La Memoria Emotiva PDF - Analisi del Metodo Stanislavskij
Document Details

Uploaded by DistinctiveNovaculite7541
Tags
Summary
Questo documento tratta della memoria emotiva e del suo ruolo essenziale nella recitazione, in particolare secondo il Metodo Stanislavskij. Il testo esplora come gli attori utilizzano la memoria sensoriale e le emozioni per creare personaggi autentici e coinvolgenti, e analizza il processo di personificazione dell'attore, illustrando l'importanza dell'immaginazione, della connessione emotiva e delle tecniche di 'link'. Vengono anche discussi concetti come i bisogni primari, la poetica dell'attore.
Full Transcript
LA MEMORIA EMOTIVA La MEMORIA EMOTIVA è stata chiamata anche ‘memoria degli affetti’, ‘richiamo emotivo’ e ‘memoria sensibile’. Si tratta di uno degli strumenti di S. più dibattuti, anche perché dagli anni 30 in poi, in America, sarebbe diventato il fulcro del ’Metodo’ sotto l’egida di Lee Strasberg...
LA MEMORIA EMOTIVA La MEMORIA EMOTIVA è stata chiamata anche ‘memoria degli affetti’, ‘richiamo emotivo’ e ‘memoria sensibile’. Si tratta di uno degli strumenti di S. più dibattuti, anche perché dagli anni 30 in poi, in America, sarebbe diventato il fulcro del ’Metodo’ sotto l’egida di Lee Strasberg nel Group Theatre prima e successivamente all’Actor Studio di New York. Per quanto la scuola del Metodo abbia formato un gran numero di talenti e star acclamate, la MEMORIA EMOTIVA si è guadagnata una pessima reputazione per aver portato un gran numero di attori, a quanto si dice, a contrarre psicosi e nevrosi. Eppure ci sono moltissimi modi per usare la MEMORIA EMOTIVA senza alcuna difficoltà né rischi per la salute, il che dimostra quanto essa sia una parte connaturata e fondamentale di ogni processo immaginativo e creativo non solo per l’attore ma per ogni essere umano. S. incontrò per la prima volta il termine ‘memoria degli affetti’ in due opere dello psicologo francese Théodule Ribot , Le Malattie della Memoria e Le Malattie della Volontà, pubblicate in Russia nel 1900. Fondamentalmente, Ribot scoprì che i pazienti che durante la malattia rievocavano delle esperienze positive guarivano più rapidamente di quelli che si rassegnavano permettendo alla malattia di fare il suo corso. Scopri anche che i ricordi delle esperienze passate possono non essere immediatamente rievocabili alla coscienza, ma che agendo su uno dei cinque sensi ( gusto, odorato, tatto, udito e vista) possiamo stimolare la memoria in modi del tutto sorprendenti. S. rimase molto colpito dal potere che ha la memoria del tempo passato di influenzare le esperienze del tempo presente, così come dal potere dei sensi di agire sulla memoria stessa. Ciò che è importante ricordare è che: la MEMORIA EMOTIVA non significa rivangare i momenti bui dell’esistenza in cui si è sperimentato dolore, delusione, odio è gelosia, né i bei momenti in cui si è provato entusiasmo, affetto od orgoglio. Per provocare l’insorgere di emozioni forti può bastare allo stesso modo il profumo della legna bruciata nel camino, la sensazione di un guanto di velluto, il gusto del ragù preparato dalla nonna, la fotografia di un campo di concentramento. I sensi rappresentano una via d’accesso all’IMMAGINAZIONE e alla MEMORIA EMOTIVA e sono generalmente piuttosto affidabili. E’ altresì importante ricordare che la MEMORIA EMOTIVA è un dato naturale e inevitabile, cui facciamo ricorso continuamente nelle faccende quotidiane. Le decisioni che prendo in ogni istante della mia vita si basano sui ricordi di ciò che è stato e sulle immagini di ciò che potrebbe essere. Posso scegliere, ad esempio, di non percorrere un certo vicolo 1 perché in quel vicolo una volta ho incontrato un grosso cane minaccioso che mi ha spaventato e quindi immagino che possa accadere ancora. Ma nel PROCESSO DI PERSONIFICAZIONE del personaggio a cosa serve la memoria emotiva? Prima di tutto la MEMORI EMOTIVA aiuta l’attore a collocarsi al centro della situazione drammatica. Proprio come IL MAGICO SE, permette di trasformare l’attore da ‘ascoltatore oggettivo’ a ‘soggetto che agisce’. da Il Lavoro dell’attore su stesso: ‘…Spesso la partecipazione dell’uomo-attore si trasforma in sentimento diretto del protagonista e l’attore quasi non se ne avvede.’ Quando ciò non avviene spontaneamente, l’attore deve faticare un po’ di più, il che solitamente significa accedere all’archivio della sua MEMORIA EMOTIVA e trovare una situazione nella vita analoga a quella del personaggio. Torniamo al nostro Macbeth e al fatto che non sono molte le possibilità per un attore di aver commesso un omicidio; quindi, inizialmente, egli dovrà affidarsi a delle ampie pennellate per trovare dei punti di connessione con il ruolo e da queste poi scendere più a fondo nel ‘mondo’ interiore del personaggio. S. ci fornisce un chiaro esempio di ciò che intende in una testimonianza riportata dal regista teatrale russo Gorchakov, S. discute con la giovane attrice Titova che sta esplorando il ruolo della prostituta durante una prova del Teatro d’Arte di Mosca: “Era tutto autentico, toccante, ben fatto, appropriato al lavoro che stai facendo, Titova. Ora non voglio che riveli nessuno dei tuoi segreti di attrice […] dimmi solamente questo: a cosa hai pensato quando Jaques ti ha lasciato da sola sulla piazza?” “Ho pensato che nulla di ciò che ho fatto a teatro nell’ultimo anno sia andato come doveva e che se stavolta non avessi fatto meglio voi mi avreste buttato fuori dal Teatro d’Arte di Mosca” Stanislavskij si voltò verso tutti noi: “Fate molta attenzione, per favore. Questa è un’affermazione di grande importanza. E’ stata l’intuizione a mettere Titova sulla strada giusta. Non ha pensato a se stessa nei panni della prostituta, ma piuttosto ha immaginato vividamente cosa le sarebbe accaduto come attrice se l’avessi buttata fuori dal teatro. Come risultato ci ha trasmesso l’immagine di una donna in una situazione disperata. Questa giusta intuizione ha dato vita a tutte le sue azioni. E cosa hai pensato negli istanti seguenti?” “Non mi importava ciò che sarebbe accaduto dopo.” “E’ esattamente ciò che ho sentito mentre ti guardavo recitare. Voglio che 2 ricordiate tutti come movimenti e azioni esteriori appropriati discendano da un corretto stato d’insieme. Ora Titova, non pensare di dover ricordare e ripetere meccanicamente quello che hai fatto oggi, la prossima volta che proverai la scena. Così otterresti solo la forma esteriore. Ogni volta che rifarai la scena, pensa solamente a un correlativo personale che possa generare in te il sentimento in questione[…] “Nessuno ti butterà fuori, Titova, ma d’ora in poi dovrai crederci ogni volta e ogni volta immaginare in modo diverso cosa ti potrebbe accadere se avvenisse sul serio” Diverse sono le riflessioni che si possono fare sul brano appena letto: innanzi tutto la giovane attrice utilizza una serie di strumenti, comincia dal ‘richiamo’, definita qui ‘intuizione’, che l’aiuta a sviluppare un certo grado di empatia con il personaggio e la sua misera condizione; passa poi alla MEMORIA EMOTIVA, rivolgendo il pensiero al passato (‘Ho pensato che nulla di ciò che ho fatto a teatro nell’ultimo anno sia andato come doveva’); quindi combina la MEMORIA EMOTIVA con l’IMMAGINAZIONE contemplando ciò che considera essere un futuro per lei inevitabile (‘…se stavolta non avessi fatto meglio, Voi mi avreste buttato fuori dal teatro d’Arte’), infine aumenta l’impulso immaginativo grazie al MAGICO SE (S. ‘..ha immaginato cosa le sarebbe accaduto come attrice se l’avessi buttata fuori dal teatro’) Questi strumenti immaginativi l’hanno spinta all’AZIONE, e dalle AZIONI sono scaturiti sentimenti genuini, chiudendo quindi il cerchio tra la MEMORIA EMOTIVA del passato e l’esperienza presente dell’EMOZIONE passando, grazie all’IMMAGINAZIONE, per la visione di un possibile futuro. L’episodio riportato è avvenuto durante una prova, le prove sono il laboratorio in cui l’attore deve avere il coraggio di sperimentare tutto, che funzioni oppure no. S. stimò che l’interpretazione finale contiene non più del dieci per cento di quanto l’attore abbia fatto durante le prove. Altro importantissimo appunto da fare sull’episodio riportato è che lo stesso ricordo non funziona necessariamente in ogni occasione. Se l’attore lavorerà in maniera autenticamente psicofisica, allora potrà saltare da uno stimolo all’altro con eguale effetto sulle sue emozioni. Potrebbe benissimo accadere che una certa MEMORIA EMOTIVA funzioni perfettamente per sei prove di fila o sei ciak, per essere poi soppiantata all’improvviso da qualcosa di totalmente inaspettato, portando l’attore ad aprirsi a tutto un insieme di nuove immagini, impressioni o ricordi. 