Manuale di Psicologia Clinica PDF
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Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
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Questo documento fornisce una panoramica sulla psicopatologia, descrivendo cosa si intende per anormalità e disturbo mentale, soffermandosi sulla soggettività degli indicatori, sul loro rapporto con il disadattamento, la devianza e la cultura. Il testo analizza anche il manuale diagnostico DSM-5 sottolineando l'importanza della classificazione nella definizione dei disturbi mentali e alcuni degli svantaggi di questo approccio.
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MANUALE DI PSICOLOGIA CLINICA LA PSICOPATOLOGIA Cosa si intende per anormalità? Ad oggi ancora non esiste un accordo universale sulla definizione di anormalità o disturbo, infatti per quanto esistano diverse descrizioni una definizione davvero soddisf...
MANUALE DI PSICOLOGIA CLINICA LA PSICOPATOLOGIA Cosa si intende per anormalità? Ad oggi ancora non esiste un accordo universale sulla definizione di anormalità o disturbo, infatti per quanto esistano diverse descrizioni una definizione davvero soddisfacente rimarrà sempre inafferrabile. INDICATORI DI ANORMALITA’ La definizione di un disturbo mentale presenta così tante difficoltà perché nessun singolo indicatore è sufficiente a determinare un comportamento anomalo, pertanto sono state individuate 7 aree per cui più una persona ha difficoltà in esse, più è probabile che abbia qualche forma di disturbo mentale: 1. Disagio soggettivo Se le persone provano esperienze di dolore psichico siamo inclini a considerare ciò come uno degli aspetti di anormalità, ad esempio le persone depresse riportano chiaramente di stare male, però invece caratteristico del paziente maniacale è lo stato di esaltazione ed egli in tale condizione potrebbe dire di non soffrire affatto. Sebbene quindi la sofferenza sia un elemento che contraddistingue la malattia, in molti casi non è né una condizione sufficiente né una condizione necessaria per considerarla patologica. 2. Il disadattamento Il comportamento disadattivo è spesso indicatore di anormalità (es. la persona che soffre di anoressia può limitare la sua assunzione di cibo fino al punto di diventare così scheletrica da avere bisogno di essere ricoverata) poiché interferisce con il benessere e con l’abilità di godere dei rapporti con l’altro, ma è anche vero che non tutti i disturbi causano dei comportamenti disadattivi. 3. La devianza statistica La parola “anormale” significa letteralmente “lontano dal normale”, ma considerare il comportamento statisticamente raro come anormale non fornisce una soluzione al problema di come definire l’anormalità, perché ad esempio anche il genio è statisticamente raro, però non considereremmo una persona con questa dote “anormale”. Allo stesso tempo il fatto che qualcosa è comune non la rende per forza “normale” (es. raffreddore). Questo ci suggerisce che nel definire l’anormalità usiamo dei giudizi di valore: se qualcosa è raro e poco desiderabile siamo più propensi a considerarlo anormale rispetto a qualcosa che è raro ma altamente desiderabile (il genio) o qualcosa che è molto comune ma non è auspicabile (raffreddore). 4. Violazione delle norme della società Ogni cultura segue le proprie regole, alcune formalizzate da leggi e altre che compongono standard morali che ci sono stati insegnati; sebbene però molte regole sociali e standard morali, siano in qualche misura soggettivi, quando le persone appartenenti a un certo gruppo culturale smettono di seguire le convenzioni sociali, tali comportamenti vengono considerati anormali. È anche vero però che la nostra incapacità di seguire sempre le regole è talmente comune (es. tutti noi abbiamo parcheggiato almeno una volta in divieto di sosta) che non riusciamo a considerarla di per sé anormale, eppure nel momento in cui una madre annega suo figlio viene istantaneamente riconosciuta l’anormalità del gesto. 5. Disagio sociale Non tutte le regole sono esplicite, tuttavia però, quando qualcuno viola una regola sociale non scritta, quelli intorno a lui possono sperimentare un senso di disagio sociale (ad esempio se ci troviamo su un autobus semi-vuoto e improvvisamente qualcuno si siede accanto a noi, per quanto questo sconosciuto non stia infrangendo nessuna legge formale, proviamo un senso di disagio che ci porta a credere questo sia un comportamento anomalo). Il disagio sociale è un potente indicatore che ci fa riconoscere l’anormalità, ma anche in questo caso molto dipende dalle circostanze (se la persona che si è seduta accanto a noi fosse un conoscente, sarebbe stato strano al contrario se non si fosse seduto accanto a noi). 6. Irrazionalità o imprevedibilità In generale noi ci aspettiamo che le persone agiscano in un determinato modo, infatti anche se un pizzico di anticonformismo può aggiungere un po’ di pepe alla vita, esiste un punto al di là del quale consideriamo un comportamento poco convenzionale come anormale. Anche se probabilmente il fattore più importante resta comunque la nostra valutazione sul grado di controllo che la persona può esercitare sui suoi comportamenti. 7. Pericolosità Sembra abbastanza ragionevole pensare che chi è pericoloso per sé e/o per gli altri sia psicologicamente anormale, ma come per tutti gli altri elementi di anormalità, se ci affidassimo soltanto a questa come unica caratteristica, incorreremmo in ulteriori difficoltà. Infatti, solo perché possiamo diventare un pericolo per noi stessi o per gli altri non significa necessariamente essere malati di mente (es. essere un pessimo autista); al contrario non possiamo però ritenere che chiunque abbia un disturbo mentale sia potenzialmente pericoloso per sé o per altri. In conclusione, le decisioni su quali siano gli eventuali comportamenti anormali coinvolgono il giudizio sociale e sono basate sui valori e le aspettative della società in generale, e ciò significa che la cultura svolge un ruolo fondamentale nel determinare ciò che è o non è normale. Inoltre, poiché la società è costantemente mutevole e sempre più tollerante rispetto a certi comportamenti, ciò che è considerato anormale o deviante in un decennio può essere considerato normale in quello successivo (es. omosessualità, tatuaggi, piercing…) IL DSM-5 E LA DEFINIZIONE DEL DISTURBO MENTALE Il DSM è un manuale diagnostico, ovvero fornisce tutte le informazioni necessarie per diagnosticare i disturbi mentali, in modo tale da fornire ai medici criteri diagnostici specifici per ogni disturbo; questo ha permesso di creare un linguaggio comune così che una diagnosi specifica abbia lo stesso significato per tutti i clinici. Inoltre, dà informazioni descrittive sul tipo e il numero di sintomi necessari per ogni diagnosi, aiutando a garantire l’accuratezza diagnostica e la coerenza (anche se il DSM non include informazioni circa il trattamento). Dal momento in cui è stato pubblicato il DSM-I, il manuale è stato revisionato più volte, e tali revisioni sono importanti per consentire di tener conto dei nuovi sviluppi scientifici, del modo in cui vengono inquadrati i disturbi mentali e garantire una maggiore omogeneità con l’ICD-10; non tutti poi sono concordi con alcune modifiche apportate, ma determinate correzioni erano doverose. All’interno del DSM-5 un disturbo mentale è definito come una sindrome caratterizzata da un disagio o disabilità clinicamente significativa che coinvolge la sfera comportamentale, la regolazione di un’emozione o il funzionamento cognitivo, e dalla compromissione del funzionamento in uno o più ambiti tra cui quello lavorativo, sociale, affettivo, famigliare ecc. I disturbi mentali sono inoltre considerati come conseguenza di una disfunzione nei processi biologici, psicologici o di sviluppo necessari per il funzionamento mentale. Anche se questa definizione non potrà soddisfare tutti, si avvicina sicuramente alla migliore definizione possibile, infatti piuttosto che pensare al DSM come prodotto definitivo, esso dovrebbe essere considerato come un lavoro in continuo sviluppo. Classificazione e diagnosi Se la definizione di normalità/anormalità è così complessa, perché allora cerchiamo di trovarla? Una delle ragioni principali è che la maggior parte delle scienze si basano sulla classificazione e i sistemi di classificazione forniscono una nomenclatura che dà ai clinici e ai ricercatori sia un linguaggio comune sia termini descrittivi più semplici per la definizione di condizioni cliniche complesse. Un altro vantaggio dei sistemi di classificazione è che permettono di strutturare le informazioni in modo più organizzato (es. nel DSM-5 la sezione sui disturbi d’ansia comprende anche altri disturbi che condividono le caratteristiche comuni di paura e ansia, come il disturbo di panico o fobia specifica). In generale la classificazione facilita la ricerca, fornendoci più informazioni e agevolando la comprensione, non solo sulle cause dei disturbi ma anche su come potrebbero essere meglio trattati. SVANTAGGI DELLA CLASSIFICAZIONE Naturalmente esistono anche una serie di svantaggi legati all’uso di un sistema di classificazione: 1. Tutte le classificazioni per loro natura forniscono informazioni in forma abbreviata, il ché porta inevitabilmente a una perdita di informazioni, quindi attraverso la classificazione si perde una serie di dati personali circa la persona reale che presenta il disturbo (storia specifica, tratti di personalità, relazioni famigliari ecc.) 2. Il problema relativo allo stigma nell’avere una diagnosi psichiatrica è ancora molto attuale, per quanto stia migliorando rispetto al passato; in particolare lo stigma è strettamente connesso con il problema degli stereotipi, ovvero credenze e idee automatiche riguardanti altre persone che inevitabilmente impariamo crescendo in una specifica cultura 3. Inoltre lo stigma può essere ulteriormente enfatizzato dal problema dell’etichettatura, ovvero il fatto che il concetto del sé di una persona può venire influenzato direttamente mediante l’assegnazione di una diagnosi di una qualche forma di malattia mentale Riguardo a quest’ultimo punto è però bene ricordare che i sistemi di classificazione diagnostica non classificano le persone, ma classificano i disturbi che le persone presentano, infatti mentre un tempo era abbastanza comune per i professionisti della salute mentale descrivere un dato paziente come “schizofrenico”, ora è ampiamente riconosciuto che sia più accurato parlare di “persona con schizofrenia”. Chiaramente in alcune situazioni, al contrario di quanto detto fino ad ora, una diagnosi può anche ridurre lo stigma, perché fornisce almeno una spiegazione parziale per il comportamento altrimenti inspiegabile di una persona. In generale però gli atteggiamenti pregiudizievoli sono assai comuni, e ciò evidenzia la necessità di campagne di informazione contro la discriminazione e lo stigma. CULTURA E ANORMALITA’ Così come è importante cambiare le aspettative sociali nella definizione di normalità, lo è altrettanto prendere in considerazione le differenze tra le culture, e ciò è esplicitamente riconosciuto nella definizione di disturbo del DSM-5. All’interno di una data cultura esistono molte credenze e comportamenti condivisi che possono costruire una o più pratiche abitudinarie, e c’è anche una notevole differenza nel modo in cui diverse culture descrivono il disagio psicologico. Il pregiudizio nei confronti delle persone affette da malattie mentali sembra in realtà essere diffuso in tutto il mondo, tuttavia alcuni tipi di psicopatologia sembrano essere altamente rappresentate in culture specifiche, infatti alcuni si riscontrano solo in determinare aree del mondo e sembrano essere fortemente legati alle preoccupazioni culturali della zona (ad esempio il “Kyofusho Tanijin” è un disturbo prevalente in Giappone ed p caratterizzato dal timore che si possa turbare gli altri con lo sguardo, l’espressione del viso o l’odore del proprio corpo). In che misura sono comuni i disturbi mentali