) lo stesso risultato che si sarebbe ottenuto, se Tizio fosse stato titolare dell’immobile “A”, con una donazione diretta (in senso tecnico) di tale ultimo bene da Tizio a Caio. Ora, anche una liberalità come quella descritta sub b) può essere ridotta da un legittimario leso o preterito. Il problema nasce dal fatto che, riprendendo la soluzione elaborata in tema di collazione, si tende ad affermare che l’oggetto della liberalità non donativa non è il denaro uscito dal patrimonio del defunto, ma l’immobile acquistato dall’amico Caio. Così ragionando, la sentenza di riduzione non consente di recuperare l’immobile donato con il consueto meccanismo: la sentenza di riduzione non può rendere inefficace/inopponibile la compravendita perfezionata fra Caio e Sempronio, cui il defunto è rimasto del tutto estraneo; del resto, anche se così non fosse, immaginando che tale compravendita sia resa inefficace nei confronti del legittimario vittorioso in riduzione, l’immobile compravenduto dovrebbe (al più) considerarsi “rientrato” nel patrimonio del venditore, non nel patrimonio ereditario, con conseguente impossibilità per il legittimario medesimo di acquistarlo a titolo di erede. In casi come questi allora, data l’asserita impossibilità di recuperare l’immobile “in natura”, alcuni hanno sostenuto che la tutela del legittimario si attua “per equivalente”, riconoscendogli un diritto di credito: in altre parole, una volta ottenuta la sentenza di riduzione, il legittimario vittorioso potrebbe solo domandare al beneficiario della liberalità non donativa l’equivalente in denaro dell’immobile donato (e, soprattutto, non potrebbe mai chiedere la restituzione di detto immobile all’eventuale terzo avente causa dal donatario medesimo). Non si tratta, comunque, di un’opinione pacifica. 9. INTANGIBILITA’ DELLA LEGITTIMA Tutte le regole sin qui enunciate, poste a tutela dei legittimari, sono strettamente collegate al principio di “intangibilità della legittima”, consacrato nell’art. 457, comma 3, c.c.: le “disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari”. Ma la tutela dei legittimari non è affidata esclusivamente all’azione di riduzione. Difatti, il principio di intangibilità della legittima trova una duplice concretizzazione: 1) da un lato, esso si sostanzia in un limite alla piena efficacia delle disposizioni lesive della legittima, cioè nella loro riducibilità da parte dei legittimari lesi o preteriti (si tratta, in sostanza, delle regole sin qui esaminate); 2) dall’altro lato, esso si specifica nel divieto, gravante sul testatore, di imporre pesi o condizioni sulla “quota spettante ai legittimari”: si tratta del c.d. “divieto di pesi o condizioni sulla legittima” (art. 549 c.c.). In linea di principio, salve le eccezioni stabilite dalla legge, il divieto di pesi o condizioni colpisce qualsiasi disposizione testamentaria che condizioni o limiti, sotto il profilo quantitativo o temporale, i diritti dei legittimari: ciò si verifica, ad esempio, quando il testatore istituisce erede il legittimario in una quota esattamente pari alla sua quota di legittima, così rispettando i diritti riservati dalla legge, ma impone a tale ultimo soggetto un onere, il quale, evidentemente, va a intaccare la pienezza di quei diritti. Ora, il punto da tenere in considerazione è questo: sebbene l’art. 549 c.c. non lo dica espressamente, un’opinione diffusa ritiene che le disposizioni testamentarie contrarie al divieto di pesi e condizioni sulla legittima non siano semplicemente riducibili, ma siano addirittura nulle (dunque, per questo aspetto, la tutela del legittimario, affidata alla nullità, appare particolarmente intensa). 16 10. LEGATO IN SOSTITUZIONE DI LEGITTIMA Il legato in sostituzione di legittima è una disposizione testamentaria con la quale il testatore attribuisce a un legittimario beni determinati (o, come taluno precisa, un diritto di credito, se si tratta di un legato obbligatorio, anziché di un legato di specie) in soddisfazione della relativa legittima. Con tale disposizione, dunque, il testatore sottrae al legittimario la sua quota di eredità riservata, sostituendola con un’attribuzione a titolo particolare. Apparentemente, la figura in esame sembra risolvere la gran parte dei problemi connessi alla successione necessaria. Difatti, se il testatore vuole programmare in un certo modo la propria successione ed essere certo che il proprio disegno testamentario non sia rovesciato dai futuri legittimari, basta, a prima vista, che il primo soggetto disponga nei confronti dei legittimari medesimi un legato in sostituzione di legittima. Il problema, però, è che il legittimario beneficiato da un siffatto legato può sempre rinunziarvi