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Roald Dahl Matilde Titolo dell’originale inglese: Matilda Traduzione di Francesca Lazzarato e Lorenza Manzi © 1988 Roald Dahl Nominee Ltd © 1995 Adriano Salani Editore S.r.l., Firenze Prima edizione Superistrice: marzo 1989 Prima edizione...

Roald Dahl Matilde Titolo dell’originale inglese: Matilda Traduzione di Francesca Lazzarato e Lorenza Manzi © 1988 Roald Dahl Nominee Ltd © 1995 Adriano Salani Editore S.r.l., Firenze Prima edizione Superistrice: marzo 1989 Prima edizione Istrici: settembre 1995 “Per Michael e Lucy” Indice Una lettrice piccola piccola 4 Il signor Dalverme, re dell’automobile usata 10 Il cappello e la Supercolla 13 Il fantasma 16 Calcoli 20 Un papà biondo platino 23 La signorina Dolcemiele 27 La signorina Spezzindue 33 I genitori 37 Il lancio del martello 42 Bruno Mangiapatate e la torta 48 Il tritone 54 L’esame settimanale 57 Il primo miracolo 63 Il secondo miracolo 67 La casa della signorina Dolcemiele 70 La storia della signorina Dolcemiele 75 Nomi 81 L’allenamento 83 Il terzo miracolo 85 Una nuova casa 90 Una lettrice piccola piccola I padri e le madri sono tipi strani: anche se il figlio è il più orribile moccioso che si possa immaginare, sono convinti che si tratti di un bambino stupendo. Niente di male: il mondo è fatto così. Ma quando dei genitori cominciano a spiegarci che il loro orrendo pargolo è un autentico genio, viene proprio da urlare: — Presto, una bacinella! Ho una nausea tremenda! Pensate alle sofferenze degli insegnanti, costretti a sorbirsi le stupide vanterie di genitori orgogliosi; per fortuna possono vendicarsi al momento delle pagelle. Se fossi un insegnante, mi prenderei il gusto di qualche bella nota pungente. «Il vostro Massimiliano» scriverei, «è un totale disastro. Spero per voi che abbiate un’azienda di famiglia dove sistemarlo dopo gli studi, perché non riuscirebbe a trovare lavoro da nessun’altra parte». Oppure, se quel giorno fossi in preda a un estro poetico: «Strano ma vero: le cavallette hanno gli organi dell’udito ai lati dell’addome. Vostra figlia Vanessa, a giudicare da quel che ha imparato questo trimestre, non li ha da nessuna parte». Potrei addentrarmi ancor più nei misteri delle scienze naturali, scrivendo: «La cicala passa sei anni da larva sotto terra, e soltanto sei giorni da creatura libera, al sole e all’aria. Vostro figlio Vilfredo ha passato sei anni da larva in questa scuola, e stiamo ancora aspettando che emerga dalla crisalide». Se adeguatamente stuzzicato da una bimbetta velenosa, potrei arrivare a dire: «Fiona possiede la stessa glaciale bellezza dell’iceberg, ma, al contrario di questo, sotto la parte visibile non nasconde assolutamente niente». Sì, credo che compilare pagelle simili per gli alunni disgustosi della mia classe mi divertirebbe alquanto. Ma basta così. Ogni tanto capita di incontrare dei genitori che adottano l’atteggiamento opposto, e non manifestano alcun interesse per i propri figli (il che è molto peggio di quelli che stravedono per loro). Il signore e la signora Dalverme appartenevano alla seconda categoria. Avevano un figlio di nome Michele e una figlia di nome Matilde, e nutrivano per quest’ultima la stessa considerazione che si ha per una crosta, cioè per qualcosa che si è costretti a sopportare fino al momento in cui la si può grattar via, eliminandola con un colpetto delle dita. Il signore e la signora Dalverme non vedevano l’ora di levarsi allo stesso modo di torno la loro bambina, magari spedendola con un colpetto in qualche nazione vicina (o, meglio ancora, lontana). Non è carino che i genitori trattino dei figli comuni come croste o calli, ma è ancora peggio se il bambino in questione è fuori dal comune, ossia geniale e sensibile. E Matilde era entrambe le cose. Soprattutto, possedeva una mente così brillante e vivace, e imparava così in fretta, che le sue capacità avrebbero dovuto risultare evidenti anche per i genitori più tonti. Il signore e la signora Dalverme, però, erano così idioti e così chiusi nelle loro piccole, meschine abitudini, da non accorgersi che la bambina era assolutamente eccezionale. Anzi, se si fosse trascinata a casa con una gamba rotta, è probabile che non se ne sarebbero accorti. Michele, il fratello di Matilde, era un ragazzo perfettamente normale, ma a veder lei vi sarebbero schizzati gli occhi dalle orbite. A diciotto mesi parlava correntemente e conosceva altrettante parole della maggior parte degli adulti. Ma i suoi genitori, invece di lodarla, le dicevano che era una fastidiosa chiacchierona e aggiunsero seccamente che le brave bambine non dovrebbero farsi né vedere né sentire. A tre anni, Matilde aveva imparato a leggere da sola, grazie ai giornali e alle riviste sparsi per casa. A quattro anni leggeva speditamente e cominciava ad avere una gran voglia di libri perché, in quella casa geniale, di libri ce n’era uno solo, intitolato Cucinare è facile, che apparteneva a sua madre. Dopo averlo letto da cima a fondo, imparando a memoria tutte le ricette, Matilde decise di cercare letture più interessanti. —Papà, mi compreresti un libro? —Un libro? E per che cavolo farci? —Per leggerlo. —Diavolo, ma cosa non va con la tele? Abbiamo una stupenda tele a ventiquattro pollici e vieni a chiedermi un libro! Sei viziata, ragazza mia! Quasi ogni giorno Matilde restava sola in casa per tutto il pomeriggio. Il fratello, che aveva cinque anni più di lei, andava a scuola, e il padre al lavoro. Sua madre, invece, andava in città (lontana una dozzina di chilometri) a giocare a bingo. La signora Dalverme era maniaca del bingo, e ci giocava cinque pomeriggi alla settimana. Il giorno in cui suo padre rifiutò di comprarle un libro, Matilde andò a piedi sino alla biblioteca pubblica del paese, da sola. Appena arrivata si rivolse alla bibliotecaria, la signora Felpa, e chiese se poteva sedersi un po’ a leggere. La signora Felpa, piuttosto stupita di vedere una bambina così piccola non accompagnata da un genitore, le rispose che era la benvenuta. —Per favore, dove sono i libri per bambini? — chiese Matilde. —Lì, sugli scaffali più bassi. Vuoi che ti aiuti a trovare un bel libro con tante illustrazioni? —No grazie — disse Matilde. — Posso fare da sola. Da quel giorno, appena sua madre usciva, Matilde faceva una passeggiatina fino alla biblioteca. Ci metteva solo dieci minuti e poi, tranquillamente seduta, trascorreva due ore meravigliose in un angolo accogliente e quieto, divorando un libro dopo l’altro. Dopo aver letto tutti i libri per bambini, cominciò a guardarsi intorno in cerca di qualcosa di diverso. La signora Felpa, che in quelle poche settimane l’aveva osservata incuriosita, lasciò la sua scrivania e le si avvicinò. — Posso aiutarti, Matilde? —Mi chiedevo che cosa potrei leggere adesso. Ho finito i libri per bambini. —Vuoi dire che hai guardato tutte le figure? —Certo, ma ho anche letto le storie. La signora Felpa, alta e imponente, abbassò lo sguardo su Matilde, che a sua volta alzò gli occhi. —Certi non valevano niente — disse Matilde. — Altri invece erano bellissimi. Più di tutti mi è piaciuto Il giardino segreto. Era pieno di misteri: quello della stanza dietro la porta chiusa, e quello del giardino dietro il muro. La signora Felpa era sbalordita. — Ma quanti anni hai, esattamente? —Quattro anni e tre mesi. Anche se la bibliotecaria era stupefatta, non lo diede a vedere. — E adesso che tipo di libro vorresti? —Uno veramente bello, di quelli che leggono i grandi. Un libro famoso. Ma non ne conosco nessuno. La signora Felpa passò in rivista gli scaffali, esitante. Non sapeva cosa consigliarle. Come si fa a scegliere un classico per una bambina di quattro anni? Dapprima pensò di proporle un romanzo per ragazzine adolescenti, ma poi, chissà perché, passò istintivamente davanti allo scaffale senza fermarsi. —Prova questo — disse alla fine. — È famosissimo e molto bello. Se ti sembra troppo lungo, dimmelo, e ti cercherò un libro più corto e un po’ più facile. —Grandi speranze — lesse Matilde, — di Charles Dickens. Mi piacerebbe provarci. La signora Felpa pensò che era una follia, ma a Matilde disse: — Certo che ci puoi provare. Durante i pomeriggi successivi, la bibliotecaria non riusciva a distogliere lo sguardo da quella bimbetta seduta per ore e ore nella grande poltrona, dall’altro lato della stanza, con il libro sulle ginocchia. Aveva dovuto appoggiarlo sulle ginocchia perché era troppo pesante da reggere, per lei, e per riuscire a leggerlo era costretta a piegarsi in avanti. Era davvero uno strano spettacolo guardare quella personcina seduta, i cui piedi non arrivavano a terra, completamente assorta nelle meravigliose avventure di Pip e della vecchia signorina Havisham con la sua casa piena di ragnatele, persa nell’incantesimo che Dickens, il grande inventore di storie, aveva saputo creare. L’unico movimento della piccola lettrice era quello di alzare ogni tanto la mano per voltare pagina, e la signora Felpa era davvero spiacente quando arrivava il momento di attraversare la stanza per dirle: — Sono le cinque meno cinque. Durante la prima settimana, la bibliotecaria aveva chiesto a Matilde: —La mamma ti accompagna fin qui e poi viene a riprenderti? —Mia madre va in città tutti i pomeriggi per giocare a bingo — le aveva risposto Matilde. — Non sa che vengo qui. —Ma non dovresti venire senza permesso. Sarebbe meglio dirglielo. —Preferirei di no. Né lei né mio padre vedono di buon occhio che io legga. —E cosa vorrebbero che facessi, sola in casa per tutto il pomeriggio? —Ciondolare per casa e guardare la televisione. —Capisco. —A loro non importa molto di quello che faccio — disse Matilde, con aria un pochino triste. La signora Felpa non poteva fare a meno di preoccuparsi al pensiero che la bambina doveva attraversare la strada principale, piena di traffico, ma decise di non impicciarsi. In una settimana, Matilde finì di leggere le 411 pagine di Grandi speranze. — Mi è piaciuto moltissimo — disse. — Questo Dickens ha scritto altri libri? —Tanti — rispose sbalordita la signora Felpa. — Vuoi che te ne scelga un altro? Nei mesi seguenti, sotto la guida affettuosa della bibliotecaria, Matilde lesse i seguenti libri: Nicholas Nickleby di Charles Dickens Oliver Twist, di Charles Dickens Jane Eyre di Charlotte Bronté Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen Tess dei D’Uberville di Thomas Hardy Kim di Rudyard Kipling L’uomo invisibile di H.G. Wells Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway L’urlo e il furore di William Faulkner Furore di John Steinbeck La roccia di Brighton di Graham Greene La fattoria degli animali di George Orwell Si trattava di