Domandarsi quante e che tipo di persone ad oggi soffrono di disturbi psichici diagnosticabili è una domanda importante per due motivi: 1. tale informazione è essenziale nella pianificazione e creazione di servizi della salute mentale, poiché ad esempio sarebbe imprudente gestire un centro con un alto numero di esperti nel trattamento dell’anoressia nervosa (malattia grave ma relativamente rara) e con pochi specialisti nel trattamento di ansia o depressione (disturbi molto più diffusi) 2. le stime della frequenza dei disturbi mentali in diversi gruppo di persone possono fornire indizi per quanto riguarda le cause della loro insorgenza LA PREVALENZA E L’INCIDENZA L’epidemiologia è lo studio della distribuzione delle malattie, dei disturbi o dei comportamenti correlati alla salute in una data popolazione, e in particolare l’epidemiologia della salute mentale è lo studio della distribuzione dei disturbi mentali; inoltre, fondamentale per un’indagine epidemiologica è determinare le frequenze dei disturbi mentali. Il termine prevalenza si riferisce al numero di casi attivi in una popolazione durante un dato periodo di tempo ed è comunemente espressa in percentuali (ovvero la percentuale della popolazione che ha il disturbo). Il picco di prevalenza si riferisce in particolare alla percentuale stimata di casi attivi di una data malattia in una data popolazione in un dato momento (es. se in uno studio contassimo le persone che hanno il disturbo di depressione maggiore il 1°gennaio, un individuo che sperimenta la depressione durante novembre e dicembre ma che poi entra in fase di recupero il 1°gennaio, non sarebbe incluso nel nostro calcolo del picco di prevalenza, e lo stesso vale per qualcuno la cui depressione è iniziata il 2 gennaio). Per calcolare invece un numero di prevalenza di 1 anno, contiamo chiunque abbia sperimentato la depressione in qualsiasi momento dell’intero anno, e chiaramente questa cifra di prevalenza è superiore rispetto al picco di prevalenza, poiché copre un periodo nettamente più lungo. Possiamo inoltre ottenere una stima del numero di persone che hanno avuto un particolare disturbo in qualsiasi momento della loro vita (quindi anche se questi disturbi, al momento dello studio, sono già recuperati o risolti); queste stime di prevalenza una tantum tendono ad essere più elevate rispetto ad altri tipi di stime di prevalenza perché si estendono su una vita intera e comprendono sia gli individui attualmente malati sia quelli guariti. Un altro termine importante è l’incidenza, che si riferisce al numero di nuovi casi che si verificano in un determinato tempo (in genere un anno), quindi i valori di incidenza tendono ad essere inferiori rispetto a quelli di prevalenza perché escludono i casi preesistenti (es. per valutare l’incidenza in un anno della schizofrenia non conteremmo le persone la cui schizofrenia è esordita prima della data di rilevazione, anche se erano già malate, poiché non sarebbero “nuovi” casi di schizofrenia). LE STIME DI PREVALENZA Per quanto riguarda l’esaminazione di alcuni tassi di prevalenza per i più importanti disturbi, la fonte più completa per gli Stati Uniti d’America è la NCS-R. Bisogna considerare che il DSM-5 è così recente che non sono ancora disponibili dati completi di una prevalenza una tantum che utilizzi questa versione del manuale, però sappiamo che la prevalenza una tantum di un qualsiasi disturbo del DSM-IV è del 46.4%, e ciò significa che quasi la metà degli americani intervistati era affetto da una qualche malattia mentale a un certo punto della propria vita. Oggi questo dato potrebbe addirittura essere una sottostima dal momento che lo studio non ha valutato ad esempio i disturbi alimentari, la schizofrenia o l’autismo. La categoria più diffusa di disturbi piscologici si è invece rilevata essere quella dei disturbi d’ansia. N.B. sebbene la durata dei tassi di disturbi mentali sembra essere molto elevata (12 mesi) è bene ricordare che, in alcuni casi, la durata di un disturbo può essere anche relativamente breve N.B. inoltre è necessario ricordare anche che molte persone, pur presentando tutti i sintomi di un disturbo, possono non vernine seriamente compromesse, poiché il fatto di presentare criteri diagnostici per un disturbo particolare ed essere compromessi da tale disturbo non sono necessariamente la stessa cosa Una conclusione dello studio NCS-R riguarda la presenza diffusa di comorbilità tra i disturbi diagnosticati; la comorbilità è il termine utilizzato per descrivere la presenza di due o più disturbi nella stessa persona ed è particolarmente elevata nelle persone con gravi forme di disturbi mentali (es. una persona che abusa di alcol può essere anche depressa o patologicamente ansiosa). IL “COSTO GLOBALE” DELLA MALATTIA I disturbi mentali e quelli da uso di sostanze causano spesso condizioni invalidanti, e rappresentano in tutto il mondo oltre il 7% del costo globale delle malattie. Il DALY (Disability-Adjusted Life Year che in italiano può essere tradotto come attesa di vita dopo cura per disturbi o malattie) è una misura della gravità globale di una malattia espressa come il numero di anni persi a causa della malattia stessa, per disabilità o per morte prematura; la misura DALY è calcolata tramite la somma di “anni di vita persi” (YLL) e “anni vissuti con disabilità” (YLD). Il DALY si basa sul fatto che la misura più appropriata per esprimere gli effetti di una malattia cronica è il tempo, sia quello perso a causa di morte prematura sia quello trascorso nella disabilità della malattia, pertanto un DALY corrisponde a un anno di vita perso. Alla luce di questa misura, il disturbo che provoca il costo totale più elevato è la depressione, che rappresenta oltre il 40% dei DALY. TRATTAMENTO Anche se non possono essere alla portata di tutti, esistono molti trattamenti per i disturbi psicologici, i quali includono farmaci così come diverse forme di psicoterapia. Tuttavia è importante sottolineare che non tutte le persone ricevono un trattamento poiché in alcuni casi le persone negano o minimizzano la loro sofferenza, altri cercano di far fronte da soli ai problemi e, in alcuni casi, possono riuscire a recuperare senza mai cercare aiuto da un professionista della salute mentale. Il trattamento ambulatoriale richiede che un paziente sia visitato da un professionista in una data struttura per la salute mentale, ma senza essere ospedalizzato o dovendo pernottare (la maggioranza delle terapie sono somministrate ambulatorialmente). Il ricovero e l’ospedalizzazione sono invece le opzioni idonee per persone che hanno bisogno di un trattamento più intensivo di quello che può essere fornito su base ambulatoriale; è da notare però che l’ammissione negli ospedali psichiatrici è diminuita notevolmente nel corso degli ultimi 45 anni, sicuramente grazie alla presenza di nuovi farmaci che controllano i sintomi dei disturbi più gravi, ma anche a causa dei tagli di bilancio che hanno costretto molte strutture pubbliche a chiudere. Quando i pazienti ricevono un trattamento ospedaliero spesso diversi professionisti della salute mentale lavorano in squadra per fornirgli le cure necessarie: uno psichiatra può prescrivere farmaci e monitorare il paziente per gli effetti collaterali, uno psicologo clinico può fornire una terapia individuale incontrando il paziente più volte alla settimana, un assistente sociale può aiutare il paziente a risolvere problemi familiari e un infermiere psichiatrico può controllare quotidianamente il paziente e aiutarlo ad affrontare l’impatto con l’ambiente ospedaliero. Anche i pazienti trattati in regime ambulatoriale possono interagire con un team di professionisti, ma solitamente il numero di questi è più basso. PROSPETTOVA STORICA E CONTEMPORANEA DELLA PSICOPATOLOGIA La psicopatologia nella storia In questo capitolo si analizza come si sia passati progressivamente da quella che oggi consideriamo superstizione a conclusioni basate sulle scoperte scientifiche, dalle spiegazioni di carattere soprannaturale alle ipotesi scientifiche sulle cause dei disturbi psichici. A questo proposito vi sono delle evidenze nella letteratura che persone con gravi problemi di personalità hanno posto gravi difficoltà alla società sin dagli inizi della civiltà, in particolare sono stati descritti alcuni tipi di problemi di salute mentale molto simili a quelli che sono attualmente riportati come disturbi della personalità nei manuali diagnostici. Al tempo i problemi comportamentali non venivano però affrontati attraverso la medicina, ma attraverso riti religiosi o incantesimi fatti da persone che esorcizzavano comportamenti e tratti antisociali attraverso la ripetizione di frasi considerate “magiche”. DEMONOLOGIA E MAGIA I riferimenti alla psicopatologia nei primi scritti della storia dimostrano che spesso si attribuivano comportamenti di un dato disturbo a un demone o a un dio che si sarebbe impossessato della persona, pertanto tale “possessione” poteva coinvolgere spiriti buoni o spiriti maligni a seconda dei sintomi riportati. I PRIMI CONCETTI DI MEDICINA SECONDO IPPOCRATE Circa nel 400 a.c. Ippocrate negò poi che gli spiriti intervenissero nello sviluppo delle malattie e insistette invece sul fatto che i disturbi mentali, come le altre malattie, avessero cause naturali e dovessero essere trattati adeguatamente; in particolare credeva che il cervello fosse l’organo centrale delle attività intellettuali e che i disturbi mentali fossero dovuti a patologie cerebrali. Ippocrate classificò quindi 4 tipologie del comportamento umano (quadripartizione ippocratica) in sanguigno, flemmatico, collerico e malinconico, e ognuno di questi “tipi” portò con sé una serie di attribuiti. Inoltre Ippocrate considerava anche i sogni come indizi importanti per capire la personalità di un paziente, e su questo punto si può quindi considerare un vero precursore di un concetto base della moderna psicoterapia psicanalitica. LA PSICOPATOLOGIA DURANTE IL MEDIOEVO In genarle il Medioevo in Europa è stato quasi completamente privo di pensiero scientifico e di un trattamento umano per le persone con malattie mentali. Durante il Medioevo in Europa infatti, l’indagine scientifica riguardo alla psicopatologia è limitata e il trattamento degli individui psicologicamente disturbati è più spesso caratterizzato da rituali piuttosto che da tentativi di comprendere la condizione dell’individuo. LA FOLLIA DI MASSA Durante la seconda metà del Medioevo, in Europa emerge una tendenza particolare, la follia di massa, ovvero la diffusione di disturbi del comportamento in un dato gruppo di persone, casi apparentemente di isteria. La follia di massa di verifica periodicamente fino al 17° secolo, ma aggiunge il suo picco tra il 14° e il 15° secolo, epoca nota per l’oppressione sociale, la fame e le malattie epidemiche (es. peste); alla luce di questo, senza dubbio, molti dei casi di follia di massa sono collegati alla depressione, alla paura e al misticismo generato dai terribili avvenimenti. ESORCISMO E STREGONERIA Nel Medioevo la gestione delle persone mentalmente disturbate era in gran parte organizzata dal clero, infatti i monasteri servivano sia come rifugi sia come luoghi di confinamento; nell’alto Medioevo le persone con disturbi mentali venivano trattate con gentilezza e il “trattamento” consistenza nella preghiera, nell’uso di acqua santa e forme lievi di esorcismo. Verso approcci umanitari Nel primo Rinascimento riemerge la discussione scientifica e nasce un movimento definito Umanesimo, di conseguenza le credenze superstiziose che avevano ostacolato la comprensione e il trattamento terapeutico dei disturbi mentali cominciano a essere messe in discussione; in particolare i sostenitori della scienza aprirono la strada al ritorno della ragione, che culmina nello sviluppo degli approcci sperimentali. I MANICOMI A partire dal 16° si svilupparono in numero crescente istituzioni particolari chiamate per lo più “asili” o “manicomi”, ovvero dei luoghi di rifugio destinati esclusivamente alla cura delle persone affette da