Letteratura Comparata: Dal Racconto al Narrativo (PDF)
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Alma Mater Studiorum - Università di Bologna
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This document discusses the concept of 'racconto' (story) from multiple perspectives. It examines the definitions of 'racconto' as a literary genre, a mode of enunciation, and a structural element for organizing experiences. It analyzes contributions from various thinkers, including Roland Barthes, Hayden White, and Gérard Genette, regarding the narrative structure, temporal dimension, and the connection between representation and narration.
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Dal racconto al narratore (31/01) Il termine racconto può avere diverse accezioni; c’è una discussione del termine racconto. Secondo una prima accezione, il racconto designa un genere letterario, un genere editoriale. Si crea quando la produzione letteraria nasce in funzione del pubblico, quando l’i...
Dal racconto al narratore (31/01) Il termine racconto può avere diverse accezioni; c’è una discussione del termine racconto. Secondo una prima accezione, il racconto designa un genere letterario, un genere editoriale. Si crea quando la produzione letteraria nasce in funzione del pubblico, quando l’intellettuale non scrive più per solo altri intellettuali. La stampa e il nascere dei circuiti editoriali hanno un grosso ruolo anche nella concettualizzazione dei generi, che sono categorie anche per classificare e ordinare il campo letterario, per vendere e dare indicazioni ai lettori. La novella/short story raccoglie questa novità continuando ad esistere nel campo letterario non solo europeo (ex. Le mille e una notte del mondo arabo, raccolta di novelle del 1400/1500). Il racconto è caratterizzato dalla brevità, ma anche da una certa compattezza dell’azione, da un numero ridotto dei personaggi e in questa accezione si oppone al romanzo. Secondo una seconda accezione possiamo opporre il racconto al dramma, se lo intendiamo non come un genere, come un corpus di testi, ma come una modalità di enunciazione. Questo modo narrativo è comune a diversi generi. La caratteristica è che è la voce di qualcuno o di qualcosa a riferire ciò di cui si parla: è una forma di comunicazione mediata e in questo si oppone al dramma che non completamente, ma in buona parte è una forma di rappresentazione non mediata, senza narratore quindi. In un dramma le azioni sono agite di fronte agli spettatori. La dicotomia tra rappresentazione mediata e non mediata risale a Platone e Aristotele: sono loro che nella Repubblica e nella Poetica hanno concettualizzato questa distinzione che ci portiamo dietro ancora oggi con pochi cambiamenti di fondo. Platone dice che c’è una poesia tutta mimetica, la tragedia e la commedia, senza enunciazione che la trasmette ai destinatari; c’è poi una forma (molto complicata a livello teorico) in cui c’è solo la voce del poeta, come la lirica; infine, abbiamo il modello dell’epica (ex. Omero) che è una forma mista, in cui c’è la voce del poeta e le voci dei personaggi. Abbiamo la presenza di un’istanza dell’enunciazione che prende in carico la relazione degli avvenimenti o degli stati di cose rappresentati. "Esistono tre forme di poesia e mitologia: una che si fonda tutta quanta sull'imitazione, ossia [...] la tragedia e la commedia; una seconda quando è lo stesso poeta che racconta, e la potrai trovare specialmente nel ditirambi; una terza poi che e un misto delle due precedenti, usata nella poesia epica e in parecchi altri generi [...]" (Platone, Repubblica, circa 375 a.C.) Aristotele riformula con qualche cambiamento questa partizione: si possono imitare con mezzi diversi, oggetti diversi o in modo diverso. Abbiamo un’altra tripartizione tra drammatico puro, lirico puro e la forma mista dell’epica omerica, in cui si dà la parola sia ai personaggi sia al narratore. Rimane l’opposizione tra l’enunciazione del poeta che può “trasformarsi in qualcun’altro”, dare la parola ai protagonisti dell’azione, e l’enunciazione teatrale in cui la parola dei personaggi ci arriva non subordinata a un’altra enunciazione. "L'epica, la poesia tragica, la commedia, la composizione dei ditirambi, la maggior parte dell'auletica e della citaristica sono, in generale, tutte imitazioni, ma si differenziano l'una dall'altra per tre fattori: o perché imitano con mezzi diversi [linguaggio, immagini...], o oggetti diversi [personaggi migliori o peggiori di noi] o diversamente, cioè non allo stesso modo". [...] "La terza differenza consiste nel modo in cui ognuna di queste cose [uomini migliori o peggiori] può essere imitata. E' possibile infatti imitare [...] raccontando e trasformandosi volta a volta in qualcun altro, come fa Omero, o restando sempre uguale, oppure in modo che tutti si trovino ad agire e operare" (Aristotele, Poetica, circa 330 a.C.) (1/02) A monte del passo sta la distinzione di origine platonica tra la poesia drammatica e la poesia narrativa, che ammette come categoria mista quella in cui la narrazione ospita discorsi diretti. Le difficoltà espositive del passo sono legate al fatto che la forma mista, logicamente definibile solo in base alle altre due, qui è anticipata avendo per paradigma Omero, fondamento della cultura greca: l'opposizione fondamentale è dunque quella tra la poesia in cui il soggetto (dell'enunciazione) è uno solo, il narratore, ma può "trasformarsi in qualcun altro", cioè recitare la parte del personaggio o dare la parola al personaggio, e la poesia in cui i soggetti dell'enunciazione sono molti, cioè i personaggi interpretati dagli attori sulla scena. R. Scholes e R. Kellog, in The Nature of Narrative, riprendono la distinzione platonico-aristotelica. Per narrativa (narrative) intendiamo qui tutte quelle opere letterarie che sono distinte da due caratteristiche: la presenza di una storia e la presenza di un narratore. Un dramma è una storia senza un narratore; vi sono dei personaggi che rappresentano direttamente ciò che Aristotele definì “un’imitazione dell'azione che troviamo nella vita”. In una terza accezione, infine, racconto indica qualcosa come una struttura profonda per organizzare una serie di dati sulla base di connessioni insieme temporali e logiche, rispondendo alle domande “quando?” e “perché?”; una struttura che dà forma all’esperienza. E in questo si oppone all’elenco, alla lista, oppure alla descrizione di una porzione di spazio. Per Aristotele, l’imitazione dell’azione è il mythos, racconto; nella sua idea, poetica e racconto coincidono. Nell’idea di mythos emerge l’idea di una strutturazione dei dati, degli elementi singolari in modo che presentino elementi di coerenza e verosimiglianza, elemento fondamentale nella teorizzazione di Aristotele. Alcuni studiosi classici hanno sottolineato che l’impiego del termine mythos per Aristotele è un’innovazione nella cultura del tempo, perché è un uso che si differenzia dall’uso del tempo, ovvero quello che corrisponde al nostro mito. Aristotele mette a punto questa definizione tecnico-operativa. Il racconto in questa terza accezione è un fenomeno che travalica i limiti della letteratura, cioè la composizione dei fatti, e anche del linguaggio verbale, perché il racconto può essere costruito con immagini, suoni, ecc. Incipit di Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, R. Barthes: "Innumerevoli sono i racconti del mondo. In primo luogo una varietà prodigiosa di generi, distribuiti a loro volta secondo differenti sostanze come se per l'uomo ogni materia fosse adatta a ricevere i suoi racconti; al racconto può servire da supporto il linguaggio articolato, orale o scritto, l'immagine, fissa o mobile, il gesto e la commistione coordinata di tutte queste sostanze; il racconto è presente nel mito, le leggende, le favole, i racconti, la novella, l’epopea, la storia, la tragedia, il dramma, la commedia, la pantomima, le vetrate, il cinema, i fumetti, i fatti di cronaca, la conversazione. Ed inoltre, sotto queste forme quasi infinite, il racconto è presente in tutti i tempi, in tutti i luoghi, in tutte le società; il racconto comincia con la storia stessa dell'umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti; tutte le classi, tutti i gruppi umani hanno i loro racconti e spesso questi racconti sono fruiti in comune da uomini di culture diverse, talora opposte: il racconto si fa gioco della buona e della cattiva letteratura: internazionale, trans-storico, transculturale, il racconto è là come la vita" (Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, R. Barthes) Barthes coglie il carattere transculturale e transstorico del racconto; allo stesso modo, per Aristotele il racconto trascende le forme di rappresentazione. Al di là dell’unità di contenuto di base, ovvero la situazione, l’azione, poi c’è la costruzione di qualche percorso fra queste unità. P. Lamarque scrive nel 1990: “La narrazione ha una dimensione essenzialmente temporale. Per prima cosa, devono essere descritti eventi, non semplicemente cose. Inoltre, quegli eventi devono essere messi in forma (shaped) o ordinati (ordered). Il racconto impone una struttura, non si limita a registrare ma connette, organizza” Un racconto non è semplicemente una sequenza di eventi ordinati cronologicamente; un racconto si caratterizza per il fatto di fare qualcosa con quegli eventi: li organizza, li mette in forma, li modella, ossia ne fa una composizione, istituisce dei nessi, un inizio e una fine, e in questo modo fa dello svolgersi dei fatti un destino. H. White nel saggio Metahistory (1980) afferma che: “Il racconto risponde a un problema specifico e squisitamente umano, quello di modellare (fashioning) l’esperienza umana in una forma che significhi, che abbia senso. Perché ci sia racconto storico, gli eventi (reali) non devono essere semplicemente registrati nella cornice cronologica e nella sequenza in cui sono originariamente accaduti, ma devono essere anche narrati, vale a dire che è necessario mostrare che possiedono una struttura, un ordine di significato, che non possiedono presi in quanto mera sequenza” G. Genette è un critico teorico francese che appartiene alla stagione dello strutturalismo con la particolarità di venire dagli studi classici di poetica (studio della trattatistica sulle figure retoriche, di come si compone una tragedia, come si compone un poema, ecc.) che riattualizza la funzione di testi come quelli aristotelici. Figure III è diventato la Magna Charta dell’analisi del racconto, perché ha svolto una funzione molto importante di organizzazione della narratologia. Ha la caratteristica di essere un testo che censisce una serie di fenomeni, con impostazione di ricognizione. Tutto questo lo fa a partire da un testo, À la recherche du temps perdu di Marcel Proust. Genette cerca di fare una sorta di messa a punto generale e valida per gran parte della tradizione occidentale, facendolo su un testo che viola queste stesse norme. Da qui un andamento interessante