3 Una delle principali critiche rivolte alla MEMORIA EMOTIVA e che, continuando a saccheggiare l’archivio della propria memoria alla ricerca di materiale, l’attore rischia di ridurre tutti i personaggi che interpreta a mere variazioni di se stesso. La MEMORIA EMOTIVA fornisce all’attore i ‘colori primari’, ma è l’IMMAGINAZIONE che li mischia sulla sua tavolozza in una serie infinita di combinazioni. Ciò significa che l’attore possiede il potenziale di interpretare una miriade di ruoli secondo la seguente equazione: Memoria Emotiva + Immaginazione = l’intero canone teatrale a disposizione LE EMOZIONI Così come un attore non può agire sulla scena senza un corpo, allo stesso modo non potrà recitare in maniera davvero viva e autentica se a un certo punto della sua preparazione psicofisica non entreranno in gioco le EMOZIONI. Cos’è dunque un EMOZIONE? Molti sono i testi che trattano in modo molto lucido l’argomento: alcuni di essi affermano che le EMOZIONI rappresentino una risposta fisiologica ad una certa situazione (mani sudate, accelerazione cardiaca, tensione muscolare ecc.). Secondo altri invece le EMOZIONI sarebbero interpretazioni cognitive di una certa situazione (sono in pericolo? Sono al sicuro?) In ogni caso , la domanda più importante per un attore è: cosa le provoca? La risposta più semplice è: un’ EMOZIONE sorge quando qualcosa o qualcuno ci impedisce di ottenere ciò che vogliamo oppure quando qualcosa o qualcuno ci rende più facile ottenerlo. Se ottengo ciò che voglio provo emozioni positive, se non lo ottengo provo emozioni negative. Ciascuna situazione produce una diversa risposta emotiva da parte mia, che varia dal negativo al positivo. L’entità della mia risposta emotiva dipenderà dall’importanza che assegno all’esecuzione del mio COMPITO. Più alta è la posta in gioco, più forte sarà l’impatto che il cambiamento delle CIRCOSTANZE esercita su di me. Quindi, se il mio COMPITO fosse: ‘Voglio andare a ritirare il mio passaporto alla stazione di Polizia perché questa mattina devo partire per il Giappone’, le conseguenze del portarlo a termine o meno avranno un significato ben diverso per me rispetto al caso in cui il mio COMPITO fosse: ‘ Voglio andare a ritirare un libro che ho ordinato alla libreria sotto casa’. Ma il peso emotivo della mia esperienza verrà alterato anche 4 in base all’entità, alla posta in gioco del CONTROCOMPITO del mio ragazzo/a: se squilla il telefonino e scopro che non solo il mio ragazzo/a si è chiuso fuori casa ma ha anche lasciato sul fuoco una padella piena d’olio che potrebbe prendere fuoco: la posta in gioco si alza improvvisamente. Se corro a casa per aprire la porta, non recupero il passaporto e dovrò rinunciare al viaggio in Giappone se devo semplicemente ritirare il libro ordinato pazienza, lo farò un altro giorno. Per S. l’EMOZIONE è una lama a doppio taglio, voleva far capire agli attori che avere una bella voce e un corpo versatile non bastava, avevano anche bisogno di una riserva emotiva accessibile. Eppure era perfettamente consapevole dei rischi e delle insidie insiti nell’utilizzo delle EMOZIONI che comunque, è importante ricordarlo, devono essere sempre controllate dall’attore. S. è molto chiaro su questo punto: L’attore deve possedere la forza di volontà necessaria a controllare tali sentimenti, a bloccarne l’effetto, quando serve, oppure a cambiarli. (Il lavoro dell’attore su se stesso) L’attore deve maneggiare le EMOZIONI in maniera appropriata e creativa. Usando un’immagine metaforica proposta da Michail Cechov, allievo e attore di S., l’attore deve tenere le sue emozioni sul palmo della mano, da qui, esse si collegano a lui attraverso il cordone ombelicale del braccio, ma dipende dalla sua volontà offrirle o trattenerle, aprendo o richiudendo le dita, è lui a controllarle non loro a controllare l’attore. 5 LEZIONE 11 di Lunedì 1 Febbraio 2021 Immedesimarsi o Connettersi? Spesso si sente dire che il METODO, come il Sistema Stanislavskij, insegna a immedesimarsi nel personaggio. Ciò, in realtà, non è propriamente esatto perché occorre ricordare un’ovvietà che spesso sfugge: il personaggio, anche quello storico, non è una persona vera ma il prodotto cartaceo della fantasia, dell’immaginazione dell’autore che lo crea in funzione della sua opera. Ofelia, Otello, Antigone, Amleto…non sono mai esistiti in carne e ossa ma sono sempre Shakespeare. Premesso questo, la parola ‘immedesimazione’ è errata anche perché suggerisce quel processo psichico spontaneo che ci spinge a ‘entrare nei panni’ di un altro fino ad acquisirne sentimenti e posture, ma se l’altro non esiste? Probabilmente è più corretta la parola ’connessione’ o, come si dice oggi, ‘link’. In sintesi l’attore ben addestrato impara a creare il link fra il suo mondo emotivo reale e quello ipotetico del personaggio, tenendo ovviamente conto di quello che può dedurre da ciò che ne ha scritto l’autore. E’ un lavoro che richiede molto studio, e mette a dura prova le capacità immaginative, intuitive, introspettive e razionali dell’attore. In base al principio di causa ed effetto, l’attore ben addestrato con il METODO, cerca di capire quale potrebbe essere l’origine, la vera motivazione delle azioni del suo personaggio, ricordando che, ad esempio, non si è crudeli perché si è assassini, si è assassini perché si è crudeli. Lo schema del lavoro sarà: “immaginazione - memoria sensoriale – memoria emotiva – azione” Ogni nostra azione, (non solo quelle compiute in scena o davanti la macchina da presa) anche l’immobilità è mossa da un desiderio/bisogno che più è profondo più sarà perseguito con determinazione. Questi desideri/bisogni non hanno a che vedere con le nostre passioni o con la cultura acquisite nel tempo ma hanno un’origine molto più antica ed elementare. Infatti anche se da adulti non ne siamo consapevoli, in noi esistono bisogni nati nella prima infanzia e rimasti insoddisfatti che incideranno profondamente su ciò che poi sarà la nostra vita futura, sia sentimentale che professionale. Sono i cosiddetti bisogni primari insoddisfatti. I Bisogni Primari Non esiste essere umano che non abbia un bisogno insoddisfatto nato nella prima infanzia, altrimenti si accrediterebbe l’illusoria idea di un’infanzia perfetta. Questi 1 meccanismi psicologici sono oggetto di studio della Psicanalisi e, come già detto, non devono interessare all’attore, l’attore deve solo capire come funzionano per poterli utilizzare nella costruzione del personaggio. Innanzitutto l’attore deve sapere che non è la gravità del trauma ad essere importante ma la sua percezione: una violenza fisica potrebbe incidere sulla personalità futura di un bambino meno di una certa parola o di una certa frase o del rifiuto di un giocattolo