malattie mentali, che nacquero per allontanare dalla società individui fastidiosi che non potevano prendersi cura di sé stessi, e le persone che vi risiedevano, vivevano e morivano in condizioni di incredibile sporcizia e crudeltà. LE RIFORME UMANITARIE Alla fine del 18° secolo la maggior parte degli ospedali per malati di mente aveva necessariamente bisogno di riforme e il trattamento umanitario dei pazienti ha ricevuto un grande entusiasmo a partire dal lavoro di Pinel. Pinel ® in Francia nel 1792 iniziò a lavorare come medico e in questa veste ricevette il permesso di rimuovere le catene ad alcuni detenuti per verificare la sua tesi che i pazienti con malattia mentale dovessero essere trattati con gentilezza e considerazione, come persone malate e non come bestie o criminali; questo esperimento ottenne un enorme successo e l’effetto fu quasi miracoloso dato che le urla, la sporcizia e gli abusi vennero sostituiti da ordine e pace Tuke ® nello stesso periodo di Pinel, Tuke fondò il Ritiro di York, una piacevole casa di campagna dove i pazienti con malattie mentali potevano vivere, lavorare e riposare in un ambiente benevolo e religioso Il successo degli esperimenti umanitari di Pinel e Tuke rivoluzionò il trattamento di pazienti con malattie mentali in tutto il mondo occidentale, infatti durante la prima parte di questo periodo di riforma umanitaria divenne diffuso l’uso della gestione morale, un metodo di trattamento variegato, focalizzato sui bisogni sociali, individuali e professionali del paziente; inoltre, la gestione morale raggiunge un elevato grado di efficacia, il ché è ancora più sorprendente in quanto fu attuata senza l’utilizzo dei farmaci antipsicotici utilizzati ancora oggi. Nonostante la sua efficacia però, la gestione morale fu quasi subito abbandonata per vari motivi: 1. il pregiudizio etnico nei confronti della popolazione immigrata che era in aumento negli ospedali (con conseguente tensione tra personale e pazienti) 2. un ulteriore motivo è conseguente alla nascita e all’aumento della considerazione che si è creata attorno al movimento di igiene mentale, che auspicava un metodo di trattamento concentrato quasi esclusivamente sul benessere fisico dei pazienti, i quali però non ricevevano alcun aiuto per i loro problemi mentali 3. il terzo motivo è rappresentato paradossalmente dai progressi della scienza biomedica, che hanno favorito l’idea che tutti i disturbi mentali dovessero avere origine da fattori biologici e quindi andassero trattati con soluzioni basate solo sulla biologia OSPEDALI PSICHIATRICI IN ITALIA Nel corso del 19° secolo i manicomi di si diffusero in tutta Italia, e nello stesso periodo, causa del crescente numero di malati, si iniziò a discutere una legge che potesse regolare tutti i manicomi del paese che, fino a quel momento, avevano avuto piena autonomia per quanto riguardava l’internamento dei pazienti. La legge Giolitti stabiliva i criteri di internamento, e primi fra tutti vi era la pericolosità sociale e il pubblico scandalo, pertanto tale legge serviva quasi esclusivamente come strumento di protezione della cosiddetta “società civile” dal “matto” e non considerava invece in modo adeguato i bisogni e i diritti le malato. Nel 1924 venne poi istituita la Lega Italiana di igiene e profilassi mentale con lo scopo di incrementare la funzione curativa piuttosto che quella detentiva, e si arriva poi così, senza molti cambiamenti, al 1961 quando Basaglia iniziò a organizzare un movimento chiamato “Psichiatria Democratica” che aveva come obiettivo la chiusura dei manicomi. Basaglia affermava che la malattia mentale in sé stessa non esisteva, ma che i disturbi mentali erano causati dalla società che esercitava violenze psicologiche sulla popolazione, e che la soluzione dei disturbi si poteva ottenere solo inserendo i “soggetti disturbati” in comunità nelle quali la persona non si sentisse alienata. I DISTURBI MENTALI DEL 19°SECOLO Nella prima parte del 19°secolo gli ospedali psichiatrici erano gestiti essenzialmente dai laici in seguito al successo del “trattamento morale” nella cura dei folli. I medici o gli psichiatri, in questo periodo soprannominati “alienisti” in riferimento al fatto che curavano gli “alienati”, avevano un ruolo relativamente irrilevante nella cura dei malati di mente, e solo poi nel corso del tempo acquisirono più status sociali e maggiore influenza nella società. In questo periodo, inoltre, i disturbi mentali vennero comunque solo vagamente riconosciuti, e condizioni come la melanconia (depressione) furono considerate più come il risultato di un esaurimento nervoso. Il cambiamento degli atteggiamenti verso la salute mentale nel 20°secolo Alla fine del 19°secolo l’ospedale per malati mentali i pazienti vivevano in condizioni difficili e per il grande pubblico il manicomio rimaneva un luogo misterioso con inquilini strani e spaventosi. Gli psichiatri riguardo a questo hanno fatto poco o nulla per educare la gente comune a cosa fosse la malattia mentale o comunque per ridurne la paura, e uno dei motivi principali di questo silenzio fu che gli psichiatrici per primi avevano poche strategie di trattamento o procedure efficaci per aiutare i pazienti. A poco a poco però si fecero enormi passi in avanti per quanto riguarda il cambiamento di atteggiamento del pubblico verso i pazienti con una malattia mentale: Beers, ad esempio, descrisse il proprio crollo mentale e il pessimo trattamento ricevuto in tre istituti dell’epoca. Infatti, sebbene le catene e altri strumenti di tortura fossero stati da tempo abbandonati, la camicia di forza era ancora ampiamente usata come mezzo per placare i pazienti eccitati, e Beers stesso sperimentò questo trattamento fornendo una vivida relazione di ciò che tale immobilizzazione dolorosa per le braccia potesse significare per un malato di mente agitato. LA TERAPIA DEI DISTURBI MENTALI NEL 20°SECOLO Il 20°secolo iniziò con un prolungato periodo di crescita degli ospedali per persone affette da malattie mentali, tuttavia il destino di questi pazienti durante quel secolo non fu né uniforme né tutto positivo. Sotto l’influenza di persone illuminate come Beers gli ospedali psichiatrici crebbero in numero più che altro per ospitare persone con gravi disturbi mentali come schizofrenia, depressione e alcolismo grave; durante questo periodo i ricoveri erano abbastanza lunghi e molte persone con malattie mentali erano destinate a rimanere ricoverate anche per molti anni. Il 1946 segnò però l’inizio di un importante periodo di cambiamento, infatti Mary Jane Ward richiamò l’attenzione sulle condizioni dei pazienti e contribuì a destare dibattito su come fornire cure umane all’interno della comunità piuttosto che nei sovraffollati ospedali mentali. La necessità di una riforma degli ospedali psichiatrici era un interesse di primo piano sia per i professionisti sia per la popolazione in generale tra gli anni ’50 e ’60; infatti durante i primi decenni del 20°secolo vennero fatti sforzi vigorosi per chiudere gli ospedali psichiatrici e far tornare le persone mentalmente disturbate nella comunità, come mezzo per offrire un trattamento più integrato e umano di quanto fosse disponibile nell’ambiente isolato dell’ospedale psichiatrico, e questo anche grazie al successo dei farmaci che sono stati resi disponibili per alleviare i sintomi psicotici. La deistituzionalizzazione (ovvero il passaggio dall’ospedalizzazione al trattamento ambulatoriale) è stata un fenomeno internazionale e tale politica è stata favorita dal fatto che si è ritenuto più umano (ed economico) trattare le persone con disturbi mentali al di fuori dei grandi ospedali psichiatrici perché così facendo le persone non avrebbero sviluppato quelle forme negative di adattamento al confinamento in ospedale. Molti professionisti erano infatti preoccupati che gli ospedali psichiatrici stessero diventando rifugi permanenti per persone disturbate “in fuga” dalle richieste della vita di tutti i giorni e stessero riducendo il malato al ruolo di malato cronico con una permanente impossibilità che altre persone si potessero prendere cura di lui. L’istituto mentale, una volta considerato il luogo più idoneo per gestire i problemi delle persone con gravi malattie mentali, era ormai percepito come la soluzione più dannosa, più una complicazione che una soluzione per i pazienti; pertanto alla fine del 20°secolo i luoghi di degenza sono stati sostituiti da cure basate sul progressivo reinserimento nella comunità sociale e trattamenti di “day hospital”. L’emergere della psicologia contemporanea Durante gli ultimi anni del 19°secolo si sono confermate grandi scoperte tecnologiche e questi progressi hanno contribuito a introdurre quella che oggi è conosciuta come la visione scientificamente orientata dei comportamenti disturbati e l’applicazione delle conoscenze scientifiche per il trattamento di persone con disturbi mentali. Quattro sono i temi fondamentali della psicologia che hanno attraversato il 19°e il 20°secolo: 1. le scoperte biologiche (Bayle) 2. lo sviluppo dei sistemi di classificazione per i disturbi mentali (Emil Kraepelin) 3. l’emergere di teorie sulla causalità psicologica (Charcot, Bernheim, Freud e Breuer) 4. gli sviluppi della ricerca sperimentale in psicologia (Wundt, Pavlov, Thorndike e Skinner) LE SCOPERTE BIOLOGICHE Durante questo periodo si moltiplicano i progressi nello studio dei fattori biologici e anatomici come sottostanti ai disturbi fisici, ad esempio un importante passo è giunto dalla scoperta dei fattori biologici alla base della paresi generale (una delle più gravi malattie mentali del momento) dovuta alla sifilide cerebrale; inoltre si è scoperto che la paresi generale provoca paralisi e demenza fino a causare la morte a causa del deterioramento cerebrale. La scoperta di una cura per la paralisi generale è dovuta a Bayle, che distinse quest’ultima come un tipo specifico di disturbo mentale e diede una descrizione completa e accurata dello schema di sintomi nelle paresi. Con l’emergere della moderna scienza sperimentale, infatti, nella prima parte del 18°secolo aumentò rapidamente la conoscenza di anatomia, fisiologica e neurologia, pertanto gli scienziati iniziarono a concentrarsi sulla malattia degli organi come causa di disturbi fisici; il passo più logico era quindi supporre che il disturbo mentale fosse una malattia basata sulla patologia di un organo, in questo caso del cervello. Durante il 20°secolo, insieme ai progressi nei trattamenti di salute mentale, sono stati compiuti ance alcuni passi falsi: Cotton ad esempio sviluppo una teoria secondo la quale i problemi di salute mentale come la schizofrenia potevano essere curati rimuovendo le infezioni che credeva causassero tale condizione, tanto che egli utilizzò procedure chirurgiche di vario genere (es. rimosse tutti i denti a un paziente o alcune parti del corpo come le tonsille). Questi interventi chirurgici sono stati poi considerati inefficaci e inadeguati da molti professionisti dell’epoca e alla fine sono stati screditati (anche se la lobotomia è ancora oggi raramente impiegata). LO SVILUPPO DEI SISTEMI DI CLASSIFICAZIONE Emil Kraepelin ha avuto un ruolo chiave nello sviluppo del punto di vista biologico e il più importante di questi contributi è stato il suo sistema di classificazione dei disturbi mentali, che può essere definito il precursore dell’attuale classificazione DSM. Kraepelin ha osservato che certi tipi di sintomi si verificano insieme abbastanza regolarmente da poter essere considerati specifici di una data malattia mentale, pertanto egli ha poi proceduto a descrivere e chiarire questi tipi di disturbi mentali elaborando uno schema di classificazione che è la base del nostro attuale sistema. LA RICERCA SCIENTIFICA SULLA CAUSALITA’ PSICOLOGICA Oltre all’enfasi sulla ricerca biologica anche la comprensione dei fattori psicologici nei disturbi mentali stava progredendo, e i primi importanti passi sono stati intrapresi da Sigmund Freud. Freud sviluppò una teoria completa sulla psicopatologia che sottolineava le