Le Persone e la Famiglia - Capitolo 1 - PDF
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Il documento approfondisce il concetto di persona e famiglia nel diritto romano, analizzando le capacità giuridiche e di agire. Il testo mette in luce come lo status sociale, come la cittadinanza o la condizione di schiavitù, influenzassero notevolmente i diritti e le possibilità di una persona. Il documento si sofferma anche sulla storia e le evoluzioni dei concetti giuridici, inclusi diritti, doveri e relazioni.
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Capitolo 1 LE PERSONE E LA FAMIGLIA Quando parliamo di soggetti di diritto ci colleghiamo al concetto di persona: il termine persona nella lingua latina indicava la maschera teatrale indossata dagli attori. Il significato muta nel tempo e si arric...
Capitolo 1 LE PERSONE E LA FAMIGLIA Quando parliamo di soggetti di diritto ci colleghiamo al concetto di persona: il termine persona nella lingua latina indicava la maschera teatrale indossata dagli attori. Il significato muta nel tempo e si arricchisce, tant’è che successivamente va ad indicare l’attore che realizza una determinata parte, sino ad indicare complessivamente l’individuo vero e proprio ed inizialmente non ha valenza nel campo del diritto. È opportuno citare due concetti importanti ovvero quello di capacità giuridica e capacità di agire. La capacità giuridica ad oggi tutti la acquisiscono alla nascita (secondo l’art. 1 della costituzione), ma secondo il diritto romano arcaico per poter acquisire la capacità giuridica era necessario essere libero, cittadino e sui iuris (giuridicamente autonomo) - di conseguenza ne erano privi gli schiavi, gli stranieri 1 (salvo alcune categorie) e le persone alieni iuris. La capacità di agire ad oggi la si acquista al compimento della maggiore età (secondo l’art. 2 della Costituzione - in Italia a 18 anni) e nel diritto romano la acquisivano anche le persone che non avevano capacità giuridica, purché non si trovassero in determinate condizioni per cui l’ordinamento imponeva delle limitazioni (esempio: l’essere donna, l’impubertà e avere infermità mentale - tutte situazioni che comportavano la necessità dell'assistenza di un tutore o curatore). Dunque per essere soggetti di diritto nel mondo del diritto romano, era necessario essere in possesso tre status: per essere soggetti di diritto bisogna essere liberi, possedere la libertas (status libertatis) per essere soggetti di diritto bisogna avere la cittadinanza romana (status civitatis) per essere soggetti di diritto si doveva ricoprire una caratteristica fondamentale: bisognava essere giuridicamente autonomi, dunque non essere sottoposti al potere altrui (persona sui iuris) Questi tre status non erano immodificabili, ma poteva avvenire un loro mutamento tramite la capitis deminutio, che può essere: massima, minore o media e minima. Riguardo al "diritto di postliminio" (ius postliminii da post limina = ripassare i confini, riferito alla circostanza di riacquisto connesso al 1 Nel diritto romano, la categoria di stranieri che aveva la capacità giuridica erano i cosiddetti Latini e in particolari circostanze i Peregrini. I Latini erano gli abitanti del Lazio, e godevano di uno status giuridico particolare che concedeva loro alcuni diritti civili e giuridici e godevano di una capacità giuridica limitata rispetto ai cittadini romani, ma comunque potevano stipulare contratti, acquistare proprietà e, in alcuni casi, potevano acquisire la cittadinanza romana. I Peregrini erano tutti gli stranieri che non erano cittadini romani e Latini e non avevano piena capacità giuridica come i cittadini romani, ma potevano agire in base al diritto delle loro città di origine (ius gentium). In età imperiale, con la Constitutio Antoniniana del 212 d.C. dell’imperatore Caracalla, venne concessa la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’Impero, dando quindi piena capacità giuridica ai Peregrini. ritorno nei confini del territorio romano), è un istituto mirato al riacquisto del proprio status per i Romani caduti in schiavitù presso i nemici come prigionieri di guerra. In caso di ritorno in patria tramite il pagamento di un riscatto si parla di redemptus ab hostibus riscattato dai nemici. Quando un cittadino romano veniva liberato mediante un pagamento da parte di un terzo, si instaurava un vincolo di obbligazione tra il riscattato e colui che aveva pagato il riscatto. Quest’ultimo, infatti, aveva il diritto di essere rimborsato per la somma versata. Se il riscattato non poteva pagare immediatamente la somma dovuta, veniva considerato vincolato a titolo di pegno nei confronti del suo "liberatore". Dunque il riscattato si trovava in una condizione di dipendenza temporanea: la sua persona diventava una sorta di garanzia reale (analoga a un pegno) fino all’estinzione del debito. Nel tempo, fu riconosciuto che il riscattato potesse estinguere il debito non solo con il pagamento diretto, ma anche svolgendo attività lavorative per conto del liberatore, per un periodo massimo di 5 anni. Questo lavoro compensava il debito contratto e permetteva al riscattato di riguadagnare la piena libertà, una volta esaurito l’obbligo. Il limite massimo di cinque anni era una garanzia per evitare che il riscattato restasse vincolato a vita. Dopo il periodo prestabilito, il riscattato sarebbe stato liberato da qualsiasi obbligo residuo, anche se non fosse riuscito a rimborsare interamente la somma. Questo istituto cercava di bilanciare la necessità di riscatto dei prigionieri con la tutela dei diritti di chi interveniva economicamente per la loro liberazione. Lo status libertatis Nel campo del diritto delle persone è possibile far riferimento ad una caratteristica comune: tutti gli uomini possono essere o liberi o schiavi. Gaio non tratta della condizione degli uomini liberi ma di quelli in schiavitù, poiché la prima è comprensibile solo se si conosce la condizione degli uomini privi della libertà. Per quanto pertiene la condizione giuridica degli schiavi in Roma Antica, sebbene questi facessero parte del diritto delle persone in quanto umani, essi erano in realtà considerati delle res, nello specifico res mancipi: la qualificazione del servo fa sì, che un essere umano sia qualificato al pari di una cosa. Gaio le valuta res pretiosiores, beni rilevanti in quanto rappresentano nel sistema economico romano dei beni di produzione: lo schiavo era la forza lavoro romana e ne nutriva l’economia. La schiavitù va quindi considerata come un istituto giuridico comune a tutti i popoli. La schiavitù è un istituto di ius gentium, comune a tutti i popoli dell’antichità. Nell’ambito del diritto naturale non esiste la schiavitù - quando Ulpiano parla dello ius naturale, parla di un diritto che sta al sopra di tutti e che tiene in considerazione esseri umani, ma anche coloro che non sono esseri umani (es. gli animali). Nell’ambito del diritto naturale emerge il concetto secondo cui tutti gli esseri umani siano dotati di libertas. Fiorentino mette in evidenza il significato di servus: termine che è agganciato a una modalità collegata alla fonte originaria di schiavitù (posta in essere dai generali dell’esercito, i quali catturavano i nemici nell’ambito di una guerra giusta e li tenevano in vita portandoli a diventare schiavi). Il fenomeno della schiavitù emerge sin dalla fondazione di Roma: all’interno della famiglia romana esisteva il servo. Alle origini di Roma fino al III sec. a.C ci troviamo dinnanzi a un tipo di schiavitù di tipo patriarcale, lo schiavo era inserito nell’organizzazione della famiglia romana (in questo periodo storico gli schiavi non erano tanti, si trattava di persone confinanti, coloro che erano state catturate durante le guerre di espansione) ed è un soggetto a cui non viene riconosciuta nessuna prerogativa. La famiglia romana era caratterizzata dalla presenza del pater familias, dotato di poteri molto forti tra i quali il diritto di vita e di morte su tutti i membri dell’assetto familiare, inclusi figli e nipoti. Il pater nei confronti dello schiavo è dominus ed esercita da un lato una patria potestas nei confronti dei figli (legami di sangue) e dall'altro una potestas dominica nei confronti degli schiavi. Lo schiavo era inserito all’interno delle attività familiari (a livello economico) ed era all’interno della famiglia considerato come se fosse un figlio. La differenza di fondo la di nota al momento della morte del pater: dove i figli diventano giuridicamente autonomi, mentre lo schiavo subisce l’esercizio di potere da parte degli eredi. La condizione dello schiavo muta a partire dal III sec, dal momento in cui cambia l’economia dei romani, si evolve nell’ambito di attività di produzione volte a foraggiare il mercato (economia mondo: da un'economia agricola, si passa alla produzione che serve ad esercitare i commerci, dunque i prodotti sono usati e diffusi nel bacino del mediterraneo). Per quanto riguarda l’agricoltura in questo momento sorgono le vere e proprie aziende agricole (chiamate ville rustiche), organizzate in maniera strutturata, che portano al commercio dei beni prodotti. Il commercio si svolgeva nell’ambito del bacino del mediterraneo e dunque un commercio marittimo e fluviale. Ed è proprio in questo momento, che nell’ambito di queste attività economiche si interseca una concezione nuova di schiavitù: grazie alle guerre di conquista, portano la conseguenza di introitare all’interno di Roma un grande numero di schiavi (abbassamento di prezzi), che vengono immessi nel mondo del lavoro, rappresentando la forza lavoro maggiormente impiegata. I mercanti di schiavi (dal termine mango: commercianti di schiavi al dettaglio) erano coloro che gestivano un business ben articolato, che si organizzavano in società e acquistavano all’ingrosso merce umana. Gli schiavi venivano impiegati all’interno delle aziende agricole e ovviamente in un contesto di questo tipo venivano trattati con maggiore crudeltà ed inoltre vi sono delle differenziazioni basate sulla loro provenienza: gli schiavi del nord Europa, di costituzione possente e robusta, venivano impiegati nei lavori pesanti (mettendone a rischio la salute e la vita), ma erano anche gli schiavi che valevano molto di meno, perché impiegati in attività pesanti. Tutti gli schiavi provenienti da Oriente invece, venivano pagati di più e impiegati nelle organizzazioni commerciali o in organizzazioni culturali. Nel campo del diritto privato all’interno della società romana, la condizione dello schiavo era di totale incapacità giuridica, non riconosciuto come soggetto titolare di diritto. Questa regola era valida nei diritti patrimoniali, ma anche per i diritti che avevano valenza nel campo familiare (la relazione continuativa tra schiavi, non aveva un riconoscimento giuridico, ma era una relazione di fatto, che non dava luogo alla nascita del matrimonio, ma a una situazione detta contubernium, legata prettamente alla volontà del dominus). Normalmente per quanto riguarda questi rapporti tra schiavi, nell’ambito delle aziende agricole, Catone ci dice che bisognasse incentivare queste relazioni, tant’è che auspicava l’esistenza di tali unioni, poiché i figli nati da questa relazione potevano essere impiegati in mansioni lavorative (i figli così potevano essere usati per lo sfruttamento ordinario). Inoltre i vincoli di parentela tra schiavi non avevano valore giuridico, erano irrilevanti. Queste famiglie di schiavi potevano essere smembrate ed rilevante un caso particolare qui in Sardegna: si fa riferimento all’età Costantiniana, ove vi fu una rivolta di famiglie di schiavi sardi, i quali crearono scompiglio, a seguito di continue divisioni familiari. Per cercare di risolvere questo scompiglio venne enunciato un principio secondo cui in queste zone (prima in Sardegna e Corsica poi in Sicilia) non fosse più possibile dividere le famiglie servili. Prima d’allora e in specie nell’età classica, era però assente una qualsivoglia tutela del vincolo