ecc. E’ solo la sua percezione infantile che conta ma che non corrisponde alla verità oggettiva delle cose o degli eventi. Fra i BISOGNI PRIMARI INSODDISFATTI possiamo citare il bisogno di rispetto, di famiglia, di nutrimento, di cura, di attenzione, di sopravvivenza, di protezione…non va considerato bisogno primario insoddisfatto il bisogno d’amore, che rappresenta una specie di auto-indulgenza che ci spinge verso il vittimismo, all’auto- compassione, ad avere pena di noi stessi. Questo bisogno è il tassello mancante o trauma della nostra vita ed è anche quella principale spinta attiva/reattiva che mette in moto la nostra creatività, la tensione verso la realizzazione dei nostri desideri che, nella vita adulta potremmo realizzare, almeno in parte, solo quando avremo imparato a riconoscerli. Queste pulsioni primarie sono il leitmotiv dell’intera nostra esistenza e nessun essere umano può considerarsene immune. Dunque interrogarsi sul proprio bisogno primario è una parte essenziale del lavoro dell’attore, secondo il METODO. E’ un passaggio ineludibile su cui ogni aspirante attore dovrebbe lavorare da solo e con l’aiuto dell’insegnante. Ciò può mettere in moto azioni molto forti e aprire ferite profonde di cui si può ignorare l’esistenza ma di cui si deve avere consapevolezza per servirsene nel lavoro. Solo dopo aver capito il senso della ricerca sui BISOGNI PRIMARI, sulle vere e sottese e forti motivazioni delle azioni umane, l’attore riuscirà a creare lo snodo, l’aggancio ai bisogni (ipotetici) del suo personaggio e sarà in grado di creare la sua unicità. Le Due Fasi nella costruzione del personaggio Una volta individuato, l’apertura al bisogno del personaggio è la fase ultima e più complessa del lavoro, in quanto investe ciò che di più profondo e irrazionale esiste già nel nostro mondo interiore. Secondo i principi Strasberghiani, più questo mondo è vasto, complesso e contraddittorio, più un attore ha la chance di diventare un ‘grande attore’. 2 La FASE I è la fase che possiamo chiamare ‘fase razionale’ del lavoro di costruzione, in quanto consiste nell’analisi a tavolino del copione e del personaggio nei minimi particolari, non distante dall’Analisi con l’intelletto del Sistema Stanislavskij. La FASE II coincide con l’apertura dell’attore al bisogno del personaggio che non necessariamente avrà a che vedere sia con quello dell’attore sia con ciò che sembra suggerire il testo. E’ ciò che si definisce ‘fase d’intimità’ con il personaggio che l’attore deve infine riuscire ad amare per ciò che è, senza mai giudicarlo, e non per ciò che vorrebbe che fosse, perché in questo caso forzerebbe la sua stessa presenza dell’opera: il personaggio di Irina nelle Tre Sorelle di Cechov è una giovane entusiasta e impulsiva, sarebbe estremamente sbagliato da parte del regista presentarla come una bombarola fanatica perché in questo modo il regista usa quel personaggio per i propri fini, per lanciare il ‘suo messaggio’. Anche molti attori cadono in questa trappola, questa sorta di mistificazione, soprattutto nel caso in cui il personaggio risulti loro particolarmente indigesto o non sufficientemente adatto ai loro mezzi espressivi. La FASE II è dunque un passaggio molto difficile che non a tutti riesce perché il narcisismo dell’attore, le sue urgenze legate ai traumi personali tendono a prevaricare sul personaggio. E’ anche facile intuire che tra le due FASI c’è discontinuità perché la seconda è una sorta di salto della coscienza dell’attore in altro da sé ma simile a sé. Dopo aver acquisito la necessaria esperienza sapersi aprire al bisogno del personaggio diventerà un meccanismo acquisito. Realtà, Fede e Processo Creativo Abbiamo visto come, secondo S., la natura umana dell’attore non solo rende possibile la sua grandezza ma è anche l’origine dei suoi problemi. S. si rendeva conto, durante le lezioni alla Studio, che a volte un individuo può possedere la capacità tecnica per fare certe cose pur avendo difficoltà nell’esprimerle, a causa della vita emotiva, a causa dei problemi della sua esistenza umana, dunque l’attore deve alleggerire qualsiasi difficoltà insita in lui, che nega la sua libertà di espressione e blocca le capacità che possiede. S. citava spesso Jacques Copeau, attore, regista, drammaturgo, critico e pedagogo teatrale, il quale descriveva le difficoltà che l’attore incontra con il suo ‘sangue’: l’attore dice al suo braccio “Avanti braccio, vai e fai il tuo gesto” Ma il braccio non si muove, rimane legnoso. Il ‘sangue’ non fluisce, i muscoli non si muovono, il corpo lotta con sé stesso. Il mestiere della recitazione, per S., l’arte essenziale della recitazione, è una cosa mostruosa perché fatta con gli stessi muscoli di carne e sangue con i quali gli attori eseguono gli atti più comuni, gli atti più reali. Il corpo con il quale l’attore fa davvero l’amore è lo stesso corpo con 3 quale fa l’amore in modo fittizio con qualcuno che non gli piace, con cui ha litigato, che odia, dal quale non sopporta di essere toccato. Eppure, al momento stabilito, egli si getterà con lo stesso ardore e passione che avrebbe con un vero amante. Ebbene, secondo S, in nessuna altra arte c’è qualcosa di così mostruoso. Senza contare il tema del QUI E ORA cioè ‘L’ILLUSIONE DELLA PRIMA VOLTA’. Deve sembrare che tutta questa scena, questo dialogo, questa battuta, non sia mai stata detta prima, che quanto accade non sia mai accaduto prima, che quest’attrice non abbia mai fatto prima quel gesto, che quest’attore non abbia mai sorriso prima in quel modo e che in effetti né l’uno né l’altra siano attori. Le condizioni della recitazione richiedono che tu sappia in anticipo quello che farai, mentre l’arte della recitazione richiede che sembri che tu non lo sappia. Questo dovrebbe rendere impossibile la recitazione. In realtà sappiamo bene che non è così: ”l’attore mette in atto una finzione, un sogno” Nella vita rispondiamo a stimoli reali, l’attore, invece deve rispondere a stimoli che sono immaginari e inoltre, per esempio nel teatro, deve farlo non proprio come accade nella vita ma in modo più pieno ed espressivo Sebbene nella vita l’attore sappia fare delle cose con assoluta facilità, quando deve fare le stesse cose in scena sotto condizioni fittizie, incontra delle difficoltà perché come essere umano non è equipaggiato a simulare ad imitazione della vita. In qualche modo deve crederci. In qualche modo deve riuscire a convincersi della giustezza di ciò che sta facendo, per fare delle cose con pienezza sul palcoscenico. E’ quel processo che S. chiama Fede. I bambini che giocano hanno una meravigliosa qualità che dura fino agli otto nove anni. Giocano e se ne fregano. Quando entri nella stanza automaticamente entri anche nel loro gioco, senza difficoltà, senza problemi. La tua presenza non ha importanza, ti includono nella loro ‘fede’. Circa all’età di nove anni, vedi che iniziano a chiudere la porta…la loro ‘fede’ inizia a incrinarsi. Questo processo continua così che al momento in cui l’essere umano decide di essere un attore ha inculato in se stesso molte abitudini che per la recitazione sono sbagliate. L’ingenua fiducia del lasciarsi andare all’immaginazione, meravigliosa nel bambino, gli è stata tolta, Il rapporto tra ciò che penso e ciò che dico è stato inibito. Il bambino ha imparato a comportarsi come un essere umano ma non come un attore. […] Non c’è niente di terribile in questo processo di condizionamento sociale, l’attore deve essere comunque un essere umano, il che significa in parte un essere sociale. Ma quando più o meno a diciotto anni vuole imparare ad essere un attore, troppo spesso quello che trova è solo un tipo di training che rappresenta una continuazione del processo