dinamiche interne di motivazioni inconsce che sono alla base della prospettiva psicanalitica, e i metodi da lui impiegati per studiare e trattare i pazienti vennero raggruppati sotto il nome di psicanalisi (le cui radici si possono rintracciare nell’utilizzo dell’ipnosi, in particolare in rapporto all’isteria). LA SCUOLA DI NANCY Liébeault utilizzò con successo l’ipnosi nella sua pratica e nello stesso periodo anche Bernheim si interessò al rapporto tra isteria e ipnosi, così i due lavorarono insieme per sviluppare l’ipotesi che l’ipnotismo e l’isteria fossero collegati e che entrambi fossero dovuti alla suggestione. Questa loro ipotesi nasce dal fatto che i sintomi dell’isteria potevano essere prodotti in soggetti normali mediante ipnosi e che gli stessi sintomi potevano anche essere rimossi mediante l’ipnosi 8così sembrava probabile che l’isteria stessa fosse una sorta di autoipnosi; i medici che hanno accettato questo punto di vista sono conosciuti come aderenti alla Scuola di Nancy. Nel frattempo anche Charcot stava studiando e sperimentando i fenomeni dell’isteria e come risultato della sua ricerca dissentì con le conclusioni della Scuola di Nancy insistendo sul fatto che erano i cambiamenti degenerativi del cervello che portavano all’isteria. In questo però l’ipotesi di Charcot si rivelò sbagliata e gli aderenti alla Scuola di Nancy ebbero la meglio: questo primo riconoscimento del fatto che il disturbo mentale sia causato da fenomeni psicologici stimolò ulteriori ricerche sul comportamento sottostante l’isteria e altri disturbi (infatti presto fu suggerito che i fattori psicologici fossero coinvolti anche in stati d’ansia, fobie e altre psicopatologie). Verso la fine del 19°secolo era diventato chiaro che i disturbi mentali possono avere basi psicologiche, biologiche o entrambe, ma rimaneva ancora una questione importante da risolvere, ovvero come si sviluppano i disturbi mentali causati psicologicamente? L’ESORDIO DELLA PSCIOANALISI Il primo tentativo sistematico di rispondere a questa domanda fu condotto da Freud, il quale andò a studiare da Charcot e più tardi conobbe anche il lavoro di Bernheim a Nancy, in particolare fu colpito dal loro uso dell’ipnosi con pazienti isterici e si convinse che potenti processi mentali potrebbero rimanere nascosti dalla coscienza. Freud lavorò poi in collaborazione con Breuer, che aveva inserito una novità interessante nell’uso dell’ipnosi, infatti i due autori invitarono i pazienti a parlare liberamente dei loro problemi mentre erano sotto ipnosi; i pazienti di solito manifestavano potenti emozioni e al risveglio dallo stato ipnotico percepivano una significativa distensione emozionale, che fu chiamata catarsi. Questa innovazione ha rivelato al terapeuta la natura delle difficoltà che avevano portato allo sviluppo di alcuni sintomi, anche se i pazienti al risveglio non vedevano più alcuna relazione tra i propri problemi e i sintomi isterici. Tale approccio ha portato alla formulazione del concetto di inconscio e con esso alla convinzione che alcuni processi al di fuori della consapevolezza di un individuo possano giocare un ruolo importante nel determinare il suo comportamento. Freud scoprì poi ben presto che avrebbe potuto fare completamente a meno dell’ipnosi incoraggiando i pazienti a dire tutto ciò che passava loro per la testa, senza nessuna preoccupazione per la logica. Ci furono due metodi che permisero a Freud di comprendere i processi inconsci dei pazienti: il metodo delle libere associazioni che implicava che i pazienti parlassero liberamente di sé stessi, fornendo informazioni sui propri sentimenti, motivazioni e così via, e il metodo dell’analisi dei sogni che richiedeva che i pazienti registrassero e descrivessero i propri sogni. LA PSICOLOGIA SPERIMENTALE Le origini di gran parte del pensiero scientifico della psicologia contemporanea si ritrovano nei primi rigorosi sforzi per studiare i processi psicologici in modo oggettivo, come dimostrato da Wundt. Nel 1879 Wundt istituì il primo laboratorio di psicologia sperimentale e mentre studiava i fattori psicologici coinvolti nella memoria e nella percezione, insieme a dei colleghi mise a punto molti metodi e strategie sperimentali di base. LA PROSPETTIVA COMPORTAMENTISTA Anche se la psicoanalisi ha dominato il pensiero della psicopatologia per molto tempo, un’altra scuola, il comportamentismo, prendeva avvio dalla psicologia sperimentale per superarla. Gli psicologi comportamentisti erano convinti che lo studio dell’esperienza soggettiva della psicoanalisi non fornisse dati scientifici accettabili perché tali osservazioni non erano aperte alla verifica da perte di altri ricercatori. Secondo i comportamentisti solo lo studio direttamente osservabile del comportamento, gli stimoli e le condizioni di rinforzo che lo “controllano” possono servire come base per la formulazione di principi scientifici per lo studio del comportamento umano; pertanto il tema centrale del comportamentismo fu il ruolo dell’apprendimento nel comportamento umano. Condizionamento classico ® è una forma di apprendimento in cui uno stimolo neutro è accoppiato ripetutamente con uno stimolo incondizionato (ovvero che provoca già naturalmente un comportamento incondizionato) e dopo ripetuti abbinamenti lo stimolo neutro diventa uno stimolo condizionato, ovvero provoca una risposta condizionata; questo lavoro è iniziato con la scoperta di Pavlov, il quale aveva dimostrato che i cani avrebbero cominciato a salivare in risposta a uno stimolo neutro non alimentare (es. campanello) dopo che lo stimolo era stato più volte associato alla distribuzione di cibo Condizionamento operante ® Thorndike e Skinner scoprirono e studiarono un diverso tipo di condizionamento in cui le conseguenze del comportamento influenzano il comportamento stesso, ciò significa che il comportamento che opera nell’ambiente può produrre certi risultati e questi, a loro volta, possono determinare la probabilità che il comportamento venga ripetuto in occasioni simili Principali figure nella storia Ippocrate ® medico greco, credeva che la malattia mentale fosse il risultato di cause naturali e patologia cerebrale, piuttosto che nella demonologia William Tuke ® istituì il Ritiro di York dove i pazienti con malattie mentali potevano vivere in un ambiente umano Philippe Pinel ® medico francese che aprì la strada alla gestione morale degli ospedali, dove i pazienti con malattie mentali venivano trattati in modo umano Benjamin Rush ® medico americano e fondatore della psichiatria americana, usò la gestione morale basata sui metodi di Pinel per il trattamento di persone con disturbi mentali Dorothea Dix ® insegnante americana fondò il movimento di igiene mentale negli Stati Uniti e si concentrò sul benessere fisico dei pazienti affetti da malattie mentali negli ospedali Clifford Beers ® portò avanti una campagna per cambiare l’atteggiamento della società nei confronti dei pazienti con malattie mentali dopo le sue esperienze in istituti psichiatrici Franz Anton Mesmer ® medico austriaco che condusse le prime indagini sull’ipnosi come trattamento medico Emil Kraepelin ® psichiatra tedesco che sviluppò il primo sistema diagnostico Sigmund Freud ® fondatore della scuola di terapia psicologica nota come psicoanalisi Wilhelm Wundt ® scienziato tedesco che istituì il primo laboratorio di psicologia sperimentale nel 1879 e successivamente influenzò lo studio empirico del comportamento anormale William Healy ® psicologo che avanzò l’idea che la malattia mentale fosse dovuta a fattori ambientali o socio-culturali Ivan Pavlov ® fisiologo russo che pubblicò gli studi classici nella psicologia dell’apprendimento Burrhus Skinner ® psicologo che sviluppò ulteriormente le ricerche sull’apprendimento, in particolare il condizionamento operante, ed ebbe un ruolo importante nell’applicazione delle scoperte sull’apprendimento per cercare di influenzare e modificare il comportamento umano I FATTORI CAUSALI DELLA PSICOPATOLOGIA E I DIFFERENTI APPROCCI I fattori di rischio e le cause del comportamento patologico Nel campo della psicopatologia è di importanza fondamentale chiedersi cosa provochi nelle persone un disagio mentale, poiché se conoscessimo le cause di alcuni disturbi potremmo essere in grado di prevenire le condizioni che portano a un certo stato di sofferenza e forse annullare l’effetto delle condizioni che lo mantengono; inoltre potremmo classificare e diagnosticare meglio i disturbi se capissimo le cause, piuttosto che basarci solo su raggruppamenti di sintomi come dobbiamo fare ancora oggi. Anche se comprendere le cause del comportamento disadattivo è estremamente difficile, poiché il comportamento umano è decisamente complesso, uno degli obiettivi della psicologia clinica è quello di comprendere la natura delle relazioni tra le variabili di interesse, osservandole e misurando il grado in cui due variabili o eventi si verificano insieme. CORRELAZIONE Nel tentativo di capire che cosa provochi diversi tipi di psicopatologie, il primo passo è quello di osservare quali variabili siano correlate a determinati risultati: ad esempio, l’esperienza di abusi fisici durante l’infanzia (X) è associato a un maggiore rischio di depressione nel corso della vita (Y), quindi si dice che le l’abuso sia correlato alla depressione, ma il solo fatto che le due cose siano correlate non dice niente riguardo al fatto che uno abbia causato l’altro; se, e solo se, X mostra di precedere sempre Y possiamo dedurre che X è un fattore di rischio per Y (ovvero è un fattore associato a un maggiore rischio di sviluppare la condizione Y). La domanda successiva è se X possa essere modificata, poiché se può esserlo allora è considerata un fattore di rischio variabile, mentre se non può esserlo allora viene considerata un indicatore fisso (come nel caso di una storia di abuso infantile durante l’infanzia). CAUSALITA’ La questione chiave per la causalità è però se il fatto di modificare la X comporti una variazione di Y, infatti se così non fosse allora X sarebbe considerato un indicatore variabile di Y, mentre se invece lo fosse allora, e solo allora, X sarebbe da considerare un fattore di rischio causale per la condizione Y. Tenendo a mente queste distinzioni, è importante inoltre notare che ci sono diversi tipi di relazioni causali nell’eziologia del comportamento patologico: - una causa necessaria (X) è una caratteristica che deve esistere per il verificarsi di un disturbo (Y) (es. una paresi generale (Y) non può svilupparsi a meno che la persona abbia precedentemente contratto la sifilide (X)) - una causa sufficiente per un disturbo è una condizione che garantisce la presenza del disturbo stesso, ovvero se si verifica X allora anche Y si verificherà; tuttavia, una causa sufficiente può non essere una causa necessaria (es. si ipotizza che l’impotenza appresa (X) sia una causa sufficiente per lo sviluppo della depressione (Y), ma essa non è necessaria, poiché ci sono anche altre cause che portano alla depressione) Fino ad oggi, comunque, non sono state trovate, nella grande maggioranza dei disturbi mentali, cause necessarie, ma ciò che viene studiato il più delle volte nella ricerca psicopatologica sono le cosiddette concause, ovvero una causa che aumenta la probabilità di sviluppare una malattia, anche se essa non è necessaria o sufficiente perché il disturbo si verifichi (ciò significa che se si verifica X allora aumenta la probabilità che si verifichi Y). FATTORI DI RISCHIO, RINFORZANTI E PROTETTIVI Oltre a distinguere tra il necessario, il sufficiente e le concause dobbiamo anche considerare il lasso di tempo entro il quale accadono gli avvenimenti da poter considerare come cause. Alcuni fattori causali che si verificano relativamente presto nella vita possono non mostrare i loro effetti anche per molti anni, e questi sono considerati fattori di rischio distali, i quali possono comunque contribuire a una predisposizione a sviluppare un dato disturbo. Altri fattori invece, definiti fattori di rischio prossimali, precedono di poco