e chiedere la propria legittima. In particolare, le regole da ricordare sono queste: a) come si è detto, sebbene il legato in sostituzione di legittima (come ogni altro legato) si acquisti automaticamente all’epoca dell’aperta successione, il legittimario beneficiato con tale legato può rinunziare ad esso e, divenendo così legittimario pretermesso, può reclamare per intero la propria legittima: il che, di principio, accadrà quando il legittimario si avveda che il valore de legato è inferiore a quello della legittima (in particolare, in mancanza del diritto di chiedere il c.d. “supplemento”); b) se il legittimario decide di accettare il legato, precludendosi la possibilità di rinunziare ad esso, tale soggetto perde il diritto di reclamare l’eventuale “supplemento”: cioè, se il legato accettato si rivela di valore inferiore a quello della legittima, il legittimario rimane legatario e non può pretendere di conseguire la differenza di valore (qui, lo ripetiamo, l’accettazione del legato non serve a perfezionarne l’acquisto, ma a renderlo definitivo, eliminando la possibilità di rinuncia da parte del legittimario-legatario). PRECISAZIONE Esiste anche il legato in sostituzione di legittima con diritto al supplemento: con questo “legato”, cioè, il testatore attribuisce al legittimario beneficiario la facoltà di chiedere il “supplemento”; dunque, qualora il valore del “legato” si riveli inferiore a quello della legittima al tempo dell’aperta successione, il “legatario” può trattenere il “legato”, ma può anche pretendere l’accertata differenza di valore. La natura giuridica di questo “legato” è alquanto discussa (ecco perché abbiamo usato le virgolette: “legato”, “legatario”). 11. C.D. “CAUTELA SOCINIANA” La c.d. “cautela sociniana” è disciplinata dall’art. 550 c.c. ed è solitamente presentata come un temperamento del principio di intangibilità della legittima. La cautela sociniana opera quando il testatore, alternativamente: a) ha lasciato al legittimario una “porzione” di nuda proprietà che eccede la legittima, lasciando a un estraneo (non legittimario) un usufrutto o una rendita vitalizia il cui reddito ecceda quello della disponibile; b) ha lasciato al legittimario un usufrutto che eccede la legittima, lasciando a un estraneo (non legittimario) una “porzione” di nuda proprietà eccedente la disponibile. Il problema nasce dal fatto che, di principio, il legittimario dovrebbe conseguire la propria legittima in piena proprietà: cosa che non si verifica nei due casi appena riportati. In ciascuno di questi casi, dunque, il legittimario può scegliere: se dare esecuzione alle disposizioni testamentarie, accontentandosi dell’assetto predisposto dal testatore, o se abbandonare la disponibile e conseguire la legittima in piena proprietà. 17 ESEMPIO Il meccanismo si può comprendere con un esempio. Immaginiamo che il defunto, vedovo, abbia lasciato un unico legittimario, il figlio Caio. Si aggiunga che: il patrimonio ereditario ha un valore di 100 e si compone esclusivamente di due immobili, rispettivamente del valore di 80 e di 20; non vi sono debiti e donazioni fatte in vita; Tizio ha istituito erede universale il figlio Caio, ma ha legato, in favore dell’amico Sempronio, il diritto di usufrutto sull’immobile che vale 80. La legittima di Caio ammonta a 50: la metà di 100, in quanto 100 (relictum) – 0 (debiti) + 0 (donatum) = 100. Ora, come erede testamentario, Caio ha ottenuto (con l’accettazione dell’eredità) più di quanto gli spetta a titolo di legittima, ma non in piena proprietà. Difatti, Caio (come legittimario) ha diritto di ottenere 50 in piena proprietà, ma l’usufrutto di Sempronio, sul bene del valore di 80, eccede il valore della disponibile (50) e “invade” per 30 (80 – 50) la quota indisponibile: dunque, a ben vedere, la legittima di Caio è composta da 30 in pena proprietà e da 20 in nuda proprietà, con la precisazione che, in base alle disposizioni testamentarie, il legittimario ottiene anche la disponibile (50) in nuda proprietà. In un caso come questo, per comprendere appieno se e in che misura vi sia stata lesione di legittima, si dovrebbe procedere alla c.d. capitalizzazione dell’usufrutto concesso a Sempronio, cioè alla determinazione dell’esatto valore di tale ultimo diritto: cosa che non appare semplice, soprattutto se la durata dell’usufrutto corrisponde alla vita dell’usufruttuario, e che il legislatore vuole evitare, concedendo appunto al legittimario la scelta più sopra indicata. Dunque, nel nostro esempio, Caio può decidere di: a) accettare la predisposizione voluta dal testatore: in questo caso, conserva/ottiene l’intera disponibile (50) in nuda proprietà, nonché l’intera porzione indisponibile (50), ma in parte in piena proprietà (20) e in parte in nuda proprietà (30); b) oppure, in alternativa, può abbandonare la disponibile (50) in nuda proprietà e ottenere solo la porzione indisponibile (50), ma tutta in proprietà piena. PRECISAZIONE L’ultimo comma dell’art. 550 c.c. prevede che le regole dettate nei commi precedenti si applicano anche “se dell’usufrutto, della rendita o della nuda proprietà è stato disposto con donazione”. 