sociale del dire al bambino come si deve comportare. Il training non libera lo strumento per il processo della creazione nella recitazione, ossia il processo creativo. (Lezioni all’Actors Studio) 4 Se nel teatro o nel cinema noi vediamo scorrere la vita così come la conosciamo, l’attore può creare partendo da sé stesso in quanto lui stesso è un essere umano e il primo passo per l’attore del Metodo è riconoscere la grande differenza tra la realtà convenzionale di cui la maggior parte dei buoni attori si accontenta e il tipo di realtà immaginata nella nostra scuola (Actors Studio). La realtà convenzionale non ha senso. Non eccita il pubblico. Non dice al pubblico di cosa parla veramente la scena. Vuole essere efficace ma al di là dell’efficacia non emerge nulla. S., invece, crede che l’arte abbia la funzione di dare al pubblico qualcosa senza la quale sarebbe meno umano. Il ricorso all’IMMAGINAZIONE, all’inconscio e al subconscio, secondo S., è la leva più potente nel lavoro artistico. Gli elementi essenziali del momento creativo, quando qualcosa inizia ad accadere, quando l’attore inconsciamente inizia a funzionare, sono il RILASSAMENTO e la presenza di QUALCOSA CHE ECCITA L’ATTORE SUBCONSCIAMENTE. Questo qualcosa non è il tipo di conoscenza mentale che dà all’attore delle risposte che per lui non hanno significato, che gli dice perché fa quello che fa. E’ il tipo di risposta subconscia che lo rende vivo, che lo alimenta e che fa funzionare la sua immaginazione. …Come già detto, la cosa essenziale per l’attore è usare sé stesso, essere disposto a fidarsi e seguire la scena, sé stesso e il pubblico. Ma sul palcoscenico l’attore non può essere un terzo di attore, un terzo di critico e un terzo di pubblico, deve essere al 99% attore e un pochino critico e un pochino pubblico. Se è al 100% non va bene, non sa cosa sta facendo, l’attore non deve mai permettere a sé stesso di perdere il controllo. L’attore deve avere pienamente fede in qualunque cosa pensi e dica in scena e quando l’attore si concede di pensare davvero, quando la sua immaginazione funziona davvero, non ha bisogno di cliché perché questo processo naturale della recitazione gli fa sentire che qualcosa sta accadendo in lui e da questo trae la certezza e la sicurezza per andare avanti… (Actors Studio). 5 Lezione 12 di Lunedì 8 Febbraio IL PERSONAGGIO I CAMPI D’ATTENZIONE Costruire un personaggio secondo il METODO elaborato da S. rappresenta una sorta di corpo a corpo in senso metaforico e fisico perché l’attore dovrà entrare in relazione con il suo inconscio, con la sua realtà emozionale e contemporaneamente tradurre il tutto con quello che sommariamente si definisce ‘tecnica’. Sei sono i campi d’attenzione su cui l’attore rifletterà attentamente e che gli daranno limiti e confini entro cui ‘creerà’ la sua vita ipotetica se il personaggio è immaginario o la ‘ricreerà’ se il personaggio è storico. 1 IL PROBLEMA DEL “RIFLESSO” Tanto per cominciare c’è il ‘problema del riflesso’ che riguarda l’IO dell’attore. (metafora della vecchietta). Il ‘riflesso’ costringe l’attore a tornare in modo costante sui suoi passi, cioè sui suoi bisogni primari, da cui non intende staccarsi soprattutto se non gli sono ben chiari. Il problema del ‘riflesso’ tiene rivolto l’attore al proprio ‘io’ quando invece dovrebbe lasciarsi andare verso l’incognito’. In pratica il ‘riflesso’ frena il desiderio di lascarsi stupire, cioè non permette all’attore di entrare con ‘tutte le scarpe’ nell’altro da se’ ma solo in parte e di conseguenza l’interpretazione risulterà meno efficace in ruoli che non gli corrispondono. Attori come De Niro, Streep, Pitt e i nostri Gian Maria Volontè e Pierfrancesco Favino sono in grado di mutare non solo la loro camicia bensì la loro stessa pelle, passando da un personaggio all’altro, ciò significa che sono liberi dal ‘riflesso’ oppure che sanno come evitarlo. 2 LA DOCUMENTAZIONE L’Attore deve raccogliere tutto il materiale reperibile. Se è un personaggio del teatro classico si documenterà sulle interpretazioni di altri attori, le analisi di studiosi, i film…, se è un personaggio come il poliziotto, lo psichiatra e il medico che, come tale, agisce nell’opera, indagherà sulle peculiarità del suo lavoro, sull’ambiente e così via. Se invece il personaggio realmente esistito, l’attore visionerà articoli, foto, filmati ecc… 1 3 LO STEREOTIPO Shakespeare ci presenta Ofelia come una giovane donna idealista e ingenua, perdutamente innamorata di Amleto, un giovane romantico ma roso dal dubbio e dal tormento. Ibsen descrive Nora in Casa di Bambola come una donna ‘cinguettante’ che fa di tutto come il marito la vuole. Spesso accade che l’attore si ‘attacchi’ a queste caratteristiche generiche che però sono stereotipi, tipizzazioni di modelli umani creati dal drammaturgo. Ogni autore rappresenta sempre il personaggio, anche quello storico, come uno stereotipo, ovvero si ispira a un modello che conosce e non potrebbe fare altro. L’attore, invece, è libero di scegliere fra una vasta gamma di modelli, quale preferisce, il che non significa snaturarlo, ma dargli spessore. Giulietta è sicuramente un’adolescente romantica ma se fosse anche un po' capricciosa e viziatella, oppure timida e ritrosa? Magari risulterebbe più interessante. 4 IL BISOGNO PRIMARIO Individuato il carattere che vuole attribuire al suo personaggio, l’attore dovrà anche immaginare quale bisogno primario attribuirgli che tuttavia sia compatibile con la sua storia. Perché Romeo si suicida sul corpo di Giulietta credendola morta? L’autore risponde per il dolore di avere perso per sempre la donna amata. Ovvio ma non basta. Forse si uccide perché la sua vita perde ogni scopo in quanto Giulietta impersonava il suo bisogno di riconoscimento? E’possibile e potremmo fare anche altre ipotesi. Un Romeo solo lirico e impulsivo che si uccide per la disperazione nel vedere Giulietta morta non affascina il pubblico, è uno stereotipo. Dunque l’attore nella sua analisi del personaggio, dovrà procedere immaginando quei bisogni primari, quegli imput attivi e reattivi che potrebbero avergli fatto compiere un’azione tanto definitiva. 5 IL LIRISMO Molti attori tendono a sottolineare l’aspetto romantico o poetico del personaggio: Giuliette, Otelli, Romei, ma anche criminali, assassini, vittime, sadici, buffoni ecc. vengono spesso proposti come personaggi enfatici, sopra le righe. L’attore che si appoggia a questo aspetto, che tuttavia esiste, lo rende spesso stucchevole e infine noioso. Compito dell’attore è, dunque, controllare la tentazione di enfatizzare, l’enfatizzazione è un escamotage che alla fine non paga. Cosa è più eccitante, interessante, significativo un leggero sfiorare delle labbra o un bacio rubato, uno sguardo gelido o uno schiaffo, un urlo? La leggerezza vince sempre sulla pesantezza. 