la comparsa dei sintomi di un disturbo, come ad esempio una condizione che si rivela troppo pesante per l’individuo e fa così scattare l’insorgenza del disturbo, oppure comporta cambiamenti biologici come una lesione cerebrale. I fattori rinforzanti sono invece ulteriori condizioni che tendono a mantenere comportamenti disadattivi già in corso (es. l’essere parzialmente sollevati dalle responsabilità indesiderate quando si è malati o il fatto che il comportamento di una persona depressa fa sì che si allontanino da lei amici e famiglia, il chè può portare a un maggiore senso di rifiuto che rafforza la depressione stessa); queste conseguenze, di per sé insignificanti, possono involontariamente scoraggiare il recupero. Per gran parte dei disturbi psicopatologici non vi è ancora una chiara comprensione sulle eventuali cause, sia necessarie che sufficienti, della loro insorgenza, però disponiamo di una discreta conoscenza di molti dei fattori di rischio per la maggior parte delle forme di psicopatologia conosciute. Questo quadro complesso è ulteriormente complicato dal fatto che ciò che può essere un fattore di rischio prossimale per un problema in una fase della vita, può anche fungere anche da fattore di rischio distale, ovvero come predisposizione per un altro disturbo più avanti nella vita (es. la morte di un genitore può essere un fattore di rischio prossimale con conseguente reazione di dolore di un bambino, che potrebbe durare mesi o un anno, ma la morte del genitore può anche risultare un fattore di rischio distale aumentando la probabilità che, quando il bambino crescerà, potrà diventare depresso in risposta a determinati fattori di stress). I fattori protettivi diminuiscono, al contrario, la probabilità di esiti negativi, e non indicano semplicemente l’assenza di un fattore di rischio, ma qualcosa che realmente ostacola la probabilità che un dato esito negativo tra quelli più a rischio si presenti. Inoltre, i fattori di protezione non sono necessariamente esperienze positive, poiché ad esempio l’esposizione a esperienze stressanti ma risolte con successo può essere un fattore di promozione del senso di fiducia in sé stessi; pertanto può accadere che alcuni fattori di stress paradossalmente riescano a promuovere la capacità di coping (fronteggiamento) temprando il carattere dell’individuo (anche se ciò è più probabile che accada con esperienze di stress moderato, piuttosto che lieve o estremo). I fattori protettivi portano spesso alla resilienza, ovvero alla capacità di adattarsi con successo a circostanze difficili, fenomeno per cui alcuni individui mostrano risultati relativamente buoni nonostante la sofferenza provata a causa di esperienze negative, che invece solitamente provocano gravi conseguenze. BIDIREZIONALITA’ DEL FEEDBACK Nelle scienze il compito di determinare le relazioni causa-effetto è focalizzato su una data condizione X (causa) che si è dimostrata essere alla base di Y (effetto); quando poi è coinvolto più di un fattore causale si usa il termine “quadro” o “pattern” causale, nel quale le condizioni A, B, C… condizionano Y. Tuttavia, nelle scienze del comportamento abbiamo a che fare con una moltitudine di cause interagenti e abbiamo spesso difficoltà a distinguere tra ciò che è una causa e ciò che è un effetto: questo si verifica perché gli effetti possono servire come feedback (segnali di informazione), i quali possono a loro volta influenzare le cause, pertanto devono essere prese in considerazione reciproche influenze bidirezionali. Esempio: Un ragazzo con una storia alle spalle di relazioni disturbate con i propri genitori potrà facilmente interpretare in modo erroneo le intenzioni dei suoi pari percependole come ostili, sviluppando così una serie di strategie difensive per rifiutare gli sforzi altrui nell’essere amichevoli; di fronte a tale comportamento quelli intorno a lui diventeranno ostili e tenderanno a rifiutarlo, confermando così le sue aspettative e rafforzando le sue idee distorte. A questo punto, per capire quale sia la causa dei problemi di questo ragazzo con i propri coetanei, molteplici opzioni contribuiscono alla verità, poiché la relazione disturbata con i genitori è la causa delle strategie difensive del ragazzo, che così considerata è l’effetto, ma allo stesso tempo le strategie difensive sono anche la causa della risposta dei coetanei. relazione con i genitori strategie difensive del ragazzo risposta dei coetanei (causa X) (feedback bidirezionale) (effetto del feedback) MODELLO DIATESI-STRESS Si ritiene che i disturbi mentali si sviluppino anche in concomitanza a un importante fattore di stress, soprattutto se un soggetto ha una vulnerabilità preesistente per quel disturbo; i modelli che descrivono questo tipo di situazione sono noti come modelli diatesi-stress. Una diatesi (ovvero vulnerabilità) è una predisposizione verso lo sviluppo di un disturbo che può derivare da fattori biologici, psicologici o socio-culturali. Lo stress si verifica quando un individuo sperimenta eventi indesiderabili che richiedono sforzi di adattamento comportamentali, fisiologici e cognitivi; pertanto lo stress indica la risposta dell’individuo a queste richieste che egli percepisce come superiori alle risorse che possiede. Per tradurre questi termini in fattori causali: - la diatesi è la risultante di una o più cause contributive, che però generalmente non sono di per sé sufficienti a causare il disturbo - ci deve poi essere un fattore più prossimale “scatenante” che può essere contributivo o necessario, ma non sarebbe generalmente sufficiente di per sé (salvo su persone con specifica vulnerabilità) N.B. è importante notare che i fattori che contribuiscono allo sviluppo di una diatesi sono talvolta essi stessi stress molto potenti (es. la morte di un genitore per un bambino) Nel tempo sono stati proposti diversi modelli secondo cui una diatesi e uno stress possono abbinarsi per produrre un disturbo: Il modello additivo ® nel quale la diatesi e lo stress si sommano, poiché un individuo con un alto livello di vulnerabilità può avere bisogno anche solo di una piccola quantità di stress per sviluppare un disturbo, mentre se ha un basso livello di diatesi può aver bisogno di sperimentare uno o più stress molto elevati) Il modello interattivo ® secondo il quale deve essere presente una certa quantità di diatesi prima che lo stress possa avere qualche effetto; pertanto una persona senza una data diatesi non potrà mai sviluppare una malattia (indipendentemente da quanto stress sperimenti), mentre una persona con diatesi avrà una probabilità crescente di sviluppare una malattia con l’aumentare dei livelli di stress Quindi in conclusione né la diatesi né lo stress sono di per sé sufficienti a causare la malattia, ma se combinati insieme possono portare l’individuo a comportarsi in modo anomalo. MODELLI DI SVILUPPO MULTI CAUSALE Melinda e Tracy sono due gemelle la cui madre e nonna avevano entrambe alle spalle storie di depressione clinica ricorrenti e i cui genitori sono morti in un incidente stradale quando le gemelle avevano 1 anno. A seguito dell’evento le due bambine sono state adottate da due famiglie differenti: la famiglia adottiva di Melinda le ha fornito un ambiente amorevole e solidale, mentre i genitori adottivi di Tracy hanno divorziato e la bambina è stata cresciuta solo dalla madre, la quale non era più in grado di fornirle un ambiente adeguato a causa di una serie di problemi psicologici (tra cui l’alcolismo). Dopo anni entrambe le due gemelle si sposano e successivamente divorziano, ma mentre Melinda, anche se ha sviluppato alcuni sintomi depressivi, si è ripresa in fretta, Tracy al contrario ha sviluppato un episodio depressivo maggiore che è durato più di un anno. Melinda e Tracy hanno un patrimonio genetico identico, quindi la stessa diatesi genetica per la depressione, ed entrambe avevano sperimentato lo stesso fattore di stress distale (la morte dei genitori) e lo stesso fattore di stress prossimale (il divorzio); tuttavia Melinda, essendo cresciuta in un ambiente amorevole ha sviluppato molti fattori protettivi, mentre Tracy non ha avuto questa possibilità. Questo dimostra quindi che la diatesi e lo stress devono essere considerati all’interno di un ampio quadro di modelli di sviluppo multi causale. La prospettiva biologica Il punto di vista biologico considera i disturbi mentali come vere e proprie malattie fisiche del sistema nervoso centrale, autonomo e/o del sistema endocrino, ereditarie o causate da qualche processo patologico. I disturbi riconosciuti con componenti biologiche sono definiti come malattie neurologiche che risultano dalla degenerazione di una parte del tessuto cerebrale che provocano effetti a livello psicologico; tuttavia, la stragrande maggioranza dei disturbi mentali non è causata da danni neurologici di per sé (infatti ad esempio il contenuto bizzarro dei deliri e delle allucinazioni non sono causati semplicemente e direttamente da danni cerebrali). La prospettiva biologica si concentra su 4 categorie che sembrano particolarmente rilevanti per lo sviluppo del comportamento disadattivo: 1. La vulnerabilità genetica 2. Il danno cerebrale e la plasticità neuronale 3. I neurotrasmettitori e le anomalie ormonali 4. Il temperamento 1. LA VULNERABILITA’ GENETICA I geni sono molecole di DNA che si trovano nei cromosomi e sono i portatori delle informazioni che ereditiamo dai nostri genitori; infatti, anche se comunque i geni non determinano se una persona svilupperà o meno un dato disturbo, vi sono prove concrete che più disturbi mentali abbiano una certa influenza genetica. Ogni cellula umana ha 23 coppie di cromosomi, di cui una copia di ciascun cromosoma proviene dalla madre e una dal padre: 22 di queste coppie determinano caratteristiche anatomiche e fisiologiche generali dell’individuo mentre la coppia residua, i cromosomi sessuali, determinano il sesso. La ricerca ha dimostrato che le anomalie nella struttura o nel numero di cromosomi possono essere associate ad alcuni gravi disturbi (es. sindrome di Down dovuta alla trisomia 21), ma tuttavia i tratti della personalità e i disturbi mentali non sono affatto influenzati direttamente da anomalie cromosomiche di per sé. Le vulnerabilità ai disturbi mentali sono sempre poligeniche, ovvero sono influenzate da più geni, infatti una persona geneticamente vulnerabile eredita di solito un gran numero di geni che operano insieme, tanto da aumentare la vulnerabilità di un individuo. Pertanto, nel campo della psicopatologia, le influenze genetiche non si esprimono (se non raramente) in modo semplice e diretto poiché il comportamento, a differenza di altre caratteristiche fisiche, non è determinato solo dal patrimonio genetico, ma è prodotto dall’interazione fra organismo e ambiente. Il patrimonio genetico totale di una persona è indicato come genotipo, mentre le caratteristiche che derivano dall’interazione del genotipo con l’ambiente sono indicate come fenotipo. I fattori genetici possono quindi contribuire a una diatesi a sviluppare una qualche psicopatologia che emergerà però solo se vi è una fonte di stress significativo nella vita della persona: ciò è noto come interazione genotipo-ambiente. In molti casi i geni possono effettivamente modellare le esperienze ambientali di un bambino, influenzando così il fenotipo in modo importante, e ci si riferisce a questo fenomeno come una correlazione genotipo-ambiente (es. un bambino geneticamente predisposto al comportamento aggressivo può essere respinto dai suoi pari e tale rifiuto può portarlo ad associarsi con coetanei simili a lui, aggressivi e in futuro potenzialmente delinquenziali, portando così a una maggiore probabilità di sviluppare un modello di delinquenza in adolescenza). I ricercatori hanno trovato tre importanti modi in cui il genotipo di un individuo può modellare il suo ambiente: 1. il genotipo di un soggetto può avere un effetto passivo dovuto all’ambiente a causa della somiglianza genetica di genitori e figli (es. genitori molto intelligenti possono fornire