di parentela nella famiglia del servus, il quale era assolutamente privo di tutele giuridiche, specie rivolte alla sua famiglia. Per quanto riguarda il diritto pubblico lo schiavo era totalmente incapace. Non poteva essere né titolare di diritti, né di doveri di tipo pubblico (es. non si poteva candidare alle magistrature, ma allo stesso tempo non poteva neanche eleggere e partecipare alle assemblee del popolo). Lo schiavo sul piano del processo civile era totalmente incapace e non poteva essere citato in giudizio, mentre per quanto riguarda il processo criminale, Varrone ritiene che lo schiavo potesse essere dotato di una minima capacità di agire, in quanto era consentito che egli testimoniasse nel caso di crimini contro il proprio padrone, sebbene era ovviamente molto probabile che queste testimonianze potessero essere estorte al servus tramite la tortura. Ma come si diventa schiavo? Le cause principali della schiavitù erano essenzialmente tre: o dalla nascita da madre schiava dunque il figlio seguiva la condizione della madre (partus sequitur ventrem) o per prigionia di guerra dunque i prigionieri di guerra catturati dai Romani diventavano schiavi dello Stato romano o dei privati cittadini romani che li acquistavano (i vinti diventavano schiavi dei vincitori come parte del bottino di guerra), ma allo stesso tempo, un cittadino romano fatto prigioniero da nemici e non riscattato poteva diventare schiavo all’estero, oppure dalla condanna per crimini o debiti, infatti alcuni reati, come il tradimento (inteso come infedeltà verso lo Stato), potevano comportare la riduzione in schiavitù del condannato (punizione estrema, poiché privava il colpevole della libertà, della dignità personale e dei diritti civili). Oltre a queste cause, esistevano altre situazioni che potevano portare alla schiavitù, come ad esempio l’autovendita, secondo cui alcuni cittadini romani per motivi economici o di inganno, si accordavano con una persona compiacente per fingere di essere schiavi. Questi uomini si facevano vendere come schiavi in cambio di denaro, da cui poi ricavavano parte del prezzo di vendita. Poiché questo fenomeno si diffuse, i pretori (magistrati che amministravano la giustizia) intervennero con un editto durante il periodo repubblicano. L’editto pretorio stabiliva che chiunque si fosse fatto vendere volontariamente come schiavo, fingendosi tale, non potesse successivamente rivendicare la propria libertà. In altre parole, la persona che volontariamente si era dichiarata schiava e si era fatta vendere come tale, rimaneva schiava di fatto per tutta la vita. Con il passare del tempo, a partire dal III secolo d.C., si affermò un principio più rigoroso: la condizione di schiavitù di chi si era finto schiavo veniva riconosciuta anche dal diritto civile romano. In sostanza, questi individui venivano considerati schiavi non solo di fatto, ma anche giuridicamente, come se fossero nati tali. Questo mutamento eliminava la possibilità di rivendicare la libertà anche da un punto di vista legale. Altre situazioni di cittadini romani ridotti in schiavitù si verificano per il ladro colto in flagrante (cioè sorpreso mentre commetteva il furto). Questa punizione rifletteva la severità con cui la società romana trattava i crimini contro la proprietà, specialmente nel periodo più antico, in cui le sanzioni per i reati erano molto dure, oppure nell’età imperiale, chi veniva condannato a morte o ai lavori forzati nelle miniere (una condanna severissima) veniva considerato uno servus poenae, cioè uno “schiavo per pena”. Anche se in origine questi uomini erano cittadini romani liberi, una volta condannati, perdevano tutti i diritti civili e diventavano di fatto schiavi dello Stato. La loro condizione servile era una conseguenza della condanna, e questi individui perdevano anche il diritto alla redenzione o alla 2 manomissione (cioè la possibilità di riacquistare la libertà). L’istituto giuridico attraverso il quale lo schiavo acquistava la libertà è chiamato manumissio, dove per l'appunto l’ex schiavo a seguito di manomissione diventava cittadino romano. A seguito della manomissione rimaneva in vita un vincolo col dominus del liberto, il quale era tenuto a dover prestare comunque dei servigi al padrone in segno di riconoscenza. La manomissione dava dunque la possibilità allo schiavo di diventare libero e poteva essere di 3 tipi: la manumissio vindicta: era una cerimonia formale, considerata la più solenne, era eseguita davanti a un magistrato (avveniva attraverso un atto specifico detto in iure cessio). Consisteva in un finto processo, un negozio giuridico usato per effettuare un trasferimento della proprietà. Un soggetto sui iuris confermava, d’accordo con il dominus, la libertà della schiavo e lo toccava con una bacchetta chiamata vindicta, dichiarandolo libero e facendolo diventare un cittadino romano a tutti gli effetti. Già nel IV sec a.C il processo si semplifica in quanto per rendere libero lo schiavo, bastava la sola presenza del padrone, il quale toccandolo con la bacchetta, lo rendeva libero. la manumissio testamento: il padrone per mezzo di questa manomissione liberava il servus. Il dominus nel testamento inseriva una precisa formula, ovvero “Sticcus, servus meus, liber esto” e tramite questa disposizione si stabiliva che al momento della morte del testatore, lo schiavo fosse libero. la manumissio censu: il termine censu fa riferimento ad un istituto giuridico detto censimento. A Roma erano presenti dei magistrati, ovvero i censori eletti ogni 5 anni, i quali dovevano dare l’avvio alla procedura di censimento inserendo nelle liste del censo tutti i cittadini romani, i quali erano uomini liberi. In questo caso, il padrone, mediante la manumissio censu, faceva inserire il nome del proprio schiavo, dichiarando in maniera molto chiara che il proprio schiavo divenisse libero. 2 Per quanto riguarda le persone libere viene fatta una differenziazione tra chi nasce in possesso di tale status, detto ingenuo (ingenuus) e chi lo acquisisce solo successivamente, detto liberto (libertus). Questo sottolinea come gli schiavi non fossero destinati ad essere tali per sempre, ma potevano essere persino liberati dagli stessi padroni. Questo passaggio da schiavo a persona libera si riflette anche sul nome: tant’è che gli schiavi possedevano solo un nome, mentre i liberti possedevano nome e gentilizio del padrone (il nome della gens di appartenenza), a cui si aggiunge un cognome e\o agnome. Anche il diritto pretorio interviene per dare riconoscimento ad altre tipologie di manomissione totalmente sconosciute allo ius civile, che hanno la caratteristica di riconoscere la validità ad alcune pratiche al di fuori del formalismo che era tipico dello ius civile. Le forme di manomissione che risalgono al diritto pretorio o ius honorarium sono: Manumissio per epistulam: il padrone redigeva una lettera in cui dichiarava che lo schiavo era libero. Manumissio inter amicos: veniva dichiarata in presenza di persone amiche in un contesto conviviale. Manumissio per mensam: avveniva durante un banchetto, in cui il dominus dichiarava lo schiavo libero. Dal IV sec d.C in poi iniziano a diffondersi altre forme di manomissione degli schiavi come la manumissio in ecclesie, la quale poteva avvenire all’interno della chiesa dinanzi al Vescovo e agli officianti del culto cristiano. All’istituto delle manomissioni si ricollega anche il fatto che soprattutto a fine età repubblicana iniziarono a verificarsi numerose manumissio, perciò al fine di evitare un eccesso di liberti, furono emanate delle leggi atte a limitare il numero delle manomissioni. La prima è la legge Lex Fufia Caninia (del 2 a.C.), con cui si imponeva una limitazione delle manomissioni testamentarie. Mentre nel 4 d.C venne approvata la Lex Aelia Sentia, la quale stabiliva che non era permesso manomettere gli schiavi per evitare il pagamento dei debiti. Se il padrone aveva dei creditori, la manomissione fatta per sottrarre lo schiavo ai loro diritti, veniva considerata nulla. In altre parole, la legge tutelava i creditori impedendo che il padrone liberasse gli schiavi per evitare che questi fossero pignorati o utilizzati come beni per coprire i debiti. La Lex Aelia Sentia regolava anche le manomissioni di schiavi che avevano ricevuto una pena infamante (per reati gravi o disonorevoli). Questi schiavi liberati non ottenevano la cittadinanza romana, ma venivano equiparati ai peregrini 3 dediticii. Gli schiavi liberati con pene infamanti mantenevano uno status subordinato e limitato: non godevano dei pieni diritti civili e politici e avevano forti restrizioni nella società romana. Inoltre la legge stabiliva un limite di età per le manomissioni: gli schiavi dovevano avere almeno 30 anni per ottenere pienamente la cittadinanza romana con la manomissione e il padrone doveva avere almeno 20 anni per manomettere uno schiavo. Se uno schiavo veniva manomesso senza rispettare questi limiti, non otteneva la cittadinanza romana, bensì uno status inferiore di Latino Aeliano (Latinus Iunianus) con diritti limitati rispetto ai cittadini romani. Infine nel 19 d.C venne emanata un’altra legge ovvero la lex Iunia Norbana, la quale riconosceva lo status di Latino Aeliano, agli schiavi manomessi in forme non solenni. L’accertamento della condizione di schiavo o libero veniva fatto anche in via giudiziale tramite i processi di libertà o actiones ad libertatem, che erano delle procedure legali, le quali permettevano a una persona di rivendicare la propria condizione di uomo libero, contestando la propria condizione di 3 I dediticii erano stranieri che si erano arresi a Roma in guerra, accettando la sottomissione senza condizioni e quindi avevano uno status molto basso. schiavitù o dimostrando di essere stata liberata. Questi processi avevano un'importanza cruciale, poiché lo status di libero o schiavo determinava il diritto alla cittadinanza, alla famiglia, alla proprietà e a numerosi altri diritti civili. Questo processo si svolgeva davanti a un collegio di magistrati e veniva utilizzato quando una persona affermava di essere stata ingiustamente ridotta in schiavitù o contestava la propria condizione servile. 4 Nel processo, una terza persona, chiamata adsertor libertatis , agiva come rappresentante legale dell’interessato, sostenendo che il richiedente fosse libero. Se il magistrato accertava la libertà del richiedente, questi veniva dichiarato libero. In caso contrario, la persona restava o diventava schiava. Lo status civitatis Durante il periodo arcaico era rilevante la differenza tra cittadini (cives) e stranieri (peregrini), tant'è che esistevano istituti giuridici riservati esclusivamente ai cittadini, detti ius Quiritium (il diritto dei quiriti), in cui è inclusa la proprietà privata e lo ius civile (il diritto proprio dei soli cittadini). Gli stranieri si configurarono in varie categorie, tra le quali la più privilegiata era quella dei federati, che potevano godere dei diritti nella sfera dei rapporti privati con i Romani attraverso singoli trattati (foedera). Tra di essi erano in buona posizione i membri delle comunità latine chiamati Prisci Latini, i quali potevano contrarre il matrimonio legittimo con i Romani (ius conubii) e concludere attività 5 commerciali. Nelle Istituzioni di Gaio si nota la perdita di rilevanza della condizione di cittadino e furono esposti i casi in cui un Latino poteva acquistare la cittadinanza romana. Ad esempio, i Latini Aeliani e Iuniani che divenivano cittadini attraverso il matrimonio con donne romane o con la nascita di un figlio che avesse compiuto 1 anno (anniculus), vista l'alta mortalità infantile. Gaio inoltre trattò di una disciplina introdotta dai senatoconsulti, ossia l’erroris causae probatio, utilizzata per sanare situazioni in cui, erroneamente, si credeva di essere cittadini soltanto con il matrimonio con un/a Romano/a e la nascita di un figlio; questo perché ci fu una crescente diffusione della latinità durante il Principato. Personae sui iuris e alieni iuris. Il nome delle persone Una distinzione fondamentale fu quella delle persone sui iuris, giuridicamente indipendenti e alieni iuri, sottoposte ad un potere altrui. La persona sui iuris era definita anche pater familias e fa riferimento a una persona di sesso maschile, mentre la donna, madre legittima di figli veniva denominata mater familias, all'interno della "piccola famiglia". Questo tipo di famiglia era composta da: un pater, una moglie, dei figli legittimi, naturali e\o adottivi, dagli schiavi e dalle persone in 4 la figura dell’adsertor libertatis è una figura che con Giustiniano sparisce, in quanto viene permesso alla stessa persona di difendersi da sola. * una riflessione importante riguarda l’uomo libero che in buona fede pensa di essere schiavo rappresenta un caso particolare di errore sul proprio status. Inizialmente, questa condizione non comportava la perdita di libertà dal punto di vista legale, e poteva essere corretta attraverso un processo di libertà. Tuttavia, a partire dal III secolo d.C., una persona che volontariamente o in errore si comportava come schiavo poteva essere considerata tale “iure civili”, perdendo formalmente la propria condizione di libertà. 