Biologia Generale PDF - Origine della vita, classificazione, esseri viventi
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Questi appunti di Biologia Generale descrivono la scienza della vita, concentrandosi sull'origine della vita sulla Terra, l'evoluzione delle cellule e la classificazione degli esseri viventi. Vengono discussi la chimica della vita, le scoperte di Oparin e Haldane, e l'importanza dell'RNA. Si esplorano anche i concetti di protocelle, metabolismo e la teoria simbiotica nell'evoluzione della vita.
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I moduli non sono scatole chiuse, perché a medicina le conoscenze sono aperte, quindi sono necessari i collegamenti. A livello di esame implica che per avere un voto positivo all’esame di biologia entrambi i moduli devono essere positivi. Le ore formali sono due, ma le ore accademiche sono di 45 min...
I moduli non sono scatole chiuse, perché a medicina le conoscenze sono aperte, quindi sono necessari i collegamenti. A livello di esame implica che per avere un voto positivo all’esame di biologia entrambi i moduli devono essere positivi. Le ore formali sono due, ma le ore accademiche sono di 45 minuti ciascuna. Il professore fa un’ora e mezza di lezione continuativa. BIOLOGIA Biologia significa letteralmente “scienza della vita”, dove con il termine “vita” si intende la descrizione degli esseri viventi. Gli esseri viventi sono delle entità che nascono, crescono, si riproducono e muoiono. Origine della vita sulla Terra Come si può descrivere la vita sulla Terra? Quando si può parlare di vita sulla terra? Il nostro pianeta ha un’età di 4,5-4,6 miliardi di anni. (figura 1) Le ipotesi indicano che l’origine della vita è nata verso la fine della prima settimana di vita della terra (circa 4 miliardi di anni fa). Il tipo di vita a cui ci si riferisce è di tipo “chimico”. Infatti l’atmosfera ai tempi era completamente diversa rispetto ad ora. La terra si era appena formata e si stava raffreddando; quindi, si è formata l’acqua e l’atmosfera con elementi diversi da oggi. Erano presenti CO2, vapor acqueo e altri elementi molecolari semplici (CO, idrogeno molecolare, ammoniaca, azoto molecolare, zolfo e infine metano, come fonte di carbonio). Mancava tuttavia l’ossigeno, che è una molecola ossidante, che impedisce agli elementi semplici di unirsi insieme. Queste condizioni, unite alla presenza di tantissima energia data dal sole (UV), scariche elettriche nell’atmosfera ed eruzioni vulcaniche, si ipotizza che da quegli elementi semplici si potessero formare delle piccole molecole organiche (base chimica della vita). Tutto ciò è stato ipotizzato da Oparin e Haldane negli anni ‘20 del secolo scorso e poi venne dimostrato in laboratorio da Miller-Ury nel 1950, che ricrearono una sorta di atmosfera primordiale, ovvero le condizioni che si pensava esistessero 4 miliardi id anni fa. Egli prese gli elementi semplici, li riscaldò e creò un vapore contenente acqua, ammoniaca, idrogeno molecolare, ecc. Vi diedero delle scariche elettriche tramite elettrodi al sistema (al posto degli UV). Il tutto venne poi raffreddato e venne analizzato cosa c’era in questa soluzione. Emerse che gli elementi semplici si potevano unire insieme in qualcosa di un po’ più complesso (polipeptidi, amminoacidi, acidi grassi), ovvero molecole organiche semplici, che si accumulavano nel cosiddetto “brodo primordiale” (ricco di energia, acqua e provvisto di zone di contatto con la terra). È proprio in queste zone di contatto che le prime molecole createsi iniziano 2 1 approfondimento ad accumularsi in qualcosa di più complesso. Da monomeri si passerà al concetto di polimeri (gli amminoacidi sono monomeri di proteine. I nucleotidi sono i monomeri degli acidi nucleici). Avvenne quindi la creazione chimica e spontanea di piccole molecole organiche che si sono accumulate nei brodi primordiali e poi con l’aiuto probabile di qualche catalizzatore (es: argille, ovvero rocce con carica positiva con nucleotidi che hanno carica negativa) i monomeri hanno interagito tra loro per creare polimeri (ciò ha richiesto milioni di anni) Negli anni ‘60 ci si chiese quale molecola fosse nata prima per dare origine a tutte le altre. È bene tenere presente che: Il DNA è il depositario dell’informazione genetica L’RNA serve per trasportare informazione genetica per dare luogo alle proteine (e altro ancora) Le proteine, infine, sono in grado di fare tutto (danno struttura, sono alla base degli enzimi…) Negli anni successivi emerse che fu l’RNA la molecola che si era formata per prima. Essa, infatti, ha due funzioni: 1. Trasportare informazione genetica al DNA e alle proteine 2. Fare da enzima (è un riboenzima). Esistono infatti degli acidi nucleici che catalizzano delle reazioni metaboliche. In particolare, la formazione del legame peptidico nel ribosoma (organulo che media la sintesi proteica). Si pensa quindi che l’RNA si sia inizialmente formato in maniera graduale, creando delle molecole sempre più grandi e poi, evolvendo in milioni di anni, l’RNA abbia assunto una capacità autoreplicativa (di creare molecole similia a se stesse). Poi con l’evoluzione e la selezione si sono create anche delle molecole con capacità enzimatica specifica, che hanno dato luogo alle proteine. Queste proteine, essendo molto più efficienti per catalizzare delle reazioni metaboliche, permisero poi di creare delle strutture. L’RNA ha continuato a replicarsi, dando anche poi luogo ad un’altra molecola: il DNA. Il DNA ha la capacità peculiare di essere molto statico, mentre RNA a singola elica è molto più labile (e degradabile). Fino a questo punto si è parlato della creazione di macromolecole in un ambiente libero (il brodo primordiale). Poi vi è stato un altro step evolutivo fondamentale. Nel brodo vi erano anche altre molecole peculiari: gli acidi grassi (lipidi), che sono fondamentali per la soluzione delle cellule. I fosfolipidi/fosfogliceridi sono costituiti da una molecola centrale di glicerolo che si connette con tre altre molecole. Gli acidi grassi sono le molecole che si sono formate inizialmente. Hanno delle lunghe code idrocarburiche, che sono del tutto apolari (ovvero non si sciolgono in acqua, da cui “idrofobiche”). Anche la testa ha delle caratteristiche specifiche (es: azoto o gruppo fosfato, con diverse cariche elettriche). Le cariche elettriche poi interagiscono con le molecole d’acqua che sono dei dipoli elettrici. Tornando al brodo primordiale, ciò comporta che delle molecole simili ai fosfolipidi che si erano formate, tentavano di associarsi tra di loro, diminuendo al massimo il volume di contatto con le loro regioni idrofobiche, mettendo solo le teste polari (idrofiliche) a contatto con l’acqua. Quello che si va a creare sono una sorta di micelle. Le micelle assomigliano in effetti ad una cellula. C’è infatti una membrana plasmatica. Ecco che si è creata una protocellula: il primo organismo a base cellulare. All’interno della cellula, infatti venivano ad essere racchiuse in uno spazio ristretto le macromolecole descritte prima (RNA, DNA, diverse proteine). Questo è di fondamentale importanza, perché da’ una fitness evolutiva (una marcia in più) alla cellula. La cellula era più efficiente da un punto di vista di riproduzione rispetto ad una molecola di DNA o RNA isolate. Le cellule hanno quindi iniziato a dividersi e a colonizzare l’ambiente, determinando la nascita degli organismi procarioti (3,5 miliardi di anni fa). Questo corso si basa proprio sul confronto tra cosa succede negli organismi più semplici procarioti ed eucarioti. Un ulteriore salto evolutivo è stata l’evoluzione all’interno di alcuni procarioti di un peculiare metabolismo: il metabolismo fotosintetico. Questi organismi avevano una marcia in più rispetto agli altri procarioti che dovevano andare in giro nel brodo primordiale contenendo elementi semplici. Questi nuovi procarioti grazie al loro metabolismo creano una molecola che prima non c’era: l’ossigeno. Tanti più organismi fotosintetici, tanto più ossigeno si crea. Per alcuni organismi l’O2 fu anche tossico, quindi vi fu una selezione importante. Alcuni hanno creato il metabolismo aerobico, ovvero utilizzare l’ossigeno per creare energia (respirazione cellulare o fosforilazione ossidativa, come nei nostri mitocondri), che è molto più efficace del metabolismo anaerobio. Questo ha portato ad un altro step evolutivo: la teoria simbiotica. L’ambiente era ricco di protocellule anaerobie che andavano in giro per recuperare materiale. Allo stesso tempo ci sono altri procarioti aerobi in grado di utilizzare O2. La teoria simbiontica indica che una grossa protocellula anaerobia sia andata incontro a un piccolo procariote 3 1 approfondimento aerobico e lo abbia fagocitato. La fagocitosi implica generalmente introduzione di materiale all’interno delle cellule che viene poi degradato in elementi semplici utilizzati per il metabolismo della cellula. In questo caso però la grossa protocellula non ha degradato il piccolo procariote. Piuttosto lo ha mantenuto vivo al suo interno perché era più efficiente utilizzarne le caratteristiche (respirazione ossidativa), piuttosto che utilizzarne gli elementi semplici. Questo ha dato vita al mitocondrio, che infatti ha una membrana interna e una esterna (risultato di un organismo mangiato, ma non degradato appunto). La teoria simbiontica è stato il primo elemento che ha portato poi a cellule più complesse: gli eucarioti. Pro - carioti = prima del nucleo (carion) = assenza del nucleo. Eu - carioti = con il nucleo. Hanno anche compartimentazione interna. Infatti nell’evoluzione della teoria simbiontica sono entrati i mitocondri e poi hanno iniziato a dividere in comparti la struttura interna (es: nucleo per proteggere materiale genetico, apparato di golgi, mitocontri, reticolo endoplasmatico…). Questo processo avvenne 2 miliardi di anni fa. Alcuni di questi organismi eucarioti che si sono formati, poi, invece di dividersi sono rimasti insieme, perché avevano visto che differenziare le funzioni delle diverse cellule rendeva più efficace l’organismo (che quindi divenne pluricellulare). Nel mentre l’ossigeno ha cambiato l’atmosfera, quindi si è creata una variante dell’ossigeno: l’ozono. Questo elemento protegge le terre emerse dai raggi UV e ha permesso agli organismi viventi di avere altre zone da colonizzare. Siamo all’ultima settimana del mese di vita della terra (vedi immagina iniziale del calendario). Gli organismi iniziano a differenziarsi, adattandosi al diverso ambiente in cui sono. Noi esseri