dell’analisi che gli permette di giocare tra norma e violazione, tra standard ed eccezione. Ha in un certo senso una vocazione prescrittiva anche se l’obiettivo è la descrizione; c’è sempre una volontà di mettere tutto a posto, di eliminare i punti di tensione. Non prende come esempio il romanzo classico come quello omerico, ma ne prende uno problematico dal punto di vista strutturale. À la recherche non è modernista, ma è comunque un punto di rottura rispetto alla tradizione narrativa europea. È interessante costruire una teoria generale del racconto prendendo come esempio un testo che devia dall’immagine congelata del funzionamento della narrativa classica. Questo divario fra l’esempio e la teoria dà ricchezza al testo di Genette. All’inizio, Genette propone anche lui una tripartizione delle accezioni di racconto: 1. nella prima accezione, “l'enunciato narrativo, il discorso orale o scritto che assume la relazione di un avvenimento o di una serie di avvenimenti: così il discorso tenuto dall’eroe Ulisse di fronte ai Feaci dal IX al XII canto dell’Odissea viene chiamato racconto di Ulisse, e analogamente i quattro canti stessi, cioè il segmento del testo omerico che pretende di esserne la fedele trascrizione”. I canti da IX a XII dell’Odissea sono caratterizzati da analessi esplicativa, perché Ulisse deve spiegare chi è ai Feaci, ma deve anche spiegare una cosa che è avvenuta nel canto VIII. Prima di raccontare la sua storia, alla corte viene un aedo che racconta un pezzo della guerra di Troia, ovvero la storia del cavallo e, sentendo raccontare da un’altra voce la sua storia oggettivata nella memoria di qualcun’altro che gli restituisce un’immagine di sé come una terza persona, inizia a piangere e deve spiegare il perché. Ciò si avvicina alla, senza coincidere perfettamente, nostra seconda accezione, ovvero il modo narrativo, perché è un certo tipo di discorso. Potrebbe essere identificato come il significante; 2. “il secondo senso di racconto, ma oggi corrente fra analisti e teorici del contenuto narrativo, designa le successioni di avvenimenti narrativi, reali o fittizi, che formano l’oggetto di questo discorso, e le loro varie relazioni di concatenamento, opposizione, ripetizione, ecc. Analisi del racconto significa allora studio di un insieme di azioni e situazioni considerate in sé, fatta astrazione dal medium, linguistico o meno, che ce ne dà cognizione: nel nostro caso, le avventure vissute da Ulisse dopo la caduta di Troia fino al suo arrivo presso Calipso”. Ciò coincide all’incirca con la nostra terza accezione. Possiamo identificarla come la serie cronologica degli eventi, la fabula; 3. “il terzo senso di racconto, apparentemente il più antico, designa ancora una volta un avvenimento: non più però l’avvenimento narrato, bensì quello consistente nel fatto che qualcuno racconta qualcosa: l’atto di narrare in se stesso. Diremo così che i canti dal IX al XII dell’Odissea sono consacrati al racconto di Ulisse, come diciamo che il canto XXII è consacrato al massacro dei pretendenti: raccontare le proprie avventure è un’azione, esattamente come massacrare i pretendenti della propria moglie [...]”. Costituisce un aspetto inedito introdotto da Genette rispetto alla nostra classificazione, quella da cui siamo partiti. Il racconto è un atto, un agire, un fare qualche cosa, nella fattispecie raccontare le proprie avventure/le avventure di altri. Scrive ancora Genette: “Se invece consideriamo Ulisse un bugiardo, e fittizie le avventure da lui narrate, l’importanza dell’atto narrativo ne risulta accresciuta, poiché non soltanto da esso dipende l’esistenza del discorso, ma anche la finzione delle azioni che esso riferisce. In modo analogo, evidentemente, si potrà parlare dell’atto narrativo di Omero in persona, ogni volta che egli assume direttamente la relazione delle avventure di Ulisse. Senza atto narrativo, quindi, non è possibile nessun enunciato, e a volte persino nessun contenuto narrativo”. È evidente che il discorso dipende dall’atto che lo produce: il discorso di Ulisse davanti ai Feaci dipende da colui che lo scrive. Nel caso di una storia fittizia, dunque, anche il mondo è proferito da qualcuno. “È perciò sorprendente che la teoria del racconto, finora, si sia scarsamente preoccupata dei problemi dell’enunciazione narrativa, concentrando quasi tutta la sua attenzione sull’enunciato e sul suo contenuto, come se il fatto che le avventure di Ulisse venissero narrate ora da Omero, ora da Ulisse in persona, fosse un problema del tutto secondario. Sappiamo tuttavia [...] che Platone, un tempo, non aveva trovato il problema indegno della sua attenzione”. Nel caso di avventure fittizie, l’apporto dell’atto narrativo è maggiore perché dipende sia l’esistenza del discorso sia la finzione delle azioni che esso riferisce. Perché in un testo fittizio non pre-esiste un atto, ma i fatti si creano nel momento in cui l’atto narrativo lo fa esistere. L’atto narrativo evoca e mette in scena un fatto che è inesistente al di là dell’atto narrativo: ciò è quello che distingue storie fittizie e reali. Questa pre-esistenza documentaria in un racconto di invenzione non esiste. “[...] il nostro studio verte essenzialmente sul racconto nel senso più corrente (senso 1), cioè sul discorso narrativo, che in letteratura [...] si trova ad essere un testo narrativo, da mio punto di vista, implica costantemente, da un lato, lo studio delle relazioni tra questo discorso e gli avvenimenti che esso riferisce (senso 2 di racconto), dall’altro lato quello delle relazioni fra il medesimo discorso e l’atto che lo produce, nella realtà, come Omero, o nella finzione, come Ulisse (senso 3)”. Genette fa una proposta terminologica: storia è intesa come significato o contenuto narrativo (senso 2 di racconto); racconto è inteso come discorso, significante, enunciato, testo narrativo stesso (senso 1 di racconto); la narrazione è infine intesa come l’atto narrativo produttore del discorso e, per estensione, l’insieme della situazione reale o fittizia in cui esso ha luogo (senso 3 di racconto). Il romanzo in prima persona (2/02) Il romanzo in prima persona è un romanzo in cui il narratore è personaggio della storia, sullo stesso piano dei personaggi che formano l'oggetto del discorso. Il narratore in terza persona è, al contrario, un narratore che non è direttamente e indirettamente parte dei fatti narrati; è esterno all’universo di finzione. Madame Bovary è un romanzo pubblicato nel 1857 da G. Flaubert. Nell’incipit la voce appartiene a uno degli alunni della classe: è il narratore in prima persona, interno, qualificabile come un testimone, che assiste alla scena. Questo si capisce dalla forma del verbo, che ci dice in primis qual è la posizione di questo narratore: dice “noi” riferendosi alla classe (ex. lo vedemmo); la cosa è più accentuata anche in francese in cui si aggiunge anche il pronome. C’è consustanzialità dell’individuo a cui appartiene la voce e dello spazio e del tempo del fatto narrato. Dal punto di vista di ciò che prova il personaggio oggetto del racconto, Charles Bovary, è un personaggio visto dall’esterno, quindi verosimilmente non manifesta sentimenti in un codice di rappresentazione realista, in cui i personaggi sono rappresentati secondo misura umana, se non decifrando le sue reazioni. Questo narratore conosce però il personaggio: conosce gli usi della classe, conosce il contesto che dimostra di avere vissuto quella situazione, come se conoscesse i codici di comportamenti e li condivide. La descrizione del berretto di Charles è in sé molto dettagliata, molto sofisticata, è verosimile che il narratore ricorra a una descrizione così ricercata di un oggetto che non ha alcuna funzionalità, che non verrà mai più convocato sulla scena del romanzo; è puro esercizio retorico. In termini stilistici, lessicali, di costruzione delle frasi, forse è qualcosa che non si associa in maniera così immediata e verosimile a un compagno di collegio. C’è un elemento letterario che stride un po’ con l'idea di qualcuno che sta raccontando un aneddoto della sua vita da scolaro. Nella descrizione si cerca di evidenziare l'estraneità rispetto a una distanza: con il soprannome “nuovo”, con la descrizione da campagnolo e l’atteggiamento dei compagni e dell’insegnante. C’è un distacco netto tra le primissime pagine e quelle che raccontano dei genitori. Non sappiamo come il narratore conosca queste informazioni: ci sono delle minuzie che sono difficili da attribuire a un narratore testimone. Effettivamente il narratore interno scompare e non si rincontrerà più nel romanzo: è un esempio molto interessante, fuori dal comune che ci fa capire che il narratore si gioca nell’ordine di una parola e basta un'altra parola e la situazione narrativa cambia radicalmente. Non è l’unico caso: un altro esempio di un procedimento del genere è I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Flaubert si lascia alle spalle questo noi e con ciò si instaura anche un diverso tono, più oggettivo, distaccato, meno legato agli usi, a una sorta di mitologia del collegio e sopraggiunge un tono che ci possiamo aspettare da un narratore impersonale, più distaccato, ecc. Si fa strada una diversa coloritura retorica del discorso, improntata a un certo distacco e a una conoscenza a 360 gradi, che può controllare l’interezza dell’universo (ex. sia fatti sia sentimenti), più panoramica allo sguardo della voce iniziale focalizzato su un singolo aspetto. Moll Flanders (1722), D. Defoe Nel 1722 D. Defoe pubblica Moll Flanders. Moll Flanders è la protagonista della storia: a differenza di Madame Bovary, in cui la prima voce si presentava come un testimone, qui la formula narrativa che domina è quella di “io racconto la mia storia”. Non solo è una narrazione in prima persona, ma quella storia è proprio la sua e tanti elementi vanno in questa direzione. Inoltre, il testo fa attenzione a mimare con cura le condizioni plausibili in cui nella realtà un individuo può narrare la propria storia: significa che nessuno di noi ha ricordi precedenti ai tra anni di vita e l’insistenza della voce di Moll di non sapere, sull’incertezza, il fatto che alcune cose le sono state riferite da altri. Viene replicata una condizione che sia credibile, che trasmetta fortemente non solo una narrazione in prima persona, ma anche di una vera autobiografia, di un vero memoir con nessuna finzione, nessun artificio letterario. L'artificio letterario di Defoe consiste nel mettere in scena una situazione in cui nessun artificio letterario va a colmare le lacune che Moll ha rispetto ai primi anni della sua vita. L’altro elemento importante è l’enfasi posta dalla voce di Moll sulle sue origini. Moll è nata in un prigione, figlia di una ladra condannata a morte; non solo, ma tutti gli elementi lasciati cadere nelle primissime righe ci proiettano in un certo tipo di storia: per esempio, i verbi al passato remoto ci restituiscono il fatto che la storia precede il momento in cui viene raccontata. Per quanto nella