5 Tali diritti erano riconosciuti anche a coloro fossero iscritti nella lista dei partecipanti alle colonie latine (Latini coloniarii) e a chi fosse conferito il diritto di latinità maggiore (Latium maius) e latinità minore (Latium minor). mancipatio. Invece la "grande famiglia" comprendeva sotto un unico potere del padre anche le famiglie formate dai figli maschi. Il pater familias era in possesso di 4 poteri: a. la manus (mano), potere che il marito aveva sulla moglie b. la patria potestas (patria potestà), potere che il pater ha sui figli legittimi e adottivi c. il mancipium (mancipio), potere del pater esercitato su persone temporaneamente aggregate alla famiglia, non parenti d. la potestas dominica (potestà dominicale), potere come “padrone” sugli schiavi La donna sui iuris poteva disporre solo del potere sugli schiavi (potestas dominica), mentre la patria potestas era concessa alla madre solo in caso di morte, assenza o impedimento del marito. Inoltre è importante notare le differenze di denominazione delle persone > gli uomini nati liberi possedevano 3 nomi ossia prenome (proprio di ciascuno), nome (indicativo del gentilizio) e cognome (indicativo della famiglia originaria): ad es. Marco Tullio Cicerone. Le donne nate libere invece erano chiamate con nome e cognome femminilizzato: ad es. Livia Drusillia. Il gentilizio e il cognome venivano trasmessi con la nascita da matrimonio legittimo, mentre i figli adottivi assumevano i nomi dei padri adottivi con l’aggiunta di un secondo cognome detto “agnome” (gentilizio d’origine) con desinenza -iano; ad es. Caio Ottavio, dopo adozione di Cesare diveniva, Caio Giulio Cesare Ottaviano. Conventio in manum e matrimonio legittimo (iustae nuptiae) 6 Il matrimonio romano è chiamato matrimonium o iustae nuptiae , di carattere monogamico, si fondava su 2 elementi: l’affectio maritalis, ossia la reciproca volontà dell’uomo e della donna di considerarsi marito e moglie (che doveva perdurare, perchè dal momento in cui questo elemento cessava, cessava anche il matrimonio) e le manifestazioni esteriori di tale affectio, date da convivenza, dall’entrata in casa del marito. Occorrevano però ulteriori requisiti cioè la reciproca capacità naturale al matrimonio, raggiunta con la pubertà e la capacità di procreare, che venne fissata ad un’età di 14 anni, per gli uomini, e di 12 anni, per le donne; l’assenza di certi gradi di parentela per evitare 7 problemi legati alla consanguineità; il conubium (connubio), consistente nell’esistenza tra gli sposi di una reciproca capacità giuridica di contrarre il matrimonio ed il consenso dei pater familias degli sposi. Nel V sec. d.C e nel diritto giustinianeo, il consenso al matrimonio era sufficiente solo nel momento iniziale e veniva dato con un giuramento degli sposi sul Vangelo o in Chiesa. Al giorno d’oggi sono individuabili dei retaggi, come ad esempio il divieto di sposarsi tra parenti entro un certo grado (art. 87 c.c.it.) o il divieto di sposarsi se non si è raggiunta la maggiore età. 6 Giuste nozze: inteso come conforme allo ius, dunque legittimo. 7 erano vietati tutti i matrimoni tra parenti in linea retta (es. tra padre e figlia, madre e figlio, nonno e nipote) e in linea collaterale (es. tra fratelli e sorelle). Nell'età più antica il divieto riguardava i matrimoni tra parenti entro il sesto grado (tra figli di cugini); all’inizio dell’impero il grado venne diminuito al quarto per permettere i matrimoni tra zio e nipote; per poi arrivare all’età post-classica in cui si ritorna al quarto grado, vietando l’unione in matrimonio tra cugini. Sarà poi Giustiniano a eliminare definitivamente questo divieto. Tornando al diritto romano arcaico, un matrimonio legittimo era un presupposto per il marito al fine di acquistare il potere della manus sulla moglie; se il marito fosse stato una persona alieni iuris, la manus sarebbe stata impugnata dal titolare della patria potestas su di lui. Si conveniva a ciò in 3 modi: 1. La confarreatio in origine era una cerimonia matrimoniale diffusa tra i patrizi romani e consisteva in una cerimonia in cui venivano usate parole solenni e in presenza di 10 testimoni si spezzava un pane di farro (simbolo di fertilità), ma con il passare del tempo divenne una pratica religiosa attuata da chi voleva rivestire certe cariche sacerdotali. Il sacerdote di Giove richiedeva che il candidato fosse nato da confarreatio e che si sposasse attraverso tale rito. 2. La coëmptio (compera fittizia), è una compravendita fittizia che il marito, o chi detiene la patria potestas su di lui, faceva della moglie o della nuora. 3. L’usus (uso), tramite cui il marito diveniva titolare della manus sulla moglie dopo un anno di 8 nozze. La manus aveva però dei riflessi di carattere patrimoniale: quando il marito acquistava la moglie, quest’ultima veniva posta allo stesso livello di una figlia sottoposta a patria potestas, questo significava anche che nel caso di morte del marito senza testamento, si dovesse ripartire in egual misura (tra lei e i figli) il patrimonio ereditato. La libertà di contrarre matrimonio: gli sponsali, la donazione nuziale, il tempus lugendi, le leggi matrimoniali augustee ed altri divieti di età imperiale Emersero degli istituti eterogenei, caratterizzati dall’incidere sulla libertà matrimoniale, chiamati sponsali, ossia promesse di matrimonio e consistevano in due promesse: 1. La donna prometteva di andare in sposa all’uomo 2. L’uomo prometteva di prendere la donna come moglie Gli sponsali avevano effetti giuridici nel senso che erano seguiti dal matrimonio, al contrario il promittente inadempiente era tenuto al pagamento in denaro di una penale o al risarcimento dei danni stabilito dal giudice, salvo la presenza di una causa valida per la rottura della promessa. In quel periodo si diffuse l’abitudine di dare una “caparra in occasione degli sponsali” (arrhae sponsaliciae), ossia doni che confermavano l’impegno di sposarsi e da ciò derivò il problema della loro restituzione in caso della promessa rotta; se avveniva per colpa del marito i donativi andavano persi, se invece la colpa era della donna la restituzione della somma doveva avere il doppio del valore rispetto al dono ricevuto (in origine il quadruplo). Gli sponsali cessarono poi di esistere in quanto ritenuti illeciti, così 9 come ogni impedimento alla libertà matrimoniale. Nell’età postclassica viene introdotta la donazione nuziale fatta in occasione del matrimonio. Si trattava di donazioni di valore fatte dal futuro sposo alla futura sposa, le quali venivano restituite in caso di matrimonio non concluso. Nel caso in cui non si fosse concluso per colpa della donna o per morte di uno dei due coniugi le cose andavano restituite. 8 Nelle XII tavole è presente una norma nella quale si evince come la manus fosse un potere in netto declino. In base a questa norma (usurpatio trinoctii) la donna poteva allontanarsi una volta l’anno per tre notti dalla casa del marito, invitata dai suoi parenti. 9 Una volta rotta la promessa di matrimonio lo sposo non potrà sposare la madre della sposa, e viceversa, quest’ultima non potrà sposare il padre dello sposo. Inoltre agli ex fidanzati era vietato testimoniare in giudizio a favore né contro. Altro istituto era tempus lugendi, cioè il tempo che una donna vedova doveva far passare prima di sposarsi nuovamente (vale a dire 10 mesi) e mirava ad evitare situazioni in cui vi era l’incertezza della paternità di un figlio nato dopo lo stato vedovile. Se il tempo non veniva rispettato era previsto il 10 compimento di un sacrificio espiatorio. Per quanto riguarda la libertà matrimoniale vengono anche menzionate le leggi matrimoniali augustee: la Lex Iulia de maritandis ordinibus (legge Giulia sulle classi sociali che si devono sposare) e Lex Papia Poppea, finalizzate all’ordinamento della società incrementando i matrimoni e favorendo la nascita di figli legittimi; le 2 leggi si unirono, data la loro somiglianza, e presero il nome di lex Iulia et Papia. Stabilivano l’obbligo di sposarsi agli uomini liberi da 25 a 60 anni e alle donne libere da 20 a 50 anni, minacciando in caso contrario, l’applicazione di sanzioni patrimoniali. Ad essere estremamente penalizzati erano i caelibes, ovvero uomini e donne non sposate, i quali erano soggetti a esclusione totale di poter ricevere beni per successione; mentre coloro che erano sposati, ma non avevano figli era chiamati orbi, a cui venivano applicate le stesse sanzioni, ma dimezzate. La dote ed i beni parafernali (bona paraphernalia) La dote (dos) era un complesso di beni trasferito dalla donna (sui iuris) o dal suo pater familias (se sottoposta a patria potestà) al marito, per sostenere i vincoli del matrimonio. La proprietà su questi è in capo al marito che ne diviene titolare, ma è comunque condizionata dalla durata del matrimonio. Furono poi introdotti dei limiti alla libertà dell’uomo di amministrare ed utilizzare i beni: il più importante viene stabilito dalla lex Iulia de fundo dotali (legge Giulia sui fondi dotali) che vietava al marito di vendere i fondi costituiti in dote senza il consenso della moglie. Gli atti costitutivi della dote erano tre: Dotis datio (dazione della dote) = consisteva in un atto immediato della proprietà su una o più cose costituite in dote. Dotis dictio (dichiarazione costitutiva di dote) = era una dichiarazione unilaterale, un contratto verbale mediante il quale un membro della famiglia della sposa o la stessa sposa, prometteva al marito dei beni costituiti in dote. Dotis promissio (promessa di dote) = era una promessa di dote stabilita attraverso un contratto bilaterale tra il donatore e il marito, che si conclude con la stipulazione (stipulatio) Inoltre vi era una diversificazione tra i tipi di dote: se la dote veniva costituita da una donna (sui iuris) era detta avventizia, al contrario se la dote veniva costituita dal padre perché la donna è sotto patria potestas si diceva profettizia; tale distinzione era importante per quanto riguardava la restituzione: il marito poteva tenere la dote se la defunta l’aveva costituita, ma doveva restituirla se invece era detenuta dal pater. Lo stesso valeva per la donna in caso della morte del marito, poiché poteva chiedere la restituzione se sui iuris, ma se sottoposta a patria potestas agiva il pater al suo posto. In caso di mancata restituzione si poteva intentare un’azione definita actio de dote (azione relativa alla dote), per il marito condannato valeva il beneficium competentiae; raramente il marito restituiva 10 A partire dal III sec a.C il pretore infliggeva alla vedova l’infamia e al secondo marito la riprovazione sociale, l’impossibilità di svolgere la funzione di testimone e il divieto di rappresentare altre persone in un processo. 