2 6 LA POETICA Se l’attore deve rimanere ‘leggero’, cioè non mirare all’aspetto enfatico e romantico del suo personaggio, a cosa dunque deve mirare? Alla sua POETICA, cioè alla sua UNICITA’ di essere umano in cui convivono segreti impulsi di varia natura e origine. In questo senso è bene ricordare l’interpretazione di Charlie Chaplin nel suo film Il Dittatore. Chaplin intuì che non era possibile incarnare credibilmente un Hitler e allora lo trasformò in un poveraccio, un sosia, un essere che di fatto era una specie di marionetta senza fili. Lo Shylock di Al Pacino, l’Hannibal Lecter di Hopkins, la Thatcher della Streep, sono tutti personaggi esecrabili, mostruosi o sgradevoli ma comunque plausibili, assolutamente credibili perché sono riconducibili a modelli umani in quanto i loro interpreti hanno realmente lavorato sulle loro vite interiori immaginarie. Il concetto di POETICA può essere riconosciuto in senso lato: l’optimum della rappresentazione di qualsiasi personaggio dovrebbe consistere nel mettere in scena il simbolo universale della condizione umana. Il personaggio del commissario di polizia creato da Gian Maria Volontè nel film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto era POETICO perché più che mostrare la tipologia di un essere umano corrotto e crudele, riusciva a comunicare il “modello” della crudeltà e della corruzione potenzialmente presenti nell’essere umano. (Es C’eravamo tanto amati) LA CARATTERIZZAZIONE Alla POETICA si collega comunemente ciò che si definisce “caratterizzazione” del personaggio, ma non si tratta di sinonimi. La poetica nasce nell’attore dall’amore, la ‘caratterizzazione’ dal mestiere. L’attore creativo che si innamora del personaggio, chiunque esso sia, è in grado di creargli la poetica, altrimenti lo caratterizzerà in base alla sua esperienza con maggiore o minore abilità. Ma se amare non è un obbligo, caratterizzare si, e dunque nel caratterizzare il personaggio, cioè nel cercare le attività fisiche che faranno da sostegno alle sue azioni, l’attore dovrà fare riferimento alla sua esperienza di vita esplorando liberamente le ‘sue’ attività fisiche. (attività fisiche appartengono alla quotidianità, sono fini a sé stesse, diversamente l’azione fisica sta nella motivazione: aprire la finestra per cambiare aria, aprire la finestra come atto simbolico che sottende la liberazione d qualcosa che ci ha oppresso fino a quel momento. L’azione fisica può essere anche l’immobilità è tale solo quando ha un sottotesto, sottende un desiderio che va oltre il gesto in sé. Le attività fisiche posso non avere fine e sono sovrapponibili, camminare e parlare al telefono, le azioni avendo una precisa motivazione, hanno una conclusione e non sono sovrapponibili). 3 LE ATTIVITA’ FISICHE DEL PERSONAGGIO Nell’analisi a tavolino del personaggio e nelle scene in generali, l’attore dovrà cercare di immaginare come muoversi fisicamente nello spazio e quali attività fisiche svolgerà. Da ricordare che le attività fisiche non hanno un inizio e una fine e se ne possono svolgere contemporaneamente più d’una, mentre le azioni hanno un inizio e una fine e possono essere svolte una per volta. In genere è l’autore che suggerisce le attività scrivendole nel testo tra parentesi e in corsivo ma a volte autori come Pinter, non ne scrivono nulla o quasi. In ambedue i casi, il regista, ma anche l’attore non dovrebbe tenerne conto, almeno totalmente, o dovrebbe tenerne conto solo per conoscenza, altrimenti questi suggerimenti diventeranno una sorta di palla al piede, tapperanno la libertà creativa e falseranno il rapporto con il personaggio Esempio GIORNI FELICI Beckett descrive minuziosamente la più piccola attività fisica della sua Winnie e lo fa per tutto il dramma. Perché? Perché in realtà mentre scrive egli è Winnie e autore al contempo, mentre scrive “vede” Winnie e recita al suo posto. Ma, come regista di Giorni Felici, io non mi sognerei mai di dire all’attrice di compiere le attività così come le suggerisce Beckett, perché ridurrei l’attrice a un robot, a un mimo. E’ necessario invece che Lei trovi le Sue attività fisiche che sosterranno la parola. Di grande aiuto, in questo senso, è fare riferimento alle attività che noi stessi svolgiamo, anche meccanicamente, nella vita: se siamo preoccupati, annoiati, felici, arrabbiati, facciamo anche inavvertitamente dei gesti, delle attività come grattarci la testa, toccarci il naso, le labbra, arrotolarci una ciocca di capelli…variano da un individuo all’altro, dunque se il nostro personaggio deve vivere una certa situazione, perché non usare le stesse nostra attività? IL LIVELLO D’INTIMITA’ Con il lavoro a tavolino sul personaggio, l’attore sa cosa dovrà evitare e cosa dovrà considerare. E’ un lavoro che richiede pazienza e precisione e darà i suoi frutti poiché genererà nell’attore quel livello di intimità simile a quello che intercorre tra fratelli. Infatti il personaggio non è l’attore, egli è e deve rimanere ‘lui’. Una volta terminata la scena, l’attore deve saper tornare ad essere il signor tal dei tali che di professione, appunto, fa l’attore. Coloro che non riescono a controllare questa dinamica, spesso, sono individui fragili oppure sono attori poco allenati o che non sono in grado di gestire l’eventuale successo eclatante della loro performance. 4 IL TRIANGOLO (immagine) Lo schema della costruzione del personaggio può paragonarsi ad un triangolo i cui vertici sono: 1 Il bisogno (need) 2 L’azione (action), ciò che fa il personaggio nella commedia, nella storia 3 Il flusso tragico (tragic flow), l’evolversi della storia del personaggio che comprende quindi l’Errore tragico (Tragic Flow) Il need è il bisogno del personaggio di soddisfare il suo desiderio contingente ma in cui si cela il suo bisogno primario. L’action è la strategia, anche se non palese, messa in atto per soddisfare il need. Il tragic flow comprende l’Errore Tragico ed è l’evoluzione della storia del personaggio fino alle estreme conseguenze, fino al ‘cambiamento’. Il Silenzio degli Innocenti – Personaggio Hannibal Lecter 1) Need: sentirsi onnipotente, libero di commettere qualsiasi crimine 2) Action: convincere la poliziotta a fidarsi di lui 3) Tragic flow: riuscire ad evadere dalla prigione Amleto – Personaggio Ofelia 1 Need: farsi amare da Amleto 2 Action: convincere lui a ricambiarla 3 Tragic flow: accettare la sconfitta e uccidersi Joker – Personaggio Joker …. LE CINQUE “W” 5 Una volta costruito il ‘triangolo’, l’attore dovrà restringere ancora un suo campo d’azione e iniziare a lavorare sul personaggio secondo lo schema delle cinque “W” che utilizzerà sia per l’intera opera che per la singola scena. 1 Who? Chi? 2 Where? Dove? 3 When? Quando? 4 What? Che cosa succede? 5 Why? Perché? WHO? CHI? Per rispondere a questa domanda occorre creare la vita passata del personaggio partendo dalla sua famiglia d’origine, il luogo, l’età la prima infanzia con i suoi bisogni primari, l’età adulta, i tic, le debolezze e i punti di forza, l’aspetto fisico ecc. insomma ricreare quel mondo che il personaggio riporta nell’opera e che in genere viene descritto solo in parte o non viene descritto affatto dall’autore ma che l’attore non può eludere e che di conseguenza dovrà immaginare partendo dalle informazioni contenute nel testo. A questo proposito è opportuno parlare della differenza tra naturalismo e realismo: sappiamo che alcuni attori scelgono di trascorrere qualche tempo nell’ambiente di vita e di lavoro del personaggio per assimilare comportamenti, linguaggi, cultura, accenti dialettali ecc…se l’attore si ferma a questo stadio offre un’interpretazione naturalistica cioè interpreta il ruolo basandosi soprattutto sullo status sociale del personaggio: poliziotto, medico, assassini, giudice ecc…l’interpretazione è realistica ma può essere scarsamente ‘eccitante’ (stile francese o tedesco). Per inciso erano ‘naturali’ tutti gli interpreti dei film western o delle commedie brillanti degli anni 50-60. Successivamente, soprattutto grazie al diffondersi del Metodo, molti attori americani cambiarono stile, mirando al realismo. Il realismo è il passo successivo al naturalismo. Qui l’attore prova ad andare oltre la rappresentazione convenzionale e cerca di inserire quello che c’è o ci potrebbe essere nella psiche di “quel poliziotto, quel medico, quell’assassino, quel giudice…” che lo rende diverso dagli altri. Aggiunge quindi sottili sfumature caratteriali sottese che lo renderanno per lo spettatore ‘eccitante’. Pensiamo alla dolcezza delle prime risposte date da Joker (quasi fosse un bambino indifeso) durante l’intervista rilasciata