tradizione narrativa e soprattutto nella tradizione pre-novecentesca la stragrande maggioranza dei racconti utilizza verbi al passato presupponendo che l’azione si sia svolta prima della narrazione, questa non è per forza una certezza. Tra il contenuto narrativo e la narrazione non deve per forza esserci una posteriorità. La prospettiva della narrazione è quella del dopo. Un altro elemento è che Moll non morirà: la storia non si può concludere con la morte della protagonista perché, se può raccontare la sua storia, Moll è viva. I riferimenti che fa sono tutti indizi che ci suggeriscono che il rapporto di questo personaggio-narratore con la malavita non si limita all’infanzia, all’origine, ma che in qualche modo è un elemento che riemerge perché ancora mentre racconta non può rivelare il proprio nome. Quello che abbiamo letto non è il vero e proprio inizio di Moll Flanders, l’inizio è un altro. Prima dell’incipit c’è una porzione testuale che costituisce una zona grigia fra realtà e finzione, ovvero la prefazione in cui l’autore nega di essere tale. L’autore ha riscritto, corretto e riformulato stilisticamente il testo per renderlo moralmente più accettabile, più modesto. La formula con cui viene presentato è la riscrittura e una sorta di dicotomia che si fa strada tra il modo in cui è vista Moll, ovvero come oggetto del racconti, e il fatto che è la prima persona nel racconto. (8/02) Moll Flanders è un nome non convenzionale che non corrisponde al nome anagrafico. È interessante la distinzione a cui allude questa donna; si prospetta già all'inizio un elemento tipico della narrazione in prima persona: introduce una differenza tra ciò che era e ciò che è, una differenza tra un io nel momento in cui ha esperito determinati eventi e l’io che li racconta. Questa dialettica tra un io presente e un io passato è fondamentale in una forma tipica di narrazione in prima persona, ovvero la narrazione retrospettiva. La narrazione retrospettiva implica una dialettica tra diversi stati di un io, l’io che racconta non è lo stesso io che ha vissuto determinati eventi, perché il tempo trasforma (per esempio, la Moll che racconta si è pentita dei suoi crimini). Il narratore in una narrazione in prima persona retrospettiva sa come la storia va a finire, perciò nel testo si possono stabilire dei giochi fra l’io esperienziale e l’io narrante che convergono su una stessa individualità, ma che non sono la stessa cosa. Non necessariamente il testo sfrutterà questa potenziale divaricazione, però è difficile che non emerga. Nell’opera vediamo come la sua condizione materiale, la mancanza di aiuti, ecc. ha portato la sua vita in una certa direzione. Inizia un breve segmento iniziale che riguarda i primi anni della vita; in omaggio alla verosimiglianza, Moll dichiara di non ricordare, quindi deve basarsi su quello che altri hanno raccontato. Questo trasmette impressione di realtà, che questo non sia una finzione dell’autore. Appare una prima contraddizione: prima dice che non si ricorda, poi dice che ha raccontato a quelli della parrocchia come era stata lasciata dagli zingari. La presenza massiccia della narrazione in prima persona è una caratteristica del romanzo del Settecento. Quasi tutti i romanzi pubblicati in quegli anni sono in prima persona, in due forme fondamentali: la pseudo-autobiografia, che comporta un unico narratore con narrazione retrospettiva, e il romanzo epistolare, dove sono uno/due/tre personaggi a narrare la storia, e sono a narratore quasi unico (ex. Pamela di Richardson, Clarissa di Richardson, Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos). I romanzi epistolari a più voci servono per fare vedere un evento dalle diverse prospettive. Sono complessi anche per ragioni legate alla temporalità: mentre le pseudo-biografie (ex. Moll Flanders, La vie de Marianne di Pierre de Marivaux) sono giocate sulla convergenza tra ciò che sono stato e ciò che sono, nel romanzo epistolare non è così perché la distanza temporale tra eventi e la narrazione è variabile. In generale, è tutto più vicino quindi non c’è il personaggio che sa come va a finire la storia, perché c’è una sorta di parallelismo un po’ sfasato, le distanze si accorciano tantissimo e ciò contribuisce l’effetto drammatico; vediamo i personaggi in mezzo al mare della loro vita e la narrazione segue da molto vicino queste situazioni, queste condizioni. Un'eccezione nota a questa egemonia delle narrazioni personali è costituita da Henry Fielding, che opta per la narrazione in terza persona, che diventerà la norma nel secolo successivo (ex. Jane Austen). Perché c’è predominanza della forma personale nel romanzo del 1700? L'obiettivo è un effetto di realtà, qui sono avventure banali, viene data voce a personaggi banali. A introdurre questi romanzi è generalmente una prefazione in cui l’autore si atteggia a curatore. Questi testi non appartengono alla finzione ma nemmeno alla completa realtà. Per esempio, la prefazione a Robinson Crusoe mostra lo statuto ambiguo di questi testi che incorniciano il racconto in cui il protagonista prende la parola per narrare. Nella prefazione a Le relazioni pericolose, ci sono addirittura un avvertimento dell’editore e una prefazione del redattore; queste istanze che prendono posto dell’autore sono due. Si declina la responsabilità, il redattore afferma solo di aver editato il testo. Si scrive che qualcuno è venuto a contatto con queste lettere e si decide che qualcuno le sistemi. L'autore si presenta come curatore di un documento reale di cui è giunto in possesso. È una sorta di frontiera, di spazio di interconnessione tra testo e mondo extra-testuale. C’è un doppio movimento contraddittorio, non funzionale al testo, ma che suggerisce che è un testo letterario. Si ritrova una sorta di volontà di giustificazione del testo; possiamo anticipare che una delle ragioni per cui è così frequente questo tipo di dispositivo di presentazione del testo è una strategia di negazione di responsabilità. È come se l’autore scaricasse sulla storia e su questa prima persona la responsabilità morale e legale del testo. È sintomatico di un momento del romanzo borghese/moderno. (9/02) La prefazione de La vie de Marianne è addirittura suddivisa in tre blocchi, dimostrando la complessità dell’introduzione. Si riprende il fatto che non è una storia per divertire il pubblico, perché ci sono molti fatti e riflessioni di ordine morale e questo contraddice il gusto corrente del momento in cui il testo viene pubblicato. L'unico intervento dell’autore è quello di aver ritoccato la forma, le parole, i punti confusi, ma è un lavoro esclusivamente linguistico-stilistico, non di contenuto. Marianne ha scritto ciò che ha scritto nel momento in cui si è distaccata dalla mondanità e ciò che scrive è ridotto a una destinataria particolare, un’amica. Poi segue un’ulteriore avvertenza: l’autore afferma che se si dà al pubblico un libro intitolato “riflessioni sull’uomo” questo non verrà letto volentieri, ma comunque i lettori diranno che in avventure come queste le riflessioni non sono al loro posto, perché un libro che racconta le peripezie è fatto per divertire, non per far pensare. Qui torna il problema del genere: questo libro è un romanzo, ma Marianne non l’ha pensato; nella trama, l’amica le domandava della sua vita e lei l’ha scritta a modo suo, non ha alcun modello d’opera mentre scrive, non si conforma a una tipologia, a un insieme di precetti. Marianne non è un autore, ma una donna che pensa, che è passata attraverso diverse situazioni che ha molto visto. La vita è vista come un tessuto di elementi che le hanno dato una certa conoscenza dell’umanità. Marianne si immagina di intrattenere la sua amica e, in questo spirito, mescola fatti che racconta e riflessioni a proposito di questi fatti. Qui si inserisce elemento dell’oralità: da un lato non è un romanzo, perché i lettori si lamentano che è troppo inzeppato di parti di ordine riflessivo e Marianne non è autrice; dall’altro, non è neanche storia collettiva e pubblica. Bisogna immaginarsi che la protagonista non stia scrivendo, ma parlando. Nel momento in cui cambierà la sua condizione e diventa contessa, i suoi racconti diventano più curiosi. Nell’ultima parte della prefazione abbiamo il ritrovamento del manoscritto, datato quarant’anni prima: si afferma che è stato cambiato il nome di due personaggi. C’è la denegazione dell’autorialità che si rimbalza da un autore all’altro, da un soggetto dell'enunciazione all’altro: “Marianne non è autore”, “io non sono autore”, ecc. C’è una certa ambiguità riguardo il romanzo: chi è l'autore? È privato o no? È un romanzo o no? Il fatto che si rivolga solo a un “tu” che trova posto nel testo conferma il fatto che non sia una scrittrice. La prefazione a Moll Flanders è caratterizzata dall’ambiguità come La vie de Marianne. C’è una sorta di conflitto di finalità: intrattenere contro istruire. La differenza tra le prefazioni è legato a una diversità culturale tra Inghilterra e Francia: la Francia è meno vincolata da imperativi di ordine morale e moralistico rispetto all’Inghilterra post-protestantesimo. Qua più volte l’autore sottolinea l’epurazione e la traduzione del testo, i tagli da lui fatti, in una sorta di continua excusatio repentita, giustificando il valore morale di una lettura del genere: l’obiettivo è quello di evitare l’errore, quindi viene descritto. C’è uno slittamento di tonalità espressiva: il curatore sembra quasi difendere se stesso in quanto autore. C’è una certa aderenza tra autore e testo che sembra più appassionata di ciò che farebbe un semplice trasmettitore che non ha avuto mano nella concezione e scrittura del testo. La difesa diventa quasi involontariamente comica: afferma di leggere la storia per smettere di farsi derubare, racconta di stare attenti, come se fosse colpa dei derubati e non dei ladri. È significativo che nella prefazione di Defoe ci siano un paio di concetti che si avvicinano a questioni teoriche: non si può raccontare la propria fine in prima persona ed è una storia di vita privata che si mette in scena. Le origini del romanzo moderno Quali sono gli elementi che ci dicono qual è la funzionalità di questo dispositivo letterario, della prefazione che nega l’autorialità? Sicuramente abbiamo un problema di censura: si risponde all'esigenza di distinguere la voce del personaggio dalla voce dell’autore. Anche fisicamente noi vediamo questo spazio, questo interstizio tra copertina e racconto, fra autore e racconto in prima persona, che richiede questo stratagemma perché è una soluzione narrativa in cui siamo maggiormente portati a identificare chi scrive, chi racconta e chi vive. Si delega a una figura fittizia la responsabilità di quanto scritto. Nel 1700, in particolar modo in Inghilterra ma non solo, a causa di una serie di trasformazioni sociali ed economiche si arriva a un innalzamento dei tassi di alfabetizzazione dando la nascita a un pubblico nel senso moderno del testo, cosa che non è sempre esistita. Ciò coincide con