un elenco straordinario, e la signora Felpa era ammirata e stupefatta, ma per fortuna non si lasciò trascinare dall’entusiasmo. Chiunque fosse stato testimone delle prodezze di una bambina così piccola, probabilmente avrebbe cercato di spargere la voce in paese e fuori. Chiunque, ma non la signora Felpa, che badava ai fatti propri e aveva capito da un pezzo che è meglio non immischiarsi con i bambini altrui. —Hemingway dice un mucchio di cose che non capisco, soprattutto sugli uomini e le donne. Però mi è piaciuto moltissimo. Ha un modo di raccontare che mi fa sentire come se fossi proprio lì, a vedere quello che succede. —Tutti i bravi scrittori ti faranno quest’effetto — disse la signora Felpa. — E non preoccuparti se c’è qualcosa che non riesci a capire. Abbandonati al suono delle parole, come se fossero musica. —Sì, farò proprio così. —Sai che in una biblioteca pubblica si possono prendere in prestito i libri e portarli a casa? —No, non lo sapevo — disse Matilde. — Potrei farlo anch’io? —Certo. Scegli il libro che vuoi e portamelo, in modo che possa registrarlo; puoi tenerlo per due settimane e prenderne più d’uno, se vuoi. Da quel momento, Matilde andò in biblioteca solo una volta alla settimana, per prendere nuovi libri e restituire quelli già letti. La sua cameretta diventò una sala di lettura, dove passava i pomeriggi seduta a leggere, con una tazza di cioccolata calda accanto. Ancora non riusciva a raggiungere certe cose, in cucina, ma nel capanno del giardino teneva una cassetta e la portava in casa per salirci sopra e prendere quel che voleva. In genere si preparava una cioccolata calda riscaldando il latte in un pentolino, sul fornello a gas, prima di aggiungere il cacao. Ma ogni tanto si faceva anche dell’ovomaltina o una tazza di brodo... Era così piacevole tener vicino una bevanda calda mentre leggeva e leggeva, nella sua stanzetta silenziosa. I libri le aprivano mondi nuovi e le facevano conoscere persone straordinarie che vivevano una vita piena di avventure. Viaggiava su antichi velieri con Joseph Conrad. Andava in Africa con Ernest Hemingway e in India con Kipling. Girava il mondo restando seduta nella sua stanza, in un villaggio inglese. Il signor Dalverme, re dell’automobile usata I genitori di Matilde possedevano una casetta graziosa con tre camere da letto al primo piano, e una sala da pranzo, un salotto e una cucina al pianterreno. Suo padre vendeva automobili usate e sembrava cavarsela bene. —Il segreto del mio successo — diceva con orgoglio, — è la segatura. E non costa nulla. Alla segheria me la danno gratis. —A che cosa serve? — chiese Matilde. —Ah ah! Ti piacerebbe saperlo, vero? —Non capisco che cosa c’entri la segatura con le macchine usate, papà. —Perché sei una povera cretinetti che non sa niente di niente. Non usava espressioni molto delicate, ma Matilde ormai ci aveva fatto l’abitudine. Sapeva anche che era un gran fanfarone, e perciò non si faceva scrupolo di punzecchiarlo. —Devi essere bravissimo per riuscire ad utilizzare una cosa che non costa nulla. Vorrei saperlo fare anch’io. —Non ci riusciresti. Sei troppo scema. Ma posso spiegarlo a Michele, dato che un giorno verrà a lavorare con me. — Ignorando Matilde, si rivolse al figlio: — Sono sempre felice di comprare un’auto che qualche pazzo ha trattato in modo da rovinare il cambio, che ora gratta da matti. Non devo far altro che aggiungere segatura all’olio del cambio, e la macchina cammina a meraviglia. —Ma dopo quanto tempo ricomincia a “grattare”? — chiese Matilde. —Solo quando il compratore è abbastanza lontano — disse il padre, sghignazzando. — Diciamo dopo centosessanta chilometri. —Ma non è onesto, papà. È un imbroglio! —L’onestà non fa diventare ricchi, e i clienti esistono apposta per essere imbrogliati! Il signor Dalverme era un ometto con la faccia da topo e i denti che sporgevano sotto i baffi spelacchiati. Gli piaceva indossare giacche a quadri dai colori vistosi, e cravatte gialle o verdine. — Prendiamo il chilometraggio, per esempio — continuò. — Quando si decide di comprare un’auto usata, la prima cosa che si vuol sapere è quanti chilometri ha fatto. Giusto? —Giusto — disse il figlio. —Dunque, io compro una vecchia carcassa che ha fatto almeno duecentotrentamila chilometri. Naturalmente me la danno per poco. Ma chi comprerebbe una macchina che ha camminato tanto, eh? Di questi tempi non puoi più togliere semplicemente il contachilometri e rimetterlo indietro, come si faceva una volta. Ormai truccarlo è impossibile, a meno di essere un dannato orologiaio o qualcosa del genere. Allora io che faccio? Uso il cervello, ragazzo mio, ecco quel che faccio! —Cioè? — chiese il figlio, affascinato. Sembrava proprio che avesse ereditato la passione paterna per gli imbrogli. —Mi siedo e comincio a chiedermi come posso cambiare il chilometraggio, portandolo da 250.000 a 15.000 senza smontare il contachilometri. Bene, se faccio andare la macchina a marcia indietro per un tempo sufficiente, è fatta. I numeri scattano all’indietro. Ma solo un povero cretino sarebbe disposto a guidare una automobile all’indietro per migliaia e migliaia di chilometri! —Certo — annuì Michele. —A quel punto mi gratto la testa e mi spremo il cervello. Quando si ha un’intelligenza come la mia, bisogna saperla sfruttare. Ed ecco fatto: ho trovato la soluzione. Mi sentivo come doveva essersi sentito quel bel tipo che ha scoperto la penicillina, garantito. —E che cosa hai fatto, papà? —Il contachilometri è azionato da un cavo collegato ad una delle ruote anteriori. Allora, prima tolgo il collegamento, prendo un trapano superveloce e lo applico all’estremità di questo cavo, in modo che quando il trapano gira, gira anche il cavo, ma all’indietro. Hai capito? Mi segui? —Sì, papà. —Un trapano di quel tipo è spaventosamente veloce, perciò, appena lo metto in moto, i numeri scattano all’indietro ad una velocità pazzesca. In pochi minuti riesco a cancellare centomila chilometri, e, quando ho finito, l’auto non ne ha fatti più di diecimila ed è pronta per essere venduta. «È come nuova» dico al cliente. «Ha fatto appena diecimila chilometri. Apparteneva ad una vecchietta che la usava solo una volta alla settimana, per andare a fare la spesa». —Ma davvero riesci a cancellare i chilometri con un trapano elettrico? — chiese Michele. —Ti sto rivelando i segreti del mestiere, ma non devi parlarne con nessuno. Non vorrai che tuo padre finisca in galera, no? —Sarò muto come un pesce — promise Michele. — Lo fai spesso? —Tutte le macchine che mi passano per le mani ricevono lo stesso trattamento. Prima di metterle in vendita riduco il chilometraggio a meno di quindicimila chilometri. E pensa che questo sistema l’ho inventato io, da solo. Ci ho guadagnato una fortuna. Matilde, che ascoltava con attenzione, disse: — Ma papà, è ancora più disonesto che usare la segatura. È proprio una vergogna. Imbrogli gente che si fida di te. —Se non ti va, allora non mangiare alla nostra tavola. Qui il cibo si compra con quel che guadagno io. —È denaro sporco. Lo odio — disse Matilde. Sulle guance di suo padre apparvero due chiazze rosse. —E chi ti credi di essere per farmi la predica? — urlò. — Il Papa? Non sei che un pidocchio ignorante che non sa quel che dice. —Hai proprio ragione, Enrico — disse la madre; e rivolgendosi a Matilde aggiunse: — Hai una bella faccia tosta: parlare così a tuo padre! Adesso chiudi quella boccaccia e lasciaci guardare la televisione in pace. Erano seduti in soggiorno, davanti al televisore, con il vassoio della cena sulle ginocchia, mangiando pietanze precotte in contenitori d’alluminio divisi in scomparti: stufato di manzo, patate e piselli. La signora Dalverme mangiava con gli occhi incollati al teleschermo (stavano trasmettendo l’ennesima puntata di una telenovela molto sentimentale). Era una donna grassa, con i capelli tinti in biondo platino, d’un castano grigiastro alle radici. Pesantemente truccata, aveva un fisico davvero infelice: sembrava che i suoi rotoli di grasso fossero stati legati con lo spago per non farli ruzzolare giù. —Mamma — disse Matilde, — ti dispiacerebbe se cenassi in sala da pranzo? Così potrei leggere il mio libro. Il padre alzò gli occhi. — Dispiace a me! — disse in tono aspro. — La cena è un momento in cui tutta la famiglia si riunisce, e nessuno può alzarsi da tavola finché non è finita. —Ma non siamo a tavola — protestò Matilde. — Mangiamo sempre davanti alla televisione, con il vassoio sulle ginocchia. —E che c’è di male a guardare la televisione, sentiamo? — La voce di suo padre si era fatta sorda e minacciosa. Matilde non rispose. Rimase in silenzio, ribollendo di rabbia. Sapeva che odiare i propri genitori non era una bella cosa, ma non riusciva ad impedirselo. I libri le avevano mostrato la vita sotto una luce che loro ignoravano. Se soltanto avessero letto un romanzo di Dickens, o di Kipling, avrebbero scoperto che imbrogliare la gente e guardare la televisione non è tutto. E poi era stufa di sentirsi ripetere in continuazione che era una stupida ignorante, quando sapeva che non era vero. Quella notte, mentre se ne stava a letto e la rabbia dentro di lei cresceva e cresceva, decise che si sarebbe vendicata in qualche modo tutte le volte che i suoi genitori l’avessero trattata con cattiveria. Le ci voleva una piccola vittoria, ogni tanto, per aiutarla a sopportare la loro stupidità ed impedirle di impazzire. Ricordatevi che aveva solo cinque anni e che non è facile, quando si è così piccoli, difendersi dall’enorme potere degli adulti. E tuttavia lei voleva provarci. Dopo quanto era successo quella sera, suo padre era il primo della lista. Il cappello e la Supercolla La mattina dopo, prima che suo padre uscisse per andare nella squallida rimessa dove teneva le auto usate, Matilde sgattaiolò nell’ingresso per prendere il cappello che il signor Dalverme portava ogni giorno. Per riuscire a tirarlo giù dall’attaccapanni dovette alzarsi sulla punta dei piedi e aiutarsi con un bastone, e anche così ci arrivò a malapena. Suo padre era fierissimo di quel cappello dalla cupola piatta e con una piuma infilata nel nastro. Secondo lui, gli dava un aspetto fiero e disinvolto, soprattutto quando lo portava sulle ventitré, insieme alla vistosa giacca a quadri e alla cravatta verde. Matilde, col cappello in una mano e un tubetto di Supercolla dall’altra, spalmò un filo sottile di colla sul nastro interno, e rimise il cappello a posto usando il bastone. Eseguì l’operazione con cura e al momento giusto, proprio mentre il padre si alzava da tavola dopo la prima colazione. Il signor Dalverme mise il cappello senza accorgersi di nulla, ma quando arrivò alla rimessa