umani siamo arrivati negli ultimi cinque minuti dell’ultimo giorno. Classificazione degli esseri viventi (figura 2) In figura 2 è illustrato l’albero genealogico degli esseri viventi. Si parte da LUCA (Last Universal Common Ancestor) che è la protocellula da cui derivano tutti gli organismi. Da questa possiamo dividere l’albero genealogico in tre grandi domini. I primi due domini sono Bacteria e Archea, entrambi procarioti, che differiscono per il metabolismo. I batteri sarebbero gli eubatteri. Gli archea sono batteri con metabolismo peculiare, conosciuti anche come estremofili perché si sono trovati in ambiente estremo. Poi c’è il dominio degli Eukarya: da questi si sono formati quattro dei sei regni che costituiscono gli organismi viventi: protisti: organismi monocellulari ma eucariotici (es: amebe) piante: capacità di fare fotosintesi (autotrofi) funghi: non fanno fotosintesi animali: organismi eterotrofi non fotosintetici All’interno dei singoli regni si hanno ulteriori suddivisioni: phylum, classe, ordine, famiglia… Caratteristiche degli esseri viventi A caratterizzare tutti gli esseri viventi c’è un elevato livello di organizzazione. Parliamo di macromolecole, che si uniscono in polimeri e poi in organuli, organismi cellulari, tessuti e organi. Hanno una particolare omeostasi cellulare, ovvero la capacità di mantenere stabile caratteristiche chimico- fisiche rispetto all’ambiente esterno (es: nostra temperatura rimane stabile rispetto a quella dell’ambiente esterno, perché è la temperatura più efficiente per le reazioni del nostro organismo). tutti gli organismi hanno un codice genetico universale (stesso modo di trasmettere informazione dal dna alle proteina). 4 1 approfondimento tutti gli esseri viventi hanno la stessa capacità di nascere, crescere, riprodursi. durante l’evoluzione gli esseri viventi si sono adattati all’ambiente, andando a modificare il proprio patrimonio genetico. Ogni essere vivente ha un proprio progetto: ogni organismo vivente si esprime in base a cosa ha scritto nel patrimonio genetico. Si ha un flusso di informazioni unidirezionale dal dna all’rna alle proteine (non si torna indietro). Proprio il fatto che il flusso sia fatto così ci ha permesso di evolverci. Replicazione, trascrizione e traduzione avvengono all’interno della cellula, caratterizzandola e differenziandola dalle altre cellule. Noi siamo fatti di cellule. Un granello di cellule è grande come 5000 cellule. Quindi noi siamo fatti da miliardi di miliardi di cellule (il numero teorico è 3,7 *10^13 cellule). Gli occhi non sono in grado di vedere le cellule perché non hanno un potere di risoluzione adatto per distinguere le diverse cellule. Dobbiamo usare dei microscopi, che possono essere di diverso tipo: microscopici ottici, che tramite la luce permettono di ingrandire un oggetto e distinguere cosa c’è dentro microscopici elettronici, che tramite fasci di elettroni tridimensionali su una sonda permettono di ricostruire una struttura bidimensionale o tridimensionale. (figura 3) In figura 3 vediamo con microscopio ottico un paramecio, organismo protista unicellulare eucariotico, tramite diversi tipi di microscopi. Si può dedurre che l’evoluzione dei microscopi abbia dato un contributo importante alla biologia, anche se la biologia non è nata con i microscopi, ma molto prima (dalle intuizioni dei naturalisti, un po’ tuttologi, che provavano a descrivere la natura). Robert Hooke ha creato una sorta di microscopio: un tubo di cartone che ha permesso di ingrandire delle strutture biologiche, quali la struttura di un albero. Individuò una serie di cellette, che sono le pareti delle diverse cellule vegetali (in realtà quelle cellule osservate erano morte). Dall’osservazione di altri scienziati nacque poi la teoria che la cellula è l’unità morfologica degli esseri viventi. Tutti gli organismi viventi sono nati da cellule. La cellula è anche l’unità funzionale degli esseri viventi, perché tutto ciò che serve per far funzionare la cellula è racchiuso all’interno della cellula. “Omnis cellula e cellula” à tutte le cellule da una prima cellula “Where a cell arises there a cell must previously have existed“ à Dove una cellula si genera, lì una cellula deve essere esistita Inizialmente si era raccontato di come la vita si è da un punto di vista chimico (ora non è più possibile perché l’atmosfera è cambiata). Ora invece si spiega di come ogni cellula deriva da un’altra cellula, intuendo i processi di divisione cellulare (mitosi e meiosi). Esistono cellule diverse (figura 4): neuroni, granulociti, procariote (flagello), spermatozoo, fibroblasto. 5 1 approfondimento (figura 4) Confronto tra procarioti ed eucarioti La divisione delle cellule avviene in due categorie principali: procarioti ed eucarioti. Da una parte abbiamo i procarioti, relativamente semplici (perché si sono specializzati nel loro ambiente per vivere e riprodursi): sono monocellulari e dotati di membrana plasmatica che delimita il proprio citoplasma. Non c’è il nucleo, ma è presente la regione del nucleoide in cui c’è il DNA del procariote (circolare e super avvolto). Tutto attorno ci sono piccoli organuli che chiamati ribosomi (sede della sintesi proteica). Oltre alla membrana plasmatica possiamo avere la parete cellulare, un’altra membrana esterna e una grossa regione gelatinosa chiamata capsula, costituita da polisaccaridi. Tutto ciò permette di differenziare i diversi procarioti e capirne, se presente, la patogenicità. Dall’altra parte vi sono gli eucarioti, più complessi e compartimezzati. Il compartimento più grande è il nucleo, che contiene il DNA. Poi ci sono i mitocondri (sintesi energia), vescicole di trasporto di materiale tra la cellula e l’esterno, organuli come ribosomi e desossisomi. Vi è un ultimo organismo particolare che non è una cellula: il virus. Sono dei parassiti obbligati. Hanno un materiale genetico all’interno del capside e hanno la capacità di infettare altre cellule (unico modo che hanno per riprodursi). Sono così piccoli che non erano stati visti fino al microscopio elettronico. Sono parassiti obbligati di tutti gli esseri viventi (alcuni infettano i procarioti, altri le piante, altri i batteri). 6 1 approfondimento Sbobinatore: Alessandra Bonfadini Revisore: Greta Dodi Materia: Biologia generale Docente: Alessandro Barbon Data: 02/10/2024 Lezione n°: 2 Argomenti: Macromolecole informazionali MACROMOLECOLE INFORMAZIONALI: DNA, RNA e proteine Nella lezione precedente è stato approfondito come si sono formate queste macromolecole nel corso dell’evoluzione terrestre a partire dall’ origine chimica della vita. Dogma centrale della biologia Il passaggio DNA → RNA → proteine costituisce il cosiddetto “dogma centrale della biologia” (vedi fig.1), ovvero il trasferimento delle informazioni contenute nel codice genetico nel DNA (vero depositario delle informazioni) all’RNA che, successivamente, si traduce in proteine (effettive esecutrici del messaggio genetico). Storia della scoperta del DNA Fig. 1 1869: Johann Friedrich Miescher Miescher fu un medico svizzero che analizzò dal punto di vista biochimico le bende ricche di pus dei suoi pazienti, isolandone le cellule del sistema immunitario. Chimicamente, isolò una sostanza peculiare e ricca di gruppi fosfato, che chiamò nucleina (il nome deriva dal fatto che, dal punto di vista istologico, fosse contenuta nel nucleo delle cellule prese in esame) (vedi fig.2). Al tempo Miescher non sapeva ancora cosa stesse osservando e non riteneva che quella molecola fosse determinante nella trasmissione dei caratteri da generazione in generazione in quanto troppo semplice. Consegnò i suoi studi alla Comunità Scientifica quasi un secolo prima delle scoperte più importanti in ambito della trasmissione genetica. Fig. 2 1928: esperimento di Griffith Griffith studiò negli anni ’30 la trasmissione della polmonite, un’infezione polmonare causata dal batterio Streptococcus Pneumoniae (vedi fig. 3). Questo batterio presenta 2 ceppi che si possono distinguere in base alla loro struttura esterna 1: Ceppo S (smooth): ceppo infettante e virulento (ovvero che si replica e porta la malattia) presenta la capsula esterna che protegge il batterio dal sistema immunitario dell’ospite infettato; Ceppo R (rough): ceppo infettante e non virulento, (ovvero che si replica ma non porta la malattia) privo di capsula esterna. Sulla base di queste osservazioni, Griffith impostò il suo esperimento studiando come il batterio si manifestasse in topi infetti: Iniettando un batterio di tipo S, il topo contraeva la polmonite e, analizzando i tessuti dei suoi polmoni, Griffith osservò ed isolò colonie di batteri di tipo S, concludendo che questo ceppo fosse virulento e che il batterio, proliferando nella cavia, ne determinasse la malattia e la morte; Iniettando invece un batterio di tipo R, Griffith osservò che il topo non si ammalava e non contraeva la polmonite, nonostante la proliferazione batterica nei tessuti della cavia; Successivamente, Griffith scaldò i batteri di tipo S che, iniettato nel topo, non causava la contrazione della malattia e non sviluppava colonie batteriche isolabili nei tessuti della cavia. A seguito di queste osservazioni, Griffith comprese che, sottoponendo colonie batteriche del tipo S ad alte temperature, aveva creato un ceppo non proliferante e non virulento. 1. I procarioti sono rivestiti da una membrana cellulare, da una parete cellulare e, eventualmente, una capsula di polisaccaridi. 2. I batteriofagi sono costituiti da una molecola di acido nucleico protetta da un capside proteico all’esterno. 3. Il legame fosfodiesterico è costituito da 2 legami esterei che si formano tra il carbonio e l’ossigeno e un fosforo che li unisce. 1 Considerando infine il ceppo R non infettante e unendolo a batteri di tipo S inattivati dal calore, ci si aspetterebbe che il topo non sviluppi la malattia e non muoia; tuttavia, Griffith osservò che il topo moriva e che nei suoi tessuti si potevano estrarre sia batteri di tipo R che batteri di tipo S che in teoria erano stati inattivati dal calore. Griffith concluse che nei batteri ci fosse qualcosa in grado di passare da un ceppo all’altro e in grado di trasformare i batteri di tipo R in batteri di tipo S (a partire da batteri S inattivati) tramite quella che poi si è compreso essere l’informazione genetica che permette la produzione della capsula batterica, che Griffith chiamò principio trasformante. Tuttavia, Griffith non fu in grado di identificare il protagonista del trasferimento di informazioni da un tipo di batterio all’altro. Fig. 3 1. I procarioti sono rivestiti da una membrana cellulare, da una parete cellulare e, eventualmente, una capsula di polisaccaridi. 