l’avvento del romanzo moderno: cambia anche la lettura, il pubblico diventa un fatto individuale non mediato da istituzioni o autorità, sono lettori e soprattutto lettrici solitari, perché è noto che il pubblico del romanzo moderno è un pubblico fortemente femminile, quindi considerato più debole intellettualmente. La lettura inizia ad essere un’esperienza fuori controllo dalle istituzioni, quindi gli autori mettono distanza dal personaggio e delegano la responsabilità. Il problema della censura non è l’unica questione. Una delle dichiarazioni che troviamo in tutte queste prefazioni è che “questo non è un romanzo”. C’è la necessità di scritture nuove di differenziarsi dal genere romanzo fin lì conosciuto (ex. romanzo cavalleresco). Questa ambiguità è anche volontà di sottolineare una differenza, un’identità di queste scritture, un’estraneità del genere che si sta andando a costituire rispetto a una tradizione, a una non integrazione dei canoni della letteratura fin lì scritta. Il romanzo che si sviluppa nel Settecento non assomiglia alle altre storie false: è fittizio, ma scritto diversamente. Ne Le origini del romanzo borghese (1957), Ian Watt ripercorre il romanzo inglese dal 1700 all’1800. Watt ha fatto una morfologia di questo genere che per lui è un genere nuovo. È un testo che propone la storia del romanzo, è un’ipotesi di storiografia letteraria che insiste sulla discontinuità, sulla frattura della tradizione. Secondo Watt, la presenza così forte della narrazione in prima persona nella narrativa del 1700 è causata dal legame fra sviluppo del novel e dell'individualismo borghese, che secondo Watt è reso possibile da alcuni grandi eventi: la riforma protestante, che pone enfasi sull’individuo in relazione al sacro, la Rivoluzione inglese, importante per l’autodeterminazione dell’individuo, la Rivoluzione industriale, la Rivoluzione francese, tutti fenomeni che valorizzano iniziativa individuale a scapito delle istituzioni di potere tramandate. Ciò è mostrato anche solo dai titoli delle opere dell’epoca che designano un’esperienza singolare, che ci fanno riflettere su quanto l'individuo diventi la pietra angolare della vicenda e tanto più quando è il narratore della sua storia. Ha il privilegio nella centralità della trama del racconto ed è legittimato a parlare di sé. Inoltre, questi nomi ci restituiscono individui comuni, normali, non hanno nessuna risonanza storica o mitologica e non hanno nemmeno un rilievo simbolico immediato. Sono nomi iperspecifici ma del tutto anonimi, perché non distinguono questo individuo di cui si racconta la storia, non si crea nessuna aspettativa se non quella di essere una persona comune. Questa è una trasformazione notevole rispetto alla tradizione, dove i nomi erano sempre altisonanti e di personaggi storici o mitologici (ex. Richard III di Shakespeare). (14/02) La presenza del cognome nei nomi dei personaggi è un elemento decisivo, che colloca i personaggi in un sistema di riferimenti e di leggi sostanzialmente non diverso da quello del lettore. Il cognome dota i personaggi di un’identità anagrafica estremamente circostanziata, si fa garante della loro singolarità, della loro unicità. Nel mondo reale l’omonimia, ossia il nome proprio che si riferisce a più di un individuo, è uno scandalo, un’eccezione, una devianza dalla norma, dall’idea che ognuno abbia un nome designatore della propria individualità, un problema (giuridico, burocratico…). Allo stesso modo è vista la polionimia, il fatto che ci siano più nomi attribuiti a uno stesso individuo. Gianni Celati in Finzioni Occidentali (1975) afferma riguardo al problema dell’intrigo, della trama: “Nel novel l’intrigo non è fantasticato o ripreso dal passato: alla trasmissione di una tradizione subentra l’informazione su un’esperienza che la tradizione non conosce”. Si tratta quindi di un’esperienza inedita; in questo senso si diversifica dalla tendenza a rendere anonimi i personaggi nel 1900, con la crisi dell’individualismo borghese che è la base del novel. La trama del novel è quindi un’esperienza unica, non nota, e acquisisce valore perché personale e non è una sineddoche di tante esperienze. Di che tipo di esperienza si parla? È un’esperienza particolare, specifica a un singolo individuo, unica; non è eroica, leggendaria, ma, al contrario, spesso domestica, avviene all’interno delle mura della casa borghese. Con il romanzo assurge a dignità estetica la vita quotidiana, la vita privata di persone comuni, ordinarie; vita privata significa anche segreta, celata, nel senso di opposta a pubblica, visibile. Il vero valore dell’individuo di cui si racconta non sta nel suo rango, nella sua appartenenza a ordini e categorie generali, ma nel suo essere una singolarità specifica: il personaggio del novel non funziona più come una sineddoche (la parte per il tutto) di una generalità (coraggio, codardia, nobiltà, virtù...). Il novel innalza il valore del dato empirico e contingente, ossia del singolo accadimento, a scapito della generalizzazione teorica, dell’astrazione. Ian Watt nel suo The Rise of the Novel delinea la morfologia del romanzo inglese del Settecento, censendone i procedimenti e i tratti distintivi. Il tratto distintivo fondamentale, il punto di partenza delle riflessioni di Watt, è il realismo: secondo Watt il romanzo solleva “con più forza di ogni altra forma letteraria” il problema della corrispondenza tra opera letteraria e realtà da essa imitata. Il realismo del romanzo non consiste nel tipo di vita che esso rappresenta, ma, in prima istanza, nel modo in cui la rappresenta: è per questo che Watt parla di realismo formale ed è per questo che vuole tracciare una morfologia di tale forma inedita (novel, novità...). Il realismo formale è un realismo che si contraddistingue per il modo in cui l’oggetto di rappresentazione viene portato sulla pagine, lo stile, la plot, l’organizzazione della trama, la caratterizzazione dei personaggi, ecc. Watt individua sei tratti salienti del romanzo moderno o novel: 1. la povertà delle convenzioni formali. Il romanzo si appropria di una forma non forma, del modo della scrittura privata, apparentemente scevra da leggi e norme retoriche, un flusso che appare poco formalizzata rispetto a, per esempio, una tragedia o un poema allegorico. È una modalità narrativa espertamente poco formalizzata. La verità del testo si ritrova quindi in relazione all’esperienza individuale. Si crea una rottura con un senso del valore e del pregio legato all’imitazione dei modelli della tradizione: la letteratura premoderna è spesso una letteratura, semplificando, che acquisisce i suoi modelli dalla tradizione, non dalla sua rottura, al contrario del romanzo moderno. Il rifiuto di imitare diventa un valore. Tutto ciò si concretizza nel rifiuto delle trame tradizionali e uso invece di trame interamente inventate o costruite a partire da avvenimenti contemporanei; 2. la particolarizzazione, che influisce sulla caratterizzazione dei personaggi, la presentazione dell’ambiente, il nesso tra i due piani. La particolarizzazione si lega alla filosofia dell’empirismo, la ricerca della verità che non trova più le sue radici in leggi astratte e generali, ma piuttosto nell’osservazione della realtà empirica e la sua osservazione, su ciò che accade comunemente; 3. i personaggi. Il personaggio del romanzo moderno è un individuo unico e singolare, non un eroe della tradizione, non un personaggio allegorico o un’immagine ideale. Si sofferma sulla scelta del nome proprio come quello dei lettori. I personaggi del romanzo moderno sono degli sconosciuti, degli ignoti e, da un certo punto di vista, sono liberi (liberi dalla tradizione, liberi da una storia che è già scritta prima che il libro cominci). Un esempio di ciò è il topos diffuso in cui il personaggio viene presentato come uno sconosciuto di cui solo in seguito si viene a sapere il nome; è qualcuno la cui identità deve essere svelata nel corso della storia e non è una conoscenza pregressa che plasma le aspettative dei lettori. Chi sono questi personaggi? Quale è la loro storia, il loro destino? La forma pseudo biografica è ideale per svelare un personaggio ignoto; 4. la temporalità. Al romanzo è consustanziale il tempo (= il romanzo ha la stessa sostanza del tempo): l’individualizzazione del personaggio è possibile solo all’interno di un quadro temporale determinato in tutti i suoi aspetti, sia dal punto di vista del contesto storico sia da quello dei rapporti interni tra gli eventi, ovvero la costruzione del plot. Il romanzo rompe “con la tradizione di usare storie fuori del tempo per dimostrare verità morali immutevoli”. A proposito, Watt cita prima Locke, affermando che la coscienza dell’identità si ha solo nel tempo attraverso la memoria, quindi è centrale mimare l’autobiografia, la presentazione della propria identità attraverso la memoria e una continuità nel tempo, e poi Hume, secondo cui la memoria è anche ciò che consente di avere nozione del concetto di causa e dei rapporti di causa-effetto; in base a ciò si insiste sull’importanza della memoria. Nel romanzo la dimensione temporale assume un’importanza costruttiva cruciale, il valore del plot; molto più di quanto avvenisse in epoche precedenti, il romanzo usa le esperienze passate come cause dell’azione presente: “una connessione causale operante nel tempo sostituisce l’uso precedente di coincidenze, e questo dà al romanzo una struttura assai più coesa” e un aspetto più verosimile. Quindi, per esempio, se un personaggio viene descritto con una pistola in mano, successivamente deve fruttare questo elemento/dettaglio in un’azione. Un importante esempio di temporalità lo ritroviamo in Robinson Crusoe: una delle prime azioni che compie il protagonista sull’isola è la costruzione di un calendario, mettersi in una condizione di misurazione del tempo, in controllo del tempo che scorre. Collocare gli eventi in una sequenza coerenze, spesso le incongruenze si percepiscono in maniera forte perché ci aspettiamo che il tempo funzioni. Il tempo storico diventerà molto forte nel 1800, per esempio con Dickens; 5. lo spazio. Al tempo è necessariamente correlato lo spazio: il singolo caso particolare si definisce sempre in rapporto alle coordinate di tempo e di luogo. Se le determinazioni temporali sono precise e circostanziali, lo è anche lo spazio, infatti i luoghi sono ben precisi o totalmente inventati, con ricostruzione di carte geografiche. Nella tragedia, nella commedia e nel romance, afferma Watt, “il luogo era vago e indefinito”; il romanzo, invece, visualizza ciò che narra come se fosse accaduto in un ambiente reale. Anche l’ambientazione è solida, attraverso la curata presenza inedita degli oggetti, dei luoghi, della topografia. I personaggi sono strettamente collegati all’ambiente in cui vivono, l’individuo è interamente collocato nel suo ambiente fisico (cfr. Mimesis. Il realismo della letteratura occidentale, Auerbach); 6. lo stile. Come afferma Watt nel suo saggio: “Le varie caratteristiche tecniche del romanzo descritte sopra sembrano tutte contribuire al perseguimento di uno scopo che il romanziere condivide col filosofo, produrre qualcosa che pretende di essere un resoconto autentico di esperienze effettive di individui. Questo scopo implica altri tipi di rottura con la tradizione, oltre a quelle già menzionate. Forse la più importante è l’adattamento dello stile della prosa allo scopo di dare un’aria di completa autenticità [...]”