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Ludovico Ariosto Ariosto rappresenta la tipica figura dell’intellettuale cortigiano del Rinascimento, ma nutre anche sentimenti di sottile polemica nei confronti della vita di corte. Dunque possiamo parlare di rapporto ambivalen...

Ludovico Ariosto Ariosto rappresenta la tipica figura dell’intellettuale cortigiano del Rinascimento, ma nutre anche sentimenti di sottile polemica nei confronti della vita di corte. Dunque possiamo parlare di rapporto ambivalente con il mondo cortigiano. Ferrara  1400-1500: Ferrara, capitale del Ducato d’Este, tra i principali centri culturali ed artistici del Rinascimento  Estensione territorio fino a Modena e Reggio  Famiglia paterna di Ariosto, stabilitasi a Ferrara dal 1300, proprietaria del castello bolognese di Riosto Biografia La casa di Ludovico Ariosto oggi Sulla facciata, scolpita su una lunga fascia di cotto a ornamento del muro di entrata, iscrizione preesistente, il distico: "Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non / sordida, parta meo, sed tamen aere domus"(La casa è piccola ma adatta a me, pulita, non gravata da canoni e acquistata solo con il mio denaro) Al primo piano piccolo museo dedicato al grande poeta. Conservati il calco del suo calamaio, la sua sedia e molte medaglie Vicende personali e artistiche 1474, nasce a Reggio Emilia: figlio primogenito (di 10 figli) di Nicolò Ariosto, funzionario al servizio dei duchi d’Este e comandante di una guarnigione a Reggio. La famiglia si trasferisce a Ferrara, dove Ludovico riceve un’educazione umanistica (anche se, inizialmente, per volere del padre deve frequentare i corsi di diritto all’università; successivamente abbandona tali studi e si dedica alla formazione letteraria) 1497-1499 conosce Pietro Bembo, il maggior intellettuale dell’epoca, e ne è influenzato per quanto riguarda la produzione di poesie in volgare Frequenta la corte del duca Ercole I d’Este e diventa cortigiano stipendiato 1500: interruzione studi per morte padre, deve occuparsi del patrimonio familiare, si assume la tutela dei fratelli minori e deve accettare cariche ufficiali da parte degli Estensi. 1503: entra a servizio presso il cardinale Ippolito, figlio del duca Ercole, e compie missioni diplomatiche (che ritiene non adatte alla sua dignità di letterato e lontane dalla sua vocazione poetica) Vicende personali e artistiche Prende gli ordini minori e diventa chierico per godere dei benefici ecclesiastici. 1509-1510: si reca come ambasciatore a Roma per tentare di mediare tra il papa Giulio II e il nuovo duca Alfonso I. Stringe legami con l’ambiente fiorentino, in particolare con Giovanni de’Medici, figlio del Magnifico. Egli sogna di poter passare dalla provinciale Ferrara alla splendida corte romana, ma quando Giovanni de’Medici diventa papa (col nome di Leone X), la sue aspettative vengono deluse. Intanto a Firenze aveva conosciuto Alessandra Benucci, una donna sposata con cui ha una relazione. Morto il marito di lei, A. è obbligato al celibato e non può vivere con lei: la sposerà solo più tardi e in segreto. 1516: pubblicazione prima edizione Orlando Furioso, dedicata al cardinale Ippolito (che non apprezza particolarmente l’opera) 1517: deve seguire il cardinale in Ungheria, ma rifiuta e passa al servizio del duca Alfonso. Vicende personali e artistiche 1522: Alfonso gli affida l’incarico di governatore della Garfagnana (provincia di Lucca), una regione turbolenta, infestata dai banditi. Ariosto dà prova di grandi capacità politiche, ma prova nostalgia per la sua città e fastidio per le incombenze pratiche, che gli impediscono di dedicarsi all’otium letterario. 