12. PATTO DI FAMIGLIA La disciplina della successione necessaria (e della collazione ereditaria: v. la relativa “scheda”) pone difficoltà non trascurabili nella gestione del c.d. “passaggio generazionale dell’impresa”. Ben spesso, infatti, l’imprenditore o il titolare di partecipazioni societarie intende programmare e/o attuare la propria successione, attribuendo (in vita o post mortem) la relativa azienda o tali partecipazioni a un soggetto determinato, normalmente, ma non necessariamente, uno stretto congiunto. In generale, lo può fare ricorrendo agli strumenti tecnici della donazione o del testamento, ma, in entrambi i casi, l’assetto dato dal disponente può essere rovesciato, dopo la sua morte, da eventuali legittimari lesi che impugnino la donazione o il testamento per asserita lesione di legittima (un problema analogo, peraltro, si pone in applicazione delle norme sulla collazione, qualora lo strumento impiegato dal de cuius sia la donazione in favore di uno dei soggetti indicati dall’art. 737 c.c.). ESEMPIO Tizio, noto e facoltoso magnate dell’industria italiana, è titolare del 90% delle azioni della “Alfa” s.p.a., società di grande successo. Tizio, vedovo da tempo, ha solo due figli: Caio, persona assennata, che ha sempre aiutato il padre nella “gestione” della società, contribuendo attivamente al relativo successo; Sempronio, dedito a ogni sorta di vizio e propenso a sperperare il denaro, che nella vita (dice di) fare l’”artista”. Ovviamente, Tizio individua nel figlio Caio il soggetto più adatto a sostituirlo nella guida della società e, dunque, gli dona il proprio intero pacchetto azionario, temendo che, coinvolgendo anche Sempronio, la società si troverebbe ben presto in difficoltà. Il problema è che, dopo la morte di Tizio, Sempronio, sempre a caccia di denaro, potrebbe impugnare la donazione compiuta in favore del fratello, recuperando, con l’azione di riduzione e di restituzione, una parte delle azioni donate, con tutte le conseguenze. 18 Di recente, per superare una parte delle difficoltà evidenziate, il legislatore ha introdotto la disciplina del patto di famiglia (artt. 768-bis ss. c.c.). 12.1 NOZIONE DI PATTO DI FAMIGLIA Il patto di famiglia è il contratto con il quale: 1) l’imprenditore trasferisce (in tutto o in parte) la propria azienda a uno o più discendenti (figli, nipoti, ecc.); 2) oppure il titolare di partecipazioni societarie trasferisce (in tutto o in parte) tali partecipazioni (azioni, quote di s.r.l., ecc.) a uno o più discendenti (figli, nipoti, ecc.). In entrambi i casi, di principio, il trasferimento è immediato e si attua inter vivos, quando il disponente è ancora in vita. Dalla nozione legale si evince che: 1) il patto di famiglia è un contratto: si discute, peraltro, sull’esatta natura di questo contratto (donazione modale, negozio con causa familiare, contratto con causa divisoria, ecc.); 2) il disponente, che compie l’attribuzione patrimoniale, deve essere un imprenditore (titolare di un’azienda da trasferire in tutto o in parte) o il titolare di partecipazioni societarie; 3) il beneficiario, assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie, può essere esclusivamente un discendente del disponente (figlio, nipote, ecc.): ciò significa che, se l’imprenditore o il titolare di partecipazioni societarie non ha discendenti, lo strumento del patto di famiglia non può essere utilizzato. APPROFONDIMENTO La legge stabilisce che il patto di famiglia deve essere stipulato nel rispetto delle disposizioni in materia di impresa familiare e delle diverse forme societarie. 12.2. FORMA DEL PATTO DI FAMIGLIA Il patto di famiglia deve essere perfezionato in forma di atto pubblico, a pena di nullità. Si tratta, quindi, di un contratto a forma solenne. 12.3. OGGETTO DEL PATTO DI FAMIGLIA Secondo la definizione legale, il patto di famiglia può avere per oggetto: 1) l’azienda (o una porzione dell’azienda) dell’imprenditore disponente (dunque, in sintesi, l’azienda o un c.d. “ramo di azienda): si tratta di un complesso di elementi produttivi, organizzati dal disponente per l’esercizio di una certa attività imprenditoriale (in ogni caso, occorre rispettare la disciplina sull’impresa familiare, se e nella misura in cui quest’ultima sia applicabile); 2) le partecipazioni societarie del disponente o una parte di esse (come stabilito dall’art. 768- bis, nel rispetto delle diverse “tipologie societarie”). 