. Per esempio, Cesare Pavese, nella traduzione di Moll Flanders si è sforzato di icreare uno stile della prosa dell’autore, con con registro colloquiale, nelle formazioni frastiche, nei modi di dire, certe costruzioni sintattiche e grammaticali, certe preposizioni. Un linguaggio che cerca di raccogliere e ricreare in italiano questo tipo di andamento linguistico. Secondo Watt, il romanzo moderno si serve di uno stile che enfatizza la funzione referenziale del linguaggio a scapito degli abbellimenti retorici, della deformazione e della dimensione figurale: “uso quasi esclusivamente descrittivo e denotativo del linguaggio”, fino a uno stile povero, sguarnito, anti-letterario, non letterario che rifiuta tutto quello che costituiva il “bello stile”; non a caso, Defoe è stato spesso accusato di scrivere “male”. Questo stile è però senza dubbio un modo per ricercare un effetto di immediatezza, fisica in Defoe, emotiva in Richardson, ecc. Queste riflessioni di Watt sullo stile nel romanzo appare oggi come la parte più debole e obsoleta della sua interpretazione. Si tratta di una lettura che oggi è difficilmente accettabile: da una parte, il romanzo ha integrato dimensioni figurali e simboliche, mobilitando una molteplicità di codici retorici che si intrecciano variamente alla cosiddetta funzione referenziale; dall’altra, lo strutturalismo ha mostrato come questa pretesa referenzialità sia a sua volta un codice retorico (esattezza scientifica, verosimiglianza...). La naturalezza è un artificio retorico, come gli altri, è un effetto costruito manipolando gli elementi del linguaggio. Il romanzo ha integrato dimensioni simboliche, integrando una grande quantità di codici retorici. Il romanzo fugge dalla deformazione, la visione esagerata e deformata dell’oggetto della rappresentazione. C’è una sorta di medietà rappresentativa nel 1700. (15/02) Nel romanzo Moll Flanders, uno degli aspetti principali è il nome proprio, un concetto complicato e instabile che mina l’idea forte di un’individualità unica, di una soggettività affidabile a cui ricondurre le avventure narrate. Il sistema nominale è complicato: Moll, per parte del racconto, viene chiamata madamigella Betty. Moll è figlia di una ladra, la quale l’abbandona; Moll viene quindi deportata a nord e accudita da una signora che si occupa degli orfani della parrocchia. Quando la madre “adottiva” di Moll muore, la sindachessa di Newgate prende Moll con sé e la cresce. Moll ha una relazione clandestina con il fratello maggiore di questa famiglia, ma sposerà il fratello minore che morirà. Qui inizieranno le vere e proprie avventure di Moll, sola nel mondo. La situazione è scabrosa, nessuno in famiglia sa che Moll è l’amante del figlio maggiore; tutti sanno che il figlio minore è innamorato di lei e che la vuole sposare. Il secondogenito che vuole sposare una donna povera getta la sindachessa e le tre sorelle, nello scompiglio. In conclusione al romanzo, sarà deportata in Virginia. A livello stilistico è importante puntare l’attenzione sul narratore. Moll deve eseguire le sue fonti quando racconta qualcosa a cui non era presente, si deve preoccupare di spiegare ai destinatari come può ricordare un dialogo che è avvenuto in sua assenza, altrimenti non sarebbe credibile che Moll ci possa raccontare qualcosa a cui non ha assistito. Il narratore in prima persona, come spiega Genette, è un personaggio della storia; comunque non tutte le prime persone del romanzo designano personaggi nella storia. Ci possono essere due tipi di io nel romanzo: 1. l’io narrante, testimone, protagonista o ibrido. In questo caso, “io” è il pronome personale con cui il testo designa uno dei personaggi della storia. Genette dice che non è una questione fictionale, ma di rapporto tra narrativa e storia, di cui l’uso dei pronomi è solo una conseguenza sul piano funzionale: il protagonista è sullo stesso piano degli altri personaggi. Moll appartiene allo stesso statuto ontologico, alla stessa condizione di essere, degli altri personaggi (la madre, le sorelle, ecc..). Non è detto che la storia sia quella del narratore, perché egli può essere il protagonista, come nel caso di Moll, o anche un testimone, come ne Il Grande Gatsby; anche in Heart of Darkness, Marlow è il narratore che racconta come ha risalito un fiume con un bauletto in un paese che non viene identificato, alla ricerca di un altro personaggio, ma man mano che si avanza, emerge una dimensione di identificazione tra i due, come lo stesso Marlow commenta nel racconto. Un altro esempio è Alla ricerca del tempo perduto di Proust, in cui si raccontano storie che sicuramente il personaggio narrante non può sapere; 2. l’io commento, quando chi racconta, in terza persona, esterno all’universo fictionale, si intrattiene con il destinatario. L’io può essere enfatico, inserendo dei lunghi commenti oppure una frase con piccole locuzioni; possono essere delle frasi minime, es “il nostro eroe”, “devo confessare che..”. Al narratore viene delegata una voce “autoriale”. C’è un io sempre in prima persona, è inafferrabile. Sono commenti sulla storia, sui personaggi che non emanano da un io personaggio della dimensione fittizia. Watt parla di realismo formale perché il personaggio è costruito come il lettore: non ha proprietà divine, non può leggere nel futuro, non è onnisciente. È un personaggio costruito a “misura umana”, con le nostre prerogative e i nostri limiti conoscitivi. Dunque Moll non può conoscere conversazioni di cui non fa parte e il testo ce lo ricorda, esplicitando spesso il ricorso di Moll alle fonti che dovrebbero rendere credibile il suo racconto. Sono dichiarazioni che alludono ai “limiti” della narrazione in prima persona, che sono limiti conoscitivi, limiti ontologici legati allo statuto nel personaggio costruito sul modello dell’individuo comune. Defoe vuole conferire credibilità e verosimiglianza al racconto in prima persona di Moll, che dovrebbe essere un manoscritto trovato dall’autore, inserisce i riferimenti alle fonti del sapere. Nonostante il narratore goda di una conoscenza superiore rispetto al momento in cui è personaggio, infatti, alcune dichiarazioni possono essere scritte da Moll solo nella parte finale del racconto e non mentre vive la sua storia come personaggio. Moll può riferire solo quello che entra nel suo campo percettivo e conoscitivo, il resto non può esistere oppure solo in forma di fonte e per sentito dire. Da ciò, possiamo trarre che il narratore in prima persona si muove in un perimetro circoscritto legato alle capacità percettive del personaggio, a differenza del narratore in terza persona, che non deve esibire alcuna fonte, alcuna garanzia perché è dotato di un sapere per statuto, per “diritto divino”, per onniscienza. Nella storia, Moll rifiuta Robin, non vuole sposare il fratello perché non vuole fare un torto alla famiglia che l’ha accolta e in più perché è innamorata del fratello maggiore. [pag 23-25] Qui le fonti non vengono inserite, non c’è alcuna esibizione delle fonti: si tratta di una cronaca estremamente dettagliata di questa conversazione che prende un paio di pagine, con discorsi diretti. Moll racconta una conversazione a cui non ha partecipato senza dare un motivo plausibile che le consenta di raccontarlo e lo fa con milizia di dettagli e particolari. Cesare Pavese, traduttore dell’opera, precisa che la costruzione del racconto ci lascia pensare che è una conversazione a cui sembrerebbe che abbia partecipato solo la madre, le tre sorelle e Robin. La fonte privilegiata di Moll è essa stessa assente, non menzionata, tanto che, all’arrivo di Robin, designa il gruppo dei partecipanti con “tutte” e non tutti con un pronome personale plurale femminile a specificare che il gruppo di personaggi che accoglie Robin è un gruppo di donne. Inoltre, Moll racconta la sua stessa reazione alla conversazione. [pag. 39] Qui rientra in scena il fratello maggiore che spinge Moll a sposare il fratello minore e le riporta la conversazione che hanno avuto. C’è una sorta di lapsus, perché nella scena che ci è stata raccontata il fratello maggiore non c’è. Moll ci racconta di una conversazione a cui non ha assistito, ma che le ha raccontato Robert; anche Robert però non ha partecipato alla conversazione, quindi la situazione è impossibile: questo è uno dei problemi specifici della narrazione in prima persona. La narrazione in prima persona ha una dimensione di credibilità e di credenziali che altre forme narrative non hanno e non comportano. Soprattutto il regime realista e tanto più nel quadro del manoscritto ritrovato fanno passare sia la storia sia l’atto narrativo che la produce come veri, come se ci fosse qualcuno che racconta un’esperienza reale e realmente vissuta. Narrare in prima persona comporta automaticamente una definizione del punto di vista della narrazione: significa disporre “di default” di un punto di vista limitato. Si può disporre di quella conoscenza superiore che il narratore personaggio acquisisce nel corso della storia (ex. la Moll che parla non è la Moll che vive questi eventi), ma anche questa conoscenza superiore ha i suoi limiti. Abbiamo due opzioni: si fa appello a una conoscenza di “seconda mano” oppure si rompe questo “contratto”. [pag. 171] Alla fine della storia, Moll ritrova il suo vecchio marito che amava e si raccontano le loro vicende. Lei racconta anche quello che è successo al vecchio marito, ma in realtà può raccontarla perché è il marito a farlo, nel momento in cui lui esce dal mondo fictionale controllato dalla percezione e dal sapere di Moll. Rientra quando ritorna e Moll può integrare le sue lacune conoscitive solo dopo. La scelta di voce implica una scelta di default di punto di vista con tutti gli escamotage che gli autori possono trovare e cercare per aggirare queste limitazioni; implica anche autorevolezza a raccontare ciò che si sta raccontando. Con la caratteristica della narrazione in prima persona, anche i narratori violano il contratto, per esempio con frasi come “sembrerà inverosimile"; si tratta di una excusatio non petita usata per evidenziare il problema. (16/02) Nel caso di Moll Flanders ci sono alcune attitudini di questa voce narrante molto evidenti: appare chiaro il materialismo di Moll, il suo spirito pratico, dato che ci sono tantissime cifre, tabelle di conti, ecc. È molto simile ai personaggi di Jane Austen: nessuna donna si presenta senza dote e nessun uomo senza rendimento. Nonostante abbiamo un ravvedimento di Moll, si vede spesso che il ravvedimento di Moll è anch’esso molto pragmatico, poco spirituale. Abbiamo uno