1525: ritorno a Ferrara e nozze segrete con Alessandra Benucci. Trascorre gli anni più sereni 1532: terza e definitiva edizione dell’ Orlando Furioso 1533: morte a Ferrara per enterite (infiammazione dell’intestino) Nelle Satire dà un’immagine ideale di sé, si descrive come un amante della vita sedentaria e contemplativa. In realtà A. aveva doti pratiche e abilità diplomatiche, era un uomo accorto e saggio. La sua aspirazione a una vita appartata era una scelta meditata e dettata dalla volontà di difendere la sua autonomia e la sua libertà individuale dagli intrighi della vita di corte. Il rapporto con il territorio Pietro Bembo e la questione della lingua Nel corso del Cinquecento si susseguono numerose discussioni tra intellettuali nel tentativo di cercare una lingua letteraria che sia un punto di riferimento in un Paese frammentato come l’Italia. Già in passato vi erano state opere che affrontavano tale problema (cfr. Dante, De vulgari eloquentia) e nel corso dell’Umanesimo si era prima tornati alla scelta del latino come lingua unitaria e universale, poi era stato rivalutato il volgare: si riteneva infatti che con Petrarca e Boccaccio il volgare avesse raggiunto la stessa dignità del latino. Bembo, con le sue Prose della volgar lingua (1525), propone un canone di autori che costituisca il modello per un classicismo formale. Egli propone l’imitazione del monolinguismo petrarchesco per la poesia e per la prosa il Boccaccio della cornice e delle novelle tragiche del Decamerone (stile più ricercato). Il petrarchismo Nasce in tal modo il petrarchismo, ovvero la tendenza a imitare lo stile di Petrarca. Il plurilinguismo dantesco era, infatti, considerato rozzo e non poteva essere un punto di riferimento, un canone da imitare. Dunque i canzonieri del Cinquecento ripropongono tematiche petrarchesche (la passione d’ amore non corrisposta, che genera sofferenza; il conflitto tra amore terreno e amore divino; il dissidio insanabile) e la figura femminile cantata dai petrarchisti è una donna stilizzata, idealizzata, descritta secondo i canoni tradizionali. Anche per lo stile i poeti di questo periodo si servono di un numero limitato di termini, rifacendosi al monolinguismo, più facilmente imitabile dello stile dantesco. Nascono così antologie di liriche petrarchiste, che diventano un genere di consumo e una moda letteraria. Gli autori più famosi dell’epoca sono lo stesso Bembo, Giovanni Della Casa, Michelangelo. Compaiono anche donne poetesse, come Gaspara Stampa e Vittoria Colonna. Pietro Bembo e la questione della lingua La proposta di Bembo è, però, lontana dal reale, perché in Italia si parlavano i dialetti; è una scelta purista, che aspira alla ricerca dell’equilibrio classicista e dell’armonia formale. Bembo carca un modo per superare la frammentazione linguistica, ma i limiti della sua proposta consistono nel fatto che quella da lui auspicata è una lingua immutabile, molto stilizzata e poco duttile, in quanto non si tratta di una lingua d’uso, ma convenzionale. Soluzioni diverse rispetto a quella di Bembo, che tuttavia detterà legge per tutto il Cinquecento, sono: -La soluzione cortigiana, proposta da Gian Giorgio Trissino e da Baldesar Castiglione: essi propongono la lingua usata nelle corti italiane. Ma anche questa è una lingua astratta, pur se effettivamente parlata. -La soluzione fiorentinista, proposta da Niccolò Machiavelli, cioè il fiorentino non letterario, ma parlato a Firenze (si trattava però di una lingua usata in un territorio limitato e circoscritto). Il legame con Ferrara Opere minori A. ammiratore dei classici e di prime Petrarca, ispirazione per le opere in opere latino e in volgare (Le Rime) Scrittura di 4 commedie: Teatro Cassaria, Suppositi, Negromante, Lena Ispirate ad Orazio, invettiva contro Satire società, corruzione, vizi e costumi dell’epoca Liriche latine e volgari A. compone in età giovanile liriche in latino, chiaramente ispirate ai modelli classici (Orazio, Catullo, Virgilio, Ovidio), mentre le liriche in volgare sono state scritte nell’arco di tutta la vita del poeta. Queste non sono datate, non sono mai state raccolte organicamente in una sorta di canzoniere e furono pubblicate postume. Gran parte di esse sono dedicate al tema amoroso e alla figura della donna amata, Alessandra Benucci, (secondo la moda del