nella trasmissione di Bob De Niro. WHERE? DOVE? 6 In quale luogo fisico si svolge la scena? Il luogo fisico – all’aperto, in una stanza, in un luogo pubblico - influenza lo svolgersi della scena e le relazioni fra i personaggi. Quando, come spesso accade, questo luogo non è descritto o è descritto sommariamente dall’autore, occorre crearlo nei particolari perché ci fornirà gli stimoli sensoriali giusti per viverci nel tempo della scena. Se io chiedessi a qualcuno di voi di descrivere il ristorante in cui Sally (Harry ti presento Sally)sta parlando delle sue mutandine settimanali, io otterrei tante e diverse descrizioni, ognuna di queste accenderà gli impulsi sensoriali di chi ha elaborato la descrizione e influenzerà la creazione di tante e diverse Sally, tutte assolutamente credibili e nel totale rispetto del testo. WHEN? QUANDO? In quale momento specifico del personaggio, dal punto di vista anagrafico ma anche lavorativo, sentimentale ecc. si svolge la storia o la singola scena. Tutto conta e tutto influisce. WHAT? CHE COSA STA ACCADENDO? LE “CIRCOSTANZE DATE” Il personaggio si trova ad affrontare un evento che non dipende dalla sua volontà ma a cui deve reagire: Giulietta è costretta da suo padre a sposare il nobile Paride e se non lo farà verrà cacciata di casa ma il suo cuore batte per Romeo. WHY? PERCHE’? Il personaggio ha un motivo d’importanza vitale per agire come agisce. In realtà sappiamo che questa è una falsa domanda in quanto la risposta è già nota sia al personaggio che allo spettatore: Giulietta prende tempo di fronte all’insistenza del padre perché essendo innamorata di Romeo, non vuole saperne di sposare Paride. LA MEMORIZZAZIONE DEL TESTO E’ forse la fase più noiosa del lavoro dell’attore ma anche la meno impegnativa. Non tutti hanno le stesse capacità mnemoniche e modalità di memorizzazione, quindi ogni attore adotterà le proprie. E’ comunque importante ripetere il testo meccanicamente, cioè senza interpretare perché altrimenti si corre il rischio di fissare nella memoria anche intonazioni o espressioni-cliché. Per concludere, tutto ciò finora illustrato corrisponde alla Fase 1. Una volta terminata questa fase, sarà necessario entrare nella Fase 2. E’ questo il momento in 7 cui l’attore ha tutti gli elementi e conosce la tecnica che servirà per entrare in ‘intimità’ con il suo personaggio e con l’intera opera. L’attore sta partendo “da tre, non da zero”. Dal quattro in poi sarà solo merito suo. 8 LEZIONE 9 di Lunedì 18 Gennaio 2021 LEE STRASBERG E L’ACTORS STUDIO Tracciare un profilo della personalità artistica e pedagogica di Lee Strasberg è un’impresa che rischia continuamente di arenarsi nella quantità di commenti, testimonianze, polemiche e pettegolezzi che la sua immagine pubblica ha continuato a suscitare nel corso delle sue svariate carriere. Né ci si può semplicemente abbandonare alla tentazione di restare sordi a queste interferenze, concentrandosi esclusivamente sugli aspetti tecnici del suo insegnamento, perché alla base dell’atteggiamento pedagogico di Strasberg c’è lo sforzo per comprendere il contesto nel quale operava e l’elemento più importante di questo contesto, specialmente se inserito nel mastodontico sviluppo del cinema americano, è di fatto l’elemento mediatico. L.S. è stato testimone della trasformazione dei vecchi e nuovi ruoli artistici come la star teatrale, il direttore d’orchestra, il regista e il pedagogo, in ruoli mediatici a diffusione mondiale. Con lui nasce una nuova figura di grande impatto: quella del coach, del trainer inteso come profeta e taumaturgo. Lee Strasberg (1901-1982) era un ebreo russo emigrato da bambino in America, prima della Grande guerra: questo dato fornisce già elementi importanti per capire le varie influenze culturali in cui nacque e crebbe. L.S. nasce a Budanov, piccola cittadina situata in Ucraina, da genitori ebrei. Emigrato negli Stati Uniti a New York, lavora in una fabbrica di parrucche, che successivamente rileverà insieme ad un socio, e contemporaneamente recita come attore in una filodrammatica locale. Assiste agli spettacoli di grandi attori come Eleonora Duse e Giovanni Grasso, e affascinato dalla loro capacità di dare vita vera al personaggio, si rende conto che la loro recitazione consta di duri allenamenti e regole severe. Nel 1923, decide di darsi completamente al professionismo, vende la sua quota nella fabbrica di parrucche e si iscrive al Laboratory Theatre, scuola fondata da Richard Boleslavski e Marija Uspenskaja, allievi di Stanislavskij e attori del Teatro d’Arte di Mosca, qui il lavoro lo appassiona al punto che studia, oltre al sistema Stanislavskij, anche il rivoluzionario per quei tempi trattato sull’arte della recitazione di Denis Diderot, Il Paradosso sull’attore, scritto tra 1770 e 1780. Si convince così che l‘attore non deve essere un imitatore più o meno abile o un artista perennemente soggetto a slanci passionali ma semplicemente un professionista che, grazie a un duro allenamento, è in grado di creare, controllare e riprodurre le emozioni quando e come vuole (lezione Stanislavskijana). Per L.S. occorre pensare, sull’orma del sistema Stanislavskij, a un percorso pragmatico e intuitivo fondato sul principio di causa ed effetto che liberi l’attore dalla dipendenza dal manierismo o da occasionali input emotivi. Quindi negli anni elabora un proprio sistema pedagogico fondato su poche ma precise regole e su una rigida disciplina mutuata dagli artisti russi. Con l’intenzione di cambiare radicalmente il teatro americano, nel 1931, assieme a Harold Clurman e Cheryl Crawford, L.S. fonda il Group Theatre – un collettivo di 28 attori(!)- da cui si dimette nel 1935 a causa di divergenze artistiche. Tuttavia è importante sottolineare che il Group Theatre costituì un vero e proprio movimento che influenzò profondamente la scena teatrale statunitense non solo nel suo decennio di attività (dal 1931 al 1941) ma anche per quelli a venire, fino ai giorni nostri. In particolare va riconosciuto proprio al “Group” il merito di aver diffuso il Metodo Stanislavskij e di aver favorito la formazione e il perfezionamento continuo degli attori che prendevano parte alle opere messe in scena. Successivamente, chiamato da Elia Kazan, entra a far parte come insegnante dell’ Actors Studio, che dirigerà dal 1951 fino alla sua morte. Dalle sue lezioni e da quanto ne racconta chi l’ha conosciuto e frequentato personalmente, sappiamo che L.S. era un uomo di piccola statura, schivo e con occhi mobilissimi, sempre curioso e affamato di conoscenza nei vari campi del sapere. Come insegnante è descritto come severo e rigoroso ma tutti sono concordi nel sottolineare la sua umanità e soprattutto la gioia che palesava nel vedere i suoi allievi lavorare bene, il che fa la differenza fra il buono e il cattivo insegnante. In lui predominava il bisogno/desiderio di procedere nel lavoro imparando e insegnando allo stesso tempo, facendosi guidare dall’ intuizione. Il ruolo dell’ITUIZIONE La parola INTUIZIONE deriva dal latino intueri che significa ‘guardare dentro’ ed è una forma di conoscenza secondo il principio di causa ed effetto ma che procede, per così dire, a scatti, per lampi improvvisi. L’intuizione ha un ruolo molto importante nel percorso dell’attore che si avvicina al Metodo e lo si deduce da un curioso vezzo del suo ideatore. Durante le sue lezioni, L.S. adottava il ‘noi’, il plurale maiestatis, piuttosto che l’ ’io’; perché lo faceva? Possiamo intanto escludere che si trattasse di una forma di autocelebrazione, o addirittura, della volontà di non assumersi in prima persona la responsabilità delle sue tecniche alludendo ad una collaborazione con altri maestri. Probabilmente nell’uso di