spirito molto crudo, che va all’essenza dei rapporti economici. La posizione in termini metaforici di un testo narrativo è riferita all’istanza che racconta, alle possibilità percettive che il contratto narrativo definisce, ovvero i limiti della narrazione. Il punto di vista è come il raggio visivo del narratore, ma ha anche un significato più ampio di attitudine, di prospettiva ideologica, di linguaggio, di lessico con cui si concettualizza parola o espressione. Abbiamo quindi due polarità: una di tipo tecnico conoscitivo e una di tipo ideologico-percettivo, attitudinale. [pag. 36] La voce narrante organizza la storia andando avanti e indietro, orchestra il racconto, dando indicazioni di regia al destinatario. Queste ci danno indicazioni su come procede il racconto e su come il narratore lo sta orchestrando. È una pratica molto diffusa nella letteratura (ex. le locuzioni di Balzac “facciamo un passo indietro”, ecc.) perché nessun racconto dirà mai tutto su una vicenda, qualunque racconto è parziale per definizione, perché la narrazione è inesauribile e dipende dalla scala del segmento narrativo che noi seguiamo. Ci sono aggiustamenti rispetto a accelerazioni, durata, ecc. Un’altra attività è quella di fornire credenziali: non è strettamente un atto narrativo, ma è una garanzia sull’attendibilità del racconto e della voce narrante. [pag 44-45] Il primo marito di Moll è già morto; Moll si ritrova a consigliare, aiutare una sua conoscente che è stata abbandonata dall’uomo con cui doveva sposarsi e si lancia in una riflessione sul matrimonio. Molte delle riflessioni di Moll riguardano i rapporti di genere, uno dei centri tematici. Qui la voce parte da un fatto della narrazione e affronta una riflessione atemporale; Moll parte da una circostanza particolare e poi si lascia alle spalle l’aneddoto per lanciarsi in una generalizzazione, una legge sui rapporti tra uomini e donne nel particolare contesto del mercato matrimoniale: spiega come le donne debbano trasformare il loro ruolo di subordinazione a un ruolo forte. Il personaggio-narratore afferma la sua ideologia, il suo sistema di valori. C’è un passaggio da temporalità ad atemporalità, dal particolare alla riflessione generale che potenzialmente riguarda tutti. alla fine, ritorna a parlare della sua situazione. c’è un momento testuale che segna il ritorno dalla generalizzazione alla circostanza degli eventi, sottolineando la differenza tra il discorso narrativo e quello ideologico. [pag. 53] Moll apprende che il suo terzo marito è suo fratello. Si è recata in Virginia con questo mercante e parlando si accorge che sua suocera è sua madre, dopo aver avuto due figli con quest'uomo ed essere incinta del terzo. Anche qui viene usata la frase “let any one judge” per introdurre il pubblico di lettori. [pag. 71-74] Moll si trova a Bath, ha appena scoperto che il suo amante è gravemente malato. Dopo essere stato in punto di morte, l’amante di Bath lascia Moll e si dedica a una vita onesta pentendosi. In questo passaggio, abbiamo un altro esempio del narratore che chiama in causa i lettori. Il narratore non si limita a riferire dei fatti, ma fa anche altri tipi di discorso. Oltre alla funzione narrativa, ne possiamo individuare altre cinque: 1. la funzione testimoniale, ovvero di esibizione delle fonti (ex. “l’ho saputo così”, “me l’ha detto…”, “ho sentito che”). Troviamo dei riferimenti a come la voce narrante ha ottenuto le informazioni che sta trasmettendo ai destinatari, soprattutto nella narrazione in prima persona. È come se si chiamassero dei testimoni in un modo tale per cui il racconto fittizio cerca di farsi passare per verosimile; deve dare aria di credibilità e tradisce un po’ il romanzo come fictionale; 2. la funzione di regia, tutte le volte che la voce narrante dà indicazioni che consentono ai destinatari di seguire meglio la storia, di comprenderne i passaggi, di seguire il filo del racconto in maniera più facile. Non appartiene specialmente alla narrazione in prima persona, perché qualsiasi narrazione fictionale ne fa continuamente uso; 3. la funzione ideologica, non necessariamente limitata alle opinioni, così il racconto diventa un’enciclopedia della società che lo esprime, ne diventa la coscienza morale e, in qualche modo, questa ambizione di costituire anche un sapere che non è solo singolare, del singolo caso raccontato. Qua siamo all’opposto rispetto alla particolarizzazione: si parla di personaggi particolari, in contesti ben definiti, ma l’ambizione del romanzo è quella di ricavare un sapere di ordine generale da applicare alla vita reale dei destinatari. C’è una coscienza umana, che si arroga il ruolo di andare al di là del caso singolo; 4. la funzione comunicativa, che si mostra attraverso appelli al destinatario, momenti in cui il destinatario entra in scena, sia nella forma di un pronome di seconda persona sia attraverso locuzioni. Questo tipo di appelli, di cui Moll Flanders è molto ricco, non sono limitati alla narrazione pseudo-biografica. Per esempio, all'inizio di Père Goriot di Balzac, il narratore si riferisce ai lettori affermando che tutto quello che leggeranno è vero; Père Goriot è scritto in terza persona, con un narratore onnisciente, ma fa questo dialogo con il lettore e lo chiama in causa al punto di dargli la parola. Walter Ong ha scritto Orality and Literacy sul passaggio tra cultura orale e scritta e le loro differenze. Secondo Ong, questa funzione comunicativa manifesta la traccia della narrazione orale, perché l’interlocutore è presente e l’atto di narrare e di ricevere sono compresenti nello stesso spazio e tempo, cosa che nella narrazione scritta non c’è perché è sempre in differita, e la nostalgia di questa stessa narrazione. 5. la funzione metanarrativa, quando il narratore parla del suo stesso romanzo: com’è trasmesso, com’è narrato, ecc. Queste funzioni possono anche presentarsi insieme (ex. Moll Flanders, pag. 74). [pag. 98] Troviamo sia una presa di posizione ideologica, una funzione di regia e la traccia dei destinatari. [pag. 164] Il narratore parla del suo racconto, prima per dire che l’effetto che le fa il dialogo con l’ecclesiastico, perché non controlla il linguaggio così tanto: è una dichiarazione di modestia e di giudizio sul suo racconto, è una versione riscritta e ampliata del racconto che fa all’ecclesastico. Rispetto all’avarizia, alla timidezza della funzione comunicativa di questo romanzo, il rapporto con l’oralità viene recuperato quando all’origine del racconto scritto c’è un racconto orale. Qui il discorso della voce narrante si sofferma sul proprio racconto. La narrazione in terza persona (22/02) Joseph Andrews (1742) è un romanzo di Henry Fielding, l’autore di Tom Jones (1749). Il protagonista è il fratello di Pamela Andrews, la protagonista di Pamela di Richardson. Il romanzo è un esempio precoce di quello che nei rifacimenti contemporanei si chiama gender swap: Joseph Andrews ha un destino simile a quello di Pamela, è fatto oggetto delle mire sessuali di una lontana parente di Mr Booby, è una sorta di speculare maschile della situazione che aveva rappresentato Richardson in Pamela. Anche Joseph Andrews si apre con una prefazione, che è molto diversa da quelle lette finora. È importante perché in qualche modo Fielding costituisce un’anomalia nel panorama del 1700 perché non fa uso in primis né del manoscritto ritrovato né della prima persona. Joseph Andrews è narrato da un narratore impersonale e costituisce un’anomalia sia nelle scelte tecniche stilistiche sia per il tipo di riflessione che Fielding compie sul romanzo in questa prefazione, considerata un manifesto del romanzo moderno, in quanto è qui che Fielding deposita la famosa definizione di epopea in prosa che poi diventerà una delle definizioni che ha avuto più fortuna del romanzo moderno. Quello che emerge sono due modelli nel 1700, uno è il modello egemone della pseudomemoria, delle pseudolettere, del romanzo che finge di non essere tale, che finge di essere un documento, ritrovamento, un pezzo di realtà in qualche modo; dall’altra abbiamo Fielding che usa espedienti completamente diversi, che rivendica in questa prefazione. Nel 1700 la linea della narrazione di Fielding è minoritaria, ma poi diventerà maggioritaria nel XIX secolo. A differenza di scrittori come Defoe, che nelle loro prefazioni si presentano solo come curatori portando questi testi al di fuori della tradizione letteraria affermando la novità, Fielding comincia facendo uso della parola romance, non novel. Anche Fielding rivendica il carattere inedito di quello che sta facendo. Si richiama alla Poetica di Aristotele: l’epica, al pari del dramma, si suddivide in tragedia e commedia. Nella distinzione di Aristotele nel campo dell’imitazione attraverso il linguaggio, egli distingue i testi sulla base di diversi criteri, uno di questi è l’oggetto imitato che può essere superiore a noi (dei, eroi, semidei) oppure uguale o peggiore di noi. Secondo Aristotele ci sono tre modi in cui si può imitare: 1. il dramma, nel quale il poeta finge di essere i personaggi, parlano solo i personaggi; 2. la narrazione pura, in cui parla solo il poeta, definita da Platone; 3. il metodo misto di Omero, dove il poeta parla con la sua voce ma poi fa parlare i personaggi. Fielding li riduce a due: drammatico ed epico, cioè misto, ma contrappone il modo narrativo al drammatico, cioè con una voce che media i discorsi dei personaggi. Al contrario, nel sistema di Aristotele sono contrapposti tragedia, l’imitazione drammatica di personaggi superiori, nobili, l’epica, l’imitazione narrativa di personaggi nobili, alti, la commedia, l’imitazione drammatica di personaggi uguali o inferiori, comuni. Rimane una casella nella poetica di Aristotele, quella di un epos di tipo comico, non alto, di cui Aristotele fornisce un esempio: Margite, un poema epico attribuito ad Omero, giunto a noi in frammenti. L’epica, al pari del dramma, si suddivide in tragedia e commedia. L’epopea comica sta alla commedia come l’epos, l’Iliade, sta alla tragedia, è la versione narrativa. Fielding fa riferimento al romanzo barocco, tra cui Cleopatra, Cassandra, Clelia, Il Gran Ciro, Astrea, ecc, i quali sono romanzi piuttosto complicati, retoricamente alti che hanno come protagonisti personaggi che hanno a che fare con un mondo aristocratico e nobile che non sono affatto comici. Una delle definizioni più note di Fielding è “a comic romance is a comic epic poem in prose”. Rispetto al modello del romance del 1600, si riallaccia alla tradizione epica andando a creare quell’epica comica che istituisce un nuovo genere: è l’epica che è narrata impersonalmente in terza persona; la voce del poeta raccoglie e presenta tutte le altre voci, imprimendo uno scarto rispetto al romanzo barocco. È un testo ridicolo e comico, ma non burlesco, non è una parodia del poema epico. Infatti, non opera forme di esagerazione, di enfasi e di accentuazione grottesca dei tratti. Il comico è una forma di realismo, di attenersi, imitare ciò che la natura