12.4. PARTI DEL PATTO DI FAMIGLIA Sono certamente parti del patto di famiglia: 1) il disponente, cioè colui che trasferisce (in tutto o in parte) la propria azienda o le relative partecipazioni societarie; 2) il beneficiario o i beneficiari assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, che, lo si è detto, devono essere necessariamente discendenti del disponente. 19 La legge prevede, poi, che al patto devono partecipare anche i soggetti che sarebbero legittimari del disponente (in base a un ragionamento “ipotetico”) se all’epoca del perfezionamento di tale patto si aprisse la successione del disponente medesimo: ad esempio, il coniuge (o l’unito civilmente) del disponente e gli altri figli di lui, diversi dai discendenti assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie (cc.dd. “legittimari non assegnatari”). Si discute, peraltro, se la partecipazione dei legittimari non assegnatari sia prescritta a pena di nullità: dunque, se il patto concluso senza il coinvolgimento di uno di tali legittimari sia nullo. 12.5. LIQUIDAZIONE DEI LEGITTIMARI NON ASSEGNATARI Il patto di famiglia si basa su un meccanismo “perequativo”, in forza del quale: a) il disponente trasferisce (in tutto o in parte) a uno o più discendenti la propria azienda o le relative partecipazioni societarie; b) il discendente o i discendenti assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare i legittimari non assegnatari: cioè, devono corrisponde a ciascuno di tali legittimari una somma pari alla relativa quota di legittima, calcolata sulla base del valore attribuito (nel patto) all’azienda o alle partecipazioni trasferite dal disponente. ESEMPIO L’imprenditore Tizio, coniugato con due figli (Caio e Sempronio), è titolare di un’azienda del complessivo valore di 200.000 Euro. Con patto di famiglia, Tizio trasferisce l’intera azienda al figlio Caio. Ora, immaginando che la successione di Tizio si apra all’epoca del patto, la legittima di ciascun “legittimario”, da calcolare in rapporto al valore dell’azienda trasferita, è questa: ¼ al coniuge; ¼ a Caio e ¼ a Sempronio (v., infatti, l’art. 542, comma 2, c.c.). Dunque, Caio, come assegnatario dell’azienda, deve corrispondere: 1) 50.000 Euro alla madre (cioè ¼ di 200.000); 2) 50.000 Euro al fratello Sempronio (ossia ¼ di 200.000). Quanto alla liquidazione dei legittimari non assegnatari, la legge prevede che: 1) di principio, la liquidazione deve essere immediata, ossia contestuale al perfezionamento del patto: essa può consistere nel pagamento di una somma di denaro o in alternativa, con l’accordo degli interessati, nell’attribuzione di beni “in natura”; 2) i soggetti interessati possono accordarsi per il differimento della liquidazione a un momento successivo; 3) i legittimari non assegnatari possono rinunciare alla relativa liquidazione. ESEMPIO La legge dispone che la liquidazione dei legittimari non assegnatari deve essere compiuta dal discendente o dai discendenti assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. Si discute se tale liquidazione possa essere eseguita dallo stesso disponente. 12.6. LEGITTIMARI SOPRAVVENUTI AL PATTO Può accadere, dopo il perfezionamento del patto di famiglia, che sopravvengano altri “potenziali legittimari”: ad esempio, ciò si verifica se il disponente ha un ulteriore figlio in data successiva al patto medesimo. In proposito, la legge prevede che, dopo la morte del disponente e l’apertura della relativa successione, gli eventuali legittimari sopravvenuti al patto di famiglia possano chiedere agli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie una somma di denaro pari a quella che gli sarebbe spettata ai sensi dell’art. 768-quater, comma 2, ma aumentata degli interessi legali. 20 12.7. VANTAGGI DEL PATTO DI FAMIGLIA Il principale vantaggio del patto di famiglia è dato dalla stabilità del disegno distributivo realizzato con il patto medesimo. Difatti, la norma dell’art. 768-quater, ult. comma, c.c. dispone che quanto “ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione” (si intende, per lesione di legittima). PRECISAZIONE FINALE La legge detta anche alcune regole in merito all’eventuale modifica o scioglimento del patto di famiglia. Difatti, l’art. 768-septies c.c. dispone che: il “contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno concluso il patto di famiglia nei modi seguenti: 1) mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo; 2) mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio”.

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