11 l’ammontare esatto per cause chiamate retentiones (ritenzioni) , come ad esempio il mantenimento dei figli. Durante il regime postclassico e giustinianeo la dote subì cambiamenti tra cui l’obbligo di costituirla per tutte le donne intenzionate a sposarsi. È opportuno sottolineare anche la questione dei beni parafernali (bona paraphernalia) che consistevano in una parte del patrimonio esclusa dalla dote, amministrabile dalla donna (se sui iuris) oppure dal marito se incaricato. Il divorzio Il divorzio viene inteso come scioglimento di un matrimonio legittimo, è una pratica nota fin dall'antichità. La parola stessa divortium, deriva dal verbo “divertere”, che indica una separazione di percorsi, un tempo uniti. Nei primi tempi, si ritiene che il divorzio fosse una prerogativa maschile e che fosse regolato da norme rigide. Un esempio è fornito da una presunta legge attribuita a Romolo, secondo cui il marito poteva divorziare dalla moglie solo in tre casi: 1. adulterio della donna: se la moglie fosse stata infedele, si trattava di una violazione del legame coniugale e quindi una giusta causa per il divorzio 2. aborto procurato con farmaci: se la moglie avesse avvelenato i figli, mostrando quindi un atto estremamente violento e contrario ai valori familiari 3. furto delle chiavi della cantina: quest’ultimo caso apparentemente strano, si collegava a motivazioni religiose: nell'antichità, infatti, era considerato sacrilegio per le donne bere vino. Se il marito divorziava senza una delle cause previste, subiva sanzioni patrimoniali: i suoi beni potevano essere destinati in parte alla moglie e in parte consacrati alla divinità Cerere. Dopo il divorzio, il marito doveva comunque liberare la moglie dalla manus, ossia dalla sua autorità giuridica. Questa liberazione avveniva con atti giuridici simili a quelli che avevano originato il matrimonio: se il matrimonio era stato celebrato con la confarreatio occorreva una cerimonia 12 altrettanto formale chiamata diffarreatio ; mentre se il matrimonio era stato celebrato con la 13 14 coemptio o l’usus, si poteva scegliere tra due strade: l’emancipatio o la remancipatio. Nel corso del tempo, però, il divorzio subì trasformazioni. A partire dal IV secolo a.C., le cause per cui un uomo poteva divorziare aumentarono. I censori avevano il compito di valutare la legittimità di queste cause e potevano imporre sanzioni morali o politiche a chi divorziava senza giustificazione adeguata. Ad esempio, nel 231 a.C., si narra che il censore impose a Spurio Carvilio, che aveva divorziato dalla moglie per sterilità, di giurare che avrebbe preso una seconda moglie per avere figli. 11 per i regali fatti dal marito alla moglie durante il matrimonio, per i cattivi costumi della moglie, per le cose del marito che ha sottratto, per le spese da lui sostenute… 12 Diffarreatio: era una sorta di inversione della confarreatio e aveva l'obiettivo di annullare il vincolo sacro creato durante il matrimonio: Il rituale era solenne e complesso e richiedeva la presenza di sacerdoti e del pontifex maximus, per assicurare che il vincolo fosse sciolto in conformità con le leggi divine e umane. 13 Emancipatio: il marito liberava del tutto la donna dalla manus facendola diventare su iuris, cioè indipendente senza alcun legame di subordinazione a una figura maschile. In questo caso la donna otteneva piena autonomia legale. 14 Remancipatio: il marito trasferiva la donna al suo precedente pater familias, cioè il padre o un altro ascendente maschile della sua famiglia d'origine, qualora fosse ancora vivo. In questo caso la donna ritornava sotto la patria potestà del padre biologico o di chi ne faceva le veci. A partire dal II secolo a.C., la società romana cambiò profondamente, e con essa le regole del divorzio. Da un lato, si ridusse il controllo dei censori sulle motivazioni del divorzio; dall'altro, le donne acquisirono il diritto di avviare il divorzio, introducendo una parità di fatto tra i coniugi in questo ambito. Questo cambiamento rifletteva l’evoluzione sociale e l’emergere di un matrimonio basato più sulla volontà che su obblighi giuridici. Sul piano pratico, il divorzio era estremamente semplice: bastava la cessazione dell'affectio maritalis, ovvero della volontà di chiamarsi marito e moglie, che costituiva la base del matrimonio romano. Questa cessazione doveva essere manifestata pubblicamente, per esempio allontanando la moglie da casa con frasi rituali come «Portati via le tue cose». Successivamente, si iniziò a formalizzare la 15 comunicazione del divorzio attraverso un documento scritto, il libellus repudii , che notificava al coniuge la fine del matrimonio. La consegna del libellus determinava la fine del matrimonio e questo aveva degli effetti concreti sul piano giuridico e patrimoniale: se era stata costituita una dote, questa andava restituita alla famiglia della moglie, inoltre, in alcuni casi poteva portare a una disputa sulla custodia dei figli, sebbene il padre avesse normalmente la priorità e infine vi potevano essere delle 16 implicazioni patrimoniali (la divisione di beni). Nel I secolo a.C., il divorzio era una pratica molto comune tra le classi più alte della società romana. I grandi personaggi dell’epoca, come Cesare, Pompeo, Silla, Ottaviano, Marco Antonio e Cicerone, si sposavano e divorziavano più volte, dimostrando quanto fosse semplice sciogliere un matrimonio. Anche tra le donne delle élite il divorzio era frequente, dato che le unioni spesso rispondevano a interessi politici o economici piuttosto che affettivi. Tuttavia, la facilità con cui si ricorreva al divorzio iniziava a destare preoccupazione, tanto che l’imperatore Augusto intervenne con una legge specifica: la lex Iulia de adulteriis coercendis. Questa legge, pur non limitando il diritto di divorziare, introduceva delle pene severe per i comportamenti considerati immorali. Ad esempio, vietava e puniva con grande rigore le relazioni sessuali con donne 17 divorziate, vedove o non sposate, definendole stuprum. Questo termine, nella legge, non significava quello che intendiamo oggi (cioè violenza sessuale), ma indicava un rapporto consensuale giudicato illecito. Chi veniva accusato di stuprum rischiava pene severe come: la relegazione su un’isola e la confisca di una parte del patrimonio. Questa severità dimostra quanto Augusto cercasse di moralizzare i costumi della società romana, colpendo non solo i comportamenti immorali, ma anche il contesto sociale in cui avvenivano. 15 Il libellus repudii nella sua semplicità conteneva: una dichiarazione di volontà che doveva essere chiara e inequivocabile; un’identificazione delle parti, dunque doveva essere ben specificato il nome del coniuge che richiedeva il divorzio e del coniuge destinatario; le motivazioni della decisione. 16 Va sottolineato che in epoca imperiale la separazione dei coniugi poteva avvenire per volontà di entrambe le parti (divorzio consensuale) o per volontà unilaterale di una sola parte (ripudio). Il libellus repudii era particolarmente usato nel caso di ripudio unilaterale, in cui uno dei coniugi (spesso il marito, ma poteva anche essere la moglie) informava l’altro della sua decisione di porre fine al matrimonio. 17 Differenza tra adulterio e stuprum: l’adulterio riguardava specificamente le donne sposate, mentre lo stuprum si applicava a uomini e donne liberi, di status elevato, che non fossero sposati. L’adulterio comportava sanzioni pubbliche e pesanti, mentre le pene per lo stuprum erano più flessibili e variavano in base al contesto. Infine entrambi i reati avevano una forte componente morale e pubblica, ma l’adulterio era considerato più grave, perché minava direttamente la famiglia e l’ordine sociale. Per quanto riguarda le modalità del divorzio, esso poteva avvenire in due modi principali: 1. Divorzio consensuale = cioè quando entrambi i coniugi erano d’accordo nel porre fine al matrimonio. In questo caso, le fonti parlano di divortium mutuo consensu (divorzio per mutuo consenso). 2. Divorzio unilaterale = quando solo uno dei coniugi decideva di separarsi e l’altro non poteva opporsi. Questo atto era chiamato repudium (ripudio), indipendentemente dal fatto che fosse il marito o la moglie a deciderlo. Con la diffusione del Cristianesimo nell’Impero romano, la concezione del matrimonio iniziò a cambiare. I Padri della Chiesa consideravano il matrimonio un sacramento, un legame sacro e indissolubile tra i coniugi. Questo influenzò anche la legislazione, che progressivamente introdusse resistenze al divorzio, soprattutto quello unilaterale. Per esempio, si cominciò a parlare di iusta causa (giusta causa) per poter sciogliere un matrimonio, distinguendo tra: - Cause imputabili al coniuge: come l’adulterio, la presenza dell’amante nella casa coniugale, la prostituzione della moglie, o atti gravi come il tentativo di uccidere l’altro coniuge. - Cause non legate alla colpa: come l’impotenza, la scomparsa di un coniuge, la prigionia di guerra o l’ingresso in un ordine religioso. Questi erano i cosiddetti divorzi per bona gratia (buona grazia). Nonostante questa evoluzione, il divorzio per mutuo consenso rimase generalmente ammesso, salvo un breve periodo durante il regno di Giustiniano nel VI secolo, quando fu temporaneamente vietato senza valide ragioni. Questa restrizione durò poco, perché fu abolita dal suo successore, Giustiniano II. Le unioni fra persone diverse dal matrimonio legittimo 18 Sin dai tempi più antichi, il diritto romano proibiva esplicitamente la bigamia, cioè il matrimonio contemporaneo con più di una persona. Questa condotta era punita con l’infamia, una sanzione morale e giuridica che minava la reputazione del colpevole, impedendogli di assumere cariche pubbliche. Tuttavia, nella pratica, la bigamia non si verificava spesso, poiché la fine di un matrimonio implicava automaticamente la possibilità di contrarne uno nuovo, senza sovrapposizioni. Questo equilibrio cambiò con l’introduzione della lex Iulia de adulteriis durante il principato di Augusto, che impose la formalità del libellus repudii (un documento scritto per ufficializzare il divorzio). La mancanza di tale documento poteva generare situazioni ambigue, in cui un secondo matrimonio veniva celebrato, mentre il primo era tecnicamente ancora valido. Da questo momento, la bigamia cominciò a essere perseguita più severamente, inizialmente come stuprum (una relazione illecita), e 18 Il matrimonio romano si fondava su una struttura legale che considerava un’unione esclusiva tra un uomo e una donna. Il diritto romano riconosceva due forme principali di matrimonio: Matrimonio cum manu (con la potestas del marito sulla moglie), Matrimonio sine manu (in cui la donna rimaneva sotto la tutela del proprio padre, ma con l’uomo come consorte). In entrambi i casi, il matrimonio monogamico era la regola. La bigamia, cioè il matrimonio con una seconda persona mentre il primo matrimonio era ancora in vigore, era considerata illecita e un reato. successivamente come un crimine autonomo, punibile con l’infamia e altre sanzioni stabilite dal giudice. Nonostante il rigore formale del matrimonio romano, si svilupparono altre forme di convivenza o unioni stabili, che riflettevano la complessità della società romana. Queste unioni erano molto diversificate e sebbene non fossero ufficialmente considerate matrimoni, godevano talvolta di un riconoscimento giuridico parziale. Il primo tipo di unione è un’altra forma di matrimonio differente da quello legittimo (senza conubium): i Romani si univano con stranieri (spesso donne delle province) che non possedevano il diritto di conubium, necessario per contrarre matrimonio legittimo. Tali unioni, frequenti soprattutto tra i soldati romani e le donne dei territori conquistati, non venivano considerate matrimoni dal diritto romano. I figli nati da queste relazioni non erano legittimi e non cadevano sotto la patria potestà del padre, seguendo invece la condizione della madre. Con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero nel 212 d.C. (Editto di Caracalla), queste distinzioni si attenuarono progressivamente. 