petrarchismo bembiano), ma non mancano spunti più erotici e più intimistici. Le commedie A. si occupò anche di allestire gli spettacoli teatrali per la corte. Inizialmente si utilizzavano traduzioni di testi comici latini, ma egli diede inizio all’elaborazione di testi teatrali in volgare con due commedie rappresentate alla corte di Ferrara: la Cassaria (1508) e I Suppositi (1509). Anche per tali opere A. si rifece ai modelli classici, in particolare a Plauto (con la differenza che Ariosto preferì la prosa ai versi). Le due prime commedie riprendono il tipico schema plautino del conflitto tra giovani e vecchi. Grande importanza ha la figura del servus callidus, che aiuta il giovane a ottenere l’oggetto del desiderio. Ma A. è anche influenzato dalla novellistica, in particolare da Boccaccio, per cui non manca il tema dell’industria, che permette ai giovani di raggiungere i propri obiettivi. Le commedie La Cassaria («La commedia della cassa») si caratterizza per le numerose trovate astute dei servi; I Suppositi («Gli scambiati») si basa sugli equivoci che nascono dallo scambio di persona (commedia dei simillimi). Dopo quasi un decennio A. lasciò la prosa per il verso endecasillabo sciolto e compose Il negromante (1520): al centro della vicenda c’è la figura di un mago imbroglione, quindi la commedia presenta spunti di satira di costume. La Lena (1528) si caratterizza per il realismo; compare il tema dell’amore contrastato tra due giovani, aiutati da un astuto servitore, ma la protagonista è la mezzana Lena, che cerca di guadagnare un po’ di soldi per il suo bordello. La visione dell’uomo e del mondo è, dunque, piuttosto pessimistica: sembra che tutti agiscano solo perché mossi da interessi utilitaristici ed economici. Le lettere Abbiamo anche 214 lettere di A.: si tratta di un epistolario ben diverso da quello petrarchesco, in quanto non è costituito da componimenti che trasfigurano la realtà e attraverso i quali il poeta vuole dare un’immagine ideale di sé. Sono documenti autentici, non scritti per essere pubblicati, lettere private e relazioni diplomatiche, scritte in uno stile semplice e immediato, non elaborate dal punto di vista letterario. Le Satire La satira è l’unico genere letterario latino privo di un corrispondente nella letteratura greca (Quintiliano disse: “Satura tota nostra est”). L’inventor del genere satirico è Lucilio, poeta del II secolo a.C. Per il termine satira il grammatico Diomede propone quattro possibili etimologie: 1. satura lanx: piatto di primizie offerto agli dèi; 2. satura: un ripieno costituito da uva passa e altri ingredienti; 3. una proposta di legge (lex satura) comprendente parecchi provvedimenti; 4. l’esistenza di un nesso con le figure dei satiri. Le Satire A. scrisse 7 satire in forma di lettere in versi, destinate a amici e parenti, che furono pubblicate postume. Anche per tale opera egli si rifà ai classici, in particolare a Orazio, a cui A. si sente particolarmente vicino per l’ideale di una vita semplice ma libera da ogni condizionamento e per il distacco ironico con cui guardare a sé e agli altri. Spesso la struttura è dialogica: l’autore dialoga con se stesso o con i destinatari (reali o immaginari). I temi principali delle satire sono la condizione dell’intellettuale cortigiano, l’aspirazione a una vita serena e tranquilla, priva di ambizioni e lontana dall’invidia della vita di corte, il fastidio per le incombenze pratiche che ostacolano gli studi, la follia degli uomini, che inseguono oggetti vani, la fama, il successo, la ricchezza. Le Satire L’atteggiamento dell’autore è ironico, ma raramente polemico. Emerge in maniera evidente la visione pessimistica della vita, ma anche lo sguardo acuto con cui A. coglie le contraddizioni e i nodi problematici della società dell’epoca. Lo stile è colloquiale e prosastico e frequenti sono i modi di dire della lingua parlata. Ricordiamo: -satira I: l’autore spiega i motivi per cui non ha seguito il cardinale Ippolito in Ungheria, ribadendo che