non riuscì più a toglierlo. La Supercolla era così potente che se avesse tirato un po’ troppo forte la pelle gli sarebbe venuta via, e non aveva certo voglia di scotennarsi. Così dovette tenere il cappello in testa per tutto il giorno, anche mentre aggiungeva la segatura all’olio del cambio e “aggiustava” i contachilometri delle auto con il trapano elettrico. Per salvare la faccia, cercò di comportarsi con disinvoltura, tentando di far credere ai suoi dipendenti che aveva deciso di tenere il cappello in testa solo per il gusto di farlo, come certi gangster nei film. Quando tornò a casa, quella sera, non era ancora riuscito a toglierlo. —Non fare lo stupido — disse la moglie. — Vieni qui, te lo tolgo io. Diede uno strattone violentissimo e il signor Dalverme cacciò uno strillo che fece tremare i vetri delle finestre. — Ahiiiiiiiiiii! Basta! Lascialo! Mi strappi la pelle! Matilde, raggomitolata nella solita poltrona, osservava lo spettacolo con interesse, al di sopra di un libro. —Che ti è successo, papà? Ti si è allargata la testa? Suo padre la fissò con sospetto ma non disse nulla. La moglie aggiunse: — È tutta colpa della Supercolla. Quando la smetterai di pasticciare con quella robaccia? Volevi attaccare un’altra piuma al cappello, vero? —Ma se non l’ho neanche toccata, quella porcheria! — strepitò il signor Dalverme. Si voltò di nuovo a guardare Matilde che gli restituì lo sguardo con i candidi occhi castani. —Dovresti leggere bene l’etichetta — insisté la signora Dalverme, — prima di metterti a giocare con prodotti pericolosi. Bisogna sempre seguire le istruzioni. —Stupida strega, ma che diavolo racconti? — gridò il signor Dalverme, afferrando la tesa del cappello per impedirle un nuovo tentativo. — Credi che sia così scemo da essermelo incollato in testa? —Un ragazzino che abita qui accanto non si è accorto di avere il dito sporco di Supercolla e se lo è messo nel naso — disse Matilde. Il signor Dalverme fece un balzo. — E che gli è successo? — farfugliò. —Il dito è rimasto incollato al naso, e ha dovuto andare in giro così per una settimana. La gente continuava a dirgli: «Non si mettono le dita nel naso!» ma lui non poteva farci nulla. Sembrava un perfetto imbecille. —Ben gli sta — disse la signora Dalverme, — tanto per cominciare non avrebbe dovuto infilarsi il dito nel naso: è una pessima abitudine. Se a tutti i bambini capitasse una disavventura del genere, smetterebbero subito. —Ma anche i grandi lo fanno, mamma — disse Matilde. — Ieri, in cucina, l’hai fatto anche tu. Ti ho vista. —Chiudi il becco! — le disse sua madre, arrossendo. Il signor Dalverme dové tenere il cappello in testa anche mentre cenavano davanti al televisore. Si sentiva terribilmente ridicolo, e rimase zitto per tutto il tempo. Prima di andare a letto provò di nuovo a levarlo con l’aiuto della moglie, ma il cappello non si spostò di un millimetro. — Come potrò farmi la doccia? — chiese. —Ne farai a meno, e basta — rispose la moglie. E più tardi, guardando quel suo marito mingherlino che si aggirava furtivo per la stanza, col pigiama a strisce viola e il cappello dalla cupola piatta e la falda rialzata, pensò che faceva una ben misera figura. — Non è certo il tipo d’uomo che una donna sogna — pensò. Il signor Dalverme scoprì che la cosa peggiore, quando si è costretti a tenere il cappello in testa, è cercare di dormire. Sistemarsi comodamente sul cuscino era impossibile. —Vuoi smetterla di agitarti così? — disse la moglie, quando si fu dimenato e rigirato per un’ora buona. — Vedrai che domattina riuscirai a toglierlo facilmente. Ma la mattina dopo la presa della colla non si era affatto allentata, e il cappello rimase dov’era. Allora la signora Dalverme prese un paio di forbici e, pezzetto per pezzetto, tagliò via cupola e falda. Nei punti in cui il nastro interno si era incollato ai capelli, fu costretta a tagliarli fino alle radici, così che, alla fine, il marito aveva intorno alla testa una chierica come quella dei frati. E davanti, dove il nastro si era incollato direttamente alla pelle nuda, rimasero incrostazioni di una sostanza marrone che non si riuscì a mandar via in nessun modo. A colazione Matilde disse: — Devi assolutamente toglierti quella roba dalla fronte, papà. Sembrano tante bestioline marrone che ti corrono per la testa. La gente penserà che hai i pidocchi. —Silenzio! — scattò il padre. — Chiudi il becco! L’esperimento era stato più che soddisfacente. Ma era troppo sperare che sarebbe servito di lezione per l’avvenire. Il fantasma Dopo l’episodio della Supercolla, in casa Dalverme regnò una relativa calma per circa una settimana. L’esperienza aveva un po’ calmato il signor Dalverme, che sembrava aver perso la voglia di vantarsi e fare il tiranno. Ma all’improvviso ricominciò. Forse aveva avuto una brutta giornata e non gli era riuscito di vendere abbastanza automobili usate. Le cose che possono irritare un uomo, quando la sera torna a casa dopo una giornata di lavoro, sono molte, e una moglie in gamba in genere riesce a captare i segnali di tempesta e lo lascia cuocere nel suo brodo finché non si è calmato. Quella sera il signor Dalverme tornò a casa con la faccia scura come un temporale, e sembrava probabile che qualcuno ne avrebbe fatto le spese. Sua moglie capì subito come stavano le cose e tagliò la corda. Quando il padre entrò a grandi passi in salotto, Matilde era raggomitolata in una poltrona d’angolo, immersa nella lettura. Il signor Dalverme accese il televisore, e lo schermo si illuminò. Il volume era al massimo. Il signor Dalverme fissò Matilde, che rimase immobile. Si era ormai abituata a non sentire l’orrendo fracasso di quella maledetta scatola. Continuò a leggere, imperturbabile, mentre suo padre si infuriava sempre di più. — Ma non smetti mai di leggere? — disse, in tono secco. —Oh, ciao, papà — rispose lei, gentilmente. — Hai passato una buona giornata? —Cos’è questa porcheria? — chiese lui, strappandole il libro di mano. —Non è una porcheria, papà, è bellissimo. È intitolato Il cavallino rosso. L’ha scritto John Steinbeck, un romanziere americano. Perché non lo leggi? Ti piacerebbe. —Spazzatura. Se è americano, non può essere altro. —No, papà, è davvero bellissimo. Parla di.... —Non voglio saperlo — replicò il signor Dalverme. — Sono stufo delle tue letture. Cerca di fare qualcosa di utile. — Con uno scatto improvviso, si mise a strappare furiosamente le pagine e a buttarle nel cestino. Matilde era agghiacciata. Suo padre continuò, mosso da una sorta di invidia: come osava, sembrava dire ad ogni pagina strappata, come osava quella stupidina divertirsi leggendo, quando lui ne era incapace? —È un libro della biblioteca! — esclamò Matilde. — Non è mio! Devo restituirlo alla signora Felpa! —Allora lo dovrai ricomprare, vero? — disse suo padre, continuando a strappare le pagine. — Risparmierai lo stipendio settimanale, finché non ne avrai abbastanza per ricomprare il libro della tua preziosa signora Felpa, ecco cosa farai! — Lasciò cadere nel cestino la copertina del libro, ormai vuota, e uscì dalla stanza lasciando il televisore a tutto volume. Qualsiasi bambino, al posto di Matilde, sarebbe scoppiato in lacrime. Ma lei no. Rimase seduta, pallida e immobile, riflettendo. Capiva che piangere o fare il broncio non sarebbe servito a nulla. L’unica cosa ragionevole, quando si viene attaccati, è di attaccare a propria volta, disse una volta Napoleone. La mente sveglia di Matilde era già al lavoro per escogitare una punizione adeguata per quell’uomo odioso. La riuscita del piano che cominciava a prender forma nella sua testa, però, dipendeva in buona parte dal fatto che il pappagallo di Federico sapesse parlare bene come asseriva il suo padrone. Federico era un amico di Matilde. Aveva sei anni e abitava dietro l’angolo. Da giorni e giorni non faceva che raccontare del meraviglioso pappagallo parlante che suo padre gli aveva regalato. Il giorno dopo, appena la signora Dalverme uscì per una delle sue solite partite di bingo, Matilde andò a casa di Federico per approfondire la faccenda. Bussò e chiese se, per favore, poteva vedere il famoso uccello. Federico ne fu lusingato e la portò in camera sua, dove, in una grande gabbia, c’era un magnifico pappagallo giallo e azzurro. —Eccolo qua — disse Federico. — Si chiama Cioppi. —Fallo parlare — chiese Matilde. —Non si può obbligarlo a parlare. Devi avere pazienza e aspettare che ne abbia voglia. Aspettarono, e ad un tratto il pappagallo disse: — Ciao, ciao, ciao. — La sua voce somigliava in modo impressionante a quella umana. —Fantastico — disse Matilde. — Che altro sa dire? —Sulla cassa del morto! — disse il pappagallo, con una splendida voce da fantasma. —... e una bottiglia di rhum! —Lo dice sempre — spiegò Federico. —E non dice altro? —Nient’altro; ma è già molto, non credi? —È favoloso — disse Matilde. — Potresti prestarmelo per una notte? —No — disse Federico. — Assolutamente no. —Ti darò il mio stipendio della settimana prossima. Questo era un altro paio di maniche. Federico ci pensò su per un attimo. —D’accordo, ma domani lo rivoglio. Matilde tornò a casa barcollando sotto il peso della gabbia. In camera da pranzo c’era un ampio caminetto, e lei voleva incastrare la gabbia all’imbocco della canna fumaria, in modo che non la si vedesse. Non fu facile, ma alla fine ci riuscì. —Ciao, ciao, ciao! — strepitò il pappagallo. — Ciao, ciao! —Zitto, sciocco! — ordinò Matilde, e andò a lavarsi le mani sporche di fuliggine. Quella sera, mentre tutta la famiglia cenava come al solito in soggiorno, guardando la televisione, dalla sala da pranzo venne una voce forte e chiara: — Ciao, ciao, ciao!. —Enrico! — gridò la signora Dalverme, diventando bianca come un lenzuolo. — C’è qualcuno in casa! Ho sentito una voce! —Anch’io! — esclamò Michele. Matilde balzò in piedi e spense il televisore. — Sssss! Ascoltate! — disse. Tutti smisero di mangiare e rimasero a sedere, tesi e silenziosi, con le orecchie ritte. —Ciao, ciao, ciao! — ripeté la voce. —Eccola di nuovo! — gridò Michele. —I ladri! — gemette sua madre. — Ci sono i ladri in sala da pranzo! —Credo proprio di sì — disse il signor Dalverme, dalla sua poltrona. —Vai, Enrico! Acchiappali con le mani nel sacco! Ma lui non si mosse. Era diventato grigio in faccia, e sembrava che non avesse nessuna fretta di fare l’eroe. —Sbrigati! — sibilò sua moglie. — Vogliono rubarci l’argenteria! Il signor Dalverme si pulì nervosamente le labbra col tovagliolo. —Perché non andiamo a vedere tutti insieme? — propose. —Sì, andiamo tutti insieme — disse Michele. — Vieni, mamma. —Sono proprio in sala da pranzo — sussurrò Matilde. — Non ci sono dubbi. Sua madre prese l’attizzatoio