2. I batteriofagi sono costituiti da una molecola di acido nucleico protetta da un capside proteico all’esterno. 3. Il legame fosfodiesterico è costituito da 2 legami esterei che si formano tra il carbonio e l’ossigeno e un fosforo che li unisce. 2 1944: esperimento di Avery, McLeod e McCarty Avery, McLeod e McCarty ricrearono l’esperimento di Griffith in laboratorio, interrogandosi su quale fosse il principio trasformante e, quindi, il depositario dell’informazione genetica tra DNA, RNA e proteine. Al tempo, infatti, il DNA era ancora reputato chimicamente troppo semplice per essere in grado di trasmettere le informazioni, al contrario delle proteine, più complesse e varie. I ricercatori fecero crescere una coltura di batteri di tipo S, ne presero una parte e la inattivarono scaldandola, unendola successivamente con cellule di tipo R e ottenendo pertanto la medesima trasformazione descritta da Griffith. Per scoprire quale fosse il principio trasformante, divisero le cellule ottenute in tre beute, per poi degradarle una alla volta utilizzando DNasi, RNasi e proteasi. Aggiungendo una proteasi o una RNasi, venivano degradate rispettivamente le proteine o l’RNA. Tuttavia, i ricercatori ottennero ugualmente il ceppo tipo S virulento, deducendo che il principio trasformante non potesse essere contenuto nelle proteine o nell’RNA. Fig. 4 Aggiungendo invece la DNasi, che degrada il DNA, in laboratorio non si ottenne la trasformazione, in quanto presenti solo cellule di tipo R non virulente. Avery, McLeod e McCarty affermarono quindi che il principio trasformante descritto da Griffith fosse il DNA, ma la loro scoperta non venne presa particolarmente in considerazione dalla Comunità Scientifica del tempo a causa delle difficili comunicazioni globali (la Fondazione Nobel più avanti si scuserà per non avere attribuito il premio). 1952: esperimento di Hershey e Chase Nel 1952 Hershey e Chase proposero un esperimento per dimostrare che il DNA fosse responsabile della trasmissione dell’informazione genetica. Utilizzarono i batteriofagi2, virus che infettano i batteri e contenenti una molecola che detiene l’informazione genetica necessaria alla replicazione. Per comprendere la natura della sostanza presa in esame, gli scienziati tentarono di distinguere DNA e proteine usando isotopi radioattivi. Marcando il DNA con fosforo radioattivo (32P) e le proteine con zolfo (presente nella cisteina) radioattivo (35S), infettarono i batteri e, tramite una centrifuga, Fig. 5 separarono il capside batterico esterno da ciò che si trova all’interno (vedi fig. 5-6) Analizzando la tipologia di radioattività presente nei batteri, il risultato dimostrò che la radiazione era dovuta all’isotopo del fosforo: i batteriofagi iniziali avevano inserito nei batteri la loro informazione genetica tramite il DNA. Questo esperimento è la conferma sperimentale che il DNA è il responsabile della trasmissione dell’informazione genetica. 1. I procarioti sono rivestiti da una membrana cellulare, da una parete cellulare e, eventualmente, una capsula di polisaccaridi. 2. I batteriofagi sono costituiti da una molecola di acido nucleico protetta da un capside proteico all’esterno. 3. Il legame fosfodiesterico è costituito da 2 legami esterei che si formano tra il carbonio e l’ossigeno e un fosforo che li unisce. 3 Fig. 6 Nucleotidi: struttura e componenti I celebri Watson e Crick studiarono e compresero la struttura del DNA e come fosse in grado di custodire e trasmettere l’informazione genetica. Il DNA è formato da acidi nucleici, polimeri di nucleotidi. I nucleotidi sono formati da un carboidrato (ovvero uno zucchero) da una base azotata e da un gruppo fosfato (PO4- -). Carboidrato (zucchero): sono molecole carboniose idratate; la loro formula bruta è C n(H2O)n. Presentano uno scheletro di atomi di carbonio più o meno lungo, legato a un gruppo funzionali che può essere un’aldeide o un chetone. I carboidrati hanno solitamente una struttura lineare, che tuttavia tende a reagire con sé stessa per creare una struttura circolare disponendo gruppi funzionali e idrogeni sopra e sotto al piano di osservazione dell’anello. Gli zuccheri contenuti nel DNA (acido desossiribonucleico) e nell’ RNA (acido ribonucleico) sono pentosi (ovvero contengono cinque atomi di C) e sono, rispettivamente, il desossiribosio e il ribosio. (Vedi fig.7-8 per struttura di base e NOMENCLATURA dei CARBOIDRATI). La differenza tra ribosio e desossiribosio è ciò che si lega al carbonio 2’: nel ribosio è un gruppo ossidrile mentre nel desossiribosio è un idrogeno. (vedi fig. 9) Fig. 7 Fig. 8 1. I procarioti sono rivestiti da una membrana cellulare, da una parete cellulare e, eventualmente, una capsula di polisaccaridi. 2. I batteriofagi sono costituiti da una molecola di acido nucleico protetta da un capside proteico all’esterno. 3. Il legame fosfodiesterico è costituito da 2 legami esterei che si formano tra il carbonio e l’ossigeno e un fosforo che li unisce. 4 Fig. 9 Base azotata: nel carbonio 1’ dello zucchero si lega la base azotata permettendo la formazione di un nucleoside. Le cinque basi azotate si dividono in 2 classi (vedi figura 10) ▪ Pirimidine → sono costituite da una molecola piccola formata da un unico anello di carbonio e azoto; le pirimidine si distinguono le une dalle altre grazie ai sostituenti legati all’anello di base (esempio: gruppo amminico, carbonile e metile), i quali forniscono le diverse caratteristiche chimico-fisiche alle basi azotate. Le pirimidine sono citosina (C), timina (T) e uracile (U). ▪ Purine → sono molecole più grandi delle pirimidine, sono costituite da due anelli di carboni e azoti con diversi gruppi funzionali legati all’anello centrale. Le purine sono adenina (A) e guanina (G). Fig. 10 Quando le basi azotate sono legate allo zucchero per formare il nucleoside, cambia la nomenclatura (vedi fig.11). Fig. 11 La timina non si può legare al ribosio, ed è presente solo nel DNA; allo stesso modo l’uracile non si può legare al desossiribosio, ed è presente solo nell’RNA → ci sono 5 basi azotate ma solo 4 tipologie di nucleotidi nel DNA e nell’RNA. Gruppo fosfato: si lega al carbonio 5’ dello zucchero e permette la formazione del nucleotide (vedi fig.12). Dato che è stato aggiunto un altro elemento cambia la nomenclatura (vedi fig.13). 1. I procarioti sono rivestiti da una membrana cellulare, da una parete cellulare e, eventualmente, una capsula di polisaccaridi. 2. I batteriofagi sono costituiti da una molecola di acido nucleico protetta da un capside proteico all’esterno. 3. Il legame fosfodiesterico è costituito da 2 legami esterei che si formano tra il carbonio e l’ossigeno e un fosforo che li unisce. 5 Fig. 12 Fig. 13 Il nucleotide monofosfato è presente nel filamento a catena degli acidi nucleici. Prima di legarsi tra loro per formare il filamento di DNA o RNA, gli zuccheri sono legati a tre gruppi fosfato. Un esempio di nucleotide trifosfato è l’ATP, una delle più importanti molecole energetiche del nostro corpo: è una molecola energetica perché i legami tra i diversi gruppi fosfato contengono tantissima energia e quando sono scissi, ovvero quando viene tolto un gruppo fosfato per volta, viene fornita energia al sistema (vedi fig.14). Fig. 14 Caratteristiche di una catena di acidi nucleici Una catena di acidi nucleici è un polimero di nucleotidi che interagiscono tra loro per formare i filamenti di DNA o RNA. I nucleotidi si legano l’un l’altro tramite l’interazione di un carboidrato con il gruppo fosfato, mentre le basi azotate non partecipano alla formazione della singola catena, ma sono lasciate di lato. Considerando un oligonucleotide, ovvero una catena a singolo filamento costituita da pochi nucleotidi (vedi fig. 15), la deossiadenosina è il primo nucleotide del filamento e quindi il carbonio 5’ del suo zucchero è legato solo al gruppo fosfato che è lasciato libero, mentre il carbonio 3’ del suo zucchero è legato al gruppo fosfato del secondo nucleotide. Chimicamente il legame che si crea tra due nucleotidi (C-OP-O-C) è un legame fosforidiesterico3 3’ → 5’, ovvero va dal carbonio 3’ verso il carbonio 5’. Questo discorso vale per tutti i nucleotidi. Infine, il terzo nucleotide dell’esempio non si lega ad altro, per questo presenta legato al carbonio 3’ un terminale ossidrilico libero (OH). Dato che chimicamente è possibile distinguere l’inizio e la fine dell’oligonucleotide in base a ciò che si lega ai carboni 5’ o 3’ e grazie alla formazione dei legami fosfodiesterici, viene data al filamento una direzionalità, ovvero una polarità in direzione 5’ → 3’. La direzionalità è fondamentale poiché nella successione dei nucleotidi della molecola è depositata l’informazione genetica che dipende dalla sequenza ordinata delle basi azotate legate ai nucleotidi. Da ciò consegue che la sequenza debba essere letta sempre e solo dal 5’ al 3’; infatti il dogma dell’informazione genetica è unidirezionale e le sequenze vengono decifrate nella formazione delle proteine solo in questa direzione. 1. I procarioti sono rivestiti da una membrana cellulare, da una parete cellulare e, eventualmente, una capsula di polisaccaridi. 2. I batteriofagi sono costituiti da una molecola di acido nucleico protetta da un capside proteico all’esterno. 3. Il legame fosfodiesterico è costituito da 2 legami esterei che si formano tra il carbonio e l’ossigeno e un fosforo che li unisce. 6 Ogni catena di acido nucleico deve dunque essere sempre scritta con il terminale 5’all’inzio e alla fine con il terminale 3’. Fig. 17 Fig.15 Fig. 16 Fig. 18 Fig. 19 1. I procarioti sono rivestiti da una membrana cellulare, da una parete cellulare e, eventualmente, una capsula di polisaccaridi. 2. I batteriofagi sono costituiti da una molecola di acido nucleico protetta da un capside proteico all’esterno. 3. Il legame fosfodiesterico è costituito da 2 legami esterei che si formano tra il carbonio e l’ossigeno e un fosforo che li unisce. 