questo ‘noi’, L.S. concentrava l’essenza stessa del suo insegnamento che egli non intendeva proporre come una rigida tecnica fatta di regole ma come un processo di apprendimento in cui il rapporto insegnante-allievo assumeva una valenza diversa dalla tradizionale. Quel ‘noi’ corrispondeva, pur nella rigorosa distinzione di ruoli, a una strategia di connessione fra insegnante e allievo che poteva cambiare durante una stessa lezione, virando in direzione diverse e impensate. Quel ‘noi’ sottintendeva un ‘flusso intuitivo’ che partiva certo da lui, il maestro, ma aspirava a confluire in chi lo ascoltava. L’obiettivo di L. S. non era quello di formare attori da Oscar ma quello, ben più ambizioso, di agevolare tutte le persone che rivolgendosi a lui volevano essere aiutate a realizzare quello strano sogno del teatro, credendo che lì accadesse qualcosa ma senza sapere cosa. L.S. attribuiva un valore ideale al teatro identificato come “il luogo del sogno di non si sa bene cosa” che accomuna l’attore e lo spettatore, il quale chiede solo di essere “rapito” da quello stesso sogno incarnato dall’attore. L’ACTORS STUDIO e la sua leggenda L’ACTORS STUDIO fu fondato nel 1947 a New York da Elia Kazan, Cheryl Crawford e Robert Lewis come laboratorio di perfezionamento per attori professionisti. Solo successivamente venne chiamato a collaborare L.S. che ne assunse la direzione a partire dal 151 e la mantenne fino all’anno della sua morte 1982. Negli anni è diventato una straordinaria fucina di talenti: da Marlon Brando, James Dean, Paul Newman, Dustin Hoffman, Al Pacino, Shelley Winters, Montgomery Cliff, Shirley MacLaine, Steve McQueen, Robert De Niro, Tom Hanks, Meryl Streep, Jodie Foster, solo per citarne alcuni. Chi l’ha frequentato ne parla come di un ambiente in cui era proibito battere le mani perché fosse chiaro che lì si lavorava. C’era dunque quel silenzio che comprende anche quel particolare tipo di complicità fra allievi e insegnante che sembra avvolgere tutti in una bolla impermeabile in cui si desidera rimanere perché è sempre possibile che lì dentro accada qualcosa di nuovo, di spiazzante. Alle sue lezioni si partecipava gratuitamente e vi potevano essere ammessi solo attori professionisti scelti dopo una severa selezione. Una volta accettati, questi attori diventavano membri a vita dello Studio. Nel 1966 L.S., con un gruppo di membri dell’Actors Studio, fra cui Al Pacino, fondò il Lee Strasberg Theatre Institute a cui seguì nel 1969 l’inaugurazione di un'altra sede in California, a Hollywwod. Oggi la leardership dello Studio è affidata a Al Pacino, Harvey Keitel e Ellen Burstyn. Attualmente non esistono altre sedi riconosciute ufficialmente oltre le già citate ma, a partire dagli anni 60, in Europas, orsero e tuttora continuano a sorgere innumerevoli scuole che dicono di adottare il Metodo Stasberg. L’Attore di METODO e gli altri stili L’attore è una macchina i cui ingranaggi devono sempre essere in perfette condizioni di funzionamento, di conseguenza la sua formazione è un work in progress che dura tutta la vita. Per questo attore, soprattutto per un attore di Metodo, non c’è limite allo stupore, cioè al desiderio di esplorare tutti gli angolini bui e misteriosi che si celano nella psiche umana, compresa la propria. L’attore di Metodo è instancabile nel lavoro, e, anche se già ha la famosa statuetta sul camino, continua incessantemente a studiare, arriva alle prove o sul set quando gli è già tutto chiaro, è ossessionato dal personaggio tanto da andare a vivere per qualche tempo nel suo ambiente sociale o di lavoro descritto dall’autore. Analizza ciò che accade nell’opera, nella sceneggiatura, dunque parte sempre dall’esterno ma po rivolge la sua ricerca verso l’interno nel senso che cerca di scoprire che cosa il suo personaggio che cosa il suo personaggio vorrebbe dire o fare davvero al di là delle convenzioni, nella certezza che il pubblico non sia eccitato dalla verità esteriore ma da quella interiore, cioè il lato oscuro del personaggio. E’ un approccio realista il cui schema è fuori-dentro-fuori. L’attore di Metodo, e in genere tutti gli attori americani addestrati con il Metodo e le sue varianti, sono allenati a mantenere costantemente alto il livello di esposizione, ovvero la tendenza ad evidenziare vulnerabilità, complessità e contraddizioni umane che trasmette il personaggio. Diverso è lo stile francese e tedesco. Anche qui l’attore analizza ciò che accade nello script, nell’opera ma poi si adegua, ossia cerca di scoprire che cosa il personaggio dovrebbe dire e fare secondo una verità convenzionale. E’ un approccio naturalista che parte dall’esterno e rimane all’esterno. Ciò non significa che quell’attore stia fingendo perché egli crea comunque il suo personaggio, ma lo crea da fuori a fuori, sembra dire: “Io sono in scena perché conosco il mio mestiere, sono un bravo professionista, ma attenzione, rimango sempre altro dal personaggio” E’ un attore che, a parte rare eccezioni, risulta poco comunicativo e coinvolgente. Infine lo stile inglese. In Gran Bretagna esiste una cultura teatrale profondamente radicata al punto che si insegna teatro e recitazione in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Ciò ha prodotto nel tempo gli attori migliori del mondo occidentale. L’attore inglese è simile a quello americano nel senso che adotta lo stesso schema fuori-dentro-fuori. La differenza sta nel livello dell’esposizione. L’attore inglese è più contenuto, controllato, a volte persino contratto, ma solo esteriormente, è questione di forma non di sostanza e anche di gusti, io preferisco gli inglesi, ma l’efficacia e analoga. LEZIONE 10 di Lunedì 25 Gennaio 2021 LA MEMORIA SENSORIALE Nella vita parliamo di memoria semplicemente, non facciamo distinzioni tra la MEMORIA SENSORIALE e la MEMORIA EMOTIVA ma se l’attore di Metodo vuole essere in grado di creare e trasmettere le emozioni deve capire il loro rapporto e il meccanismo che le produce. Sappiamo che la MEMORIA SENSORIALE è la nostra memoria primigenia, nasce con il primo vagito. Il neonato percepisce il freddo e la differenza tra il liquido amniotico e l’aria, poi sente l’odore della mamma e man mano in lui si attivano il gusto, il tatto, l’udito e, per ultimo, la vista. Spinto dal bisogno d nutrirsi il bimbo si attacca al seno della mamma e dopo lo cercherà rivolgendogli il viso perché in lui è già nata a memoria del seno materno associata al nutrimento. Sappiamo anche che questa potentissima e vitale memoria rimane annidata nella nostra mente finché viviamo e che può attivarsi indipendentemente dalla nostra volontà e anche in assenza dell’oggetto. Dopo oltre cinquanta anni ancora ricordo il sapore disgustoso del fegato con le cipolle che mia madre voleva che mangiassi perché ricco di ferro. Dunque registriamo il dato di fatto che la MEMORIA SENSORIALE si attiva anche in assenza dell’oggetto. L’idea di qualcosa di acido ci lega la lingua, una musica rumorosa, fastidiosa o piacevole, continua a risuonare nella nostra mente molto tempo dopo che ha smesso di suonare e così via. L’IMMAGINAZIONE ha un ruolo essenziale nello stimolare e rievocare in noi la MEMORIA SENSORIALE e di conseguenza, tutti noi siamo in grado di trasformare stimoli immaginari in stimoli veri, non solo gli attori. LA MEMORIA EMOTIVA Possiamo riscontrare che assai facilmente nella vita la MEMORIA SENSORIALE produce la MEMORIA EMOTIVA, mai viceversa, e ciò accade senza soluzione di continuità, spesso indipendentemente dalla nostra volontà. E’ un continuum fisiologico e, è bene ribadire il concetto, è impossibile creare emozioni con la mente, con la mente possiamo solo fingere. Per allenare la MEMORIA EMOTIVA, l’attore di Metodo