19 Il secondo tipo di unione è il concubinato era una forma di unione stabile e riconosciuta, ma priva di affectio maritalis. Era un’alternativa al matrimonio legittimo e veniva regolamentata per evitare che degenerasse in situazioni considerate immorali. Il concubinato non dava gli stessi diritti e status giuridici di un matrimonio legale (ad esempio, non dava diritto alla dote, né consentiva la trasmissione automatica dei beni del partner), ma era comunque socialmente accettato, specialmente per uomini di rango elevato che potevano avere una concubina accanto alla moglie legittima. Due erano le principali 20 situazioni in cui si ricorreva al concubinato : - I senatori (chiamati a mantenere un alto standard di moralità e a fungere da esempio per il resto della società romana) ai quali era proibito sposare le proprie liberte (ex-schiave), potevano unirsi stabilmente a loro in un concubinato. I figli nati da questa relazione, però, non erano legittimi e non cadevano sotto la patria potestà. - L’introduzione del crimine di stuprum con la lex Iulia de adulteris scoraggiò le relazioni sessuali occasionali e favorì il concubinato come alternativa per un legame stabile con donne non sposabili (come attrici, prostitute o donne di condizione sociale bassa). Durante il diritto giustinianeo, il concubinato rimase una scelta volontaria per le coppie che decidevano di vivere insieme senza vincoli matrimoniali. Tuttavia, in quest’epoca si introdussero anche aspettative ereditarie in caso di successione senza testamento. Un terzo tipo di unione è il contubernium, che era una forma di unione tipica degli schiavi, i quali non avevano la capacità legale di contrarre matrimonio. Era un rapporto coniugale tra schiavi, ma privo di 19 concubina in latino ha due significati: amante o compagna 20 Le leggi morali promulgate da Augusto, come la lex Iulia de Maritandis Ordinibus (18 a.C.), cercavano di promuovere il matrimonio legittimo e la natalità, scoraggiando le unioni che non fossero matrimoniali o che avessero finalità immorali. Tuttavia, le leggi non cercavano di eliminare il concubinato, ma di regolarlo in modo da impedire abusi e promuovere una condotta conforme agli ideali di Augusto per l’élite romana. effetti giuridici tipici del matrimonio. Sebbene i figli nati da queste unioni non fossero soggetti alla patria potestà (non erano sotto la potestà del padre come nel caso dei figli legittimi), essi mantenevano la condizione servile e appartenevano al padrone di entrambi i genitori o al padrone della madre. Tuttavia, nel caso in cui gli schiavi venissero liberati, la parentela derivante dal contubernium avrebbe avuto rilevanza, in quanto i legami familiari tra i membri della famiglia servile sarebbero stati riconosciuti. Con il termine contubernium si fa riferimento anche all’unione tra un libero e uno schiavo altrui: quando un uomo libero instaurava un rapporto con una schiava altrui, i figli nati da questa unione rimanevano schiavi e appartenevano al padrone della madre. Invece nel caso di unione tra una donna libera e uno schiavo, i figli seguivano lo status della madre, dunque nascevano liberi e non soggetti alla patria potestas. Durante il principato di Claudio, un senatoconsulto (SC Claudianum) consentì al padrone dello schiavo di opporsi a queste relazioni e in caso di persistenza, alla terza intimidazione, di ridurre in schiavitù la donna libera coinvolta. Questa norma, percepita come particolarmente dura, fu abolita da Giustiniano. Durante il Principato, una particolare forma di unione si sviluppò a seguito di una proibizione giuridica che riguardava gli alti ufficiali romani. Essi, mentre prestavano servizio in province lontane, non potevano contrarre matrimonio con donne locali. Questo divieto non era casuale, ma rispondeva a una precisa logica politica e sociale: preservare l’integrità della classe dirigente romana ed evitare che si mescolasse con popolazioni considerate culturalmente o giuridicamente inferiori. Nonostante il divieto formale, queste relazioni erano comuni e davano luogo a nuclei familiari che però non potevano essere riconosciuti come matrimoni legittimi secondo il diritto romano. Le donne coinvolte, spesso designate con il termine focariae (letteralmente "addette al focolare"), vivevano in convivenze stabili con questi ufficiali, ma senza acquisire uno status giuridico pari a quello delle mogli. Di conseguenza, anche i figli nati da tali unioni, non erano considerati legittimi e soprattutto, non rientravano sotto la patria potestà del padre. In altre parole, essi non godevano dei diritti e dei vantaggi di essere parte di una famiglia romana ufficialmente riconosciuta. Un caso famoso di questo tipo di unione è quello di Costanzo Cloro, un alto ufficiale romano e padre dell'imperatore Costantino. Costanzo visse per molti anni con Elena, una donna di umili origini che la tradizione cristiana successiva avrebbe venerato come Sant'Elena. Elena era probabilmente una locandiera e seguì Costanzo nei suoi spostamenti militari, formando con lui una famiglia che, tuttavia, non ebbe mai uno status giuridico conforme al diritto romano. Quando Costanzo divenne imperatore, la sua relazione con Elena venne interrotta, probabilmente per ragioni politiche, e lei fu allontanata dalla corte. Unioni omosessuali → le unioni e le relazioni omosessuali nell’antica Roma costituiscono un fenomeno complesso e differenziato, che varia a seconda dello status sociale delle persone coinvolte. È necessario innanzitutto fare una distinzione tra le relazioni padroni e schiavi e quelle tra persone libere, poiché il diritto romano e la società regolavano in modo molto diverso questi due ambiti. Per quanto riguarda le relazioni tra padroni e schiavi (diffuse tra il II sec a.C e il III), nella sfera domestica, erano piuttosto comuni e generalmente accettate. Gli schiavi erano considerati proprietà dei loro padroni, quindi non si poneva una questione di consenso. Il diritto romano non interveniva direttamente su tali rapporti, a meno che non si verificassero abusi particolarmente gravi, come la castrazione dello schiavo o l’uso eccessivo di violenza. Anche le relazioni omosessuali con schiavi altrui erano generalmente ignorate dal diritto, a meno che il padrone dello schiavo non sollevasse una protesta. Con l’espansione della Repubblica e l’influenza della cultura greca a partire dal III secolo a.C., si diffuse a Roma un modello di relazioni omosessuali tra uomini liberi, che risentiva fortemente delle pratiche greche. In Grecia, in particolare nell’ambiente educativo e aristocratico, era considerato normale che un uomo adulto svolgesse il ruolo di erastés (amante) nei confronti di un giovane, l’erómenos (amato). Questi legami avevano una funzione educativa e talvolta erotica, inserendosi nel contesto dell’iniziazione alla vita sociale e politica. A Roma, tuttavia, il diritto e la morale pubblica si concentrarono soprattutto sulla tutela dei giovani nati liberi (ingenui) e, in particolare, dei pueri praetextati. Questi erano ragazzi liberi sotto i 17 anni, riconoscibili dalla toga praetexta, una tunica con un bordo di porpora che simboleggiava la loro condizione di minorenni. Per proteggere questi giovani da eventuali abusi o relazioni indesiderate, furono introdotte norme specifiche. Uno dei provvedimenti principali per proteggere i pueri praetextati fu la lex Scatinia, una legge promulgata tra la fine del III e la metà del I secolo a.C., probabilmente tra il 225 e il 149 a.C. Anche se le informazioni al riguardo sono scarse, sappiamo che questa legge prevedeva una multa di 10.000 sesterzi contro qualsiasi adulto che intrattenesse o tentasse di intrattenere relazioni omosessuali con un giovane, nato libero al di sotto dei 17 anni. La lex Scatinia aveva quindi una funzione protettiva, limitando i comportamenti ritenuti lesivi dell’integrità fisica e morale dei giovani ingenui. L’origine della legge è associata a un episodio scandaloso: si narra che un certo Scatinio (o Scantinio) Capitolino, membro di una gens, avesse tentato di sedurre un giovane figlio di un senatore, Claudio Marcello. Per riscattare l’onore della famiglia, un altro membro della stessa gens avrebbe proposto questa legge. Anche se il provvedimento si limitava a una sanzione pecuniaria, rifletteva l’importanza attribuita alla tutela dei giovani liberi. L’apparato normativo romano si arricchì nel tempo di misure volte a tutelare la pudicizia e il buon costume. Una di queste è un editto del pretore noto come de adtemptata pudicitia (letteralmente “sulla pudicizia attentata”), la cui datazione è incerta, ma generalmente collocata agli inizi del II secolo a.C. Sebbene il testo originale non ci sia pervenuto, grazie ai riferimenti dei giuristi, in particolare al commento di Ulpiano, possiamo ricostruirne la portata. L’editto mirava a proteggere: 1. Le donne libere oneste 2. I fanciulli liberi praetextati: bambini maschi liberi che indossavano la toga praetexta (simbolo di età non adulta), particolarmente vulnerabili a comportamenti illeciti da parte di adulti. L'editto colpiva gli uomini che si rendevano responsabili di atti considerati lesivi del buon costume, come: allontanare gli accompagnatori che proteggevano i fanciulli in pubblico (era consuetudine che non uscissero mai da soli) oppure pedinarli o adescare fanciulli per fini moralmente riprovevoli (contra bonos mores). Questi comportamenti configuravano un tipo di iniuria (atto illecito contro una persona), dando così diritto a chi esercitava la tutela del soggetto offeso (il marito, il padre o il tutore) – o alla vittima stessa se era sui iuris (cioè giuridicamente autonoma) – di intentare una actio iniuriarum. Questa azione aveva carattere penale e mirava a infliggere al colpevole una pena pecuniaria, il cui ammontare veniva determinato considerando la gravità del caso e le circostanze specifiche. Un altro ambito normativo regolamentato, riguarda la condanna dell’effeminatezza maschile e alcune pratiche omosessuali. Gli uomini che si comportavano come donne, assumendo ruoli passivi nel rapporto sessuale (corpore suo muliebria pati), venivano puniti. Essi venivano indicati con termini come molles, che evocavano disprezzo per la loro condotta considerata contraria alla mascolinità e all’ordine sociale. La Lex Scantinia prevedeva per questi comportamenti una multa di 10.000 sesterzi. L’editto pretorio del postulando aggiungeva una sanzione morale: vietava a questi individui di rappresentare altri in giudizio (privandoli di legittimazione processuale) e li colpiva con l’infamia. Sebbene in epoca romana esistessero celebrazioni di matrimoni tra uomini, spesso sfarzose e ricche di rituali, queste unioni non avevano alcuna rilevanza giuridica. Le fonti letterarie, come quelle di Giovenale, Marziale e Svetonio, descrivono tali eventi con ironia e disprezzo, evidenziando il loro carattere sociale e non legale. Con il IV secolo d.C., la visione e la regolamentazione delle relazioni omosessuali subiscono un cambiamento radicale sotto l’influsso del Cristianesimo, che promuove una morale sessuale più restrittiva e condanna apertamente tali relazioni. Questo cambiamento si traduce in un progressivo inasprimento delle sanzioni giuridiche e nella totale esclusione di qualsiasi forma di legittimità per le relazioni omosessuali. Un primo segnale di svolta si trova nelle Pauli Sententiae, un’opera giuridica risalente ai primi secoli d.C., che riflette un approccio più severo verso le relazioni tra adulti e minori. Viene punito con la pena di morte l’adulto, che intrattenga una relazione sessuale (stuprum) con un ragazzo libero sotto i 17 anni (cum puero praetextato), considerando tale atto come una forma di iniuria. Per l’uomo omosessuale passivo la sanzione diventa di natura patrimoniale: la confisca di metà dei beni e l’incapacità di disporre per testamento della stessa quota. Queste norme segnano un inasprimento rispetto al periodo precedente, in cui simili comportamenti erano regolati principalmente tramite multe e pene pecuniarie. La repressione si intensifica sotto l’impero di Teodosio I, che proclamò il Cristianesimo religione di Stato con l’editto di Tessalonica (380 21 d.C.). Nel 390, Teodosio I chiude i lupanari maschili , considerati una manifestazione del crimine di sodomia (pratiche sessuali contro natura). Successivamente, sotto il regno di Teodosio II, la legislazione diviene ancora più severa, introducendo la pena della vivicombustione (essere bruciati vivi) per chi fosse riconosciuto colpevole di sodomia (questa misura compare nel Codice Teodosiano che raccoglie le leggi dell’epoca). 