ci detta, senza abbellirlo né abbassarlo a livello retorico. Fielding insistite su tre punti: 1. si riallaccia all’origine alla tradizione dell’epos; 2. distingue il comico dalla caricatura, ma con una forma di aderenza alla natura come si presenta;, 3. l’invenzione di questa nuova forma è una novità diversa da quella rivendicata e praticata da altri scrittori suoi contemporanei come Richardson, Defoe, ecc… Non è possibile fornire una motivazione storica che spieghi l’emergere di questa forma di narrazione in terza persona e il perché si sviluppi una tradizione parallela nel 1700 minoritaria, poi preferita nel 1800. È importante la storicizzazione delle forme, sia perché vivono in un contesto storico sia perché posso assumere significati diversi in contesti storici diversi. È importante notare come il romanzo cominci con queste narrazioni che fingono di essere documento che nega l’artificiosità del letterario. Da parte di Fielding c’è un discorso di consapevolezza autoriale, esplicita, di star facendo letteratura. La premessa che regge l’intera prefazione è che il testo è una finzione, è un romanzo, è inventato, imitato dalla natura, ma è un artefatto letterario, al contrario di Defoe e degli altri autori, seppure ambiguamente. Fielding premette una discussione sul genere letterario e sulla tradizione letteraria per inserire il testo che stiamo leggendo in termini strettamente letterari. Vuole inserirsi in una tradizione, ma si vuole anche staccare da essa. La narrazione in prima e terza persona non sono semplicemente delle forme eterne, assolute, atemporali, astoriche, ma sono dentro dei processi di trasformazione che investono il campo letterario, come i modi di scrivere, che effetti producono, le credenze, lo statuto della produzione, la rottura con la tradizione... È importante vedere i testi nel loro contesto storico, poiché la forma si carica di funzioni diverse a seconda del suo contesto e assume un senso dinamico, non solo descrittivo e fuori dal tempo e dalla storia. Northanger Abbey (1818), J. Austen Nell’ambito del romanzo 1700, la narrazione in terza persona è un’anomalia, è un modello minoritario, ripreso da Jane Austen. Inizialmente Orgoglio e Pregiudizio era un romanzo epistolare. Dopo dei rifacimenti si è passati da romanzo epistolare a impersonale narrato da voce narrante esterna alla storia. Probabilmente è legato al fatto che non aveva più la stessa importanza di una volta, ma è la rappresentazione più prestigiosa che raccoglie i testimoni di Fielding. Jane Austen si rifà ad una narrazione epica, ma è anche una scrittrice con un forte senso del comico e dell’assurdo (ex. incipit di Orgoglio e Pregiudizio). L'abbazia di Northanger (1818) ha una narrazione in terza persona impersonale: la voce narrante non ha bisogno di esibire alcuna credenziale, ha una sorta di autorevolezza a prescindere, a differenza di Moll Flanders che deve continuamente esibire le fonti. Questa è una forma di distanza: nella narrazione in prima persona è più difficile stabilire distanza tra il proprio sé della fine storia e quello di inizio storia, c’è comunque una complicità tra io narrante e io narrato. Qui invece c’è la possibilità della voce narrante di mettere il personaggio a distanza e Jane Austen si serve dell’ironia per farlo. Questa complessa costruzione retorica, sofisticata, ovvero dell’affermazione del contrario di ciò che si vuole intendere, presenta l’eroina come un essere normale, nonostante sia per definizione eccezionale. Descrive la protagonista come un’eroina, una buona ragazza nei termini della massima normalità. La sicurezza con cui la voce narrante asserisce intorno al personaggio, con uno sguardo che riflette una conoscenza senza limiti, senza cauzioni, è un sapere che potenzialmente non ha limiti sia esternamente sia interiormente. La voce narrante la conosce bene, afferma tutto ciò con una tonalità retorica che è quella dell’estrema sicurezza di ciò che si afferma, senza dubbi. Non è semplicemente consapevole su quello che sarà il destino del personaggio, ma sa persino che ruolo svolgerà dal punto di vista letterario e narrativo, cioè quello dell’eroina; è l’elemento metanarrativo. Diversamente, in Moll Flanders, il sapere della voce narrante è una consapevolezza superiore, in quanto la Moll narratrice sa di più rispetto alla Moll personaggio. A segno dello statuto problematico del sapere della voce in prima persona testimonia un episodio in Moll riguardo il suo primo amore: i due si sposano pensando che l’altro sia ricco ma non hanno uno nulla, ma sono innamorati l’uno dell’altro, scoprono la verità ma decidono di separarsi come vivere; Moll raccontando questo afferma che “ma di lui avrò occasione di parlarne in seguito”, segnalando al lettore la futura ricomparsa del personaggio. Di anticipazioni di questo tipo ce ne sono molte, ma nella pagina dopo Moll personaggio, che non sa che ricomparirà, dice che non lo rivedrà mai più. Interessante è l’oscillazione di uno statuto fisso e stabile e concretamente totalizzante della conoscenza della voce narrante Moll in contrasto con la conoscenza limitata di Moll personaggio: Moll dice una cosa e il suo contrario a distanza di una pagina. Questo è un problema non presente nella narrazione impersonale. (23/02) [Capitolo V] Lo Spectator era un famosissimo periodico del ‘700 inglese. Austen cita una serie di romanzi, tra cui Cecilia (1782) e Camilla (1796) della scrittrice inglese Fanny Burney. Sono romanzi sentimentali in cui vi è una descrizione satirica della società in cui è ambientato ed è un precursore importante dei lavori di Jane Austen e Maria Edgeworth, i cui romanzi esplorano argomenti simili. Cita anche il romanzo Belinda (1801) di Marias Edgeworth, anche questo molto letto e amato da Jane Austen. C’è una presa di posizione da parte della voce narrante o di Jane Austen a favore dei romanzi in una parodia del romance e del romanzo gotico (ex. con frasi come “Io non sono d’accordo..”, “Non adotterò quella forma meschina..”). [Ultimi capitoli] Jane Austen ha nei confronti del romance e del gotico una certa ambiguità, di cui i confini non sono così definiti. Lei stessa compie una grande difesa nei loro confronti. A livello formale ritroviamo tre caratteristiche principali: 1. la voce narrante usa la prima persona singolare “io” oppure plurale “noi” come scrittori; 2. svolge delle dichiarazioni di poetica, commento autoriflessivo, metanarrativo, metaletterario; 3. si auto-interroga, coinvolgendo il lettore, in una riflessione sui meccanismi del testo, la sua estetica. La voce narrante creata da Jane Austen usa il pronome in prima persona, talora singolare e plurale, per segnalare se stessa. La questione della persona non è strettamente una questione di pronome, il valore narrativo e retorico dello stesso io è diverso da quello di Moll Flanders. [Capitolo VIII] La storia ruota intorno alla figura di Catherine Morland, che l'autrice descrive ironicamente come un'anti-eroina, diciassettenne ingenua e un po' ignorante, con l'unica passione della lettura dei romanzi gotici, genere letterario molto in voga a quei tempi. Viene raccontato del suo soggiorno a Bath, in cui c’è il suo debutto in società. Conosce Henry Tilney, di cui si innamora. Una sera, conosce la sorella di Henry Tilney. In precedenza, ha conosciuto Isabella Thorpe con cui aveva fatto amicizia, ma che si rivelerà un personaggio piuttosto meschino, anche se in una prima fase è un’amica stretta di Catherine. Nella descrizione di Miss Tilney non c’è solo la descrizione e la presentazione del personaggio, ma viene espresso un giudizio su di esso tramite l’uso di aggettivi, un confronto implicito con un altro personaggio, come “chiassosa” ed “esagerata”; è un giudizio implicito, ma anche piuttosto visibile. Vengono messi in evidenza per contrasto i valori di Jane Austen che troviamo in altri suoi romanzi. La distinzione tra prima e terza persona non è una questione meramente grammaticale, ma riguarda invece la posizione del narratore rispetto alla storia che racconta. Il narratore in prima persona è interno all’universo raccontato, è un personaggio. Può essere un protagonista (ex. Moll Flanders) o un testimone (ex. Marlow in Heart of Darkness). Il pronome personale “io” può indicare due situazioni diverse: 1. l’identità di persona tra il narratore e uno dei personaggi, interno alla storia (Moll Flanders); 2. la designazione del narratore da parte di se stesso, ma che è fuori dalla storia. Interviene in quanto voce narrante del racconto. Il secondo tipo di io è l’io che troviamo nella narrazione in terza persona che designa come “egli” i personaggi. I pronomi e i verbi in prima persona possono comparire anche nella narrazione in terza persona, qualora la voce narrante faccia riferimento a se stessa. Possiamo introdurre una distinzione anche all’interno della voce narrante in terza persona, esterna all’universo di finzione raccontato; essa può essere: 1. palese, quando interviene direttamente in quanto voce narrante nel flusso del racconto per commentare, rivolgersi direttamente ai lettori, ma anche in maniera più sottile quando giudica in maniera piuttosto esplicita, indirizzando il nostro modo di ricevere la storia che stiamo leggendo. Questi narratori producono un effetto di rottura dell’illusione narrativa. Svelare i procedimenti, metterli a nudo è stato visto come un elemento di modernità (ex. Northanger Abbey di Jane Austen, Tom Jones di Henry Fielding) In particolar modo, in Tom Jones, il narratore in terza persona, usa anche l’io designando sé stesso. È diviso in libri come vuole la tradizione inglese; ogni libro si apre con un capitolo, chiamati dai critici come “capitoli teorici” in cui la voce narrante si rivolge direttamente ai suoi lettori, discute i caratteri narrativi della storia, i personaggi, mettendo una grande enfasi sulla dinamica retorica. La relazione narratore-narratario è in qualche modo un romanzo dentro un romanzo; 2. nascosta, quando il narratore in terza persona cerca di mimetizzarsi nella storia. La voce del narratore si riduce al minimo, senza commenti e anche le scelte lessicali sono più neutrali possibili (ex. Madame Bovary di Flaubert). Nel Novecento sono famosi alcuni racconti di Ernest Hemingway, tra cui The Killers (1927), noti per la narrazione trasparente in cui l’atto di raccontare si vuole diluire completamente con la storia raccontata. Possiamo fare diverse osservazioni. Per quanto riguarda il problema della persona, la scelta di voce non è necessariamente stabile lungo tutto il percorso; per esempio, in Bleak House di Dickens (1852-1853), la voce narrante è sia in terza persona con la voce del narratore esterno sia in prima persona tramite la voce del personaggio Esther Summerson. Lo scarto tra le due voci è molto evidente: Esther è un narratore limitato, può raccontare solo quello che sa, inoltre è un personaggio molto modesto e fa continuamente riferimento al suo sentirsi inadeguata al compito: anche Esther tematizza il suo atto narrativo. Il