e il padre una mazza da golf, mentre il fratello afferrava una lampada, strappando la spina dalla presa. Matilde impugnò il coltello che aveva usato durante la cena, e tutti e quattro si diressero in punta di piedi verso la porta della stanza da pranzo, col padre che, a una certa distanza, chiudeva la marcia. —Ciao, ciao, ciao! — fece di nuovo la voce. —Avanti! — gridò Matilde, e fece irruzione nella stanza brandendo il coltello. — Mani in alto! Vi abbiamo presi! — Gli altri la seguirono agitando le armi, e subito si fermarono. Nella stanza non c’era nessuno. Guardarono dappertutto, ma inutilmente. —Qui non c’è nessuno — disse il padre, con grande sollievo. —Ma io l’ho sentita, Enrico! — strillò la madre, ancora tremante. — Ho sentito una voce, e anche voi! —Certo che l’abbiamo sentita! — gridò Matilde. — Dev’essere qui, da qualche parte! — Cominciò a guardare dietro il divano e le tende. Poi la voce si fece di nuovo sentire, bassa, sinistra e spettrale. —Sulla cassa del morto... e una bottiglia di rhum! Tutti fecero un salto per la paura, compresa Matilde che recitava piuttosto bene. Tornarono a guardarsi attorno: nessuno. —Sarà un fantasma — suggerì Matilde. —Dio mio! — gridò la madre, aggrappandosi al collo del marito. —Sì, è un fantasma! — disse Matilde. — L’ho già sentito altre volte! Questa stanza è stregata! Pensavo che lo sapeste. —Salvaci! — gridò sua madre al marito, rischiando di strozzarlo. —Io qui non ci resto — disse lui, più livido che mai. Scapparono via in gran fretta, sbattendosi la porta alle spalle. Il pomeriggio del giorno dopo Matilde recuperò il pappagallo, coperto di fuliggine e di pessimo umore, e lo portò via di nascosto, uscendo dalla porta posteriore e correndo sino a casa di Federico. —Si è comportato bene? — chiese lui. —Ci siamo proprio divertiti — disse Matilde. — Ai miei genitori è piaciuto un sacco. Calcoli Matilde desiderava ardentemente che i suoi genitori fossero buoni e affettuosi, comprensivi, onesti, rispettabili e intelligenti. Ma doveva accettare il fatto che non avessero nessuna di queste qualità, anche se non era facile. Però il nuovo gioco che aveva inventato (ossia quello di punire uno dei genitori o entrambi, quando erano troppo ingiusti) le rese più sopportabile la vita. Piccola com’era, l’unico potere che Matilde fosse in grado di esercitare sui membri della sua famiglia era quello dell’intelligenza; grazie ad essa poteva batterli tutti. Ma resta il fatto che qualsiasi bambina di cinque anni, in qualsiasi famiglia, deve pur sempre obbedire agli ordini che le danno, anche ai più assurdi. Così dovette continuare a cenare tutte le sere con pietanze precotte, riscaldate nei contenitori di alluminio, davanti all’odiato televisore. E le toccò restarsene tutti i pomeriggi sola in casa, nonché tacere ogni volta che le ordinavano di stare zitta. La sua valvola di sicurezza, l’unica cosa che le impediva di diventare matta, era il divertimento che le procurava architettare vendette fantastiche; e per di più sembrava che la cosa avesse un discreto effetto, almeno per qualche tempo. Suo padre, dopo aver ricevuto una dose della magica medicina di Matilde, per due o tre giorni era meno insopportabile e prepotente. Il pappagallo nel camino, per esempio, servì a rendere più trattabili entrambi i genitori, che per oltre una settimana furono abbastanza gentili con lei. Ma non durò a lungo. La nuova esplosione ebbe luogo di sera, in soggiorno. Il signor Dalverme era appena tornato dal lavoro, e Matilde sedeva sul divano con il fratello, in attesa della cena. Il televisore non era ancora acceso. Il signor Dalverme indossava un abito a quadri a colori vistosi e una cravatta gialla. Gli orrendi scacchi verdi e arancio della giacca e dei calzoni erano addirittura accecanti. Il padre di Matilde sembrava un allibratore di infima categoria, vestito a festa per il matrimonio della figlia; si capiva benissimo che quella sera era particolarmente soddisfatto di sé. Si sedette in poltrona e si stropicciò le mani, rivolgendosi al figlio con voce squillante. — Ragazzo mio, oggi tuo padre ha avuto un’ottima giornata. Ho venduto ben cinque automobili, con un bel guadagno. Segatura nel cambio, una passata di trapano elettrico al contachilometri, un tocco di vernice qua e là, un altro paio di trucchetti, e quei poveri deficienti ci sono cascati. Prese un foglio di carta dalla tasca e lo studiò. — Senti, figliolo — disse, continuando ad ignorare Matilde, — dato che prima o poi ti metterai in affari con me, devi imparare a calcolare gli utili che hai ricavato alla fine di una giornata di lavoro. Prendi un quaderno e una matita e vediamo come te la cavi. Il figlio obbedì e portò il necessario per scrivere. —Scrivi — ordinò il padre, consultando il pezzetto di carta. — La prima auto mi è costata duecentosettantotto sterline e l’ho rivenduta a millequattrocentoventicinque. Ci sei? Michele, dieci anni, scrisse le due cifre lentamente e con la massima attenzione. —La seconda macchina mi è costata centodiciotto sterline e l’ho venduta a settecentosessanta. Tutto bene? —Certo, papà, ho scritto tutto. —La terza macchina costa centoundici sterline e mi ha fruttato novecentonovantanove sterline e cinquanta pence. —Puoi ripetere? — chiese il figlio. — A quanto l’hai venduta? —A novecentonovantanove sterline e cinquanta pence; tra l’altro, questo è uno dei miei migliori trucchetti: non chiedere mai cifra tonda, ma sempre un pochino di meno. Non mille sterline, ma novecentonovantanove e cinquanta. Sembra molto meno di mille. Geniale, no? —Certo, papà, sei un vero genio. —La macchina numero quattro – una vera carcassa – l’ho pagata ottantasei sterline e l’ho venduta a seicentonovantanove e cinquanta. —Non così in fretta — disse il figlio, scrivendo. — Va bene, ho finito. —La macchina numero cinque è costata seicentotrentasette sterline ed è stata venduta a milleseicentoquarantanove e cinquanta. Hai scritto tutto, figliolo? —Sì, papà — disse il ragazzo. —Benissimo. Ora calcola quanto ho ricavato da ogni macchina e fai la somma per avere il totale. Così saprai quanto ha guadagnato oggi il tuo intelligentissimo padre. —Sono un bel po’ di operazioni. —Certo che sono tante, ma quando si è in affari bisogna essere bravissimi in aritmetica. Io ho un cervello che è un autentico calcolatore. Questi calcoli li ho fatti in meno di dieci minuti. —Vuoi dire che hai fatto tutto a memoria? — chiese il bambino, stupito. —Non proprio. Non ci riuscirebbe nessuno. Però ci ho messo poco. Quando hai finito, dimmi che utile pensi io abbia ricavato oggi. Il totale esatto è scritto su questo foglio e ti dirò se il tuo è giusto. Matilde osservò con calma: — Papà, hai guadagnato esattamente quattromilatrecentotre sterline e cinquanta pence. —Non ti intromettere. Io e tuo fratello siamo impegnati in operazioni di alta finanza. —Ma papà.... —Stai zitta. Non tirare a indovinare e non cercare di fare la furba. —Guarda il tuo totale, papà — insisté con dolcezza Matilde. — Se è esatto, dovrebbe essere di quattromilatrecentotre e cinquanta. Corrisponde? Il padre diede un’occhiata al foglio che aveva in mano e si irrigidì. Poi tacque. Dopo una pausa chiese: — Puoi ripetere? —Quattromilatrecentotre sterline e cinquanta pence — disse Matilde. Un’altra pausa. Il viso del signor Dalverme stava diventando paonazzo. —È giusto, ne sono sicura — disse Matilde. —Piccola imbrogliona! — gridò suo padre. — Hai sbirciato il foglio! Hai letto quel che c’è scritto! —Ma papà, sono dall’altra parte della stanza. Come avrei fatto a vederlo? —Non raccontarmi balle! — strillò il padre. — Certo che hai guardato! Non può essere altrimenti! Nessuno al mondo sarebbe in grado di dare la risposta giusta in quattro e quattr’otto, e tanto meno una femmina! Sei soltanto una piccola imbrogliona! Imbrogliona e bugiarda! A quel punto la madre entrò nella stanza con un enorme vassoio carico di pesce e patatine fritte, che aveva comperato tornando a casa. Sembrava che il bingo la sfinisse talmente, nel corpo e nello spirito, da non lasciarle energie sufficienti per cucinare una vera cena. Quindi, ai pasti precotti si alternava il pesce con patate fritte. —Come mai sei così rosso in faccia, Enrico? — chiese mentre appoggiava il vassoio su un basso tavolino davanti alla TV. —Tua figlia è un’imbrogliona e una bugiarda — disse lui, prendendo il piatto e sistemandoselo sulle ginocchia. — Accendi la televisione e basta con le discussioni. Un papà biondo platino Matilde non aveva dubbi: l’ultimo sgarbo di suo padre meritava una punizione severa. Mentre mangiava quel disgustoso pesce fritto con patatine, ignorando la televisione, il suo cervello aveva cominciato a lavorare su svariate possibilità. Arrivata l’ora di andare a letto, la decisione era presa. Il giorno dopo si alzò prima degli altri, andò in bagno e chiuse la porta a chiave. Sappiamo già che i capelli della signora Dalverme erano tinti in uno splendente biondo platino, identico alle argentee e luccicanti calzamaglie dei funamboli da circo equestre. Due volte l’anno, la signora si tingeva i capelli dal parrucchiere, e ogni mese li ritoccava da sola, usando una lozione chiamata “Tintura Biondo Platino Extra Forte”, per nascondere le radici castane mano a mano che i capelli ricrescevano. Il flacone della tintura stava nell’armadietto del bagno. Sopra c’era scritto: “Attenzione. Perossido. Tenere lontano dai bambini”. Matilde l’aveva letto più volte, restandone affascinata. Suo padre aveva folti capelli neri pettinati con la riga in mezzo, e ne era molto orgoglioso. — Capelli folti e splendenti, cervello lustro e brillante — diceva sempre. —Già, proprio come Shakespeare — aveva osservato una volta Matilde. —Come chi? —Shakespeare. —Era intelligente? —Molto. —E aveva tanti capelli, vero? —Era calvo, papà. Al che suo padre aveva detto con asprezza: — Se parli solo per dar aria ai denti, tieni la bocca chiusa. Il signor Dalverme aveva molta cura dei suoi bei capelli folti e lucidi, ed ogni mattina li inondava di una lozione chiamata “Olio Tonificante alla Violetta”, che poi massaggiava per farla penetrare a fondo. Sul ripiano sotto lo specchio del bagno, accanto agli spazzolini da denti, c’era sempre un flacone di questa miscela violacea e puzzolente, ed un massaggio energico a base di Olio di Violette faceva parte delle sue abitudini quotidiane, subito dopo la rasatura. La frizione era sempre accompagnata da virili grugniti, respiri profondi ed esclamazioni come: — Ahhh, ora va meglio! Un massaggio a fondo è proprio quello che ci vuole. — Matilde, la cui stanza era dall’altro lato del corridoio, non poteva fare a meno di sentire. Nell’intima e silenziosa