7 IL DNA Il DNA si avvolge in una doppia elica: i due filamenti interagiscono posizionando i gruppi fosfato all’esterno e le basi azotate all’interno. - I filamenti esterni di acidi nucleici sono disposti in modo antiparallelo ovvero sono direzionati l’uno opposto all’altro (vedi fig. 18). - I filamenti sono anche complementari e seguono la legge della complementarità delle basi azotate, secondo la quale l’adenina si lega sempre e solo con la timina tramite due legami idrogeno, mentre la guanina si lega sempre e solo con la citosina tramite tre legami a idrogeno. I legami a idrogeno si formano tra i diversi gruppi funzionali caratteristici di ciascuna base azotata (vedi fig. 19). I legami a idrogeno sono legami deboli, ma tra i deboli sono i più forti; sono deboli perché si possono staccare, ma sono i più forti tra i deboli perché una volta che si legano sono in grado di mantenere la struttura. Dalla legge si deduce che conoscendo la concentrazione di una base azotata si saprà anche la concentrazione di tutte le altre (vedi fig.20). Fig. 20 La legge della complementarità delle basi è molto importante in quanto permette di ricostruire un filamento partendo dal suo complementare. Esercizio: scrivere dato un filamento il filamento complementare non legato nella doppia elica (vedi fig.21). Fig. 21 1. I procarioti sono rivestiti da una membrana cellulare, da una parete cellulare e, eventualmente, una capsula di polisaccaridi. 2. I batteriofagi sono costituiti da una molecola di acido nucleico protetta da un capside proteico all’esterno. 3. Il legame fosfodiesterico è costituito da 2 legami esterei che si formano tra il carbonio e l’ossigeno e un fosforo che li unisce. 8 Studio della struttura del DNA 1952/53: studi di Franklin e Wilkins. I due ricercatori hanno scattato una fotografia del DNA tramite la diffrattometria ai raggi X evidenziandone la doppia elica. 1953: Watson e Crick. Sulla base degli studi della Franklin e di Wilkins, hanno realizzato il modello strutturale del DNA. Inoltre, hanno affermato che lo specifico accoppiamento delle basi poteva permettere loro di dedurre il possibile meccanismo di copia del materiale genetico per la trasmissione da una cellula all’altra e da una generazione all’altra. Caratteristiche della struttura del DNA (vedi fig.22) Watson e Crick hanno individuato anche le caratteristiche proprie della doppia elica del DNA: Diametro = 2 nm Basi azotate sono all’interno e perpendicolari alla struttura degli zuccheri-fosfati, distano l’una dall’altra 0,34 nm Ogni giro completo d’elica è costituito da 10 paia di basi, dunque misura 3,4 nm L’orientamento dell’elica è destrorso L’elica crea due regioni diverse (il solco maggiore e il solco minore) importanti per poter leggere il DNA poiché all’interno dei solchi sono leggibili facilmente le basi azotate da parte delle proteine che interagiscono con il DNA Ci sono varie conformazioni della doppia elica del DNA poiché è una molecola altamente dinamica (vedi fig.23) - Forma B → è la forma descritta da Watson e Crick, è la forma canonica presente nelle nostre cellule - Forma A → è una forma più allargata rispetto alla B ed è assunta quando il DNA viene estratto dalle cellule - Forma Z →è un’elica sinistrorsa, non si sa in maniera specifica a cosa serva, ma sembra che abbia una correlazione con la trascrizione del DNA durante l’espressione genica. Fig. 22 Fig. 23 1. I procarioti sono rivestiti da una membrana cellulare, da una parete cellulare e, eventualmente, una capsula di polisaccaridi. 2. I batteriofagi sono costituiti da una molecola di acido nucleico protetta da un capside proteico all’esterno. 3. Il legame fosfodiesterico è costituito da 2 legami esterei che si formano tra il carbonio e l’ossigeno e un fosforo che li unisce. 9 Il DNA è molto più stabile dell’RNA, ma per essere letto, ricopiato e replicato è necessario che la sua doppia elica sia aperta. Quando la doppia elica del DNA viene aperta avviene una denaturazione, ciò è permesso dal fatto che i legami tra le basi sono a idrogeno (deboli) e non covalenti (vedi fig.24) o In laboratorio, questa procedura avviene grazie all’aumento della temperatura che fornisce energia cin grado di scindere i legami a idrogeno. Quando poi viene riabbassata la temperatura del sistema il DNA si rinatura seguendo la complementarità delle sue basi al fine di ricreare la sua struttura di partenza. o Nelle cellule la denaturazione è catalizzata da enzimi, come l’elicasi e la polimerasi. In ogni organismo vivente ci sono inoltre forme peculiari di DNA (vedi fig.25): o Eucarioti e alcuni virus → hanno una catena lineare a doppio filamento o Batteri, virus e plasmidi → hanno una doppia elica circolare o Alcuni virus → singolo filamento circolare Fig. 25 Fig. 24 L’ RNA L’RNA è costituto da un singolo filamento (al contrario del DNA, in cui il filamento è doppio), dallo zucchero ribosio e dalla base azotata (vedi fig. 26). Talvolta l’RNA può assumere delle strutture globulari grazie a regioni nella sequenza della singola elica in cui ci sono delle complementarità, come avviene nel tRNA. Fig. 26 L’RNA non è una singola molecola ma è una classe di molecole con funzionalità diverse: L’80% dell’RNA in una cellula è RNA ribosomiale, è strutturale e non codificante, ovvero non porta informazione genetica ma permette di costruire i ribosomi necessari per la sintesi delle proteine Il 15% è RNA transfer (tRNA) che trasporta gli amminoacidi ai ribosomi e media indirettamente il processo di sintesi proteica e non è codificante 1. I procarioti sono rivestiti da una membrana cellulare, da una parete cellulare e, eventualmente, una capsula di polisaccaridi. 2. I batteriofagi sono costituiti da una molecola di acido nucleico protetta da un capside proteico all’esterno. 3. Il legame fosfodiesterico è costituito da 2 legami esterei che si formano tra il carbonio e l’ossigeno e un fosforo che li unisce. 10 Meno del 5% sono RNA messaggeri (mRNA) che portano l’informazione genetica per sintetizzare le proteine Il resto è formato da piccoli RNA non codificanti che servono per regolare l’espressione e la maturazione degli mRNA. Ad esempio, gli RNA della serie U mediano lo splicing e lo splicing alternativo e i microRNA regolano il passaggio dell’informazione genica dall’mRNA alle proteine. Unità di lunghezza delle molecole di DNA e RNA La lunghezza del DNA, essendo costituito da una doppia elica, è misurata in coppie di basi, bp (base pairs). Esempi: chilobase (103 bp), megabase (106 bp) e gigabase (109 bp) La lunghezza dell’RNA, essendo invece a singolo filamento, viene misurata in nucleotidi. Esempio: un RNA sarà lungo migliaia di nucleotidi. 1. I procarioti sono rivestiti da una membrana cellulare, da una parete cellulare e, eventualmente, una capsula di polisaccaridi. 2. I batteriofagi sono costituiti da una molecola di acido nucleico protetta da un capside proteico all’esterno. 3. Il legame fosfodiesterico è costituito da 2 legami esterei che si formano tra il carbonio e l’ossigeno e un fosforo che li unisce. 11 Sbobinatore: Valentina Borsi Revisore: Meriam Aboutaleb Materia: Biologia Generale Docente: Alessandro Barbon Data: 08.10.2024 Lezione n°: 3 Argomenti: Proteine e replicazione del DNA Il professore inizia la lezione parlando della consegna dei premi Nobel della medicina ai due scienziati Victor Ambros e Gary Ruvkun, due pionieri dello studio dei microRNA. I microRNA sono una piccola classe di RNA non codificati che regolano il meccanismo di regolazione post trascrizionale. Riprende velocemente l’ultimo argomento trattato, ovvero la struttura e la funzione degli acidi nucleici. LE PROTEINE E LA REPLICAZIONE DEL DNA Manca da descrivere l’ultima classe delle macromolecole informazionali, chiamate così in quanto portano l’informazione genetica: il DNA ne è il depositario, l’RNA ne è il trasportatore, mentre le proteine sono le vettrici dell’informazione genetica. FUNZIONE DELLE PROTEINE Ci sono proteine che svolgono moltissime funzioni: - Proteine che si occupano della struttura e la forma di una cellula o di un organismo; - Proteine che mediano la comunicazione; - Proteine che si occupano della catalisi di un metabolismo. Qualsiasi funzione che può venire in mente riguardo la cellula può essere catalizzata da almeno una proteina. Le proteine sono estremamente importanti perché sono gli “operai” che svolgono i propri ruoli all’interno della cellula. Le proteine sono dei polimeri, quindi, sono costituite da monomeri che, nel caso delle proteine, sono chiamati amminoacidi. Dal punto di vista chimico gli amminoacidi hanno una struttura di base comune, in quanto sono costituite da un carbonio alfa centrale che forma 4 legami: un legame viene perso con un protone, altri due legami importanti sono con un gruppo amminico (NH3+) e un gruppo carbossilico (COO-); solitamente NH3+ e COO- sono sostanze idratate in soluzione. Quella appena sopra descritta è la struttura di base degli amminoacidi. Ciò che va a differenziare gli amminoacidi gli uni dagli altri è la cosiddetta catena laterale o gruppo R (radicale). Gli elementi chimici che sono presenti nella catena laterale identificano le caratteristiche dei singoli amminoacidi che, a cascata, vanno a caratterizzare le proteine/catene polipeptidiche in cui essi sono presenti. Figura 1 1 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali I nostri amminoacidi possono essere divisi in tre grandi classi in base alle loro caratteristiche di interazioni o meno con la molecola d’acqua. Si classificano in: Non polari: non presentano nessun tipo di carica, né parziale né netta. Questi amminoacidi non interagiscono con l’acqua, quindi, sono idrofobici (10 amminoacidi); Polari: sono parzialmente carichi e, quindi, riescono a legarsi e interagire con le molecole d’acqua; Elettricamente carichi: hanno una carica elettrica netta e, quindi, sono idrofilici. Ci sono 20 comuni amminoacidi, riportati nella tabella accanto (vedi fig. 2)1. Ecco le caratteristiche principali degli amminoacidi, suddivisi nelle tre classi: - Amminoacidi polari: sono in tutto 5 e ciò che li rende polari è la presenza dell’ossigeno, che è altamente elettronegativo, nel gruppo carbonilico o nel gruppo ossidrile; - Amminoacidi elettricamente carichi: hanno una carica elettricamente netta, sono delle basi o degli acidi. Figura 2 Acidi: L’acido aspartico (aspartato) e l’acido glutamico (glutammato) presentano nella catena laterale un gruppo carbossilico e gruppi metilici che si ripetono. Basi: sono costituite dal gruppo amminico, quindi, hanno una carica elettrica positiva; - Amminoacidi non polari: non hanno carica perché nella catena laterale non c’è alcun elemento che possa avere una carica elettrica. La glicina ha la particolarità di essere l’amminoacido più piccolo in quanto ha come gruppo R un protone. La valina, la leucina e l’isoleucina hanno catene laterali più ramificate rispetto la glicina e l’alanina. Il triptofano ha una catena laterale molto più complessa in quanto formata da due anelli aromatici. La prolina ha caratteristiche peculiari in quanto a livello della catena laterale si può ripiegare su sé stessa e tende ad essere presente nelle regioni delle proteine dove ci sono ripiegature. La cisteina presenta il gruppo -SH, molto importante poiché crea un legame molto forte, ovvero il ponte disolfuro, un legame covalente che dà forza e resistenza alle proteine nelle strutture superiori. La metionina ha uno zolfo (S) e, infine, c’è la fenilalanina. Tutti questi sono amminoacidi con caratteristiche chimiche molto differenti. Esistono altri 2 amminoacidi, oltre ai 20 comuni, scoperti negli ultimi anni: Selenocisteina: non viene codificata, ma è una modifica della serina; Pirrolisina: è stata trovata in un metano batterio ed è il risultato di una modificazione. Si riprenderanno questi due amminoacidi quando si parlerà della traduzione. La presenza dei 20 amminoacidi comuni nella catena polipeptidica caratterizza le proprietà chimico-fisiche di quella catena. Come si crea la catena polipeptidica Gli amminoacidi, essendo monomeri, devono essere legati insieme per creare qualcosa di più grande, ovvero il polimero. Il legame che si forma tra gli amminoacidi è un legame covalente, come il legame presente tra gli acidi nucleici (legame fosfodiesterico), e prende il nome di legame peptidico. Quando si legano due amminoacidi insieme si porta alla formazione di un peptide (=piccola proteina). 