gli incarichi pratici contrastano con la sua vocazione letteraria -satira III: A. tratta della condizione del poeta al servizio del duca Alfonso e insiste sull’esigenza di autonomia -satira IV: riguarda il periodo in cui A. era governatore in Garfagnana -satira VI: dedicata a Bembo, a cui A. chiede consigli per l’educazione del figlio -satira VII: il poeta esprime il suo amore per la sua città, Ferrara. Orlando furioso Struttura dell’opera Poema epico-cavalleresco in ottave, 40.000 versi 46 canti (circa 1000 pagine) Tre grandi storie principali e diverse altre secondarie Ambientazione storica: guerre di Carlo Magno contro gli Arabi 3 edizioni de Orlando Furioso 1516-1521-1532 I principali filoni narrativi Guerra tra Carlo Magno e Agramante, re dei Mori Amore di Orlando per Angelica ossatura dell’opera Amore tra Ruggiero e Bradamante (capostipiti degli Estensi) La composizione Nel 1505 A. interrompe il poema Obizzeide (con il quale intendeva esaltare la casata estense) e comincia a scrivere l’Orlando furioso. La corte di Ferrara amava molto la materia cavalleresca (cfr Boiardo, Orlando innamorato) e il poeta decide quindi di far cominciare il suo poema dal momento esatto in cui il suo predecessore si era interrotto. La prima edizione, in 40 canti, vede la luce nel 1516, ma A. si rimette subito al lavoro per limarla. Nel 1521 esce la II edizione, senza cambiamenti di grande rilievo, con la quale l’opera riscuote molto successo; insoddisfatto, però, si rimette all’opera e la terza e definitiva edizione esce nel 1532. La revisione è sostanzialmente di tipo linguistico, perché nelle prime due edizioni A. aveva usato una lingua «cortigiana», caratterizzata dal toscano letterario e da termini padani, nell’ultima si adegua invece ai canoni classicisti proposti da Bembo nel 1525 e utilizza il fiorentino del Trecento. La composizione La revisione riguarda anche i contenuti: vengono aggiunti episodi, (come quello di Olimpia, salvata da Orlando dall’orca dell’isola di Ebuda), aumentano i riferimenti alla storia contemporanea e alle guerre che si combattevano in Italia, che portarono lo Stato a una profonda crisi, il clima dell’opera si fa più cupo e permeato di pessimismo, per cui compaiono anche tematiche negative, come la violenza, il tradimento, la tirannide (forse per l’inesorabile crisi della situazione politica italiana). Per tali motivi il numero dei canti salì a 46. I cinque canti. Furono scritti tra il 1518 e il 1519, ma non vennero mai inseriti nell’opera e rimasero inediti, forse perché avrebbero alterato l’equilibrio compositivo del poema. I cinque canti furono poi pubblicati postumi dal figlio Virginio. Da ricordare un episodio particolare qui contenuto, cioè quello di Ruggiero inghiottito da una balena, nel cui ventre ritrova altri cavalieri (cfr Pinocchio) La materia Ripresa dal poema di Boiardo e dai Cantari del Quattrocento, anche nel Furioso si opera quella fusione tra materia carolingia e arturiana, per cui i personaggi sono quelli della tradizione carolingia (Carlo Magno, Orlando, Rinaldo…) ma compaiono anche motivi tipici del ciclo bretone, come l’amore e il fiabesco/meraviglioso. Ma se in Boiardo il paladino di re Carlo cadeva preda della forza d’amore, A. ora lo rende addirittura pazzo. Il tema della follia compare, infatti, nel Rinascimento e rivela una visione non rasserenata e pacificata della vita. Il culto classicista della forma, la ricerca dell’armonia e del senso della misura che caratterizza il periodo rinascimentale, nascondono in realtà il desiderio di eliminare e cancellare gli elementi di disturbo che potrebbero alterare l’equilibrio esistente. La materia Nella civiltà rinascimentale non mancano, infatti, componenti di tipo irrazionale, che alludono alla precarietà della vita umana: così l’elemento della follia è presente in A. come in Erasmo da Rotterdam (L’elogio della follia, 1511) Compaiono nel poema anche reminiscenze della letteratura classica: Virgilio (l’episodio di Cloridano e Medoro si