un ambiente altamente stimolante per il loro bambino) 2. il genotipo del soggetto può evocare particolari reazioni dall’ambiente sociale e fisico costituendo un effetto evocativo (es. bambini attivi e felici evocano risposte più positive rispetto a bambini passivi) 3. il genotipo del soggetto può giocare un ruolo più attivo nel plasmare l’ambiente costituendo un effetto attivo poiché in questo caso il bambino costruisce o cerca una ambiente che gli è congeniale La maggior parte delle informazioni che possediamo sul ruolo dei fattori genetici si basa soprattutto sugli studi di persone consanguinee, e in particolare vengono utilizzati tre metodi principali per studiare il campo della genetica del comportamento: analisi dell’anamnesi familiare prossimo-remota, studi sui gemelli e studi sulle adozioni. Dato che tutti e tre i tipi di studi sull’ereditarietà riescono a separare l’ereditarietà dall’ambiente, permettono anche di testare l’influenza dei fattori ambientali e differenziare fra le influenze ambientali condivise e non condivise: Influenze ambientali condivise ® sono quelle che presentano i bambini in una famiglia con caratteristiche simili per tutti i componenti (es. la povertà della famiglia) Influenze ambientali non condivise ® sono quelle nelle quali differiscono i vari membri della famiglia e includono esperienze uniche (es. un genitore che tratta un figlio in modo qualitativamente diverso rispetto a un altro) 2. DANNO CEREBRALE E PLASTICITA’ NEURONALE Specifiche lesioni cerebrali con effetti osservabili nel tessuto cerebrale sono raramente causa primaria dei disturbi psichici, tuttavia negli ultimi anni sono aumentati i progressi nella comprensione di quanto anche le più lievi carenze a livello cerebrale siano implicate in molti disturbi mentali. Tale influenza è dovuta alla plasticità neuronale, ovvero la flessibilità del cervello umano nel compiere cambiamenti nell’organizzazione delle informazioni e nella funzione cognitiva, in risposta a esperienze pre e post natali, allo stress, alla malattia e ad altri vari fattori; gli effetti di queste trasformazioni possono essere poi dannosi o benefici a seconda delle circostanze. La ricerca sulla plasticità neuronale e comportamentale, in combinazione con il lavoro sulle correlazioni genotipo-ambiente, rende chiaro che la genetica influenza sicuramente l’attività neuronale, la quale a sua volta influenza il comportamento, che a sua volta influenza l’ambiente (tenendo sempre in considerazione che tutte queste influenze sono bidirezionali). 3. SQUILIBRI DEI NEUROTRASMETTITORI E ORMONALI Affinché il cervello funzioni adeguatamente, i neuroni devono comunicare efficacemente tra loro attraverso la trasmissione degli impulsi nervosi: in particolare, questi impulsi viaggiano dal corpo cellulare del neurone fino all’assone, per poi giungere alle terminazioni (ramificazioni più periferiche dell’assone), dove le sostanze neurotrasmettenti vengono rilasciate nelle sinapsi, ovvero lo spazio di congiunzione fra un neurone (detto pre-sinaptico) e l’altro (detto post-sinaptico). Tali trasmissioni inter-neuronali sono compiute dai neurotrasmettitori, ovvero delle sostanze chimiche che vengono rilasciate nella sinapsi dal neurone pre-sinaptico quando si verifica un impulso nervoso. I neurotrasmettitori hanno quindi la funzione di stimolare il neurone post-sinaptico e avviare un impulso o inibire la trasmissione degli impulsi. L’idea che gli squilibri dei neurotrasmettitori possano causare un comportamento anomalo è uno dei principi fondamentali della prospettiva biologica, ed è stato dimostrato che molto spesso lo stress psicologico può portare a questi squilibri, che nello specifico possono essere dovuti a diverse cause: - un’eccessiva produzione e rilascio del neurotrasmettitore nelle sinapsi - disfunzioni nei processi con cui i neurotrasmettitori, una volta rilasciati nella sinapsi, vengono disattivati - problemi legati ai recettori del neurone post-sinaptico, i quali possono essere anormalmente sensibili o insensibili I farmaci impiegati per il trattamento di vari disturbi sono infatti spesso ritenuti utili per correggere questi squilibri, e dato che alcune forme di psicopatologia sono state associate a varie anomalie nel funzionamento dei neurotrasmettitori, non sorprende che molti dei farmaci utilizzati per il trattamento abbiano le sinapsi come sito d’azione. Inoltre, di tutti i neurotrasmettitori scoperti fino ad ora, solo cinque sono stati studiati in modo più esteso in relazione alla psicopatologia: 1. Noradrenalina ® gioca un ruolo importante nelle reazioni di emergenza del nostro corpo quando siamo esposti a una situazione di stress acuto o percepita come pericolosa 2. Dopamina ® è coinvolta nelle sensazioni di piacere e nell’elaborazione cognitiva (e sembra abbia un ruolo importante anche nella schizofrenia) 3. Serotonina ® ha effetti importanti sul modo in cui pensiamo ed elaboriamo le informazioni dell’ambiente, dei comportamenti e degli stati d’animo altrui (e sembra giocare un ruolo nei disturbi emotivi come ansia e depressione) 4. Glutammato ® neurotrasmettitore di tipo eccitatorio che è stato in qualche modo collegato alla schizofrenia 5. GABA ® fortemente implicato nel fenomeno dell’ansia così come in altri stati emotivi caratterizzati da elevati livelli di eccitazione Alcune forme di psicopatologia sono poi state collegate anche a squilibri ormonali, poiché gli ormoni sono messaggeri chimici secreti da un insieme di ghiandole endocrine presenti nel nostro corpo. Il nostro sistema nervoso centrale è strettamente connesso al sistema endocrino, in particolare grazie agli stimoli che provengono dall’ipotalamo e che giungono all’ipofisi, ovvero la ghiandola principale che produce tutta una varietà di ormoni che regolano o controllano le altre ghiandole endocrine. In particolare, i farmaci che facilitano gli effetti di un neurotrasmettitore sul neurone post-sinaptico sono chiamati agonisti, mentre quelli che si oppongono o inibiscono questi effetti sono chiamati antagonisti. Un importante insieme di interazioni avviene lungo l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene per cui si ha che: 1. i messaggi viaggiano dall’ipotalamo all’ipofisi 2. l’ipofisi rilascia l’ormone che stimola il surrene per produrre adrenalina e cortisolo (l’ormone dello stress) 3. il cortisolo fornisce un feedback negativo all’ipotalamo e all’ipofisi per diminuire il loro rilascio, che a sua volta induce la riduzione del rilascio di adrenalina e cortisolo Il malfunzionamento di questo sistema di feedback negativo è implicato in varie forme di psicopatologia come, ad esempio, la depressione e il disturbo da stress post-traumatico. 4. IL TEMPERAMENTO Il termine temperamento si riferisce alle caratteristiche di un individuo che si crede siano in qualche modo biologicamente programmate. Il temperamento è considerato come la base da cui si sviluppa la nostra personalità e si possono identificare circa cinque dimensioni: paura, irritabilità/frustrazione, risposte affettive positive, livello di attività, attenzione focalizzata/controllo su di sé. Queste dimensioni del temperamento sembrano poi essere a loro volta collegate a tre importanti dimensioni della personalità adulta: - Nevrosi (o emotività negativa) - Estroversione (o emotività positiva) - Controllo su di sé, coscienziosità e piacevolezza Inoltre, il temperamento di un bambino ha effetti profondi su una varietà di importanti processi dello sviluppo: ad esempio, su in bambino con un temperamento pauroso ci sono molte possibilità che si instauri il condizionamento classico della paura riguardo a situazioni in cui essa è provocata da vari stimoli; pertanto, successivamente, il bambino può imparare a evitare di entrare in quelle date situazioni da lui temute, e l’evidenza suggerisce che il soggetto può poi diventare particolarmente incline a evitare situazioni sociali. Quindi il temperamento sembra essere in grado di preparare il terreno per lo sviluppo di varie forme di psicopatologia in stadi più avanzati della vita. La prospettiva psicologica Le più importanti prospettive psicologiche nell’ambito della psicopatologia si articolano in tre differenti punti di vista: 1. la prospettiva psicodinamica 2. la prospettiva comportamentale 3. la prospettiva cognitivo-comportamentale Essi rappresentano orientamenti distinti e talvolta contrastanti, ma per molti versi complementari; inoltre tutti sottolineano l’importanza delle prime esperienze di vita, la consapevolezza dei processi psicologici nell’individuo e come questi possano essere influenzati da fattori sociali. 1. LA PROSPETTIVA PSICODINAMICA È prima di tutto necessario distinguere fra la teoria psicanalitica classica fondata sui principi freudiani e le prospettive psicodinamiche più recenti, che rappresentano sì la seconda generazione della teoria originaria, ma che allo stesso tempo se ne differenziano in modo significativo. 1.1 LA TEORIA PSICANALITICA FREUDIANA Freud, fondatore della scuola psicanalitica, è colui che ha introdotto il concetto chiave di questa prospettiva, ovvero l’inconscio, una vasta zona della nostra mente in cui risiedono i ricordi dolorosi, i desideri proibiti e altre esperienze represse (cioè spinte fuori dalla coscienza). Tuttavia, Freud riteneva che il materiale inconscio continuasse a cercare una sua espressione ed emergesse nelle fantasie, nei sogni e nei lapsus, pertanto fino a quanto tale materiale inconscio non viene portato alla consapevolezza e integrato nella parte cosciente della mente (ad esempio attraverso la psicanalisi), può produrre comportamenti irrazionali e disadattivi. LA STRUTTURA DELLA PERSONALITA’: IO, ES E SUPER-IO Freud ipotizzava che i comportamenti di una persona fossero il risultato dell’interazione di tre componenti chiave della personalità quali Io, Es e Super-io. L’Es è la fonte delle pulsioni istintuali che possono essere di due tipi opposti: le pulsioni di vita, principalmente di natura sessuale e che costituiscono la libido (ovvero l’energia della vita) e le pulsioni di morte, distruttive, che tendono verso l’aggressività e l’eventuale morte. L’Es opera attraverso il principio di piacere impegnandosi completamente ed egoisticamente a mettere in atto comportamenti orientati alla gratificazione immediata dei bisogni istintuali. L’Io media tra le richieste dell’Es e quelle della realtà esterna, e una delle sue funzioni di base è sì quella di soddisfare le richieste dell’Es, ma in modo da garantire anche la sopravvivenza dell’individuo; questo ruolo richiede l’uso della ragione e infatti l’Io opera in base al principio di realtà. Il Super-io (teorizzato successivamente da Freud) si forma, gradualmente, in conseguenza all’interiorizzazione dei tabù e dei valori morali della società, e si trasforma in un sistema di controllo interno che tenta di gestire i desideri disinibiti dell’Es. Freud riteneva che l’interazione di Es, Io e Super-io fosse cruciale nel determinare il comportamento dell’individuo, infatti spesso i conflitti interiori insorgerebbero proprio perché queste tre istanze si battono per obiettivi diversi; se tali conflitti intrapsichici risultano essere irrisolti, possono portare allo sviluppo di svariati disturbi mentali. ANSIA E MECCANISMI DI DIFESA Freud riteneva che l’ansia svolgesse un ruolo fondamentale nella maggior parte delle forme di psicopatologia e che fosse talvolta apertamente vissuta oppure repressa. Quando però l’ansia esiste solo nel nostro inconscio, non può essere affrontata con misure razionali, e in questi casi l’Io ricorre a misure di protezioni irrazionali che sono indicate come meccanismi di difesa dell’Io: tali meccanismi riducono l’ansia per aiutare una persona a respingere idee dolorose fuori dalla coscienza, piuttosto che affrontare direttamente il problema. N.B. Per “fissazione” si intende, in psicanalisi, l’arresto durante le fasi dello sviluppo psicosessuale di una quantità di libido a particolari zone erogene, ovvero una sorta di stallo della pulsione che non trova sbocco. LE FASI