2 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali Come si forma il legame peptidico Questo legame si crea mediante reazione di condensazione, facendo interagire il gruppo carbossilico del primo amminoacido con il gruppo amminico del secondo amminoacido, perdendo una molecola d’acqua, e si crea un legame covalente tra il carbonio del gruppo carbossilico del primo e l’azoto del gruppo amminico dell’amminoacido successivo. figura 3 Se si mettono assieme più amminoacidi avviene la stessa cosa: si creano legami peptidici tra il gruppo carbossilico del primo amminoacido con il gruppo amminico del secondo amminoacido. Esempio: se ho 4 amminoacidi, si formano 3 legami peptidici. Dal punto di vista chimico, come per gli acidi nucleici, anche per gli amminoacidi è possibile identificare un inizio e una fine: l’inizio è costituito dal gruppo amminico del primo amminoacido, ovvero della metionina, e definisce l’N terminale delle proteine. Tutte le nostre proteine iniziano sempre con la metionina perché essa riconosce ciò che viene definito “sito d’inizio della traduzione”. Ciò che viene dopo la metionina può essere qualsiasi cosa in quanto dipende da ciò che è scritto nella molecola di RNA. La fine del polipeptide è definita dal gruppo carbossilico dell’ultimo amminoacido e identifica il C terminale (carbossil-terminale). Se si va a definire quale è il susseguirsi dei diversi amminoacidi in una proteina, si sta definendo la cosiddetta struttura primaria della proteina. Quindi, la semplice combinazione dei diversi amminoacidi di una proteina identifica la sua struttura primaria. Esempio riportato qui sotto (vedi figura 4) è la struttura primaria dell’insulina: è stata scoperta da F. Sanger che ha preso due premi Nobel, uno perché ha identificato la struttura primaria dell’insulina e l’altro perché si è inventato un metodo di sequenziamento del DNA che tutt’oggi viene utilizzato in laboratorio ed è definito metodo Sanger. figura 4 Le proteine hanno anche una forma nello spazio, ovvero una forma tridimensionale. La prima forma tridimensionale, che parti di proteine possono assumere, prende il nome di struttura secondaria. Con il termine “struttura secondaria” si identificano delle regioni di una catena polipeptidica che può conformarsi nello spazio. Quando si 3 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali identifica una regione di una proteina che ha una struttura peculiare, si identifica un dominio proteico. Quando si fa riferimento a un dominio proteico non si parla di un’intera proteina, ma di una regione più o meno grande che può avere una sua forma tridimensionale nello spazio. Le strutture secondarie in genere sono due: Alfa-elica: è il primo livello di struttura tridimensionale (vedi fig. 5). Diversi amminoacidi si arrotolano su sé stessi, formando un’elica destrogira che poi viene stabilizzata da legami idrogeno o anche legami idrofobici che si instaurano tra i vari componenti degli amminoacidi, quindi, i gruppi carbossilici e amminici e le catene laterali che si trovano nelle vicinanze; Foglietto-beta pieghettato: avviene quando la catena polipeptidica non si arrotola su sé stessa, ma rimane lineare. La parte basale degli amminoacidi rimane sullo stesso piano, ma visto che il carbonio-alfa è ibridato sp3 (ciò significa che i legami sono distribuiti nello spazio in maniera regolare), quello che avviene è che il piano risulta essere pieghettato e non piano (vedi fig.6). Le due strutture sopra elencate definiscono le strutture secondarie che vengono assunte da domini proteici, quindi, piccole regioni delle proteine. Figura 5 Figura 6 Le catene polipeptidiche nella loro interezza possono assumere delle strutture tridimensionali vere e proprie, che contengono al loro interno domini ad alfa-elica, domini a foglietto-beta pieghettato e domini privi di una struttura classica. Queste strutture tridimensionali vengono chiamate strutture terziarie delle proteine. La struttura terziaria è la vera e propria struttura tridimensionale che una singola catena polipeptidica assume nello spazio (vedi fig.7). figura 7 4 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali Quando è che si ha un dominio ad alfa-elica e un dominio a foglietto-beta pieghettato? Dipende dagli amminoacidi presenti in quella sequenza della proteina. Tendenzialmente, i domini ad alfa-elica sono formati da amminoacidi apolari; queste tipologie di dominio formano le proteine transmembrana, coloro che riescono ad attraversare il doppio strato fosfolipidico altamente idrofobico. I foglietti-beta sono, invece, formata di solito da amminoacidi polari, carichi elettricamente. La vera struttura terziaria di una proteina nello spazio deve essere ben strutturata e la forma viene stabilizzata da interazioni con amminoacidi che si trovano nelle vicinanze, ovvero giustapposti (uno di fronte all’altro). I legami che stabilizzano queste proteine sono tutti i legami che possono crearsi tra due amminoacidi che si trovano nelle vicinanze; si possono trovare interazioni elettrostatiche, legami idrogeno e anche ponti disolfuro che sono i legami più forti perché sono legami covalenti (c’è interazione tra gli elettroni e, quindi, è necessaria maggiore forza per spezzarli e liberare energia). Gli altri legami sono più deboli e, quindi, più facili da spezzare. La formazione di un ponte disolfuro avviene quando due amminoacidi cisteina, che portano il gruppo solfidrico -SH, si trovano non uno di fianco all’altro nella catena polipeptidica, ma uno di fronte all’altro nella struttura tridimensionale della proteina stessa. Si crea il legame covalente mediante reazione di ossidazione e si crea il legame forte (vedi fig. 8). figura 8 Riassumendo, le proteine sono polimeri e sono costituite da amminoacidi, che si legano tra di loro mediante legami peptidici. Si crea la prima struttura, ovvero la struttura primaria, che è semplicemente il definire i singoli monomeri dall’N terminale al C terminale. Successivamente, le proteine possono assumere un primo livello di struttura tridimensionale, chiamata struttura secondaria: regioni della proteina possono conformarsi in alfa-elica e foglietti- beta. Poi queste strutture vanno a comporre la vera e propria struttura tridimensionale della proteina, ovvero come nello spazio si forma una catena polipeptidica, e in questo caso si parla di struttura terziaria. Soprattutto proteine che costituiscono gli enzimi non funzionano da sole, ma solo in associazione con altre catene polipeptidiche; quando si ha l’unione di diverse catene polipeptidiche, si ha la struttura quaternaria. Esempio per la struttura quaternaria è l’emoglobina, costituita da quattro catene polipeptidiche di cui due alfa e due beta globine, che creano un complesso multiproteico, ovvero l’emoglobina, chiamata così perché è presente il gruppo eme (vedi fig. 9). 5 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali Figura 9 Un altro importante esempio di molecola che assume struttura quaternaria sono le fibre di collagene (si vedranno quando si tratterà della matrice extracellulare); esse sono le strutture proteiche più grandi presenti nei nostri tessuti, e sono costituite a livello molecolare da tre proteine di collagene che si arrotolano insieme per dare una struttura forte e resistente. Altro esempio importante di struttura quaternaria sono gli anticorpi (vedi fig. 10), formati da diverse catene polipeptidiche unite assieme dai ponti disolfuro che in questo caso non solo danno forza alla struttura terziaria, ma riescono anche a dare forma a una struttura quaternaria. Figura 10 Abbiamo concluso la parte riguardante le macromolecole informazionali, molto importanti in quanto mediano l’informazione genetica. Parlando di acidi nucleici, si considera strutture di molecole che hanno un alfabeto a quattro lettere, mentre con le proteine si ha un alfabeto con 20 lettere. Nelle prossime lezioni vedremo come la cellula mette in atto un meccanismo per cambiare alfabeto, per leggere qualcosa scritto in quattro lettere e scrivere qualcosa, utilizzando 20 lettere. Vedremo i vari passaggi del dogma centrale della biologia che ci indica come l’informazione genetica passa dal DNA all’RNA per dare le proteine. Il dogma centrale dice anche come l’informazione genetica presente sul DNA viene trasmessa di generazione in generazione. In questa lezione tratteremo del primo step: come il DNA può replicarsi, ovvero formare molecole simili a sé stesse. PROCESSO DI REPLICAZIONE Bisogna ricordarsi come è formato il nostro DNA: è una doppia elica costituita da due filamenti che si avvolgono tra di loro in senso destrogiro. I due filamenti sono antiparalleli, ciò significa che, se si segue la direzione 5’ → 3’ di un filamento, l’altro va in direzione opposta e parallela. Altra caratteristica è la legge della complementarità delle basi: dato un filamento è possibile leggere e creare un filamento complementare. Alcuni scienziati si sono posti la domanda di come si replicava il DNA. Innanzitutto, è necessario capire cosa si intende con metodo scientifico: io ho un problema, ipotizzo soluzioni e faccio esperimenti che confermano o smentiscono la mia ipotesi. 