ispira a quello di Eurialo e Niso) e Ovidio soprattutto. A. riprende episodi interi, oppure fa rimandi ai miti o cita versi che ricordano autori classici. In tal modo egli mostra la sua formazione umanistica e traveste la materia romanza di forme squisitamente classiche. Non bisogna pensare che l’opera manchi però di originalità: le fonti di A. sono solo spunti e suggerimenti che il poeta rielabora in base alla propria concezione della vita. Il pubblico L’opera è composta per «spasso e recreatione de’ Signori e persone de animo gentile». Il poema è dunque un’opera d’intrattenimento, rivolta a un pubblico cortigiano. Pur presentando le caratteristiche del racconto orale, fatto a voce, si tratta di una convenzione, perché il Furioso è un’opera pensata per la diffusione attraverso la stampa. Dunque il pubblico destinatario non è solo quello formato dai cortigiani, ma un pubblico «nazionale», costituito dall’insieme delle persone colte di tutti i centri della penisola: una corte ideale, quindi, non solo quella di Ferrara. L’intreccio Nel poema si intrecciano le vicende di tantissimi eroi. A. interrompe improvvisamente la narrazione, come aveva fatto Boiardo, e passa a narrare la vicenda di un altro personaggio. In tal modo egli porta avanti più vicende contemporaneamente e in parallelo e interseca numerosi fili narrativi tra loro. Questo procedimento è detto entrelacement. Compaiono anche novelle, che sono raccontate da vari personaggi: sono veri e propri racconti nel racconto. Alcuni episodi profetizzano eventi futuri (per esempio Bradamante conosce da una maga i discendenti della casata estense, che avrà origine da lei) e ciò permette al poeta di celebrare i suoi signori. Talvolta il narratore fa commenti e considerazioni personali. Tre sono i filoni principali del poema: 1.La guerra tra Agramante, re dei mori, e Carlo Magno in Francia. 2.L’amore di Orlando per Angelica e la conseguente follia di questi, nel momento in cui scopre che la donna ama Medoro (con il rinsavimento finale grazie al paladino Astolfo) 3.Le peripezie di Ruggiero e Bradamante: lui si convertirà al cristianesimo e con le loro nozze avrà origine la casata estense. I personaggi https://youtu.be/oekK31Q_d2E?si=rJtnKUitqISU9my6 1 2 3 4 Orlando Angelica Ruggiero e Astolfo eroe della Chanson principessa del Catai Bradamante cavaliere cristiano, de Roland, prode (Cina) contesa da audace, cerca di Funzionali alla cavaliere tradito. Mori e Cristiani. recuperare sulla dedica dell’O.F. a Nell’O.I. innamorato Ama l’umile fante Luna il senno di Ippolito. Gli unici che non corrisposto e saraceno Medoro Orlando coronano il loro pazzo d’amore amore La guerra tra mori e cristiani costituisce il nucleo centrale dell’intreccio; da Parigi assediata si allontanano i vari personaggi o convergono. Il poema non ha, tuttavia, un vero centro, perché prevale la spinta centrifuga che porta i personaggi verso le più svariate direzione e avventure. Il motivo dell’inchiesta Uno dei motivi che caratterizzano il poema è quello dell’inchiesta (o queste o quete): ciò che muove la vicenda e suscita le imprese dei cavalieri è la ricerca di un oggetto del desiderio. Ma mentre nei romanzi bretoni la ricerca si caricava di significati mistico- religiosi (cfr ricerca del Graal), nel Furioso essa assume un carattere totalmente laico. Infatti tutti i personaggi desiderano e cercano qualche cosa, una donna, un elmo, un cavallo, ma il desiderio è vano, perché gli oggetti ricercati deludono sempre le aspettative e appaiono irraggiungibili. Dunque l’inchiesta è sempre fallimentare e inconcludente. Emblema della vanità di tale motivo è Angelica, ricercata da Orlando e da altri cavalieri, che riesce sempre a sfuggire grazie all’anello magico che la rende invisibile. La stessa cosa si dica per l’episodio del castello del mago Atlante, in cui i cavalieri, alla ricerca di qualcosa o qualcuno, si aggirano senza sosta in una sorta di labirinto senza via di uscita. Il motivo dell’inchiesta Orlando insegue