atmosfera mattutina del bagno, Matilde svitò il tappo del flacone e versò nel lavandino almeno tre quarti dell’Olio di Violette. Poi aggiunse la Tintura Biondo Platino Extra Forte sino a riempirlo di nuovo. Fece molta attenzione a lasciare abbastanza olio per capelli, in modo che, una volta agitato il flacone, il liquido mantenesse il colore originale. Poi rimise tutto a posto con grande cura: il flacone sul ripiano del lavandino e la tintura nell’armadietto. A colazione, Matilde mangiò con calma i suoi fiocchi di mais, mentre il fratello, seduto davanti a lei con le spalle alla porta, divorava grosse fette di pane generosamente spalmate di burro di arachidi e coperte di marmellata di fragola. Sua madre era in cucina e preparava la colazione per il marito: due uova al tegamino con pane fritto, tre salsicce di maiale, tre fette di pancetta e pomodori fritti. Il signor Dalverme fece il suo ingresso accompagnato dal solito baccano. Era incapace di entrare tranquillamente in una stanza, soprattutto all’ora di colazione: doveva sempre annunciare il suo arrivo facendo un sacco di rumore, quasi volesse dire: — Sono qua! Ecco il grand’uomo in persona, quello che porta i soldi a casa e che vi permette di vivere fra gli agi. Guardatemi e rendetemi omaggio! Quella mattina entrò impetuosamente nella stanza, diede una pacca sulle spalle del figlio e gridò: — Allora, ragazzo mio, tuo padre ha la sensazione che anche oggi farà un mucchio di soldi. Ho un paio di gioiellini da appioppare a quegli idioti, stamattina. Dov’è la mia colazione? —Adesso arriva, tesoro! — gridò la signora Dalverme dalla cucina. Matilde chinò il viso sul piatto; non osava alzare gli occhi. Non sapeva ancora che cosa avrebbe visto e, se lo spettacolo fosse stato all’altezza delle sue aspettative, non sarebbe riuscita a restare impassibile. Suo fratello guardava dritto davanti a sé, fuori della finestra, continuando a rimpinzarsi di pane, burro e marmellata. Il signor Dalverme stava per sedersi, come sempre, a capotavola, quando sua moglie uscì dalla cucina con la solita andatura ondeggiante, reggendo un enorme piatto colmo di uova, salsicce, pancetta e pomodori. Guardò il marito con la coda dell’occhio e si arrestò di colpo, lanciando un urlo spaventoso e lasciando cadere il piatto che si schiantò al suolo mentre il contenuto schizzava da ogni parte. Fecero tutti un salto, compreso il signor Dalverme. —Che diavolo ti prende, donna? Guarda come hai ridotto la moquette! —I tuoi capelli! — strillò lei, puntandogli contro un dito tremante. —Guarda i tuoi capelli! —Che hanno i miei capelli, per amor di Dio? —Accidenti, papà, che hai fatto ai capelli? — esclamò Michele. Attorno al tavolo della prima colazione la baraonda cresceva. Matilde non disse nulla e rimase immobile al suo posto, ammirando i risultati della sua trovata. La bella chioma nera del signor Dalverme era adesso di un color argento sporco, come una calzamaglia di funambolo che non fosse mai stata lavata. —Tinti!... li hai tinti! — strillò la madre. — Ma perché, imbecille? È orribile, spaventoso! Sembri uno scherzo di natura! —Che diavolo dite? — urlò il padre, portandosi le mani ai capelli. — Non li ho affatto tinti! Ma che succede? Si tratta di uno stupido scherzo? La faccia gli stava diventando d’un bel verde pallido, come una mela acerba. —Devi per forza averli tinti, papà — disse il figlio. — Hanno lo stesso colore dei capelli della mamma, ma molto più sporco. —Certo che li ha tinti! — disse sua madre. — Non cambiano mica colore da soli! Che diavolo cercavi di fare? Volevi diventare più bello, di’? —Uno specchio! — strepitò il signor Dalverme. — Portatemi subito uno specchio e smettetela di strillare! Su una sedia c’era la borsa della signora Dalverme, che ne tirò fuori un portacipria con uno specchietto all’interno del coperchio. L’aprì e lo passò al marito. Lui l’afferrò e se lo tenne davanti al viso, rovesciandosi buona parte della cipria sulla stravagante giacca di tweed. —Attento! — strillò la moglie. — Guarda che hai combinato! La mia preziosa cipria Elizabeth Arden! —Cavolo! — urlò il signor Dalverme guardandosi allo specchio. — Che cosa mi è successo? È orribile! Sono identico a te, ma molto peggio! Non posso andare a vendere le mie auto in queste condizioni! Com’è potuto accadere? — Si guardò intorno, fissando la moglie, il figlio e infine Matilde. — Com’è potuto accadere? — strillò di nuovo. —Probabilmente — disse Matilde, soave, — non hai fatto attenzione e hai preso il flacone della mamma invece del tuo. —Certo, dev’essere andata così! — esclamò sua madre. — Ma quanto sei stupido, Enrico! Perché non hai letto l’etichetta, prima di usarlo? La mia tintura è fortissima. Io ne adopero solo un cucchiaio, sciolto in una bacinella d’acqua, e tu te la sei messa senza neppure diluirla! Ti distruggerà i capelli. Ti senti per caso bruciare un po’ la testa, caro? —Vuoi dire che perderò i capelli? — urlò il marito. —Temo di sì. Il perossido è un prodotto chimico potentissimo. Si usa perfino per disinfettare le tazze dei gabinetti. —Ma che dici? Io non sono una tazza del gabinetto! Non ho bisogno di essere disinfettato! —Anche diluito, fa cadere un bel po’ di capelli. Figurati che succederà nel tuo caso! Mi meraviglia che non ti abbia già completamente scotennato! —Che posso fare? — gemette suo marito. — Presto, prima che i capelli comincino a cadere! —Se fossi in te, papà — suggerì Matilde, — me li laverei ben bene con acqua e sapone, ma subito! —Il colore tornerà normale? — chiese il padre, ansioso. —Certo che no, imbecille! — rispose la moglie. —E allora che devo fare? Non posso andare in giro conciato così. —Dovrai tingerli di nero — disse la moglie. — Ma prima è meglio lavarli, altrimenti non ti resterà più nulla da tingere. —D’accordo! — strillò lui, saltando su e mettendosi in moto. — Prendimi un appuntamento con la tua parrucchiera per la tinta! Dille che è un’emergenza, e che cancelli ogni altro impegno! Io vado su a lavarli! — E si precipitò fuori della stanza, mentre la signora Dalverme, con un profondo sospiro, andava a telefonare all’istituto di bellezza. —Ogni tanto papà fa proprio delle stupidaggini, vero, mamma? — disse Matilde. Mentre componeva il numero di telefono, sua madre rispose: — Gli uomini non sono sempre così furbi come vorrebbero far credere. Te ne accorgerai quando sarai più grande, figlia mia. La signorina Dolcemiele Matilde cominciò ad andare a scuola abbastanza tardi. La maggior parte dei bambini inglesi vanno alle elementari a cinque anni, o anche prima, ma i genitori di Matilde, per niente preoccupati della sua istruzione, si erano dimenticati di iscriverla in tempo. Quando andò a scuola per la prima volta aveva già cinque anni e mezzo. La scuola elementare del paese era un tetro edificio di mattoni, chiamato Istituto “Aiuto!”. Gli alunni erano circa duecentocinquanta, tra i cinque e i dieci anni. La direttrice, il comandante in capo, il dittatore dell’istituto, era un donnone di mezza età, la signorina Spezzindue. Matilde, naturalmente, finì in prima insieme ad altri diciotto bambini della sua età. La maestra, la signorina Dolcemiele, aveva ventitré o ventiquattro anni ed un bellissimo, pallido viso da Madonna, con occhi azzurri e capelli castano chiaro. Era così snella e fragile da dare l’impressione che se fosse caduta sarebbe andata in mille pezzi, come una statuina di porcellana. Betta Dolcemiele era mite e tranquilla, non alzava mai la voce e sorrideva di rado, ma aveva la rara capacità di farsi amare al primo sguardo dai propri alunni. Sembrava che capisse perfettamente quanto i bambini piccoli si sentano smarriti e spaventati quando per la prima volta vengono radunati in una classe, come bestiame, e obbligati a obbedire agli ordini. Dal viso della signorina Dolcemiele emanava uno strano calore, particolarmente intenso quando parlava a un bambino confuso e pieno di nostalgia per la propria casa. La direttrice, signorina Spezzindue, era esattamente l’opposto: una gigantesca tiranna, una belva feroce che terrorizzava alunni e insegnanti. Ci si sentiva minacciati già a vederla di lontano, e, quando si avvicinava, il senso di pericolo aumentava, irradiando da lei come da una sbarra di metallo rovente. La signorina Spezzindue non camminava mai, marciava come un soldato dei battaglioni d’assalto, a lunghi passi, dondolando ritmicamente le braccia; quando avanzava nei corridoi il rumore dei suoi passi la precedeva, e se per caso un gruppo di bambini capitava sulla sua strada, si apriva un varco tra loro come un carro armato, facendoli volare a destra e a sinistra. Per fortuna a questo mondo non ci sono molte persone come lei, ma, almeno una volta nella vita, a tutti capita di incontrarne una. Se capitasse a voi, comportatevi come davanti ad un rinoceronte infuriato: arrampicatevi sull’albero più vicino e restateci finché non se ne sia andato. Non è facile descrivere una donna del genere, dall’aspetto incredibilmente eccentrico, ma tra poco ci proverò. Per ora lasciamola perdere e torniamo a Matilde, che per la prima volta entra nella classe della signorina Dolcemiele. Dopo aver fatto l’appello, la maestra consegnò a ciascun bambino un quaderno nuovo fiammante. —Spero che ognuno di voi abbia una matita. —Sì, signorina Dolcemiele — risposero in coro. —Bene. Oggi è il primo giorno di scuola, per voi; l’inizio di molti, lunghi anni di studio, e cinque di questi anni li passerete proprio qui, all’Istituto “Aiuto!”, dove, come sapete, la direttrice è la signorina Spezzindue. Sappiate che tiene molto alla disciplina – la massima disciplina – e se volete un consiglio fareste bene a comportarvi come si deve, in sua presenza. Non discutete con lei. Non rispondetele male. Fate quello che vi dice. Se non la prendete per il verso giusto, potrebbe spremervi come una carota in una centrifuga (non c’è proprio niente da ridere, Violetta). Consiglierei a tutti di ricordare che la signorina Spezzindue è severissima con chi non riga dritto. Sono stata chiara? —Sì, signorina — cinguettarono diciotto vocine zelanti. —Quanto a me, vorrei insegnarvi il più possibile, finché siete nella mia classe, perché so che vi faciliterà lo studio, più avanti. Entro la fine della settimana, per esempio, dovrete imparare a memoria la tabellina del due. E spero che entro l’anno le saprete tutte, fino a quella del dieci. Se ci riuscirete, ne sarete molto avvantaggiati. C’è qualcuno che già conosce la tabellina del due? Matilde alzò la mano. Era l’unica. La signorina Dolcemiele guardò con attenzione la bambina dai capelli scuri e dal viso tondo e serio, seduta al secondo banco. — Meraviglioso! Vuoi alzarti e recitarla, per vedere