21 I lupanari maschili erano luoghi destinati a una clientela maschile con prostituti uomini. I lupanari maschili fornivano servizi di prostituzione con schiavi o uomini liberi, spesso appartenenti alle classi più povere. Gli schiavi, in particolare, erano considerati una proprietà e quindi sfruttabili senza che ciò violasse norme morali o giuridiche. Il punto culminante della repressione si raggiunge durante il regno di Giustiniano (527-565 d.C.), che codifica un approccio ancora più rigido: estende la pena di morte non solo agli uomini omosessuali passivi, ma anche a quelli attivi, punendo tutti i coinvolti in relazioni tra persone dello stesso sesso. Mentre le fonti giuridiche si concentrano quasi esclusivamente sull’omosessualità maschile, l’omosessualità femminile è appena menzionata solo attraverso alcune testimonianze letterarie. Si sa che esistesse e che fosse più comune nei rapporti tra padrone e schiave, ma il diritto romano pervenutoci tace completamente su questo fenomeno, segno di una minore attenzione o rilevanza sociale rispetto alle relazioni omosessuali maschili. La patria potestas: il momento iniziale La patria potestas era un potere giuridico esclusivo del pater familias, cioè di un uomo che fosse sui iuris (non soggetto a un altro pater). Questo potere riguardava: - i figli legittimi sia maschi che femmine (filii legitimi), cioè nati da un matrimonio conforme alle norme giuridiche (iustae nuptiae). - i nipoti, purché nati dai figli maschi e quindi sotto il medesimo pater, mentre i figli delle figlie femmine, cadevano sotto la potestà del marito o del padre del marito. I figli nati da unioni non legittime seguivano lo status della madre e non entravano sotto la patria potestas. Il potere del pater sorgeva al momento del riconoscimento del figlio, avvenuto con l’atto di tollere liberos (“sollevare i figli”). Questo gesto simbolico consisteva nel prendere il neonato, posto ai piedi del padre, per riconoscerlo come proprio. Se il riconoscimento non avveniva, il figlio poteva essere esposto (expositio) e abbandonato. Il riconoscimento o l'abbandono di un neonato erano decisioni che spettavano principalmente al padre e non alla madre. Questo perché la maternità era considerata "certa" (non c’erano dubbi sull'identità della madre), mentre la paternità doveva essere confermata. Di conseguenza, la madre non aveva un ruolo giuridico centrale nella decisione sul destino del bambino. La madre romana, infatti, non possedeva la patria potestas (potestà sul figlio), che era un diritto esclusivo del padre. La patria potestas includeva il potere di riconoscere ufficialmente il figlio o, in alternativa, di rifiutarlo (per motivi come deformità o condizioni di difficoltà economica). Solo il padre poteva legalmente accogliere il figlio nella famiglia, rendendolo suo erede e attribuendogli uno status sociale. La madre, pur essendo naturalmente legata al figlio, non aveva giuridicamente il potere di influire sulla sua inclusione o esclusione dalla famiglia. Pertanto figli non riconosciuti rimanevano sui iuris, ossia non 22 soggetti alla potestà di alcun pater e potevano essere cresciuti da altri o adottati (adrogatio). Questa pratica fu gradualmente vietata con il Cristianesimo quando innanzitutto Costantino (nel 331 d.C.) introdusse sanzioni per i padri che abbandonavano i figli e successivamente Valentiniano, 22 Se il bambino abbandonato veniva poi cresciuto da altre persone senza essere adottato formalmente, egli continuava a essere sui iuris: rimaneva legalmente libero e non entrava sotto la potestas o l’autorità di chi lo allevava. Il bambino sarebbe rimasto in questa condizione finché non fosse stato adottato formalmente tramite un procedimento chiamato adrogatio (che si applicava, tra gli altri casi, anche agli individui sui iuris senza famiglia). L’adrogatio era una forma di adozione specifica che trasferiva una persona sui iuris sotto la potestà di un altro pater familias, facendogli acquisire una nuova posizione giuridica come membro della famiglia adottiva. Valente e Graziano (nel 374 d.C.) considerarono l’abbandono come un crimine, imputabile a entrambi i genitori. In età monarchica e repubblicana, i figli legittimi (riconosciuti dal pater) erano registrati nel censo. Durante il periodo imperiale, le dichiarazioni di nascita (professiones) servivano per dimostrare l’età dei figli e per fini fiscali. Tuttavia, questi documenti non erano inoppugnabili e il riconoscimento del pater rimaneva essenziale. Un’altra questione che viene affrontata dal diritto romano riguarda la nascita di figli con delle gravi deformità: le XII Tavole permettevano la soppressione di un figlio definito come “mostro” (monstruum) o “prodigio” (prodigium), ritenendo la sua nascita come non avvenuta. Questo andava a riflettere su un pragmatismo legato alla selezione naturale. Le leggi matrimoniali augustee (Lex Iulia et Papia) introdussero criteri per valutare l’inclusione di un figlio deforme nel conteggio dei figli utili 23 ai fini del ius liberorum (privilegio che liberava le donne dalla tutela se avevano almeno tre figli ): se la deformità non comprometteva la forma umana, il figlio poteva essere conteggiato, mentre nel caso di deformità gravi (es.due teste) escludevano il figlio dal conteggio. In età postclassica si ritiene che con il mutamento del sentire sociale, si vietò non solo l’abbandono dei figli, ma anche la soppressione dei figli deformi. La maternità era considerata sempre certa (mater semper certa est) e la madre non aveva diritto alla patria potestà. Problemi moderni come l’utero in affitto non esistevano formalmente, ma situazioni analoghe potevano presentarsi quando un uomo utilizzava una schiava (propria o altrui) per procreare: - nel caso di figlio nato da una schiava propria, quest’ultimo era considerato schiavo del pater. - nel caso di figlio nato da una schiava altrui, si venivano a creare questioni di status giuridico, che i giuristi romani dovevano risolvere caso per caso. La posizione giuridica del nascituro, l’aborto e la contestazione della paternità Nel diritto romano, il concepito (definito come colui che è nell’utero) occupava una posizione ambivalente in quanto non era considerato un soggetto di diritto autonomo e dunque capace giuridicamente al momento della nascita, identificata con la separazione completa del feto dal corpo materno (partus editus). Prima di questo momento, il concepito era considerato una “parte della madre” (portio mulieris vel viscerum). Tuttavia, al nascituro veniva riconosciuta una tutela potenziale in base alla sua “speranza di nascere” (spes nascendi). Il concepito poteva essere considerato erede o beneficiario, purché nascesse vivo. Lo ius honorarium si preoccupava di tutelare i diritti del nascituro, come sottolineato da Ulpiano, che evidenziava l’interesse del pretore non solo per i nati, ma anche per i non ancora nati. Giuristi come Giuliano e Gaio affermavano che in molte situazioni giuridiche i postumi (figli concepiti ma non ancora nati) erano trattati come se fossero già nati. Questo valeva, ad esempio, per: la successione legittima, lo ius 23 il numero di figli saliva a quattro per le sole liberte postliminii (diritto di recuperare diritti dopo il ritorno da una prigionia) e i diritti di patronato sui liberti. La regolamentazione dell’aborto e della paternità nella società romana si inserisce in un quadro complesso, in cui il diritto riflette i valori sociali e familiari dell’epoca. Le leggi romane trattavano questi temi con un’attenzione particolare agli interessi del pater familias, figura centrale nella struttura familiare romana. La parola latina abortum deriva dal verbo avertere, che significa “buttare fuori”, suggerendo un’idea di espulsione forzata del feto dal grembo materno. Questo termine evidenzia come i Romani concepissero l’aborto principalmente come un’azione fisica e non come una questione legata alla tutela della vita del nascituro. Il problema dell’aborto non era affrontato in relazione alla vita del feto, ma in riferimento alla patria potestas, il potere del pater familias. Il nascituro era considerato un futuro membro della famiglia e soggetto alla sua autorità. Pertanto, l’interesse prevalente non era quello del nascituro, ma quello del padre, che vedeva nell’aborto una lesione delle sue aspettative di discendenza. La prima regolamentazione dell’aborto si trova nelle leggi attribuite a Romolo, dove il procurato aborto da parte di una donna, era considerato una giusta causa di divorzio. Questo indica che l’aborto, più che una questione di diritto penale, era ritenuto un atto immorale e contrario ai costumi. Le conseguenze si riflettevano anche nel diritto privato, in quanto il marito poteva divorziare dalla moglie e ottenere la restituzione della dote. Un elemento importante da sottolineare è che l’aborto assumeva rilevanza giuridica solo all’interno di un matrimonio legittimo; se non c’era matrimonio, l’interruzione della gravidanza non sollevava questioni giuridiche. La legislazione cambia con l’arrivo dei Severi - un rescritto di Settimio Severo e Caracalla (205-211 d.C.), riportato dal giurista Marciano, introduce per la prima volta una sanzione penale per l’aborto. Questo rescritto prevede l’esilio per le donne che abortiscono, trattando l’aborto non solo come una lesione delle aspettative del pater familias, ma come un crimine contro la società. Questa trasformazione riflette dunque un mutamento della mentalità sociale, influenzata dalla filosofia neostoica che promuoveva il rispetto delle leggi naturali e della vita e dal Cristianesimo, il quale cominciava a diffondere l’idea della sacralità della vita. Le Pauli Sententiae (Sentenze di Paolo) consolidano appieno questo cambiamento, introducendo pene differenziate per chi procurava l’aborto: → Le donne appartenenti alle classi elevate (honestiores) erano punite con la deportazione in un’isola (deportatio in insulam). → Le donne delle classi inferiori (humiliores) erano condannate ai lavori forzati nelle miniere (ad metalla). Un altro aspetto legato alla patria potestas era la regolamentazione delle controversie sulla paternità, specialmente in caso di divorzio o morte del marito. Questi problemi erano affrontati attraverso norme che garantivano la certezza della paternità e tutelavano sia gli interessi del pater familias, che quelli del nascituro. Durante il principato di Adriano, il senatus consultum Plancianum stabilisce due regole fondamentali per i casi di gravidanza dopo il divorzio: la donna divorziata che riteneva di essere incinta, doveva informare l’ex-marito o un suo rappresentante entro 30 giorni dal divorzio (questo breve termine serviva a evitare incertezze sulla paternità) e dopo la denuncia, l’ex-marito doveva inviare custodi presso l’ex-moglie per accertare la gravidanza oppure dichiarare formalmente di non essere il padre. Se l’ex-marito non prendeva iniziative e il bambino nasceva, era obbligato a riconoscerlo come suo. Tuttavia, se la donna non denunciava la gravidanza o rifiutava i custodi, perdeva il diritto al riconoscimento della paternità. In caso di controversia tra coniugi divorziati sulla gravidanza, il rescritto di Marco Aurelio e Lucio Vero prevedeva una procedura dettagliata in quanto, la donna era ospitata in casa di una donna onesta, dove tre ostetriche esperte, nominate dal pretore, verificavano la presenza di una gravidanza. 