incessantemente la donna amata così come Bradamante cerca per tutto il poema Ruggiero: ogni volta che lei lo raggiunge, lui si dilegua davanti ai suoi occhi. L’inchiesta inconcludente si traduce in un movimento circolare, che non porta mai a niente e torna sempre su se stesso. Il moto circolare metaforicamente rappresenta il senso della ricerca inappagata e della sua frustrante inutilità. Tale ricerca per i personaggi è un errare continuo, ma anche un errore (parola chiave dell’opera): che può essere un errore materiale, ma anche l’errare, cioè l’allontanarsi fisicamente (da Parigi) o moralmente (il paladino Orlando, strenuo difensore della fede cristiana, viene meno al suo dovere). Infine il desiderio può diventare ossessione e tramutarsi in follia (ciò capita a Orlando, ma anche a Bradamante, follemente gelosa di Ruggiero). Spazio e tempo Poiché il movimento dei personaggi è continuo, lo spazio ha una funzione importante: è uno spazio molto vasto, che va dalla Francia alla Spagna, dall’Italia all’Europa del nord, fino all’Africa. Istituendo un confronto con la visione del mondo nella Commedia, ci rendiamo subito conto che in Dante lo spazio ha una dimensione verticale: oltre alle contrapposizioni alto/basso, terra/cielo, luce/buio etc…, nell’autore medievale il viaggio è verticale, va dal basso verso l’alto. Si tratta di un viaggio lineare, perché voluto da Dio, e non sono concepibili altre direzioni o deviazioni: Dante si muove sempre dritto verso la meta finale (la salvezza). Nel Furioso lo spazio è tutto orizzontale perché il movimento dei cavalieri si sviluppa in una dimensione terrena. Potrebbe sembrare un’eccezione il viaggio di Astolfo sulla luna, ma in realtà la luna è concepita come il complemento della terra (quindi anche Astolfo sta sul piano orizzontale). Il mondo del Furioso ignora il trascendente, è un campo di azioni e desideri esclusivamente umani. Se, dunque, la Commedia rappresenta il senso della trascendenza medievale, il Furioso riflette la concezione laica del Rinascimento. Spazio e tempo Inoltre, mentre Dante ha solo una direzione di movimento, per i cavalieri ariosteschi ci sono infinite possibilità di scelta, ma la ricerca non raggiunge mai il suo fine: il movimento non è quindi lineare, ma circolare e torna sempre su se stesso. Infine, nel Furioso gli infiniti movimenti dei personaggi si intersecano continuamente a vicenda. E’ uno spazio labirintico, in cui non domina il disegno divino, ma l’azione capricciosa e imprevedibile della Fortuna. Nella lotta contro di essa non c’è fiducia nell’uomo (pessimismo di Ariosto in cfr con l’ottimismo di Machiavelli e Boccaccio). La selva può essere considerata metafora dello spazio nell’opera: è uno spazio intricato, in cui infiniti sentieri si aggrovigliano e in cui i personaggi si muovono «ad arbitrio della fortuna». Anche l’organizzazione del tempo è simile a quella dello spazio. Nella Commedia il tempo è lineare, strutturato in una successione temporale ben scandita. Nel Furioso il tempo può essere definito «labirintico», perché le vicende narrate, che avvengono contemporaneamente, si intrecciano, ma anche «aggrovigliato», che torna costantemente su se stesso, perché il poeta torna continuamente indietro a riprendere fili narrativi lasciati interrotti (entrelacement). La materia romanzesca tende a espandersi all’infinito, senza mai potenzialmente arrivare a una conclusione. Labirinto e ordine Anche se dal poema emerge l’immagine di una realtà labirintica e molteplice, il lettore ne ricava l’idea di un cosmo ordinato e armonico. Anche l’entrelacement non avviene casualmente, ma è inserito in un disegno rigoroso, che la lucida mente del poeta, con perfetta consapevolezza registica, regola dall’alto, dominando la realtà mutevole. Ariosto, convinto della necessità dell’unità nella molteplicità, nel corso del racconto afferma che «per tessere la tela a cui lavora gli servono molti fili». Sostiene inoltre che deve fare come il buon suonatore, che spesso muta