fin dove arrivi? Matilde si alzò e cominciò, ma non si fermò certo a: «dieci per due fa venti». Continuò con: — due per undici fa ventidue, due per dodici fa ventiquattro, due per tredici fa ventisei, due per quattordici.... —Va bene! — esclamò la signorina Dolcemiele, che era rimasta senza parole a sentire la placida voce di Matilde, poi chiese: — Fino a dove sai arrivare? —Non lo so esattamente — disse Matilde, — ma abbastanza lontano, credo. La maestra ci mise qualche istante per digerire la curiosa affermazione. —Vuoi dire che saresti in grado di dirmi quanto fa due per ventotto? —Sì, signorina. —E quanto fa?» —Cinquantasei. —Proviamo qualcosa di più difficile: due per quattrocentottantasette. Sai dirmelo? —Credo di sì. —Allora dimmelo. —Novecentosettantaquattro — rispose senza esitare Matilde, con voce sommessa, cercando di non mettersi in mostra. La signorina Dolcemiele la fissò sbalordita, ma quando riprese a parlare la sua voce era pacata. — Splendido, veramente! Certo che la tabellina del due è più facile delle altre. Sai anche quella del tre? —Sì. —E quella del quattro? —Sì. —Insomma, quante tabelline sai, Matilde? Fino a quella del dieci? —Sì, signorina Dolcemiele. —E quanto fa dieci per sette? —Settanta — rispose Matilde. La signorina Dolcemiele fece una pausa e si appoggiò allo schienale della sedia, dietro alla cattedra sistemata in mezzo all’aula. Era piuttosto scossa, ma cercò di non farlo vedere. Non le era mai capitato di incontrare un bambino di cinque anni (e, se è per questo, neanche di dieci) che sapesse fare le moltiplicazioni con una simile facilità. —Spero che abbiate fatto attenzione — disse, rivolgendosi alla classe. —Matilde è una bambina molto fortunata. Ha genitori meravigliosi che le hanno già insegnato a fare le moltiplicazioni. È stata la tua mamma ad aiutarti? —No, non è stata lei. —Allora devi avere un bravissimo papà. Un maestro davvero eccellente. —No, signorina Dolcemiele — disse Matilde a voce bassa. — Non me le ha insegnate mio padre. —Vuoi dire che hai imparato da sola? —Non lo so con precisione — confessò Matilde (ed era la verità). — È solo che mi riesce facile moltiplicare i numeri. La signorina Dolcemiele inspirò ed espirò profondamente. Fissò di nuovo la bambina dagli occhi vispi in piedi dietro al banco, con quell’aria ragionevole e seria. — Cosa vuol dire che “ti riesce facile”? Non potresti spiegarti meglio? —Ma... non so.... La signorina Dolcemiele rimase in attesa, mentre la classe taceva. —Per esempio, se ti chiedessi di moltiplicare quattordici per diciannove... O forse è troppo difficile.... —Fa duecentosessantasei — rispose piano Matilde. La maestra la fissò, poi prese una matita e fece velocemente l’operazione su un pezzo di carta. — Quanto hai detto che fa? —Duecentosessantasei. La signorina Dolcemiele posò la matita, si tolse gli occhiali e li pulì con un fazzoletto di carta. La classe, silenziosa, la guardava in attesa dei prossimi sviluppi. Matilde era sempre in piedi accanto al banco. —Ora dimmi, Matilde — disse la maestra, continuando a pulirsi gli occhiali. — Cosa succede nella tua mente quando devi fare una moltiplicazione di questo tipo? Dovrai pur fare i tuoi calcoli, ma sembra che tu trovi la risposta quasi all’istante, come nel caso dell’ultima operazione. —Ma io... io mi limito a pensare al quattordici, e lo moltiplico per diciannove. Proprio non saprei come spiegarlo. Mi sono sempre detta che se una calcolatrice tascabile può farlo, perché non dovrei riuscirci anch’io? —Già, perché no? — disse la signorina Dolcemiele. — Il cervello umano è qualcosa di sorprendente. —Secondo me è molto più in gamba di un pezzo di metallo — disse Matilde. — In fondo una calcolatrice non è altro che questo. La signorina Dolcemiele aveva i brividi. Ormai era certa di avere a che fare con un’intelligenza matematica davvero straordinaria, e le passarono per la mente parole come “bambina prodigio” e “piccolo genio”. Sapeva che una o due volte in cent’anni nasce una mente eccezionale; Mozart, per esempio, aveva solo cinque anni quando cominciò a comporre musica, e guarda un po’ com’è andato a finire. —Non è giusto — protestò Violetta. — Perché lei è capace e noi no? —Non preoccuparti, Violetta. Vedrai che non ci metterete molto a raggiungerla — disse la signorina Dolcemiele, sapendo di mentire. A questo punto, la maestra non resisté alla tentazione di indagare ancora nella mente di una bambina così straordinaria. Sapeva che avrebbe dovuto occuparsi un po’ degli altri alunni, ma era troppo eccitata per lasciar perdere. —Bene — disse, rivolta a tutta la classe — basta con l’aritmetica e vediamo se qualcuno di voi sa già scrivere, almeno un po’. Alzino la mano quelli che sanno scrivere gatto. Alzarono la mano in tre: Violetta, un bambino di nome Nilo e Matilde. La signorina Dolcemiele decise, allora, di fare una domanda che altrimenti non si sarebbe mai sognata di porre il primo giorno di scuola. — Chi di voi tre sa già leggere una frase intera? —Io — disse Nilo. —Anch’io — disse Violetta. La signorina Dolcemiele andò alla lavagna e scrisse una frase: —Io ho già imparato a leggere frasi lunghe. — Scelse una frase difficile, ben sapendo che pochi bambini di cinque anni sarebbero stati capaci di leggerla. —Mi sai dire cosa c’è scritto, Nilo? —È troppo difficile. —Violetta? —La prima parola è io. —Qualcuno sa leggere tutta la frase? — chiese la maestra, sicura che Matilde avrebbe risposto di sì. —Sì — disse Matilde. —Provaci, allora. Matilde lesse la frase senza la minima esitazione. —Bravissima — disse la signorina Dolcemiele. — Hai letto molto, Matilde? —Sì, solo che non sempre capisco cosa vogliono dire certe frasi. La signorina Dolcemiele si alzò e uscì dalla classe. Dopo trenta secondi ritornò con un libro in mano. Lo aprì a caso e lo posò sul banco di Matilde. — Questo è un libro di poesie umoristiche. Vuoi provare a leggerne una a voce alta? Matilde cominciò a leggere speditamente: Un buongustaio di Ciriè trovò un topo nel suo patè. Il cameriere gli disse allora: «Non strillare, alla malora! O vorran tutti un topo nel patè!» Alcuni bambini scoppiarono a ridere, per il solo suono delle rime. La signorina Dolcemiele chiese: — Sai chi è un buongustaio, Matilde? —Qualcuno che ama i cibi raffinati? —Giusto. È una poesia divertente, però non è facile scriverne di così spiritose — aggiunse. — Sembrano semplici, ma non lo sono affatto. —Lo so — disse Matilde. — Ci ho provato più di una volta, ma non ci sono mai riuscita. —Davvero? — esclamò la signorina Dolcemiele, più stupita che mai. — Mi piacerebbe molto sentire una delle tue poesie, Matilde. Te ne ricordi qualcuna? —Ecco, cercavo di inventarne una su di lei proprio adesso. —Su di me! — esclamò la maestra. — Allora devi proprio farcela sentire! —Preferirei di no, signorina. —Ti prego! — implorò la signorina Dolcemiele. — Prometto di non offendermi. —Secondo me si offenderà lo stesso, perché per far rima ho usato il suo nome di battesimo, e mi vergogno un po’. —Come fai a conoscere il mio nome? —Ho sentito un’altra maestra che, prima di entrare in classe, l’ha chiamata per nome: Betta. —Ci tengo molto, a sentire questa poesia — disse la maestra, con uno dei suoi rari sorrisi. — Su, alzati e recitala. Matilde si alzò controvoglia e molto lentamente, un po’ nervosa, recitò la sua poesia: La mia maestra di nome Betta ci è parsa subito così perfetta, che neanche avendo un capitale ne compreresti un’altra uguale all’impagabile maestra Betta. Il bel visetto pallido della signorina Dolcemiele diventò tutto rosso. Poi la maestra sorrise: un sorriso aperto e gioioso. — Grazie, Matilde — disse, sempre sorridendo. — È una poesia molto riuscita, anche se non dice la verità. Cercherò di ricordarmela. Dal terzo banco, Violetta disse: — Bella. Mi piace. —E poi è proprio vero — disse un bambinetto di nome Ruggero. —Certo che è vero — disse Nilo. La classe aveva già preso in simpatia la signorina Dolcemiele, benché finora si fosse dedicata soprattutto a Matilde. —Allora, chi ti ha insegnato a leggere, Matilde? —Ho imparato da sola, signorina, non so come. —E hai anche letto qualche libro per bambini? —Tutti quelli che ho trovato nella biblioteca pubblica. —Ti sono piaciuti? —Alcuni mi sono piaciuti moltissimo, altri li ho trovati abbastanza noiosi. —Dimmene uno che ti è piaciuto. —Il leone, la strega e l’armadio — rispose Matilde. — Secondo me, C.S. Lewis è un bravissimo scrittore, ma ha un difetto; i suoi libri non sono molto divertenti. —Sono d’accordo con te — disse la signorina Dolcemiele. —Anche i libri di Tolkien non fanno per niente ridere. —Secondo te, tutti i libri per bambini dovrebbero essere divertenti? — chiese la maestra. —Certo. I bambini non sono seri come gli adulti, e ridono volentieri. La signorina Dolcemiele rimane sorpresa: Matilde era piccola, ma molto saggia. — E adesso che hai letto tutti i libri per bambini come farai? —Ho cominciato a leggere altri libri. Li prendo in prestito in biblioteca. La signora Felpa è molto gentile, e mi aiuta a sceglierli. La signorina Dolcemiele si sporse oltre la cattedra. Aveva completamente dimenticato il resto della classe. — Quali altri libri? — mormorò. —Mi piace molto Dickens — disse Matilde. — Fa ridere. Soprattutto quando parla del signor Pickwick. In quel momento suonò la campanella: la lezione era finita. La signorina Spezzindue Durante l’intervallo, la signorina Dolcemiele uscì dall’aula e andò dritta nell’ufficio della direttrice. Era eccitatissima: aveva appena scoperto una bambina dall’intelligenza fuori del comune (o almeno, così le pareva). Non c’era stato il tempo di scoprire fino a che punto Matilde fosse dotata, ma la maestra aveva avuto sufficienti prove per rendersi conto che bisognava intervenire: era assurdo lasciare una bambina del genere in prima elementare. In genere la signorina Dolcemiele aveva un sacro terrore della direttrice, e se ne teneva alla larga il più possibile. In quel momento, però, si sentiva pronta ad affrontare chiunque. Bussò alla porta del temutissimo ufficio e la voce cupa e minacciosa della signorina Spezzindue tuonò: — Avanti! — La signorina Dolcemiele entrò. Di solito, per dirigere una scuola si scelgono persone che possiedono particolari qualità: devono capire i bambini e i loro bisogni, essere comprensive, giuste e colte. La signorina Spezzindue non possedeva nessuna di queste qualità, ed era un mistero per tutti come fosse riuscita a farsi nominare direttrice di quella scuola. Si trattava di un donnone davvero colossale. In passato era stata un’atleta famosa, e anche adesso i suoi muscoli apparivano poderosi. Aveva il collo taurino, spalle enormi, braccia