PSICOSESSUALI DELLO SVILUPPO Oltre al suo conetto di struttura della personalità, Freud ha anche proposto 5 stadi psicosessuali dello sviluppo che tutti noi sperimentiamo dall’infanzia alla pubertà. Ogni fase è caratterizzata da un modo dominante di raggiungere il piacere libidico: 1°fase orale, 2°stadio anale, 3°fase fallica, 4°periodo di latenza e 5°stadio genitale. Freud riteneva che, per evitare di rimanere bloccati o fissati a uno dei livelli di sviluppo, fosse necessaria una gratificazione appropriata durante ogni fase; ad esempio, un bambino che non riceve un’adeguata gratificazione orale può, nella vita adulta, essere maggiormente incline a diventare dipendente da forme di stimolazione orale (mangiare troppo, fumare, mordersi le unghie…) IL COMPLESSO DI EDIPO E IL COMPLESSO DI ELETTRA Ogni stadio psicosessuale suscita conflitti che Freud riteneva dovessero essere risolti al fine di evitare fissazioni, e uno dei conflitti più importanti si verifica durante la fase fallica, quando il piacere e le fantasie che la accompagnano spianano la strada al complesso di Edipo. Secondo la mitologia, Edipo, senza saperlo, uccise suo padre e sposò sua madre: Freud sosteneva quindi che ogni bambino rivivesse simbolicamente questo dramma cosicché brama sessualmente la madre e considera suo padre come un rivale; tuttavia ogni ragazzo teme anche che il padre lo punirà per questo suo desiderio tagliandogli il pene, e questa angoscia di castrazione costringe il ragazzo a reprimere il suo desiderio e la sua ostilità. Alla fine, se tutto va bene, il ragazzo si identificherà con il padre e proverà solo affetto inoffensivo per la madre, incanalando i suoi impulsi sessuali verso un’altra donna. Il complesso i Elettra è la controparte femminile e Freud credeva che ogni ragazza in questa fase sperimentasse l’invidia del pene; tale complesso sarà poi superato quando la ragazza si identificherà con la madre e prometterà a sé stessa che un giorno avrà un proprio uomo che potrà darle bambino che servirà, inconsciamente, come sostituto del pene. L’IMPATTO DELLA PROSPETTIVA PSICANALITICA - Freud ha sviluppato tecniche terapeutiche (come le libere associazioni e l’analisi dei sogni) per prendere conoscenza anche degli aspetti inconsci della vita mentale. - Ha messo in evidenza alcuni punti che sono ancora oggi parte del pensiero attuale (anche se in forma modificata): il fatto che ci sono fattori psicologici al di fuori della nostra consapevolezza che influenzano il nostro comportamento, il fatto che le esperienze infantili precoci possono avere un importante e duraturo impatto sullo sviluppo della personalità, e il fatto che i fattori sessuali possono svolgere un ruolo importante nel comportamento e nei disturbi mentali. - Ha dimostrato che certi fenomeni mentali si verificano nel tentativo di far fronte a problemi difficili e sono pertanto principi psicologici che si applicano sia a un comportamento normale sia a uno patologico. 1.2 PROSPETTIVE PSICODINAMICHE PIU’ RECENTI Freud era principalmente interessato al funzionamento dell’Es e successivamente al Super-io, ma ha sempre riposto poca attenzione sull’Io; i teorici successivi svilupparono poi alcune idee di Freud in tre direzioni leggermente diverse. LA PSICOLOGIA DELL’IO Anna Freud, figlia del maestro, era molto più interessata a come l’Io svolge le sue funzioni centrali per dirigere la personalità, così lei e alcuni teorici psicodinamici raffinarono ed elaborarono i meccanismi di difesa dell’Io e misero tale istanza in primo piano, dandogli un importante ruolo organizzativo nello sviluppo della personalità; questa scuola divenne nota come la psicologia dell’Io. LA TEORIA DELLE RELAZIONI OGGETTUALI Un’altra prospettiva psicodinamica è la teoria delle relazioni oggettuali, sviluppata dalla Klein, la Mahler e Winnicott, il cui punto centrale sono le interazioni e i rapporti che le persone sperimentano con i loro oggetti interni ed esterni. L’oggetto è qui una rappresentazione simbolica di un’altra persona e del ruolo che questa ha nello sviluppo del bambino (solitamente un genitore): attraverso un processo di introiezione infatti, un bambino incorpora simbolicamente nella sua persona (attraverso immagini e ricordi) le persone importanti della sua vita. Il concetto principale è che gli oggetti interiorizzati possono avere proprietà anche opposte, dando luogo a conflitti interiori; ad esempio, secondo Kernberg, le persone con disturbo borderline di personalità, la cui caratteristica principale è l’instabilità, non sono in grado di raggiungere un’identità personale completa e stabile a causa di un’incapacità nell’integrare gli oggetti interiorizzati, e causa di questa incapacità di strutturare il proprio mondo interno, non riescono a riconoscere nelle persone una miscela di tratti sia buoni che cattivi, arrivando a generalizzare questa prospettiva al mondo esterno che diventa così percepito in estremi opposti (tutto buono o tutto cattivo). LA PROSPETTIVA INTERPERSONALE Un terzo gruppo di teorici psicodinamici si è concentrato sulle determinanti sociali del comportamento, infatti essendo l’uomo un essere sociale, gran parte di ciò che siamo è un prodotto delle nostre relazioni con gli altri; è perciò logico aspettarsi che la psicopatologia sia radicata nelle esperienze sfavorevoli che abbiamo sviluppato nei rapporti interpersonali. LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO La teoria dell’attaccamento di Bowlby, che affonda le radici nelle prospettive interpersonali e nelle relazioni oggettuali, sottolinea l’importanza della prima esperienza di relazione di attaccamento, che viene ritenuta la base del successivo funzionamento per tutta l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta. Bowlby si concentra quindi sulla qualità delle cure parentali per lo sviluppo di un attaccamento sicuro, ma a differenza dei suoi predecessori ritiene che il bambino giochi un ruolo più attivo nel plasmare il corso del proprio sviluppo. 2. LA PROSPETTIVA COMPORTAMENTALE La prospettiva comportamentale si incentra sullo studio del comportamento direttamente osservabile, attraverso la ricerca di laboratorio, con l’obiettivo di comprendere il comportamento umano. L’apprendimento, inteso come la modifica del comportamento come conseguenza dell’esperienza, è il tema centrale dell’approccio poiché la maggior parte del comportamento umano è appreso. Il condizionamento classico si verifica quando, a seguito di ripetute presentazioni di uno stimolo condizionato (es. campanello) associato alla somministrazione di uno stimolo incondizionato (es. cibo), la sola presentazione dello stimolo condizionato provoca di per sé la risposta incondizionata (es. salivazione) che a questo punto viene definita come risposta condizionata. Tuttavia, se uno SC viene ripetutamente presentato senza lo SI, la RI si estingue gradualmente attraverso un processo definito come estinzione. Nel condizionamento operante un individuo impara a raggiungere un obiettivo desiderato che può essere sia quello di ottenere qualcosa di gratificante, sia quello di evitare qualcosa di spiacevole; per questo motivo un concetto fondamentale è quello del rinforzo, sia inteso come elargizione di un premio sia come rimozione di uno stimolo avversivo. Generalizzazione ® è un processo per cui nel condizionamento (classico e operante) una risposta condizionata da uno stimolo può essere evocata anche da altri stimoli simili al primo Discriminazione ® è un processo complementare che si verifica quando una persona impara a distinguere tra stimoli simili e a rispondere in modo diverso sulla base di quali siano seguiti da un rinforzo Questi concetti di generalizzazione e discriminazione hanno implicazioni anche per lo sviluppo di comportamenti disadattivi, poiché esiste la possibilità di fare generalizzazioni e discriminazioni inappropriate (come quando un adolescente non riesce a discriminare tra una presa in giro amichevole e una ostile da parte dei coetanei). Troviamo poi l’apprendimento osservativo, ovvero la capacità di apprendere mediante l’osservazione, senza bisogno di fare direttamente esperienza di uno stimolo condizionato o di un rinforzo, comportamenti adattivi e disadattivi. La prospettiva comportamentale cerca di spiegare l’acquisizione, la modificazione e l’estinzione di quasi tutti i tipi di comportamento, pertanto il comportamento disadattivo è qui visto essenzialmente come il risultato di un apprendimento sbagliato o incompleto ed è definito in termini di risposte specifiche, osservabili e indesiderate. 3. LA PROSPETTIVA COGNITIVA La psicologia cognitiva si occupa dello studio dei meccanismi di elaborazione delle informazioni di base (come attenzione e memoria) ma anche di processi mentali più elevati come pianificazione, pensiero e processi decisionali. Ad oggi la prospettiva cognitiva (o cognitivo-comportamentale) in psicopatologia si concentra generalmente su come i pensieri e l’elaborazione delle informazioni possa diventare distorta e portare quindi a emozioni e comportamenti disadattivi. Concetto fondamentale per questa prospettiva è quello di schema, ovvero una rappresentazione della realtà dovuta a conoscenze già acquisite che guida l’elaborazione di informazioni attuali e che può portare a distorsioni più o meno negative nell’attenzione, nella memoria e nella comprensione. Gli schemi riguardo a noi stessi (schemi del sé) e al mondo che ci circonda (schemi sul mondo) sono le nostre guide (ad esempio gli schemi del sé includono le nostre opinioni su ciò che siamo, su ciò possiamo diventare e su ciò che è importante per noi). Questi schemi sono quindi fondamentali per impegnarci in un comportamento efficace, ma possono anche essere fonte di vulnerabilità, poiché alcuni di questi schemi o alcuni espetti di essi possono essere distorti; questo accade perché solitamente non siamo del tutto consapevoli dei nostri schemi mentali di riferimento, infatti per quanto il nostro comportamento si fondi su di essi, possiamo non essere consapevoli dei presupposti su cui essi di basano a loro volta. Assimilazione ® è un processo per cui tendiamo a inserire una nuova informazione all’interno di uno schema già esistente anche se magari questa informazione avrebbe bisogno di essere riadattata o fosse distorta, così che cerchiamo di adattarla agli schemi preesistenti rifiutando o distorcendo la nuova informazione che potrebbe contraddire lo schema già formato Adattamento ® è un processo che consiste nel cambiare il nostro punto di vista preesistente per permettere di incorporare anche nuove informazioni che non si adattano allo schema già formato; questo è essenzialmente l’obiettivo delle terapie cognitivo-comportamentali Secondo la prospettiva cognitiva, le diverse forme di psicopatologia sono quindi caratterizzate dalla presenza di schemi disadattivi che si sono sviluppati in funzione dell’apprendimento di esperienze precoci avverse; tali schemi disadattivi possono poi portare a quelle distorsioni del pensiero che caratterizzano disturbi come l’ansia, la depressione e i disturbi di personalità. N.B. Anche in questa prospettiva si tiene in considerazione il fatto che una grande quantità di informazioni vengono elaborate inconsciamente, ma al contrario della concezione freudiana, qui l’attività mentale inconscia viene utilizzata semplicemente per indicare quei processi mentali che avvengono senza che la persona se ne renda conto. Attribuzione ® è il processo mentale che per cui si assegnano delle cause a determinati avvenimenti in modo da avere una spiegazione per i comportamenti nostri e altrui Stile di attribuzione ® è un modo caratteristico per cui un individuo tende ad assegnare le cause a eventi buoni o cattivi, e i teorici attribuzioni sono interessati a capire se diverse forme di psicopatologia sono o meno associate a stili di attribuzione distintivi e disfunzionali (es. le persone depresse tendono ad attribuire eventi negativi a cause interne e stabili, mentre le persone non depresse tendono ad avere un giudizio autoreferenziale positivo per il