6 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali Nel caso della replicazione si possono avere diverse ipotesi che possono essere funzionali per creare, a partire da una molecola, due molecole figlie. Si parte da un DNA parentale, ovvero il DNA originario (solitamente è colorato di blu), e si devono creare due molecole figlie. I filamenti di nuova sintesi tendenzialmente vengono colorati di rosso. Le diverse ipotesi sono in tutto 3: REPLICAZIONE SEMICONSERVATIVA: significa che in qualche modo la cellula apre la doppia elica di DNA parentale e ogni suo filamento fa da stampo per il filamento di nuova sintesi. Si formano due nuove doppie eliche e ciascuna è formata da un filamento di nuova sintesi e uno vecchio, quindi, parentale. Ciò significa che si conserva metà della molecola precedente (vedi fig. 11a); REPLICAZIONE CONSERVATIVA: in questo caso si apre la doppia elica di DNA parentale e i filamenti fanno da stampo per formare una nuova molecola di DNA a doppia elica completamente sintetizzata. Nella trasmissione dell’informazione genetica viene conservata la molecola parentale e viene creata una nuova molecola di DNA. Questa replicazione è definita “conservativa” perché si conserva pienamente il DNA parentale e si crea contemporaneamente una doppia elica completamente nuova (vedi fig. 11b); REPLICAZIONE DISPERSIVA: in questo altro caso la doppia elica parentale non solo si apre e fa da stampo, ma viene anche tagliata e ricucita. Quindi, si formano due doppie eliche che hanno sia pezzi di filamenti vecchi sia pezzi di filamenti nuovi (vedi fig. 11c). Figura 11 Per capire quale è l’ipotesi giusta tra le tre, gli scienziati Meselson e Stahl nel 1958 sono andati ad analizzare come si replicava il DNA dei batteri perché sono più semplici da studiare, si riproducono in tempi brevi ed è possibile studiarli in laboratorio. I due scienziati hanno preso dei batteri e li hanno fatti crescere in un terreno con una caratteristica: esso conteneva un isotopo di azoto pesante non radioattivo. Hanno fatto crescere i batteri per tanto tempo in questo terreno. È stato scelto l’azoto per gli esperimenti in quanto esso è contenuto all’interno delle basi azotate. Il DNA di questi batteri è formato completamente da azoto pesante. I batteri sono stati inseriti all’interno di una beuta e, attraverso purificazioni, è stato possibile estrarre il loro DNA e, successivamente, è stato centrifugato in particolari provette con uno specifico gradiente. La molecola di DNA con azoto pesante sarà pesante dal punto di vista di peso e di massa e va a cadere nel fondo della provetta; infatti, si vede nella provetta una banda più scura che sta ad indicare che lì c’è del DNA. Quindi, il dato sperimentale è che si ha una banda di azoto pesante in fondo alla provetta. 7 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali Gli scienziati poi hanno preso una parte dei batteri e hanno cambiato ambiente: un terreno contenente azoto leggero. Hanno fatto crescere i batteri per 20 minuti che è il tempo limite per far avvenire un ciclo di replicazione, quindi, i batteri si sono riprodotti una sola volta. Per quanto riguarda il DNA, esso si è replicato una volta in un terreno dove i nucleotidi erano con azoto leggero; il risultato è che il DNA formato è leggero. Successivamente hanno estratto la molecola di DNA dei batteri: il primo dato interessante è che il DNA non cadeva in fondo alla provetta, ma risultava un po’ più leggero e, quindi, un po’più alto. Viene fatto un secondo esperimento, sempre da Meselson e Stahl: essi hanno fatto crescere gli stessi batteri per altri 20 minuti. C’è stata un’altra replicazione del DNA nello stesso terreno leggero. Ancora una volta il DNA sintetizzato risulta essere leggero. Questa volta, estraendo il DNA, non si ottiene una singola banda, ma due bande, ovvero due gruppi di molecole con due pesi differenti: uno intermedio e l’altro leggero (sempre più in alto all’interno della provetta). figura 12 Questi sono i dati sperimentali per quanto riguarda la replicazione del DNA. Ora bisogna capire quali delle ipotesi è conforme con i dati sperimentali. figura 13 Con il blu scuro si indica la molecola cresciuta in terreno pesante, azzurro chiaro è la molecola cresciuta in terreno leggero. Con HH si indica heavy heavy (=pesante), con LH heavy light (=intermedio) e, infine con LL si indica light light (= leggero). 8 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali Replicazione semiconservativa: si replica il DNA e si creano filamenti con nucleotidi che sono leggeri. Apro il DNA che ha filamenti pesanti, i due filamenti si aprono, avviene la replicazione in terreno leggero e, quindi, si creano filamenti di acidi nucleici che sono leggeri. La molecola che viene a formarsi è costituita da un filamento pesante e uno leggero. Le due molecole che si ottengono sono identiche, quindi, non è possibile distinguerle durante la centrifugazione. Il peso del DNA ottenuto è intermedio e il risultato di questo esperimento è coerente con quello dell’esperimento precedente. La replicazione semiconservativa è corretta; Replicazione conservativa: la doppia elica pesante si apre, i due filamenti fanno da stampo per creare una doppia elica leggera, mentre la doppia elica pesante si richiude. I due filamenti di DNA nella replicazione conservativa non hanno lo stesso peso, una è pesante e l’altra è leggera. Non è conforme con i dati sperimentali precedenti; Replicazione dispersiva: in questo caso si creano due molecole di DNA che sono un po’ pesanti e un po’ leggere. Esse sono uguali tra di loro e il loro peso è intermedio. Quindi, questo risultato è conforme con i dati sperimentali. I due scienziati hanno fatto un ulteriore esperimento, un’ultra replicazione in quanto quella semiconservativa viene portata avanti positivamente dai dati sperimentali ottenuti, ma c’è anche un altro tipo di replicazione che viene avvalorata dai dati sperimentali, ovvero la replicazione dispersiva. Con questo ulteriore esperimento si è visto che nella replicazione dispersiva le due molecole di DNA in qualche modo hanno creato entrambe altre due molecole figlie un po’ leggere e un po’ pesanti. Il risultato in questo caso indica bande completamente distinte, una intermedia e l’altra leggera; quindi, questa ipotesi di replicazione è da scartare. Viene riconsiderata la replicazione semiconservativa per un ulteriore conferma: partendo da due doppie eliche con un filamento pesante e uno leggero, il filamento pesante fa da stampo per un filamento leggero, il filamento leggero fa da stampo per un altro filamento leggero. In questo caso si ottiene una completamente leggera e l’altra intermedia. Quindi, questa ipotesi è avvalorata dai dati sperimentali. Gli esperimenti di Meselson e Stahl hanno identificato che la replicazione è unicamente semiconservativa sia nei procarioti che negli eucarioti. Ciò indica che in ogni molecola neoformata una elica della doppia elica è parentale ed è quella che ha fatto da stampo per creare una nuova molecola neoformata semiconservativa. Come avviene la replicazione La replicazione avviene attraverso un processo di polimerizzazione; gli acidi nucleici vengono generati attraverso questo processo che implica che i singoli nucleotidi vengano legati uno con l’altro in direzione 5’ → 3’ dall’inizio alla fine. Gli enzimi che mediano questo processo, per polimerizzare in direzione 5’ → 3’, devono leggere il filamento stampo in direzione opposta, 3’ → 5’. Quindi, per poter polimerizzare serve un filamento stampo che viene letto nella direzione opposta, ovvero 3’ → 5’. Si usa la legge della complementarità per formare il nuovo filamento e non serve capire ciò che c’è scritto. Il nome di un enzima viene dato in base alla funzione che deve svolgere. Gli enzimi che mediano la polimerizzazione del DNA sono le DNA polimerasi e ce ne sono tante: nei procarioti sono 5, mentre negli eucarioti si arriva fino a 15. Tutte queste DNA polimerasi diverse (vedi tabella 14) hanno dei ruoli specifici: ce ne sono alcune adibite alla polimerizzazione processiva del DNA, altre che si occupano della correzione del DNA e così via. 9 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali figura 14 Come avviene la polimerizzazione Con polimerizzazione si intende l’aggiunta dei singoli nucleotidi. È necessario capire come la DNA polimerasi crea il legame fosfodiesterico. Il filamento di nuova sintesi, quello rosso, si accresce sempre in direzione 5’ → 3’ perché la DNA polimerasi per funzionare ha bisogno di qualcosa dove legare i singoli nucleotidi, e questo qualcosa è l’estremità -OH libero di una molecola di DNA (o di RNA) neoformata. Così facendo, la DNA polimerasi, rappresentata come una grossa ciambella, sul filamento di nuova sintesi deve inserire il nucleotide che è complementare a quello del filamento stampo. La DNA polimerasi catalizza una reazione di polimerizzazione che induce inizialmente il taglio del legame tra il primo gruppo fosfato e il secondo gruppo fosfato, che è un legame fosfoandro ad alta energia. Si lega e si crea il primo legame fosfodiesterico 3’ → 5’. L’energia per la creazione di questo nuovo legame viene dato dalla scissione del primo legame fosfoandro che, scindendosi, va a creare lo ione pirofosfato, altra molecola ad alta energia. La DNA polimerasi è in grado di scindere anche quest’altro legame fosfoandro e dare energia al sistema. Quindi, per far andare avanti la polimerizzazione, oltre all’enzima, serve l’energia presente in questi legami. È questo il motivo per cui la polimerizzazione può avvenire solo nella direzione 5’ → 3’, perché serve l’estremità 3’ -OH libera, dove è possibile legare un’estremità fosfato dopo aver scisso i legami fosfoandri ad alta energia. 