24 Se la gravidanza era accertata, il pretore nominava un curator ventris (curatore del ventre) il quale aveva due compiti principali: vigilare sulla donna per impedire pratiche abortive e mantenere la donna, se questa non era in grado di provvedere a sé stessa. Se invece la gravidanza non era confermata, la donna poteva intentare un’azione legale per iniuria (offesa alla persona) contro l’ex-marito. Se il marito era morto, il curator ventris assumeva un ruolo centrale per proteggere il nascituro: gestiva i beni ereditari spettanti al nascituro, traendone le risorse necessarie per il mantenimento della vedova durante la gravidanza ed era responsabile di garantire i diritti del nascituro, amministrando i beni anche nell’interesse degli eventuali creditori del defunto. Ovviamente era necessario avvisare gli altri eventuali eredi dell’esistenza di questo potenziale successore. Infine, il diritto romano si basava su una presunzione di paternità fondata sugli insegnamenti di Ippocrate: era considerato figlio legittimo del marito chi nasceva almeno 7 mesi dopo il matrimonio e non oltre 10 mesi dalla morte del marito. Questa presunzione ha influenzato anche il Codice civile italiano, che prevedeva la legittimità dei figli nati tra 180 e 300 giorni dal matrimonio o dalla morte del marito. Tuttavia, tale articolo è stato abrogato nel 2013. Contenuti della patria potestas La patria potestas nel diritto romano era un complesso di poteri esercitati dal pater familias sui membri della sua famiglia, con un'estensione che comprendeva sia gli aspetti personali sia quelli patrimoniali. Questa autorità, unica per ampiezza e profondità nel panorama giuridico antico, derivava dal ruolo centrale del pater nella struttura familiare romana, considerata l'unità fondamentale della società. In epoca arcaica, il pater aveva il diritto di decidere sulla vita e sulla morte dei propri figli senza alcuna conseguenza legale. Questo potere rifletteva il controllo totale che il pater esercitava sulla famiglia. Per esempio, si ricorda il caso del console Spurio Cassio, ucciso dal padre nel 486 a.C., per 24 La nomina del curatore avveniva tra i parenti del defunto, dopo un’attenta valutazione delle circostanze da parte del pretore. aver proposto una legge agraria contraria agli interessi della classe patrizia. Questo potere, tuttavia, venne progressivamente limitato con il tempo: in ambito familiare la Lex Iulia de adulteris di Augusto limitò il diritto del pater di uccidere una figlia adultera, consentendolo solo in caso di flagrante adulterio scoperto nella propria casa o in quella del marito; in ambito generale già alla fine della Repubblica, si iniziò a considerare l'uccisione di un figlio come un reato assimilabile all'omicidio. In origine, il pater aveva anche il potere di vendere i figli, una pratica documentata ancor prima delle XII Tavole. Questa non era una vendita simbolica o rituale, ma una vera e propria cessione della persona, spesso temporanea, per permettere al figlio di lavorare presso un'altra famiglia, per esempio durante il raccolto. Terminato il periodo, il compratore tramite manomissione lo liberava e il padre lo riacquistava sotto la sua potestà. Tuttavia, le XII Tavole limitarono questo potere introducendo una norma che prevedeva l’affrancamento del figlio dalla patria potestas dopo tre vendite successive: se il padre vende per tre volte il figlio, il figlio sarà libero dalla patria potestà! (si pater filium ter venum duit, filius a patre liber esto). Con il tempo, questa pratica venne progressivamente abbandonata, ma risorse durante il regno di Costantino (IV secolo d.C.), sebbene con modifiche sostanziali: la vendita legale era limitata a bambini appena nati, descritti come “sporchi di sangue” (sanguinolenti), termine che indicava neonati di pochi giorni o settimane. Questo dettaglio sottolinea che si trattava di un atto eccezionale, riservato a situazioni specifiche e regolato da norme precise. La vendita dei neonati era consentita solo quando i genitori si trovavano in uno stato di estrema povertà. Questo vincolo serviva a garantire che l’atto non fosse abusato e che avvenisse solo come ultima risorsa, per evitare che il bambino morisse di stenti. 25 26 L’imperatore, ispirandosi anche a principi cristiani e al diritto delle regioni grecofone , cercava in questo modo di tutelare la vita del neonato, garantendogli la possibilità di essere cresciuto da una famiglia che poteva prendersi cura di lui. Un aspetto controverso riguarda lo status giuridico del bambino venduto. Le fonti giuridiche dell’epoca non sono del tutto chiare su questo punto, il che ha dato luogo a interpretazioni diverse. Non è certo se il bambino venduto entrasse nella famiglia dell’acquirente come schiavo o come una persona libera assoggettata. È possibile che lo status dipendesse dalle circostanze specifiche dell’atto di vendita. Tuttavia, alcune indicazioni portano a ritenere che, pur in assenza di un riscatto, il bambino potesse essere trattato non come un vero schiavo, ma come un membro subordinato della famiglia, una sorta di cliente. Il sistema previsto da Costantino poneva grande enfasi sul riscatto del bambino. I genitori naturali, o altre persone, potevano riacquistare il bambino in qualsiasi momento, restituendo il prezzo di vendita iniziale del bambino e rimborsando le spese sostenute per il suo mantenimento. In alternativa, il riscatto poteva avvenire mediante la consegna di uno schiavo di pari valore. Se il padre naturale 25 Principi cristiani: l’imperatore Costantino, sebbene ancora in una fase iniziale della cristianizzazione dell’Impero, si ispirava ai valori di compassione e protezione della vita, propri del Cristianesimo. La regolamentazione della vendita dei figli era concepita come una misura umanitaria per aiutare le famiglie indigenti e salvare i neonati da una sorte peggiore. 26 Il diritto delle regioni grecofone: nelle province orientali dell’Impero, era già praticata una vendita “condizionata” dei figli, che non li trasformava necessariamente in schiavi permanenti. riscattava il bambino, questi ritornava sotto la patria potestas del padre, riconfermando il legame familiare originario. Se il riscatto non avveniva, il bambino restava nella famiglia dell’acquirente, diventando parte della sua casa. Questo sistema era una sorta di adozione condizionata, che permetteva al bambino di essere cresciuto in un ambiente più stabile. L’affiliazione era un istituto giuridico presente nel Codice civile italiano (art. 400 e seguenti) fino al 1983, quando venne abolito e integrato nell’ambito dell’adozione dei minori. Questo istituto trovò una certa applicazione in situazioni particolari, come: bambini abbandonati o orfani a causa di guerre o calamità naturali; figli di genitori ignoti o incapaci di occuparsi di loro, per ragioni di immoralità, negligenza o ignoranza. L'affiliazione mirava a garantire una protezione giuridica e sociale al minore, inserendolo in una nuova famiglia senza però spezzare completamente i legami con quella d’origine, qualora esistessero. L’affiliazione poteva essere concessa a: chi aveva ricevuto il minore in affidamento e a chi aveva allevato il minore per almeno tre anni, anche senza un formale provvedimento di affidamento ed aveva effetti importanti, in quanto il minore passava sotto la potestà dell’affiliante, che assumeva una posizione simile a quella di un genitore. Tuttavia, l’affiliazione non interrompeva completamente i rapporti con la famiglia di origine, nel caso in cui questa fosse presente. Se i genitori naturali avessero riconosciuto il minore, l’affiliazione poteva essere dichiarata estinta, ma solo qualora ciò fosse considerato nel migliore interesse del minore. Con l’evoluzione del diritto minorile, l’affiliazione venne abolita nel 1983, essendo ormai superata dall’istituto dell’adozione. La patria potestas conferiva al pater familias poteri molto ampi, non solo economici e patrimoniali, ma anche personali, nei confronti dei figli. Tra i poteri personali del pater si ricordano: L'obbligo di residenza: il padre aveva il diritto di obbligare i figli a risiedere presso di sé (i figli erano sotto il controllo diretto del padre, anche da un punto di vista fisico). Divieti relativi alle carriere o alle attività: il pater familias poteva impedire ai figli di intraprendere determinate carriere o di svolgere certi tipi di attività. Poteri educativi e correttivi: il pater aveva il diritto di correggere i costumi dei figli e di infliggere loro punizioni a scopo educativo. Nel diritto romano, l’assunzione di cariche pubbliche o religiose da parte di un figlio non comportava automaticamente la cessazione della patria potestas. In effetti, il padre poteva decidere di mantenere o meno il suo potere, a meno che non si verificassero due casi specifici in cui la cessazione della patria potestas era automatica: → entrata di una figlia nel Collegio delle Vestali: poiché le Vestali erano vincolate a un sacerdozio esclusivo e autonomo, non potevano rimanere sotto il controllo del padre. → nomina di un figlio a Flamine di Giove: i Flamini di Giove, essendo sacerdoti supremi di Giove, assumevano una posizione sociale e religiosa che li rendeva indipendenti dal pater familias. Il padre poteva anche scegliere volontariamente di rinunciare alla patria potestas mediante un atto di emancipazione. Questo processo consentiva al figlio di diventare giuridicamente indipendente e di entrare, in molti casi, in una nuova condizione familiare, come l’assoggettamento a un altro pater familias o l’assunzione di uno status di autonomia. Sotto il profilo patrimoniale i figli sottoposti alla patria potestas del pater familias erano privi di una vera e propria capacità giuridica patrimoniale. Questo significava che non potevano possedere beni propri o gestire autonomamente un patrimonio personale. La loro condizione era assimilabile, sotto questo profilo, a quella degli schiavi, poiché tutto ciò che acquisivano o guadagnavano, andava ad arricchire il patrimonio del pater. Un’antica regola del diritto civile romano stabiliva che i figli soggetti a patria potestas, potessero solo migliorare la situazione patrimoniale del pater familias, ma non peggiorarla. Questa norma venne inizialmente formulata per gli schiavi,ma veniva applicata anche ai figli: dunque tutti i beni acquisiti dai figli (denaro, cose, diritti) durante la loro attività giuridica o lavorativa entravano automaticamente nel patrimonio del padre. I debiti e le obbligazioni contratti dai figli, invece, non ricadevano sul padre, in modo da non peggiorare la sua condizione economica. Questa situazione di squilibrio cominciò a mutare a partire dal II secolo a.C., grazie all’intervento del pretore, che introdusse un gruppo di azioni conosciute nella tradizione romanistica come actiones adiecticiae qualitatis. Queste azioni furono ideate per rispondere alle esigenze crescenti della società e dell’economia romana, permettendo ai figli di agire come rappresentanti organici del pater nel contesto delle attività economiche e imprenditoriali (ad esempio, nella gestione di imprese commerciali o agricole) - dunque con queste azioni il figlio in patria potestas poteva agire in nome e per conto del padre, rappresentandolo giuridicamente in ambito negoziale. Una svolta significativa si verificò durante il principato di Augusto, quando venne riconosciuto ai figli un primo nucleo di autonomia patrimoniale attraverso l’istituto del peculio castrense. Questo peculio era costituito dai beni, che i figli maschi acquisivano durante il loro servizio militare, che durava generalmente vent’anni e poteva comprendere: il bottino e prede conquistate durante le campagne militari, donativi ricevuti dai superiori o dall’imperatore come ricompensa per il servizio e