risalirà ai ricordi dei suoi primi sette anni di vita perché sono registrati nella memoria senza sovrastrutture 1 razionali e quindi risultano più profondi e limpidi. E’ assai probabile, a distanza di molto tempo, mantenere ancora vivido un ricordo che ci ha visto protagonisti da bambini in cui abbiamo provato una sensazione, un’emozione molto forte, all’attore non interesserà conoscere i motivi di quell’emozione che verrà semplicemente usata all’occorrenza, secondo le circostanze date del suo personaggio. Spesso usiamo i termini MEMORIA e RICORDO come sinonimi, in realtà si tratta di due processi psichici diversi. La MEMORIA attiene a un evento del passato che ha lasciato un segno indelebile in noi: un amore, un amico, uno spavento, una rabbia…e che nel momento in cui la rievochiamo produce un’accelerazione, anche impercettibile, del battito cardiaco, un’emozione, appunto. Viceversa il RICORDO non sempre è associato a una emozione, quindi non a una accelerazione del battito del cuore, ma attiene a una esperienza conclusa che abbiamo registrato ma che potrebbe svanire, tanto ormai non conta più. L’attore che segue il Metodo, seleziona e utilizza luoghi eventi e persone che fanno parte della nostra memoria più che dei nostri ricordi. Interessante notare come la MEMORIA dei nostri luoghi d’infanzia sia molto vivida ma non sempre veritiera. Quante volte abbiamo ripensato a quel giardino o a quel viale che ci sembrava gigantesco e ci incuteva stupore e inquietudine, eppure rivisitando proprio quel luogo in realtà scopriamo che l’immenso giardino è composto da quattro piantine e il lunghissimo viale è una strada di non più di cento metri…ma l’attore strasberghiano conserverà e utilizzerà all’occorrenza quel senso di stupore e di inquietudine. LA DIATRIBA DEL “METODO” È opportuno fare un po’ di chiarezza circa la diatriba per la quale è avvenuto lo “scisma” tra coloro che si dichiaravano – e si dichiarano tuttora – contrari all’utilizzo di tecniche quali le memorie sensoriali ed emotive e coloro che continuano a farne gli strumenti prediletti del training e della pratica attoriale. Già durante la sua prima esperienza d’insegnamento al Group Theatre, Strasberg lavorò in una direzione che mirava a porre Stanislavskij e il suo Sistema nella prospettiva di una ricerca volta a modernizzare le sue pratiche ed adattarle all’ambiente attoriale americano. L’insegnamento di Strasberg riprendeva sostanzialmente i procedimenti imparati all’American Laboratory Theatre, depurati però da tutti gli elementi misticheggianti (come gli esercizi di trasmissione del prana) al cui riguardo fu sempre profondamente ironico. […] La preparazione dell’attore, dunque, prevedeva gli 2 esercizi essenziali di rilassamento e concentrazione e dava poi ampio spazio all’uso dell’immaginazione e dell’improvvisazione […] Ma soprattutto l’insegnamento di Strasberg si concentrò fin dall’inizio sulle risorse della memoria dei sensi e delle emozioni. […] Risalendo a modelli recitativi che precedevano la stessa formulazione del Sistema stanislavskiano, poneva come principio essenziale del lavoro dell’attore questa legge: «tutto ciò che l’attore esprime o manifesta di fronte agli spettatori deve avere un fondamento reale nella sua interiorità». Questo, ovviamente, significa fare ricorso alla memoria dei sensi per rievocare le memorie emotive da utilizzare in scena. Questa pratica nasce da Stanislavskij e Strasberg non la tradisce, se non nella misura in cui ne fa l’imprescindibile strumento base della recitazione, invece di – come affermava il maestro russo – una risorsa da utilizzare nei momenti di particolare difficoltà. In quegli anni molti contemporanei di Strasberg ammettevano quanto il suo metodo fosse “emotivamente estenuante”, motivo di imbarazzo, scarsamente pratico per l’interpretazione o persino causa di fanatismo. La vera e propria crisi che determinò lo “scisma” avvenne intorno al 1934, quando i fondatori del Group Theatre iniziarono a pensare ad un incontro con Stanislavskij in persona. Strasberg, convinto delle sue posizioni, non lo ritenne necessario, mentre Clurman e Stella Adler andarono “in pellegrinaggio” a Mosca per incontrare il maestro. Stanislavskij informò la Adler del fatto che le sue recenti ricerche avevano portato ad un superamento sostanziale delle pratiche che venivano insegnate negli Stati Uniti. In particolare ribadì che la memoria emotiva andava utilizzata solo in casi estremi, e dopo un periodo di studio e collaborazione di cinque settimane Stella Adler fu pronta a portare in patria i nuovi sviluppi del Sistema. Fu una vera e propria bomba […] Strasberg era stato considerato un discepolo di Stanislavskij, ed ora appariva una sorta di scomunicato […] Strasberg, tipicamente, reagì sostenendo che non c’era alcun bisogno di imitare supinamente Stanislavskij […] Avrebbe continuato a insegnare il proprio metodo di recitazione, che riteneva preferibile al Sistema di Stanislavskij perchè più adatto alle caratteristiche del teatro e degli attori americani. La distinzione tra il Sistema (stanislavskiano) e il «Metodo» (la versione americana, o meglio strasberghiana del Sistema) era così stata tracciata. Mentre Strasberg avrebbe continuato a sviluppare il proprio Metodo basato sulla memoria emotiva, altri membri del Group Theatre avrebbero praticato tecniche più fedeli alle ultime scoperte di Stanislavskij (in particolare, il “metodo delle azioni fisiche”), fino alla totale abolizione – da parte di Stella Adler – del ricorso alla memoria emotiva. 3 Approfondiamo ora l’argomento delle memorie emotiva e sensoriale, attraverso le parole di Lee Strasberg: La memoria affettiva [sinonimo di “memoria emotiva”] non è solo memoria. È un ricordo che coinvolge personalmente l’attore, in modo che le sue esperienze emotive profondamente radicate comincino a rispondere. Il suo strumento risveglia e padroneggia il tipo di vita scenica che consiste essenzialmente nel rivivere. […] La cosa importante nell’uso della memoria affettiva è mantenere la propria concentrazione, non sull’emozione, ma sugli oggetti o elementi sensoriali che formano parte del ricordo dell’esperienza originaria. Ecco perché l’attore deve padroneggiare gli esercizi di concentrazione nella memoria sensoriale prima di intraprendere il lavoro sulla memoria emotiva. […] Andando avanti l’attore troverà […] che il processo della memoria diventa più rapido, così che l’esecuzione della memoria affettiva non richiede più di due minuti. Date queste premesse, risulta quasi naturale come l’industria del cinema abbia accolto con entusiasmo questo Metodo, che secondo Mariapaola Pierini «offriva soluzioni efficaci ai problemi posti dalla ripresa cinematografica […] Propone un approccio alla recitazione che pur fondandosi su procedimenti di tipo analitico e introspettivo, è contemporaneamente un approccio pragmatico, concreto, e soprattutto funzionale in ambito cinematografico, perché permette all’attore di ottenere con relativa facilità l’emergenza di stati emotivi “forti”». Oltre agli esercizi ormai classici sul rilassamento, la concentrazione e l’improvvisazione, e le famose sedute in cui i membri dello Studio proponevano una scena che sarebbe stata oggetto di una discussione aperta a tutti i presenti, con Lee Strasberg l’attore lavorava perlopiù sullo sviluppo delle abilità legate al richiamo della memoria sensoriale ed emotiva. Ma il lavoro sui sensi nasce dalla concentrazione, la quale a sua volta necessita di assoluto rilassamento. Tutto è connesso, pertanto Strasberg curava attentamente il training volto all’eliminazione della tensione – sia fisica che mentale – e al raggiungimento della concentrazione ideale per il richiamo sensoriale. 4