corda e varia suono per creare l’armonia. L’artista è nella sua opera come Dio nel mondo, perfetto dominatore della sua creazione. Esistono inoltre equilibrate simmetrie nel poema: Orlando cerca Angelica, come Bradamante cerca Ruggiero; Orlando piomba nella follia, Bradamante si lascia prendere dalla gelosia (che è una forma di follia). Mentre Orlando fa un percorso di degradazione e da guerriero assennato e saggio si abbassa al livello delle bestie, Ruggiero compie un percorso di elevazione. Le simmetrie, dirette o rovesciate, danno ordine al molteplice dell’opera. Dal romanzo all’epica Il Furioso ha una struttura aperta, capace di estendersi all’infinito, ma in realtà tutte le avventure principali arrivano a una conclusione: Angelica sposa l’umile fante Medoro, Orlando riacquista il senno e collabora alla vittoria dei cristiani, Ruggiero sposa Bradamante e fonderà la dinastia estense e la guerra tra mori e cristiani si conclude con la sconfitta dei primi. Alla struttura aperta del romanzo cavalleresco a un certo punto si sostituisce la struttura chiusa dell’epica. Ciò avviene con la conversione di Ruggiero, episodio che segna la fine dell’errare del cavaliere e il suo approdo al destino di eroe epico, fondatore di civiltà. Nella visione pessimistica di A. il mondo, retto dalla Fortuna, non è dominabile e l’uomo è destinato allo scacco. Ma il poeta, con il suo poema, ne crea un simulacro, che è dominabile intellettualmente e passibile di un ordine perfetto. Se il mondo è caos, il poema può invece essere ridotto all’ordine, chiuso in una struttura limpida e ordinata. Se nella realtà l’uomo è soggetto a forze capricciose e incontrollabili, l’artista nella sua opera può esercitare un controllo sulla sua creazione. Dunque l’unico strumento per dare ordine al reale per A. è la letteratura. Il significato della materia cavalleresca Quale significato hanno per un uomo del Rinascimento i valori tipici della società cortese, che gettano le loro radici nella mentalità medievale? Boiardo, celebratore della cavalleria, credeva che tali valori potessero rivivere, se rivitalizzati con contenuti moderni. Ariosto, invece, non crede più nell’attualizzazione del mondo cavalleresco, dal momento che la civiltà cortigiana ai suoi tempi è in piena crisi. La cavalleria si è svuotata degli originari valori etico-religiosi e non può più essere riempita di nuovi ideali. La cavalleria è ormai un mondo lontano, vagheggiato con nostalgia, ma anche con distacco. Il poeta prova piacere nel narrare un mondo meraviglioso, avventure infinite, battaglie, duelli e amori, certo, ma l’opera non è pura e semplice evasione fantastica, fuga dalla realtà. Essa è anche un modo per riflettere sui temi centrali della società rinascimentale: la Fortuna, la molteplicità del reale, le possibilità di dominio razionale del mondo, l’azione dell’uomo, mosso incessantemente dal desiderio, la ricerca vana e incessante, le sue velleità e i suoi errori, la follia, le varie forme dell’amore (platonico, cortese, carnale, coniugale). Nel poema, dunque, si fondono l’abbandono al piacere della narrazione e la riflessione etico-filosofica. Ariosto può quindi essere definito un lucido e acuto osservatore della realtà e dei comportamenti umani. Straniamento, ironia, abbassamento Lo straniamento è un procedimento costante nell’opera: esso consiste nell’allontanare la materia narrata e nel guardarla da fuori, con occhio estraneo, in modo da impedire che il lettore si immedesimi nelle vicende narrate e affinché egli possa guardare personaggi e situazioni riflettendo e assumendo un atteggiamento critico. Esistono diversi metodi per realizzare lo straniamento: -Gli interventi del narratore, in genere maliziosi e ironici, che spezzano l’illusione narrativa (per esempio, Angelica dice a Sacripante di essere vergine, e il narratore commenta: «forse era ver, ma non però credibile…») -Il narratore finge di non essere onnisciente e di non avere, quindi, dati certi, allontanandosi così dai fatti