stipendi\ compensi percepiti come soldati. Augusto concesse ai figli in patria potestas il diritto di disporre per testamento dei beni appartenenti al peculio castrense. Questo rappresentava una significativa rottura con il principio tradizionale secondo cui, tutti i beni dei figli dovevano confluire automaticamente nel patrimonio del padre. Nel II secolo d.C., l’imperatore Adriano introdusse ulteriori modifiche che ampliarono l’autonomia dei figli militari riguardo al peculio castrense: → estensione del diritto di disporre dei beni anche dopo il congedo: i figli potevano continuare a gestire e disporre del peculio castrense, anche dopo il termine del servizio militare, aumentando così la loro autonomia patrimoniale. → disposizioni tra vivi: Adriano permise ai figli di utilizzare il peculio castrense non solo per atti testamentari, ma anche per atti tra vivi (transazioni, donazioni), cioè durante la loro vita. In questo modo, i figli potevano vendere, donare o alienare i beni del peculio senza il controllo diretto del padre. → protezione del peculio castrense dai creditori del padre: nonostante il pater familias fosse formalmente il proprietario del peculio castrense, Adriano stabilì che tale patrimonio fosse inattaccabile dai creditori del padre. Questa misura garantiva al figlio un controllo effettivo sui beni acquisiti e impediva che il padre li utilizzasse per coprire eventuali debiti personali. Se il figlio militare moriva senza lasciare un testamento (intestato), i beni del peculio castrense rientravano nel patrimonio del pater familias in virtù del “diritto di peculio” (iure peculi). Tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C., si registra un significativo ampliamento della capacità giuridica dei figli sottoposti alla patria potestas (filii familias), soprattutto in ambito processuale e patrimoniale. In epoca classica, i filii familias acquisiscono la capacità giuridica processuale in casi specifici: nel caso di giudizio per illeciti privati (delicta), se un figlio in potere del padre commetteva un illecito privato, la vittima poteva citarlo direttamente in giudizio. Questo segnava un’importante svolta rispetto al passato, in cui il pater familias era l’unico responsabile per le azioni dei membri della sua famiglia. Pur rimanendo sotto l’autorità del padre, il figlio inizia quindi a essere considerato un soggetto autonomo in alcune situazioni giuridiche, soprattutto quando era responsabile di atti illeciti. La capacità giuridica patrimoniale dei filii familias subisce un’evoluzione più marcata a partire dal periodo postclassico e giustinianeo. I figli cominciano a gestire e, in alcuni casi, a possedere beni propri, pur sotto determinate limitazioni legali. Questo sviluppo è legato al sistema del peculio quasi castrense, che si affianca al peculio castrense, nato in precedenza, ed è così chiamato per la sua analogia con il regime giuridico di quest’ultimo. Il peculio castrense riguardava i beni acquisiti dai figli attraverso il servizio militare, sui quali il padre non aveva alcun diritto di proprietà. Il peculio quasi castrense si estende ai beni ottenuti dai figli grazie all’esercizio di cariche civili, in particolare nella burocrazia imperiale ed al pari del peculio castrense, anche i beni quasi castrensi erano di piena proprietà del figlio, senza che il pater familias potesse interferire. Il peculio adventicium è una forma più avanzata di autonomia patrimoniale: include i beni che i figli ricevono per eredità dalla madre o dalla famiglia materna. A differenza di altre forme di peculio, il figlio acquisisce un vero e proprio diritto di proprietà sui beni, mentre il padre conserva soltanto un diritto di usufrutto legale. Ciò significa che il pater poteva trarre vantaggio dai frutti prodotti dai beni, ma non ne era proprietario. Oltre che a questi tre tipi di peculio, sorge il peculio profettizio, che è una forma di peculio già esistente dall’età regia. Tuttavia,non conferisce al figlio alcuna autonomia patrimoniale: si tratta di una parte del patrimonio del padre, che quest’ultimo decide di affidare al figlio per la gestione. È quindi il risultato di una decisione volontaria del pater familias. Dunque il figlio può amministrare questi beni, ma non ne è il proprietario e non può disporne liberamente (ad es: tramite vendita o testamento). Gli atti del figlio sul peculio profettizio sono limitati a dei semplici atti di ordinaria amministrazione. L’evoluzione del peculio profettizio subisce poi un’importante trasformazione nel II secolo a.C., con 27 l’introduzione dell’actio de peculio. 27 Questa azione, sviluppata nel contesto delle actiones adiecticiae del diritto pretorio, consentiva ai creditori del figlio di rivalersi sul padre per le obbligazioni contratte dal figlio, ma nei limiti del valore del peculio. L’adozione adrogatio e adoptio L'adozione rappresentava uno dei modi per entrare nella patria potestà di un altro soggetto, non per nascita (natura), ma per diritto (iure). Questo fenomeno giuridico si concretizzava attraverso due forme principali: 1. Adrogatio: riservata a chi era sui iuris, cioè autonomo e non sottoposto alla patria potestà. 2. Adoptio: riguardante chi era alieni iuris, ossia già soggetto alla patria potestà di un altro padre. Queste due forme, pur condividendo l’obiettivo di creare un rapporto di filiazione, si differenziavano per lo status giuridico dell’adottando e il procedimento utilizzato. L’adrogatio era il procedimento attraverso cui un soggetto sui iuris decideva volontariamente di sottoporsi alla patria potestà di un altro individuo, detto adrogante. L’effetto giuridico della adrogatio era la scomparsa dello status autonomo dell’adottato (adrogatus), che diventava parte integrante della famiglia dell’adrogante. L’adrogante acquisiva la proprietà di tutti i beni dell’adrogatus e poiché comportava la perdita di una persona sui iuris e la dissoluzione di un nucleo familiare, l’adrogatio era sottoposta a un controllo pubblico. In età repubblicana era necessaria l’approvazione dei comizi curiati o comitia curiata (le assemblee popolari più antiche), che rappresentavano il populus Romanus. Mentre in età imperiale con la scomparsa dei comitia curiata, il controllo passò ai littori, simbolo del populus e successivamente, la decisione venne demandata all’imperatore, che concedeva l’arrogazione attraverso un rescritto (adrogatio per rescriptum principis). Tra Diocleziano e Giustiniano, venne riconosciuta la possibilità, in casi particolari, di concedere la adrogatio anche alle donne. Ciò accadeva, ad esempio, per alleviare la condizione di una madre che avesse perso i figli (ad solacium liberorum amissorum). Le donne adroganti non potevano esercitare la patria potestà, ma potevano amministrare i beni e creare un rapporto di filiazione con l’adottato. L’adoptio era rivolto a soggetti alieni iuris, ossia già sottoposti alla patria potestà del proprio padre naturale. L’effetto giuridico principale era il passaggio dell’adottando dalla patria potestà del padre naturale a quella del padre adottivo. La procedura della adoptio era articolata in due fasi principali: 1. Estinzione della patria potestà del padre naturale: basata sulla norma delle XII Tavole secondo cui, dopo tre vendite fittizie (mancipatio), si estingueva la patria potestà del padre sul figlio. Le vendite avvenivano in successione, in cui padre naturale vendeva il figlio a un intermediario fiduciario, che lo manometteva (liberava), facendo rivivere la patria potestà del padre naturale. Dopo la terza vendita, la patria potestà si estingueva definitivamente e il figlio restava in una condizione di in causa mancipii presso l’intermediario fiduciario. 2. Costituzione della patria potestà del padre adottivo: questa seconda fase avveniva in iure davanti a un magistrato (dal 366 a.C. il pretore), dove l’adottante dichiarava che il figlio era suo e sotto la sua patria potestà. Questa dichiarazione era rivolta: all’intermediario fiduciario oppure al padre naturale (qualora l’intermediario avesse rivenduto il figlio al padre naturale, ormai privo di patria potestà). In assenza di contestazioni, il magistrato emetteva un provvedimento costitutivo, che sanciva l’avvenuta adozione. Per figlie femmine e nipoti (maschi e femmine), l’estinzione della patria potestà avveniva dopo una sola vendita, andando a semplificare il procedimento. Dal III secolo d.C., con il tramonto della mancipatio, la prima fase del procedimento scomparve. Restò solo la fase in iure, in cui il magistrato dichiarava il vincolo di adozione. Tra la fine della Repubblica e l’inizio del Principato, fu introdotta una regola riguardante l’età minima tra adottato e adottante, il quale dovesse avere almeno 18 anni più dell’adottato, in ossequio al principio che “l’adozione deve imitare la natura" (adoptio naturam imitatur). Fino all’età di Giustiniano, l’adozione aveva l’effetto di interrompere completamente i vincoli tra l’adottato e la sua famiglia di origine. Questo significava che l’adottato perdeva ogni legame sia civile (adgnatio) sia di sangue (cognatio) con i parenti naturali, integrandosi pienamente nella nuova famiglia adottiva. L’adottato veniva considerato a tutti gli effetti figlio legittimo del padre adottivo. Questo lo poneva sullo stesso piano giuridico degli eventuali figli naturali dell’adottante, sia per quanto riguardava i diritti successori, sia per il rapporto di soggezione alla patria potestà. Nella legislazione di Giustiniano, la disciplina dell’adozione subì ulteriori modifiche e si distinse in 28 due tipi: adoptio plena , i cui effetti portavano ad una rottura totale con la famiglia naturale e la persona adottata diventava figlio a pieno titolo dell’adottante, con gli stessi diritti dei figli naturali oppure adoptio minus plena, la quale non comportava la perdita della patria potestà del padre naturale e l’adottato viveva con l’adottante, acquisiva il diritto di ereditare da lui, ma conservava anche i legami con la famiglia naturale. La liberazione dalla patria potestas La liberazione dalla patria potestas rappresentava un processo con il quale un figlio o una figlia veniva liberato dall'autorità giuridica del pater familias. Tale autorità poteva cessare in diversi modi, alcuni naturali e automatici, altri volontari e procedurali. Alcune cause di cessazione della patria potestas erano naturali o legate a particolari eventi, e non richiedevano interventi formali come: - la morte del pater familias → i discendenti diretti (figli e figlie) diventavano sui iuris, ossia giuridicamente autonomi. I nipoti, invece, seguivano il regime giuridico dei propri genitori: se il padre del nipote era premorto, anche il nipote diventava sui iuris, mentre se il padre era ancora in vita, il nipote restava sotto la sua patria potestas. - la perdita della libertà → se il pater o i figli in potestate venivano catturati dai nemici e ridotti in schiavitù, la potestà cessava. Tuttavia, qualora fossero tornati in territorio romano grazie allo ius postliminii (diritto di rientro), la patria potestas poteva essere ripristinata. - la perdita della cittadinanza → la patria potestas era riservata esclusivamente ai cittadini romani. La perdita della cittadinanza, sia volontaria (esilio volontario), che imposta come pena (interdictio aqua et igni), faceva cessare la potestà. 28 Questo tipo di adozione si applicava solo se il padre naturale dava il figlio in adozione all’avo (nonno) o al proavo (bisnonno). 29 L’emancipatio (emancipazione ) era un procedimento specifico che permetteva al pater familias di rinunciare volontariamente alla sua autorità. Questo processo si basava su un'interpretazione innovativa della norma delle XII Tavole, che prevedeva l’estinzione della patria potestas dopo tre vendite consecutive del figlio, ma l’elemento cruciale è svolto dai Pontefici. La procedura innanzitutto era articolata in due fasi: 1. le tre mancipationes: il pater familias vendeva simbolicamente il figlio a un acq