grosse, polsi fortissimi e gambe più che robuste. Bastava guardarla per capire che avrebbe potuto piegare una sbarra di ferro, o strappare in due un elenco telefonico. Il viso, purtroppo, era tutt’altro che bello: mento ostinato, bocca crudele e piccoli occhi arroganti. E quanto ai suoi vestiti... non si può fare a meno di definirli stravaganti. Indossava, in genere, un camiciotto marrone stretto in vita da una larga cintura di cuoio chiusa da una massiccia fibbia d’argento. Le cosce possenti che emergevano dal camiciotto erano inguainate in un paio di calzoni alla zuava, di una ruvida stoffa color verde bottiglia. Dal ginocchio in giù, portava calzettoni verdi con risvolto, che sottolineavano i polpacci muscolosi. Le scarpe erano da uomo, a tacco basso. Insomma, assomigliava a un eccentrico cacciatore, assetato di sangue e scatenato dietro a una muta di segugi, piuttosto che alla direttrice di una gradevole scuola per bambini. Quando la signorina Dolcemiele entrò, la direttrice era in piedi accanto all’enorme scrivania, con espressione minacciosa e impaziente. —Allora, Dolcemiele, che cosa vuole? È tutta rossa e agitata, stamattina. Che le succede? Quelle piccole canaglie l’hanno bombardata di palline di carta? —No, direttrice. Niente del genere. —Allora di che si tratta? Su, avanti. Non ho tempo da perdere. Mentre parlava, si versò un bicchiere d’acqua da una caraffa che si trovava in permanenza sulla sua scrivania. —Nella mia classe c’è una bambina che si chiama Matilde Dalverme... — cominciò la signorina Dolcemiele. —È la figlia di quel tizio che vende macchine usate, giù in paese — abbaiò la signorina Spezzindue. Non parlava mai con un tono di voce normale: abbaiava o ruggiva. — Un’ottima persona, quel Dalverme — continuò. — Sono andata da lui proprio ieri. Mi ha venduto una macchina quasi nuova, che ha fatto solo diecimila chilometri. L’ex proprietaria era una vecchietta che la usava sì e no una volta all’anno. Un vero affare. Mi è davvero piaciuto, il signor Dalverme. Una colonna della società. Però mi ha detto che sua figlia è una teppistella e che è meglio tenerla d’occhio. Anzi, ha aggiunto che se a scuola succedesse qualcosa di strano probabilmente la responsabile sarebbe lei. Non ho ancora fatto conoscenza con quella monellaccia, ma, quando accadrà, si ricorderà di me. Suo padre dice che è una vera peste. —Oh, direttrice, non può essere! — esclamò la signorina Dolcemiele. —E invece è così! Anzi, scommetto che è stata lei a mettere quella bombetta puzzolente sotto la mia scrivania, stamattina. La stanza puzzava da svenire! Sì, dev’essere stata lei. Gliela farò pagare cara! Che faccia ha, quel vermiciattolo odioso? Nel corso della mia lunga carriera di insegnante ho imparato, signorina Dolcemiele, che le bambine sono molto più pericolose dei maschietti. Ed è difficile domarle. Domare una mocciosa perversa è come cercare di schiacciare un moscone su una cacca. Cerchi di colpirlo e quello è già volato via. Che cosa disgustosa, le bambine. Per fortuna io non sono mai stata bambina. —Ma, direttrice, dev’esserlo stata per forza! —Non per molto tempo, comunque — abbaiò la signorina Spezzindue, sghignazzando. — Sono diventata donna molto in fretta. È proprio matta, pensò la signorina Dolcemiele. Matta come un cavallo. Ma rimase dritta in piedi davanti alla direttrice: stavolta era decisa a non lasciarsi tiranneggiare. —Le assicuro, direttrice, che si sbaglia: non è stata Matilde a mettere una bombetta puzzolente sotto la sua scrivania. —Io non sbaglio mai, signorina Dolcemiele. —Ma la bambina è venuta a scuola stamattina per la prima volta, entrando direttamente in classe.... —Non discuta, ragazza, per l’amor del Cielo! Quel mostriciattolo ha messo una bombetta puzzolente nel mio ufficio, non ci sono dubbi! Grazie per avermelo suggerito. —Ma io non gliel’ho suggerito! —Certo che l’ha fatto! Insomma, signorina, che cosa vuole? Ha deciso di farmi perdere tempo? —Sono venuta a parlare di Matilde. Ho da raccontarle cose straordinarie, su di lei. Mi consente di spiegare quel che è successo nella mia classe poco fa? —Le avrà appiccato fuoco alla gonna bruciandole le mutandine, suppongo — grugnì la signorina Spezzindue. —No, no! — esclamò la signorina Dolcemiele. — Matilde è un genio. La faccia della signorina Spezzindue diventò paonazza e tutto il corpo sembrò gonfiarsi, proprio come quello di una rana gigante. — Un genio! — strillò. — Che stupidaggine! Lei è matta! Suo padre mi ha giurato che la figlia è una vera delinquente! —Il padre si sbaglia, direttrice. —Lei è proprio una stupida, signorina Dolcemiele! Conosce quel piccolo mostro sì e no da mezz’ora, mentre il padre la conosce da quando è nata. La signorina Dolcemiele, però, era ben decisa a dire la sua, e cominciò a riferire alcune delle prodezze di Matilde. —Sa semplicemente a memoria qualche tabellina! — sbraitò la signorina Spezzindue. — Ragazza mia, questo non basta per definirla un genio! È soltanto un pappagallo! —Ma sa leggere. —Anch’io — rispose aspra la signorina Spezzindue. —Secondo me, Matilde dovrebbe passare dalla mia classe alla quinta, con i bambini di dieci anni. —Ah! — sbuffò la signorina Spezzindue. — Non riesce a tenerla a freno e vuole sbarazzarsene, scaricandola sulla povera signorina Pilli, alla quale farà vedere i sorci verdi! —No, no! — gridò la signorina Dolcemiele. — Non è per questo! —E invece sì! — abbaiò la signorina Spezzindue. — Ho capito perfettamente il suo piano, e la mia risposta è no! Matilde rimane dov’è, e tocca a lei fare in modo che si comporti a dovere. —Ma signora direttrice, la prego.... —Basta! Non una parola di più! In questa scuola una regola ben precisa prescrive che i bambini della stessa età debbano restare insieme, indipendentemente dalle loro capacità. Non accetterò mai di far sedere una bambina di cinque anni nello stesso banco di un bambino di dieci. Chi ha mai sentito una cosa del genere! La signorina Dolcemiele rimase imbambolata, del tutto impotente di fronte a quella gigantessa dal collo taurino. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma sapeva che era inutile e mormorò: — Va bene, come vuole lei. —Naturale, che è come voglio io! — tuonò la signorina Spezzindue. — E non dimentichi, ragazza, che abbiamo a che fare con una piccola vipera che ha piazzato una bombetta puzzolente sotto la mia scrivania.... —Ma non è stata lei! —Invece è stata proprio lei! — latrò la direttrice. — E le dirò una cosa: mi dispiace che non sia più permesso usare la bacchetta, come ai bei tempi! Quella mocciosa non avrebbe potuto sedersi per un mese buono! La signorina Dolcemiele uscì dall’ufficio sentendosi depressa, ma non sconfitta. Farò qualcosa per quella bambina, si disse. Non so ancora che cosa, ma troverò pure il modo di aiutarla. I genitori Quando la signorina Dolcemiele uscì dall’ufficio della direttrice, la maggior parte dei bambini era in cortile. Per prima cosa prese in prestito dagli insegnanti dei più grandi un certo numero di libri di algebra, francese, geometria e letteratura inglese. Poi cercò Matilde e la riportò in classe. — Non c’è ragione che ti annoi mentre insegno agli altri la tabellina del due o a scrivere topo e gatto. Durante la lezione ti darò uno di questi libri da studiare, e alla fine potrai venire da me e farmi delle domande, se vuoi, e io cercherò di aiutarti. Che te ne pare? —Grazie, signorina Dolcemiele. Va benissimo. —Sono sicura che più in là riuscirò a farti trasferire in una classe avanzata, ma per il momento la direttrice vuole che tu resti con noi. —Va bene, e grazie per avermi dato questi libri. Che bambina simpatica, pensò la signorina Dolcemiele. Qualsiasi cosa dica suo padre, a me sembra tranquilla e gentile. E per niente presuntuosa, malgrado la sua intelligenza. Anzi, pare quasi che non se ne renda conto. Quando gli altri bambini tornarono in classe, Matilde andò al suo banco e si mise a studiare un testo di geometria. La maestra la tenne d’occhio e notò che era completamente assorta dalla lettura. Non alzò gli occhi per tutta la lezione. Intanto la signorina Dolcemiele aveva preso un’altra decisione: appena possibile, voleva andare a parlare con i genitori di Matilde. Ci teneva moltissimo a chiarire la faccenda; non poteva credere che in famiglia ignorassero completamente le doti della bambina. In fin dei conti, il signor Dalverme aveva un certo successo nel suo lavoro, e si poteva supporre che anche lui fosse piuttosto intelligente. Tra l’altro, i genitori difficilmente sottovalutano le capacità dei figli. Al contrario. A volte era davvero impossibile, per un insegnante, convincere una madre o un padre orgogliosi che il loro pargolo era irrimediabilmente stupido. La signorina Dolcemiele pensava che non sarebbe stato difficile far capire ai signori Dalverme che Matilde era una bambina eccezionale. Probabilmente avrebbe dovuto smorzare il loro entusiasmo. Più ci pensava, più le sue speranze crescevano. Cominciò a chiedersi se i genitori di Matilde le avrebbero permesso di dare lezioni private alla figlia, dopo la scuola. Trovava stimolante la prospettiva di insegnare a una bambina così dotata. Decise che sarebbe andata a trovare la famiglia Dalverme quella sera stessa, tra le nove e le dieci, per essere sicura che Matilde fosse già a letto. E così fece. Cercò l’indirizzo nello schedario della scuola e uscì di casa poco dopo le nove, per recarsi a piedi dai Dalverme, che abitavano in una stradina tranquilla, con giardinetti tra un villino e l’altro. La casa era moderna, in mattoni rossi, e aveva l’aria di essere costata un mucchio di soldi. Suonò il campanello, e mentre aspettava sentì che il televisore, all’interno, era a tutto volume. Venne ad aprire un ometto mingherlino, con la faccia da topo e baffi spelacchiati. Indossava una giacca sportiva a righe rosse e arancioni. —Sì? — disse, scrutando la signorina Dolcemiele. — Se è per i biglietti della lotteria, niente da fare. —Non vengo per questo — disse lei. — E la prego di scusarmi se la disturbo a quest’ora. Sono la maestra di Matilde, e vorrei parlare un attimo con lei e con sua moglie. È importante. —Si è già messa nei guai, eh? — disse il signor Dalverme bloccandole l’ingresso. — La responsabilità è sua, adesso. Se la sbrighi lei. —Non ha combinato un bel niente. Ho delle buone notizie da darvi. Notizie sorprendenti, signor Dalverme. Posso entrare per qualche minuto? —Stiamo guardando una delle nostre trasmissioni preferite. Non è proprio il caso. Perché non torna un’altra volta? La signorina Dolcemiele cominciava a perdere la pazienza. — Signor Dalverme, se per lei una qualunque trasmissione televisiva è più importante dell’avvenire di sua