narrati (per esempio, quando Orlando vede la scritta in cui Medoro esalta il suo amore con Angelica, il narratore dice: «Che fosse culta in suo linguaggio io penso») L’effetto che A. ottiene con tale procedimento è l’ironia, che implica una forma di distacco dalla materia e uno sguardo sornione e disincantato. Straniamento, ironia, abbassamento Affine allo straniamento e mezzo per suscitare l’ironia è l’abbassamento. Dal momento che i valori cavallereschi non sono più realizzabili secondo il poeta, egli abbassa la dignità epica dei personaggi, li porta a un livello meno eroico e più familiare, facendo emergere gli uomini e le donne comuni sotto l’apparenza dei cavalieri e delle dame. Non si tratta di parodia né tanto meno di beffa, quanto piuttosto della capacità di presentare l’aspetto quotidiano dei personaggi. L’abbassamento si realizza in vari modi: ad esempio Sacripante nel canto I si vanta del suo valore e poi viene disarcionato da Bradamante, una donna; oppure il narratore fa similitudini poco adatte al mondo degli eroi (Orlando non riesce a dormire e il suo letto gli pare «più duro ch’un sasso e più pungente che se fosse d’urtica»). L’ironia ariostesca non è però un segno dell’indifferenza del poeta nei confronti della materia trattata, piuttosto è un mezzo che A. usa per conoscere il reale e per dare inizio a una riflessione etico-filosofica assumendo un atteggiamento critico. Personaggi sublimi e pragmatici I personaggi sublimi, quelli cioè che restano fedeli ai loro ideali e ai loro principi, sono visti in modo critico: Orlando, in particolare, resta fedele al suo amore per Angelica, la idealizza secondo i canoni dell’amor cortese e per questo diventa pazzo. L’autore celebra le sue virtù, ma ne indica anche i limiti: la sua virtù è destinata allo scacco perché è una fissazione, un’ossessione, e mostra l’incapacità del personaggio di adattarsi alla molteplicità del reale e alle situazioni determinate dal gioco della Fortuna. Invece i personaggi pragmatici, più flessibili e spregiudicati, si adattano al reale (piacerebbero a Machiavelli): essi non sono rigidamente fedeli a un oggetto idealizzato, ma si sanno accontentare di oggetti sostitutivi, più facilmente disponibili. Per esempio Ferraù nel canto I sa rinunciare ad inseguire Angelica e si accontenta di un oggetto meno sublime, l’elmo di Orlando. Il realismo spregiudicato di tali personaggi si contrappone all’idealismo dei personaggi sublimi. Il pluralismo prospettico Compaiono nel poema differenti prospettive, ma l’autore non ne condivide nessuna in particolare. Ogni certezza e ogni acquisizione non è mai definitiva, ma viene sempre superata con un procedimento di correzione continua: non si giunge mai a un giudizio definitivo e univoco. Si crea così un pluralismo prospettico, che è caratteristico dell’opera: si manifestano nel poema varie voci, portatrici di varie prospettive sul reale, di vari orientamenti ideologici, senza che l’autore intervenga a fissare una prospettiva privilegiata. Il pluralismo prospettico (il critico Bachtin ha parlato di «narrazione polifonica») è il corrispettivo del mondo molteplice e vario che è rappresentato nel Furioso. Lingua e metrica Il criterio linguistico di A. nella revisione del poema per la terza edizione è quello bembesco, che si ispira a un’idea classicistica di uniformità, compostezza ed equilibrio. Il modello è il monolinguismo petrarchesco, anche se in realtà la lingua del Furioso è più variegata e meno selettiva nelle scelte lessicali. Non compaiono però stridori e urti tra livelli diversi: siamo al polo opposto rispetto al plurilinguismo dantesco. L’ottava ariostesca è molto fluida. Il metro tipico della poesia cavalleresca non ha più nulla della monotona ripetitività che aveva nei cantari e in Boiardo. Laddove i temi sono più epici, i versi si fanno più solenni e anche patetici; quando il tono è più disteso e ironico, diventano più prosaici e colloquiali.

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