10 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali figura 15 È importante ricordare che una molecola di acido nucleico si accresce sempre in direzione 5’ → 3’, ma il filamento stampo viene letto in direzione 3’ → 5’. La polimerizzazione deve avvenire sulla molecola di DNA, che è una doppia elica in cui i due filamenti sono attaccati tra di loro, quindi, inizialmente non si riesce a leggere il filamento stampo. Prima dell’azione della DNA polimerasi è necessario rendere leggibile la molecola di DNA. Prima della replicazione ci deve essere l’apertura e la stabilizzazione della doppia elica. La DNA polimerasi agisce solo alla fine, prima agiscono altri enzimi: le DNA elicasi, che si legano nello specifico in determinati punti del DNA, sia procariotico che eucariotico, che vengono chiamati origini di replicazione. Le DNA elicasi sono in grado di riconoscere il punto di inizio della replicazione e denaturano la doppia elica, ovvero rompono i legami idrogeno. Così facendo si crea la bolla di replicazione in cui i due filamenti si sono aperti (vedi fig. 16). La doppia elica però tende a rinaturarsi, in quanto il DNA è più stabile in quella struttura. Se il DNA non venisse stabilizzato, i filamenti tenderebbero a richiudersi e ricreare la doppia elica. Vengono stabilizzati da proteine, chiamate proteine di srotolamento: queste proteine hanno un’azione cooperativa, nel senso che una singola proteina si lega al filamento e richiama le altre proteine una dietro l’altra; così facendo esse ricoprono i singoli filamenti e stabilizzano i due filamenti aperti del DNA, quindi, la bolla di replicazione. Le DNA elicasi intanto scorrono lungo il DNA e aprono la doppia elica. Una elicasi va da una parte e l’altra dalla parte opposta. La DNA elicasi forma delle regioni, chiamate forcelle di replicazione. La bolla di replicazione è formata da due forcelle di replicazione, una per ogni DNA elicasi che vanno in direzioni opposte. In queste forcelle avviene la vera e propria replicazione del DNA. 11 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali figura 16 La replicazione nei procarioti I procarioti sono semplici, non hanno compartimentazione e il DNA è situato all’interno del citoplasma, in particolare nel nucleoide; il DNA dei procarioti è circolare, si parla di cromosoma batterico circolare poiché il DNA non ha né un inizio né una fine ed è super avvolto in quanto si ripiega su sé stesso per riuscire a stare all’interno del nucleoide. Il genoma dei batteri, che è una singola molecola di DNA, è grande circa 4 milioni di nucleotidi. Il DNA di questi batteri è lungo circa 1,36 millimetri. Tutto questo genoma deve essere racchiuso all’interno di un organismo che è grande circa 10 micron ed è per questo motivo che il DNA risulta non rilassato, ma estremamente ripiegato su sé stesso. figura 17 12 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali Come avviene la replicazione batterica Nei batteri si ha un DNA circolare che deve essere replicato. In questi organismi c’è solo un’origine di replicazione, chiamato OriC. In questo punto arrivano gli enzimi che riconoscono l’origine di replicazione, aprono la bolla di replicazione, si creano le due forcelle replicative che, nel processo di polimerizzazione, andranno una da una parte e una dall’altra; andranno a creare le due doppie eliche figlie, scontrandosi nella posizione opposta del punto OriC. figura 18 Questa origine di replicazione è caratterizzata da cassette di sequenze/ box di sequenze, ovvero piccole regioni del DNA che hanno delle sequenze consenso e che si ritrovano identiche in diversi organismi (sono conservate durante l’evoluzione). Sono cassette che mediano l’inizio della replicazione e risultano essere di piccole dimensioni poiché sono formate da 9-10 nucleotidi. Queste cassette vengono riconosciute nei batteri dalle proteine dnaA: esse si legano con il DNA e identificano che quella regione è dove deve avvenire la replicazione. Queste proteine piantano una bandiera sul DNA batterico, segnando che in quel punto c’è l’inizio della replicazione. Quando si riconoscono diverse cassette, esse richiamano su sé stesse altre proteine, tra cui le DNA elicasi e le dnaB che aprono la bolla di replicazione e vanno a formare le forcelle di replicazione. L’apertura della doppia elica di DNA ha un problema: quando si ha una molecola a doppia elica di DNA e si cerca di denaturarla, la forza che si induce nell’apertura del DNA determina la formazione di superavvolgimenti nella regione a valle dell’elica. Si aprono avvolgimenti che poi si richiudono e questo aspetto inibisce il processo di replicazione. Per questo motivo agiscono altri enzimi che controllano le DNA elicasi e le DNA polimerasi, ovvero le DNA topoisomerasi (isomerizzano la topografia del DNA): creano dei tagli nella doppia elica del DNA prima che arrivi la forcella di replicazione, permettendo ai due filamenti di roteare su sé stessi per perdere i superavvolgimenti. La DNA topoisomerasi, inoltre, mette in sicurezza le estremità tagliate e poi le ricuce insieme. Ciò permette che i superavvolgimenti vengano risolti per determinare una tranquilla continuazione della replicazione del DNA. Quindi, dal punto di vista strutturale l’apertura della doppia elica crea un problema, ovvero la formazione dei superavvolgimenti che impedirebbero la continuazione della replicazione. Però, questi superavvolgimenti vengono risolti dalle DNA topoisomerasi che permettono ai filamenti di rilassarsi e perdere questi superavvolgimenti e determinare il continuo del processo. L’enzima principale della replicazione nei batteri è la DNA polimerasi III ed è un oloenzima, ciò significa che è formata da diverse catene proteiche che si uniscono insieme per creare l’enzima processivo. La DNA polimerasi III assume una forma a ciambella, detta anche a pinza, che è la cosiddetta morsa scorrevole: è un dimero proteico che si lega al DNA e blocca la parte catalitica della DNA polimerasi sulla singola elica. Figura 19 13 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali Quindi, il dimero (=morsa scorrevole) va a bloccare il nucleo catalitico della DNA polimerasi III, formato da diverse proteine che hanno funzioni differenti come, ad esempio, correggere eventuali errori. La DNA polimerasi ha un problema: è abile a polimerizzare, procede in modo efficiente (500 mila nucleotidi al secondo), però gli serve qualcosa prima di iniziare a polimerizzare. È necessario un innesco, ovvero un primer. Dal punto di vista chimico serve un 3’ -OH, qualcosa dove attaccare i singoli nucleotidi. Questo attacco è creato da un altro enzima ovvero dalla primasi, che è una sorta di RNA polimerasi che ha la capacità di riconoscere la singola elica di DNA e anche quella di polimerizzare una catena di acidi nucleici, partendo dal nulla. La primasi, essendo una RNA polimerasi, inserisce una corta molecola di RNA, che farà da innesco per la DNA polimerasi. 14 1 Non bisogna sapere le strutture delle catene laterali Sbobinatore: Luna Brena Revisore: Ramanjot Kaur Materia: Biologia Generale Docente: Alessandro Barbon Data: 09/10/2024 Lezione n°: 4 Argomenti: Replicazione nei procarioti ed eucarioti REPLICAZIONE NEI PROCARIOTI ED EUCARIOTI Nella lezione precedente abbiamo iniziato a parlare della replicazione del DNA, e in particolare del processo che avviene nei procarioti, che ora andremo a terminare. REPLICAZIONE NEI PROCARIOTI Meccanismo di replicazione dei procarioti ed enzimi coinvolti La DNA polimerasi, come detto, è un oloenzima, costituito da caratteristiche proteine, la cui principale è rappresentata dalla “morsa scorrevole”, che si lega al DNA e mantiene la parte catalitica dell’enzima legata per bene al proprio innesco. Questo perché la DNA polimerasi è capace di polimerizzare ma non di iniziare il processo. Il processo di replicazione vero e proprio parte dall’azione di un altro enzima, chiamato primasi, che è una sorta di RNA polimerasi, un enzima quindi in grado di polimerizzare una piccola sequenza di RNA, un innesco detto primer, che darà poi il via alla polimerizzazione. Nella bolla di replicazione vi sono due forcelle di replicazione, ma ci focalizziamo solamente su una delle due forcelle create. Tuttavia il processo accade Figura 1 in egual modo anche nell’altra forcella. Andiamo a vedere i passaggi che avvengono sui due filamenti stampo e come questi vengono ad essere copiati. Inizialmente prendiamo il filamento stampo superiore in direzione 5’— 3’ : qui si lega la Primasi (RNA polimerasi DNA dipendente) e crea un piccolo Primer (20/30-200 nucleotidi), ma poi si stacca. (Vedi figura 1) Una delle caratteristiche infatti di questa Primasi è quella di riuscire a iniziare la polimerizzazione del filamento di DNA, ma di non essere molto processiva e non riuscire ad andare avanti per molti nucleotidi, dunque essa si stacca creando una piccola molecola. Alla piccola molecola creata si lega la DNA polimerasi principale dei batteri, ovvero la DNA polimerasi III, in particolare si lega all’estremità 3’-OH libera del primer, dove poter poi iniziare a legare i successivi nucleotidi, e quindi polimerizza seguendo la complementarità delle basi in direzione 5’—3’. (Vedi figura 2) Figura 2 1 Figura 3 L’elicasi continua la sua azione di aprire la doppia elica del DNA e la DNA polimerasi continua a polimerizzare senza interruzioni nel filamento stampo 3’—5’. Riscontra invece delle difficoltà nel filamento stampo opposto: infatti, a monte di quello che ha appena polimerizzato, si è aperto un filamento stampo da polimerizzare e quindi la polimerasi dovrebbe saltare indietro, riattaccarsi alla forcella di replicazione e copiare in direzione opposta rispetto ad essa (perché può polimerizzare sempre e soltanto nell’unica direzione 5’—3’). Si trova poi però a scontrarsi con il filamento appena sintetizzato che è presente a valle e quindi deve ritornare indietro a ripetere il processo e formare un altro frammento, e procede in questo modo. Quindi per il DNA, per come è fatto e per come sono direzionati e si aprono i due filamenti stampi, abbiamo due sistemi differenti di copiatura e formazione dei filamenti di nuova sintesi : in un caso il filamento viene copiato in maniera continua e senza interruzioni, in maniera veloce (si parla infatti di leading strand, “filamento guida o filamento anticipato”), nell’altro invece il filamento viene copiato a frammenti (chiamati frammenti di Okazaki, dallo scienziato che ha definito la loro presenza) e questo comporta anche un rallentamento nella tempistica di replicazione (il filamento viene chiamato dunque lagging strand, ovvero “filamento ritardato”). Nel lagging strand ci troviamo quindi ad avere una serie di piccoli frammenti, tutti con davanti una piccola parte di RNA, ed è necessario l’intervento di altri enzimi che vanno a togliere i primer e legare insieme i frammenti di Okazaki. Interviene quindi la DNA polimerasi I, che ha la capacità di riconoscere e degradare i nucleotidi ad RNA, e sostituirli con dei deossinucleotidi (nucleotidi a DNA) avendo quindi una attività esonucleasica (ovvero di degradazione di acidi nucleici dalle loro estremità). La DNA polimerasi I non è però in grado di “chiudere i buchi”, creando i legami fosfodiesterici. A questo scopo interviene un altro enzima, chiamato DNA ligasi, che unisce i vari frammenti di Okazaki. *Il professore fa vedere un video di dimostrazione della replicazione diversa nei due filamenti.