quale sono più propense a fare attribuzioni interne su eventi positivi, piuttosto che su quelli negativi) L’idea fondamentale della prospettiva cognitivo-comportamentale è quindi che il nostro modo di interpretare gli eventi e le esperienze determini le nostre reazioni emotive e i nostri comportamenti; pertanto l’obiettivo della terapia cognitiva è cercare il modo migliore per modificare cognizioni distorte e disadattive, inclusi gli schemi disadattivi sottostanti che conducono a diversi disturbi. La prospettiva sociale La prospettiva sociale prende in considerazione i fattori sociali, ovvero le influenze ambientali, spesso rappresentate da eventi negativi imprevedibili e incontrollabili, che possono influenzare psicologicamente una persona rendendola vulnerabile a un disturbo. Tale prospettiva ha permesso una maggiore comprensione delle influenze sociali sulla salute mentale, che a sua volta ha permesso di ampliare il campo della conoscenza spostando, in parte, l’attenzione dal singolo individuo alla società in cui esso si sviluppa, e portando così allo sviluppo di programmi volti al miglioramento delle condizioni sociali che possono essere alla base di alcuni disturbi mentali. Esistono svariati tipi di fattori sociali che possono influire sullo sviluppo socio-emotivo di un soggetto: 1. Deprivazione precoce o presenza di traumi 2. Problemi nello stile educativo genitoriale 3. Problemi coniugali e divorzio 4. Basso status socio-economico e disoccupazione 5. Relazioni disadattive con i pari 6. Pregiudizio e discriminazione sociale 1. DEPRIVAZIONE PRECOCE E TRAUMI I bambini che non hanno la possibilità di fruire delle risorse messe solitamente a disposizione dai caregiver possono subire danni che lasciano cicatrici psicologiche profonde; tali risorse fondamentali vanno dal cibo all’accudimento amorevole, e la loro privazione può avvenire sia a causa di un abbandono, sia all’interno del proprio contesto familiare. Per quanto riguarda i bambini orfani o abbandonati, essi vengono allevati in istituti (o case-famiglia) in cui, rispetto a una casa normale, è probabile che vi sia significativamente meno calore e contatto fisico, e meno stimolazione intellettuale, emozionale e sociale. Molti bambini istituzionalizzati nella prima infanzia mostrano infatti gravi problemi emotivi, comportamentali e di apprendimento, e sono anche a elevato elevato di psicopatologia (es. orfani rumeni che passano la maggior parte delle loro giornate nelle loro culle); in generale si è rilevato che l’istituzionalizzazione precoce è associata a effetti negativi a lungo termine, quindi prima i bambini riescono a essere adottati e fatti uscire dagli orfanotrofi e meglio è. La maggior parte dei bambini che hanno vissuto deprivazioni genitoriali non sono però separati dai loro genitori, ma soffrono di maltrattamenti all’interno del loro contesto familiare. L’abuso da parte dei genitori (fisico e/o sessuale) è stato associato a molti effetti negativi rilevati sullo sviluppo emotivo, intellettuale e fisico, anche se svariati studi hanno suggerito che una totale negligenza di accudimento può risultare addirittura peggiore di un abuso. I bambini vittime di abusi spesso tendono ad essere eccessivamente aggressivi e con notevoli problemi nel funzionamento comportamentale, emotivo e sociale, tra cui disturbi della condotta, depressione e ansia. Inoltre, i bambini abusati in prima e seconda infanzia hanno più probabilità di sviluppare modelli atipici di attaccamento (solitamente uno stile disorganizzato) e una parte significativa di questi continua a mostrare questi modelli confusi di rapporto/attaccamento fino ai 13 anni; pertanto sarà per loro difficile poter avere relazioni soddisfacenti arrivando anche a evitare nuove relazioni che potrebbero modificare le loro aspettative negative (tali effetti dell’abuso precoce possono infatti durare fino all’età adulta). Infine bisogna tenere in considerazione che ci sono sempre una serie di variabili coinvolte per cui, ad esempio, i fattori di protezione (come un buon rapporto con altri adulti significativi durante l’infanzia) permettono al bambino di avere meno probabilità di mostrare comportamenti negativi. 2. PROBLEMI NELLO STILE EDUCATIVO GENITORIALE Anche in assenza di una grave deprivazione, negligenza o traumi, molti tipi di carenze genitoriali sono in grado di creare una vulnerabilità verso varie forme di psicopatologia; è però importante notare che una relazione genitore-figlio è sempre bidirezionale, per cui il comportamento di ognuno influenza quello dell’altro (es. i bambini ansiosi, irritabili e impulsivi possono essere più difficili da accudire e suscitare ansia e irritabilità anche nei propri genitori). I genitori con varie forme di grave psicopatologia (schizofrenia, depressione, disturbo antisociale di personalità e problemi di abuso di alcol) tendono ad avere uno o più figli che sono a loro volta a forte rischio per una vasta gamma di problemi nello sviluppo. N.B. Nella maggior parte delle ricerche l’attenzione è stata incentrata sulla figura materna, ma ci sono evidenze riguardo al fatto che anche i padri con disturbi mentali possono contribuire significativamente alla psicopatologia dei figli. Per esempio, i figli di genitori gravemente depressi sono a loro volta a rischio per quanto riguarda sia la depressione sia altri disturbi psichici; questo, almeno in parte, perché la depressione fa sì che questa educazione genitoriale priva di abilità adeguate porti i figli a mettere in atto comportamenti intrusivi o passivi. I ricercatori si sono inoltre interessati a come gli stili disciplinari possano influenzate il comportamento dei bambini nel corso del loro sviluppo, e grazie alle ricerche sono stati identificati 4 principali stili genitoriali: 3. PROBLEMI CONIUGALI E DIVORZIO Tutte le coppie discutono, ma quando questo viene portato all’estremo, la discordia coniugale può aere effetti psicologici dannosi sia per gli adulti sia per i loro figli; casi più gravi di conflitti coniugali possono esporre i bambini a uno o più fattori di stress (come l’abuso diretto dei genitori sui minori o l’abuso di un coniuge sul partner), ma anche in situazioni meno gravi gli effetti sui bambini possono essere notevoli. Alcuni studi longitudinali hanno documentato che gli effetti dannosi sui bambini di un grave conflitto a livello coniugale continuano anche in età adulta, poiché la prole sarà più probabilmente caratterizzata da contrasti (soprattutto se i genitori hanno divorziato); questa sorta di trasmissione intergenerazionale della discordia è il frutto dell’apprendimento inconsapevole di stili di interazione negativa a seguito dell’osservazione dell’interazione dei propri genitori. IL DIVORZIO I matrimoni infelici sono un grave problema e porre fine a una relazione coniugale può essere molto stressante per gli adulti; va’ però detto che gli effetti negativi sono spesso temporanei e il divorzio talvolta crea benefici per alcuni membri della coppia (generalmente le donne hanno più probabilità di trarne conseguenze positive rispetto agli uomini). Inoltre, è vero che le persone divorziate e separate sono molto frequenti fra i pazienti psichiatrici, ma la relazione causale non è sempre chiara, ciò significa che i problemi psicologici preesistenti potrebbero aver acuito i problemi di coppia fino alla rottura, oppure che i problemi psicologici sono scaturiti dalla relazione conflittuale e poi ulteriormente peggiorati dopo il divorzio. Il divorzio può poi avere effetti traumatici anche sui bambini, poiché sentimenti di rifiuto e insicurezza possono essere aggravati dai conflitti familiari e una vasta gamma di disturbi (depressione e ansia) sono molto più frequenti tra i figli di genitori divorziati (anche se è probabile che un fattore che contribuisce largamente a questi disagi non sia solo il divorzio in sé quanto piuttosto le precedenti discussioni). Tuttavia, molti bambini si adattano bene al divorzio dei genitori e gli effetti di questo sono spesso ben più favorevoli rispetto agli effetti di rimanere in una casa lacerata dal conflitto coniugale. 4. BASSO STATU SOCIO-ECONOMICO E DISOCCUPAZIONE Nella nostra società, più bassa è la classe socio-economica maggiore è l’incidenza dei disturbi mentali. Per poter spiegare la motivazione di questa associazione inversa è necessario prendere in considerazione il fatto che molte persone con disturbi mentali possono scivolare in fondo alla scala sociale e rimanere lì perché talvolta non hanno le risorse economiche e personali per risalire (anche a causa di pregiudizi); inoltre, un altro fattore importante è che, in media, le persone che vivono in condizioni di povertà vanno incontro a fattori di stress più gravi e persistenti nel corso della loro vita. 5. RELAZIONI DISADATTIVE CON I PARI Molti bambini e adolescenti sono in grado di sviluppare relazioni tra pari sane e adattive senza gravi sconvolgimenti, ma a volte si possono presentare una serie di problemi come il bullismo o l’essere vittima di esclusione o aggressione, e tali problemi sono associati a un aumento del rischio di disturbi psicologici successivi. Negli ultimi anni è poi nata una nuova forma di bullismo che comprende l’invio di messaggi offensivi e intimidatori, o la diffusione di alcune informazioni molto personali, definita come cyberbullismo. È però vero che le relazioni tra pari possono anche essere fonte di esperienze fondamentali di apprendimento, pertanto è utile sperimentare successi ma anche fallimenti poiché costituiscono una formazione eccellente per divenire in seguito una persona efficace nel mondo reale. 6. PREGIUDIZIO E DISCRIMINAZIONE SOCIALE Molti membri della nostra società sono ripetutamente sottoposti a pregiudizi (sulla base di caratteristiche personali) e discriminazione (trattamento ingiusto sulla base dell’appartenenza a un dato gruppo) in base al loro sesso, alla razza e all’origine etnica. In particolar modo, nell’ambito nel lavoro, vi sono due differenti tipi di discriminazione: - La discriminazione di ingresso ® per cui i membri di un certo gruppo (es. le donne o le persone di una certa razza) non vengono assunti a causa delle loro caratteristiche personali - La discriminazione di trattamento ® per cui ad alcune persone viene dato un lavoro ma sono pagate meno e ricevono un minor numero di opportunità di promozione rispetto ad altre LO STRESS - SALUTE FISICA E MENTALE In questo capitolo si considera il ruolo che lo stress gioca nello sviluppo di disturbi fisici e mentali poiché la mente e il corpo sono tra loro strettamente collegati; i problemi legati allo stress sono molti ma ci concentreremo in particolare sui più gravi disturbi, pertanto nell’ambito fisico porremo l’accento sulla malattia cardiaca, mentre nell’ambito mentale ci occuperemo principalmente dei disturbi da stress post- traumatico. La vita di tutti i giorni ci espone allo stress e questo influenza il nostro benessere sia fisico che psicologico. Il campo della psicologia della salute, che si occupa degli effetti dello stress (e di altri fattori) sull’esordio e sul mantenimento dei problemi fisici, si configura come una specialità all’interno della medicina comportamentale, la quale si occupa di quei fattori psicologici che possono predisporre un individuo a problemi di salute (all’interno di quest’ultima vi è infatti una particolare attenzione agli effetti dello stress sul sistema immunitario, endocrino, gastrointestinale e cardiovascolare). Ma lo stress colpisce sia il corpo che la mente, infatti l’esposizione a uno stress estremo e traumatico può sopraffare le risorse di coping degli individui portando a disturbi mentali. Lo stress Quando sperimentiamo delle sfide per il nostro benessere che superano le nostre risorse e le capacità di far fronte ai problemi (= coping), la condizione psicologica che ne deriva è generalmente definita come stress. È quindi bene distinguere fra gli stressor (le sollecitazioni esterne), lo stress (gli effetti che gli stressor creano all’interno dell’organismo) e le strategie di coping (gli sforzi