figlia, non è degno di essere padre! Le consiglio di spegnere immediatamente il televisore e di ascoltarmi! Il suo atteggiamento colpì il signor Dalverme, che non era abituato a essere trattato in questo modo. Squadrò con maggiore attenzione quella donnina esile che se ne stava ritta sulla soglia con aria decisa. — E va bene — disse in tono aspro. — Entri e cerchiamo di sbrigarci. — La signorina Dolcemiele entrò con passo sicuro. —Mia moglie non gradirà l’interruzione — aggiunse l’uomo, facendole strada in salotto, dove una donna grassa con i capelli platinati fissava affascinata lo schermo. —Chi è? — chiese la donna, senza alzare gli occhi. —Un’insegnante. Dice che deve parlarci di Matilde — disse il signor Dalverme. Poi attraversò la stanza e tolse l’audio, lasciando solo l’immagine. —Non fare così, Enrico! — gridò la signora Dalverme. — Willard sta per chiedere la mano di Angelica! —Puoi sempre guardare, mentre parliamo — disse il marito. — Questa è la maestra di Matilde, e ha delle notizie da darci. —Mi chiamo Betta Dolcemiele — disse la maestra. — Come sta, signora Dalverme? La madre di Matilde la fissò e chiese: — Allora, qual è il problema? Nessuno invitò la signorina Dolcemiele ad accomodarsi, ma lei prese una sedia e si sedette ugualmente. — Oggi vostra figlia è venuta a scuola per la prima volta. —Lo sappiamo — disse la signora Dalverme, irritatissima perché si stava perdendo la trasmissione. — È venuta solo per dirci questo? La signorina Dolcemiele fissò intensamente gli occhi grigi della donna e aspettò che il silenzio prolungato la facesse sentire a disagio. —Vuole che le spieghi perché sono venuta? —Va bene, ce lo dica — disse la signora Dalverme. —Come saprete, in genere i bambini della prima elementare non sanno leggere, scrivere, far di conto, quando cominciano la scuola. Ma Matilde sì. E a sentire la bambina... —Se fossi in lei non la starei a sentire — la interruppe la signora Dalverme. Era sempre più seccata, perché non poteva ascoltare il dialogo dello sceneggiato. —Mentiva, allora, quando mi ha detto che nessuno le ha insegnato a leggere o a fare le moltiplicazioni? Uno di voi l’ha aiutata? —Aiutata a fare che? — chiese il signor Dalverme. —A imparare a leggere. A leggere dei libri — rispose la signorina Dolcemiele. — Forse gliel’avete insegnato voi, e lei non diceva la verità. Magari avete scaffali pieni di libri, in casa, e siete tutti e due lettori appassionati. —Certo che leggiamo — disse il signor Dalverme. — Io, per esempio, leggo L’automobile e Motori dall’inizio alla fine, ogni settimana. —La bambina ha già letto un numero incredibile di libri. Volevo soltanto sapere se viene da una famiglia che ama la buona letteratura. —A noi i libri non interessano — disse il signor Dalverme. — Non ci si può guadagnare la vita, standosene in poltrona a leggere. Non ne teniamo, in casa. —Capisco — disse la signorina Dolcemiele. — Comunque, sono venuta a dirvi che Matilde ha un’intelligenza eccezionale. Ma suppongo che lo sappiate. —Sì, lo so che legge — disse la madre; — sta sempre in camera sua, in mezzo a quegli stupidissimi libri. —Ma non vi incuriosisce il fatto che una bambina di cinque anni legga libri per adulti? Non vi riempie di orgoglio? —Mica tanto — disse la signora Dalverme. — Secondo me le ragazze dovrebbero pensare a farsi belle, più che all’istruzione. L’aspetto fisico è più importante dei libri, signorina Dolcemula.... —Mi chiamo Dolcemiele. —Guardi me, per esempio — disse la signora Dalverme. — E poi guardi se stessa. Lei ha scelto i libri, io la bellezza. La signorina Dolcemiele guardò quell’insignificante cicciona con la faccia da budino. — Come? —Ho detto che lei ha scelto di leggere, io di essere bella e affascinante — disse la signora Dalverme. — E chi di noi due è veramente realizzata? Io, non c’è dubbio. Eccomi qua, in una casa elegante, con un uomo d’affari di successo, mentre lei si ammazza di lavoro per insegnare l’alfabeto ad una massa di bambini disgustosi. —Quanto hai ragione, coccolina mia — disse il signor Dalverme, lanciando alla moglie un’occhiata così languida e leziosa da far venire la nausea a un gatto. La signorina Dolcemiele pensò che, se voleva ottenere qualcosa da gente simile, non doveva perdere la calma. — Non vi ho detto ancora tutto. Matilde, da quel che si può capire, è anche un genio matematico. È capace di moltiplicare cifre lunghissime a mente, con la velocità di un lampo. —E chi glielo fa fare, visto che ci sono le calcolatrici? — chiese il signor Dalverme. —Non è con l’intelligenza che si accalappia un uomo — disse la signora Dalverme. — Guardi quell’attrice, per esempio — aggiunse, indicando lo schermo muto del televisore, dove una fanciulla dal seno straripante abbracciava un attore attempato, al chiaro di luna. — Non penserà che lo abbia conquistato a furia di moltiplicazioni, no? E adesso lui la sposerà, ci scommetto, e lei vivrà in una casa magnifica con tanto di maggiordomo e cameriere. La signorina Dolcemiele non riusciva a credere alle proprie orecchie. Sapeva dell’esistenza di genitori di quel tipo, e anche che i loro figli, di solito, diventavano delinquenti o emarginati, ma incontrarne un paio in carne ed ossa era un’esperienza sconvolgente. —Il problema di Matilde — riprese, — è quello di essere molto più avanti dei compagni. Potrebbe essere il caso di pensare a lezioni private supplementari. Credo che in due o tre anni, con una preparazione adatta, potrebbe essere pronta per l’università. —Università? — gridò il signor Dalverme, saltando sulla sedia. — Ma chi vuole andarci? Per carità! È un posto dove si prendono solo cattive abitudini! —Non è per niente vero — disse la signora Dolcemiele. — Se in questo momento le venisse un infarto, e fosse costretto a chiamare un medico, si tratterebbe di un laureato. E se le facessero causa per aver venduto una macchina in condizioni disastrose, dovrebbe rivolgersi a un avvocato, laureato anche lui. Capisco, comunque, che non possiamo intenderci. Mi scuso per avervi disturbato. — La signorina Dolcemiele si alzò e uscì dalla stanza. Il signor Dalverme la accompagnò alla porta. — È stata gentile a venire, signorina Dolcemolle... o il suo nome è Dolcemele? —Né Dolcemolle né Dolcemele — rispose la signorina Dolcemiele. — Ma non ha importanza. E se ne andò. Il lancio del martello Una delle migliori qualità di Matilde era questa: chi la incontrava per caso e chiacchierava un po’ con lei pensava che fosse una normalissima bambina di cinque anni e mezzo. La sua straordinaria intelligenza non era affatto evidente, e lei non si metteva in mostra. Chiunque avrebbe detto: «Che bambina educata e tranquilla», senza avere la minima idea di quanto fosse brillante, a meno di iniziare una discussione sulla letteratura o sulla matematica. Per Matilde, quindi, non era difficile fare amicizia con gli altri bambini. Tutti i suoi compagni le volevano bene. Sapevano, naturalmente, che era particolarmente intelligente, perché avevano assistito all’interrogazione del primo giorno, e sapevano anche che aveva il permesso di leggere in silenzio i suoi libri, durante le lezioni, senza dover stare attenta a quello che diceva la maestra. Ma a quell’età i bambini non si pongono troppi problemi. Sono troppo presi dai propri sforzi e dalle proprie lotte per preoccuparsi davvero di quel che fanno gli altri, e perché. Tra i nuovi amici di Matilde c’era una bambina di nome Violetta. Fin dal primo giorno di scuola cominciarono a passare insieme la ricreazione e l’ora del pranzo. Violetta era davvero piccola per la sua età: un folletto magrolino con occhi marrone scuro e capelli neri pettinati con la frangetta. A Matilde piaceva perché era coraggiosa e avventurosa, e Violetta la apprezzava per gli stessi motivi. Prima ancora che finisse la prima settimana di scuola, alle orecchie dei nuovi alunni cominciarono a giungere storie spaventose sul conto della signorina Spezzindue. Matilde e Violetta, mentre se ne stavano in un angolo del cortile durante la ricreazione, furono avvicinate da una robusta bambina di dieci anni, con un foruncolo sul naso, di nome Ortensia. — Nuovi schifi, suppongo — disse, guardandole da un’altezza considerevole. Stava mangiando patatine fritte, che pescava a manciate da un’enorme busta. — Benvenute al riformatorio — disse, mentre frammenti di patatine le cadevano dalla bocca come fiocchi di neve. Le due minuscole bambine rimasero in vigile silenzio di fronte alla gigantessa. —Avete già conosciuto la Spezzindue? — chiese Ortensia. —L’abbiamo vista all’ora della preghiera — rispose Violetta, — ma ancora non la conosciamo. —Allora aspettatevi un’accoglienza coi fiocchi — disse Ortensia. — Odia i più piccini, e perciò detesta tutti gli alunni di prima. Secondo lei i bambini di cinque anni sono vermiciattoli non ancora sviluppati. — Si ficcò in bocca un’altra manciata di patatine e quando riprese a parlare spruzzò di nuovo le briciole tutt’intorno. — Se riuscirete a sopravvivere al primo anno, forse ce la farete a frequentare qui tutte le elementari. Ma molti non ce la fanno, e li portano via in barella. È capitato più di una volta. — Fece una pausa per controllare l’effetto delle sue informazioni sulle due piccole. Ancora niente: sembravano calmissime. Perciò decise di fornir loro notizie ancora più succulente. —Lo sapete che la Spezzindue ha un armadio chiuso a chiave che si chiama lo Strozzatoio? Ne avete sentito parlare? Matilde e Violetta fecero di no con la testa e continuarono a guardare in su, verso la gigantessa. Date le loro minuscole proporzioni, tendevano a non fidarsi di chiunque fosse più grande di loro, in particolare delle ragazze di quinta. —Lo Strozzatoio — proseguì Ortensia, — è un armadio altissimo e strettissimo; ha una base quadrata, con i lati lunghi venticinque centimetri, in modo che non ci si può né sedere né accovacciarsi. Si può solo stare ritti in piedi. Tre delle pareti sono di cemento, con frammenti di vetro che spuntano da tutte le parti, per cui non ci si può neanche appoggiare. Quando si viene rinchiusi là dentro bisogna stare sull’attenti per tutto il tempo. È terribile. —Non ci si può appoggiare alla porta? — chiese Matilde. —Scherzi? La porta è piena di chiodi aguzzi e sporgenti. Probabilmente ce li ha piantati la Spezzindue in persona. —Ti ha mai chiusa là dentro? — chiese Violetta. —Durante il mio primo trimestre ci sono stata sei volte — rispose Ortensia. — Due volte per un giorno intero e le altre volte per due ore. Ma vi assicuro che due ore sono più che sufficienti. È buio pesto e bisogna rimanere dritti e immobili, perché se appena appena ci si muov

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