* Lo stesso identico processo avviene anche nell’altra forcella di replicazione, ciò che cambia però è la direzionalità dei filamenti stampo : ciò che prima era il filamento guida risulterà essere il filamento ritardato, e viceversa. Modello a trombone Questo movimento continuo frammentato sul filamento tardivo non è ideale dal punto di vista energetico per la cellula, e quindi si parla di un modello a trombone, in cui si crea un grosso complesso multi proteico che segue l’elicasi e la forcella di replicazione. (Vedi figura 4) Figura 4 2 Questo complesso viene chiamato “fabbrica di replicazione”, o replicone, e corre sempre verso la forcella di replicazione, a seguito del quale il DNA si ripiega su se stesso, creando delle anse, per portare la parte che si è aperta dalla elicasi indietro rispetto alla forcella di replicazione, e quindi portandola fondamentalmente sulla DNA polimerasi che deve essere attivata. Questo serve a permettere al complesso di seguire la forcella di replicazione e far in modo che entrambi i filamenti vengano copiati in modo efficiente. Il replicone è stabilizzato da un altro complesso di proteine che prendono il nome di “caricatori della morsa” e che permettono una maggiore efficienza di replicazione. Replicazione negli Eucarioti Negli Eucarioti avvengono gli stessi meccanismi ma con una complessità maggiore. Questo è dovuto al fatto che il DNA degli eucarioti è maggiormente complicato. Dna Gli organismi eucarioti si sono caratterizzati dalla presenza di diversi compartimenti cellulari tra cui il nucleo, uno dei pochi organuli della cellula che presenta una doppia membrana, formata da uno stesso strato di fosfolipidi, che fornisce un’elevata resistenza al nucleo stesso. E’ proprio dentro il nucleoplasma presente nel nucleo della cellula che è localizzato il DNA, protetto quindi dalla resistente membrana nucleare. La membrana nucleare non ha la funzione solo di proteggere di DNA, bensì risulta anche essenziale in quanto è “bucherellata” da una serie di strutture chiamate pori nucleari, che, come dogane, permettono il passaggio dentro e fuori dal nucleo di sostanze, tra cui tutti gli enzimi necessari alla replicazione del DNA. Infine la membrana nucleare è anche protetta da una rete proteica definita lamina nucleare, che fa parte del citoscheletro della cellula e fornisce forza e resistenza al nucleo stesso, grazie alle proteine “lamine” che la compongono e che creano dei lunghi filamenti. Il nucleo appare così ben protetto proprio perché contiene il nostro patrimonio genetico. Per la maggior parte della vita della cellula noi non siamo in grado di vedere il DNA: l’unica cosa che riusciamo vedere, anche utilizzando un microscopio elettronico, è una regione scura, che corrisponde al cosiddetto nucleolo, che non è un organulo, bensì una regione dove si concentra tanto materiale (per questo appare scuro, elettrondenso, al microscopio elettronico). La doppia elica però non è osservabile. Quando parliamo di DNA eucariotico, ed in particolare degli uomini, dobbiamo fare attenzione al nome che usiamo per identificarlo in quanto un nome particolare indica una struttura particolare. Innanzitutto iniziamo con il dire quanto DNA è presente nelle cellule eucariotiche: 6 miliardi di nucleotidi X 0.34 nm = 2 m Il nucleo è però grande come un batterio, o poco più (attorno ai 15 micron) e quindi il DNA deve essere impacchettato e non avvolgerlo semplicemente come accade con i cromosomi batterici. Quindi il DNA lungo descritto da Watson e Crick non esiste all’interno delle nostre cellule, bensì è sempre appoggiato a delle proteine e le proteine in questione sono gli istoni. Gli istoni hanno una particolarità, ovvero sono delle proteine basiche e quindi stanno bene associate al DNA che è un acido ( i due si associano proprio per interazione base-acido). Gli istoni si presentano in quattro tipi diversi identificati con un numero: H2A, H2B, H3 e H4. Questi si presentano sempre in coppie e pertanto abbiamo un dimero per H2A, un dimero per H2B un dimero per H3 Figura 5 e un dimero per H4. Si forma così quindi il cosiddetto ottamero istonico e a questo si associa, per due giri d’elica, il DNA andando a creare una struttura nota in genere come nucleosoma. (Vedi figura 5) 3 Tra un nucleosoma e l’altro abbiamo del DNA spaziatore, cioè non associato ad altre proteine. Questa struttura appena descritta è la cosiddetta “collana di perle”( o struttura a 10 nanometri) e può essere visibile con una microscopia elettronica ad alta risoluzione. Abbiamo così accorciato il DNA, ma non abbastanza. I diversi nucleosomi vengono stabilizzati da un ulteriore istone, ovvero l’istone H1, che si lega all’esterno del nucleosoma e stabilizza il DNA. Inoltre l’istone H1 va a prendere contatto con un altro istone H1 (testa-coda / testa-coda) : si avvicinano così i diversi nucleosomi, e viene a crearsi un’altra struttura chiamata “a solenoide” ( o struttura a 30 nanometri). A questo punto il DNA non è ancora del tutto impacchettato, ma possiamo iniziare a dare dei nomi diversi a ciò che stiamo vedendo: quando si prende il DNA associato agli istoni, si sta descrivendo la cromatina. Con il termine Cromatina si identifica quindi il DNA nucleare, associato alle proteine istoniche. La cromatina poi può prendere delle strutture più o meno compatte. Il solenoide si ripiega creando delle anse e andando a creare così la struttura ad anse: queste anse non stanno in piedi da sole ma vanno a bloccarsi sulla struttura proteica. Fino a qui abbiamo una struttura che è relativamente leggibile, ovvero gli enzimi che mediano l’espressione genetica possono andare a leggere il DNA. Quando la struttura della cromatina è attiva da un punto di vista trascrizionale, quindi è leggibile dagli enzimi che mediano la trascrizione, parliamo di eucromatina. Quando invece la cromatina risulta altamente impaccata, da non essere letta dagli enzimi, parliamo di eterocromatina. Inoltre abbiamo delle regioni di DNA che possono passare da uno stato all’altro: possono essere eterocromatiche in un momento ed essere eucromatiche in un altro momento, e in quel caso si parla di eterocromatina facoltativa. Infine la cromatina può presentarsi in una struttura che non può quasi mai cambiare stato e in questo caso si tratta di eterocromatina costitutiva. Le anse della nostra cromatina possono compattarsi ulteriormente ripiegandosi in avvolgimenti, che vanno a diminuire la lunghezza del DNA ma chiaramente ad ingrandire il suo spessore. Questi avvolgimenti sono i nostri cromosomi metafasici (metafisici perché è solo durante la metafase che il DNA è compattato e visibile). I livelli di compattazione vengono mediati dall’azione di due specifiche proteine: le Condensine (anelli proteici che mediano il ripiegamento del filamento di DNA) le Coesine (tengono uniti i cosiddetti “cromatidi fratelli”, cioè copie identiche di un cromosoma risultato del processo di duplicazione del DNA, tenute unite a livello del centromero). Noi umani abbiamo 46 cromosomi, quindi 46 filamenti lineari di DNA che derivano dall’unione di una cellula di origine materna, la cellula uovo, e una cellula di origine paterna, lo spermatozoo, che hanno creato il contenuto di una cellula nuova, lo zigote, che vengono in coppie di cromosomi omologhi (per ogni tipo di cromosoma abbiamo due copie dello stesso : il nostro corredo cromosomico o cariotipo è diploide). Figura 6 Differenze rispetto alla replicazione batterica Innanzitutto stiamo parlando di tanto materiale genetico in più rispetto a quello procariotico, e dunque la cellula eucariotica presenta più origini di replicazione sullo stesso cromosoma, sulla stessa elica di DNA. Di solito c’è un’origine di replicazione ogni circa 30-40 mila nucleotidi, ciascuna che si attiva in maniera coordinata con le altre, in modo da andare a replicare l’intera molecola. 4 La replicazione avviene quando l’ambiente esterno permette alla cellula di dividersi, ovvero quando un certo stimolo induce la replicazione, quando la fase della cellula G1 è terminata. Quindi l’inizio della replicazione è relativamente più complicato rispetto che per gli eucarioti, soprattutto da un punto di vista tempistico. Le origini della replicazione vengono riconosciute già in fase G1 e vengono legate da diverse proteine. Il complesso principale è il “Complesso del riconoscimento delle replicatore”, una serie di proteine che riconoscono le sequenze consenso delle origini di replicazione. Questo complesso va a richiamare altre due proteine (CDC6 e CDT1), a cui si lega anche l’elicasi eucariotica che è chiamata Mcm2-7, le quali inibiscono la struttura e bloccano l’elicasi, che si attiverà poi solo nel momento giusto ovvero durante la fase di sintesi S. Nella fase S infatti intervengono degli enzimi detti Cicline e le rispettive CDK (chinasi dipendenti dalle cicline) che si attivano e vanno a dare il via al cambiamento di espressione e attività della cellula, facendola passare dalla fase di accrescimento alla fase di replicazione. Queste infatti fosforilano le due proteine inibenti CDT6 e CDT1, attivando l’elicasi che inizia ad aprire la bolla di replicazione, attivando dunque la replicazione. Da qui in poi non cambia nulla rispetto al meccanismo esplicitato per i procarioti, salvo l’intervento di enzimi con nomi diversi e caratteristiche parzialmente diverse. Mentre nei procarioti c’era l’enzima Primasi che svolgeva una funzione diversa da quella della DNA polimerasi III, negli eucarioti c’è un unico enzima che svolge ambedue le funzioni, chiamato polimerasi α/ primasi, in grado di legarsi al filamento libero di DNA ed iniziare la polimerizzazione di una corta sequenza di DNA. La polimerasi α/primasi tuttavia non è processiva, e quindi si stacca quasi subito e viene sostituita dalle due polimerasi specifiche per la polimerizzazione del filamento lento e del filamento guida, che sono la polimerasi ε(filamento lento) e la polimerasi δ(filamento veloce). Le polimerasi ε ed δ vengono posizionate sui filamenti da un caricatore della morsa che blocca tutta la struttura e permette l’inizio della replicazione sempre con il sistema del modello a trombone. Replicazione degli istoni Anche per gli istoni avviene una replicazione semiconservativa: con il passaggio della DNA polimerasi infatti una parte dell ottamero ( cioè gli istoni H3 e H4) rimangono attaccati al filamento di DNA e n