narratore esterno invece, può fare di tutto, varca i confini, ha una visione totalitaria. Questa voce, a differenza di Esther, veicola un senso di dominio su ciò che racconta. Per quanto riguarda il problema della verosimiglianza, la voce in prima persona mima una situazione comunicativa ed enunciativa molto banale e comune nella vita quotidiana di qualcuno racconta una storia. Possiamo tracciare da dove proviene la voce, viene naturalizzata in quello che descrive e dice di sé (ex. Moll Flanders). Viceversa, un narratore in terza persona onnisciente, non ha origine, come può raccontare la storia? Che diritto ha di prendere parola? In quale spazio avviene l’arco narrativo? Queste sono domande senza risposta. Samuel Beckett, drammaturgo e romanziere irlandese del 1900, in Compagnia inizia con “una voce che viene dal buio”, frase che incapsula questa voce di cui non si sa la provenienza. Quella che diventerà poi la modalità egemone nell‘800 è per certi versi la più innaturale. Ai tempi dell’epica c’è l’invocazione della musa, in cui il poeta chiede l’autorizzazione di raccontare, ma ora la musa viene ridotta o scompare del tutto, insieme a lei scompare qualunque legittimità di quell’atto di parola che diventa invece una voce fantasmatica, senza origine. È una situazione innaturale: il parlare mettendo da parte una soggettività, diventa la forma egemone della forma narrativa romanzesca dell’800. Ci sono ambiguità nell’interpretare i pronomi personali e i verbi nel testo: un esempio è La Peste (1847) di Albert Camus, la storia dello scoppio della peste in Algeria negli anni ‘40. In questo romanzo, narrato principalmente, ogni tanto nel testo si notano alcuni slittamenti pronominali, ma, alla fine, il testo rivela che l’autore è il dottore protagonista stesso; egli viene designato esplicitamente come il narratore della storia. Genette cita un altro caso, La Forma della Spa, un racconto breve dello scrittore argentino Borges, in cui mette in scena questa ambiguità. Non dobbiamo immaginare la scelta della prima persona come stabile, ma anzi ambigua. Possiamo ritrovare delle forme non convenzionali: la narrazione sistematica in prima persona plurale e la narrazione in seconda persona, un fenomeno più complesso. Un esempio è La Modificazione (1957) di Michel Butor, un racconto con senso politico ambientato nella dittatura argentina. Nella narrazione in seconda persona, c’è una voce narrante che racconta al personaggio la sua storia, quella del personaggio, una voce narrante che riferisce al personaggio i suoi discorsi. Nella comunicazione narrativa è il narratario, il destinatario. È come se il racconto dicesse al lettore che la storia lo riguarda, è un richiamo al lettore; la narrazione e l’interrelazione sono costantemente mescolate. Tendenzialmente si pensa che un narratore in prima persona sia necessariamente limitato, la sua consapevolezza e conoscenza è quella di un personaggio, al massimo può raggiungere una conoscenza retrospettiva, perché in quel caso la voce del personaggio narrante sa più del personaggio che sta vivendo la storia. Non può come il narratore in terza persona sapere ciò che succede in ogni spazio e tempo. Il narratore in terza persona non è necessariamente onnisciente. Che cos’è il punto di vista? È la prospettiva dalla quale si osserva l’universo raccontato. Il punto di vista ha due valori: uno conoscitivo, che ci indica quanto e come si sanno i fatti narrati, e uno ideologico, ovvero il modo di vedere le cose, come giudicare, di interpretarle, può rappresentare un sistema di valori. Il problema epistemologico, conoscitivo va poi a produrre delle questioni di ordine tecnico: il Settecento non ha smesso di riflettere sul romanzo dall’antichità, si interroga su questioni riguardanti la sua natura, cosa è il romanzo; l’Ottocento risolve il problema perché il romanzo è diventato il genere letterario egemone, diventando dominante sugli altri generi. Si produce anche un altro tipo di riflessione: come deve essere scritto o fatto? Si discute su questioni di fattura e tecniche, tra cui il punto di vista. In senso epistemologico-conoscitivo, Genette parla del punto di vista come focalizzazione: è la posizione metaforica in cui è situato lo sguardo di cui la voce narrante usufruisce per raccontare la storia, è la posizione rispetto alla storia. Genette distingue tre tipi nella definizione della conoscenza del narratore e il rapporto con i personaggi: 1. il narratore può sapere più di qualunque personaggio nella storia nel caso del narratore onnisciente. C’è totale inverosimiglianza di una simile conoscenza, si è lontani dall’idea della narrazione che segua i processi comunicativi della vita, perché legge nella mente dei personaggi, sa cosa è successo contemporaneamente cosa succede in luoghi distanti sia in tempo e spazio. Il fatto di sapere tutto non significa che tutto venga detto e che venga detto subito. La conoscenza totalizzante può essere amministrata vagamente; 2. il narratore può sapere tanto quanto uno o più personaggi nella storia; 3. il narratore può saperne meno di qualunque personaggio nella storia. (28/02) Nel XIX secolo la narrazione impersonale, a carico di un narratore che non è personaggio della storia, parla in prima persona con “io”. Sarà la forma dominante nella narrazione dell’800. Sicuramente è meno verosimile rispetto alla narrazione in prima persona in cui i personaggi sono interni alla storia e mimano delle forme comunicative che per noi sono forme di comunicazioni comuni. La narrazione impersonale è qualcosa di molto inverosimile, che non si dà nell'esperienza quotidiana dove la conoscenza è generalmente verificabile. La voce impersonale non deve mimare la conoscenza delle informazioni. Austen viene considerata convenzionalmente la traghettatrice del romanzo verso la forma della narrazione impersonale. Ci sono esempi prima di lei, ma, data l'importanza del canone di Austen, viene presa simbolicamente come la figura che incarna questa transizione. In Northanger Abbey, la voce esprime dominio sulla materia narrata senza bisogno di giustificare o mimare situazioni di comunicazione comune. Costituisce un tipo di voce narrante impersonale palese: commenta dichiarando il carattere fictionale del genere romanzesco. Benito Cereno (1856), H. Melville Benito Cereno è un racconto lungo pubblicato nel 1856, ma scritto tra il 1853-54 da Herman Melville, scrittore americano che appartiene a una tradizione diversa rispetto a quella europea. A metà degli anni dell’800 abbiamo due grandissime figure di scrittori: Nathaniel Hawthorne (ex. La lettera scarlatta) e Melville, che scrive di esperienze di mare e luoghi strani, ma poi avrà una specie di crisi perché Moby Dick non avrà alcun successo. Si serve delle tecniche narrative come dispositivo epistemologico di indagine, di riflessione sulla realtà sulla conoscenza, sul sapere comune, sul rapporto tra credenze, senso comune, percezione e realtà. È uno dei primissimi esempi di impiego estetico di un punto di vista ristretto. Père Goriot (1834) è un romanzo di Balzac, importantissimo nell’ambito del realismo ottocentesco maturo, quella modalità che si sviluppa tra il 1830-1880. È un esempio di narrazione impersonale, che domina il mondo narrato con autorevolezza. È una delle forme ironiche del discorso narrato, in cui il tono cambia completamente. La prima pagina è dedicata alla costruzione dell’immagine di un destinatario ideale che sarà in grado di comprendere la storia che sta per essere raccontata. L’autore compie una forma di commento di tipo socio-antropologico, ovvero una riflessione sui costumi sulla sensibilità sociale dell'epoca, sullo sviluppo, sul progresso, ecc. C’è un dialogo immaginario con il narratore. Qui troviamo una dichiarazione di veridicità, ma in una cornice diversa dagli esempi settecenteschi: non c’è manoscritto o mimesi delle forme di comunicazioni correnti, ma c’è la voce narrante piena di autorevolezza, che rivendica uno statuto veridico. È una verità di tipo storico, il cui valore può essere esteso a tutti gli individui in una dialettica tra individuo e rappresentatività di questo individuo. L’elemento importante nell'atteggiamento della voce narrante è il fatto che la presentazione sia un progressivo avvicinamento, dal quartiere alla strada fino alla pensione, sempre con la stessa autorevolezza; in questo sistema, c’è corrispondenza tra fuori e dentro, sinistra e destra. C’è una lunga descrizione della pensione nei minimi dettagli. Si parla di realismo atmosferico: è il tipo di realismo di Balzac, fondato sull’embricazione tra personaggio e ambiente (ex. colori, odori, ecc). La voce narrante tratta la materia del racconto con grande sicurezza: sa perfettamente chi sono i pensionanti e le loro informazioni, conosce Rastignac, sa la sua situazione, quanto avverte il peso delle aspettative familiari su di lui. L’incipit si conclude con un’anticipazione. Il racconto in terza persona ha un narratore che non fa parte della diegesi, dello spazio tempo in cui la storia si svolge: diventa la formula narrativa dominante. Il racconto di Melville occupa lo spazio di una giornata, c’è una piccola analessi e alla fine l’epilogo. Inizia con un discorso diretto libero, ma non si sa se questa voce appartiene alla voce narrante o a un personaggio. C’è un riferimento a due concetti fondamentali: l’accuratezza, l’esattezza, e la percezione intellettuale. C'è il capitano di una nave, Capitan Amasa Delano, che ha attraccato per la costa del Cile per prendere acqua e non sembra esserci nessuno. La mattina seguente viene informato della presenza di un’altra nave con un tratto anomalo, non ha nessuna bandiera. Attraverso similitudini e figure retoriche si ispessisce l'oggetto del discorso; c’è una certa secchezza della scrittura, che si mescola tra le forme colloquiali e le figure retoriche più alte. L’inizio è in medias res: qui non c’è una voce che accompagna i lettori dal loro mondo al mondo della finzione, a differenza di Balzac. Molte parole ed espressioni appartengono al campo semantico dell’oscurità, dell’inquietudine e della visione, per esempio vengono nominati diversi strumenti ottici; in ciò è accostabile a Cuore di tenebra. Il narratore è meno presente rispetto ai testi precedenti. La voce narrante è introdotta da verbi di percezione. All’inizio ci sono poche righe impersonali, ma appena si scende nella cuccetta del capitano, le immagini di percezione rimandano e tematizzano il fatto che il punto di vista dei fatti narrati è di Amasa Delano. La narrazione è in terza persona, ma la prospettiva è di Delano. C’è un processo di avvicinamento per entrare nel campo metaforico della percezione: prima lo sguardo è da lontano e poi c’è un moto di avvicinamento verso l’oggetto misterioso, la nave. Si pensa che la nave abbia perso il governo: questa è un'inferenza, non un sapere; sulla base di una manifestazione esterna, come la nave si muove, Delano inferisce che chi è a bordo non riesce a governare, quindi pensa di offrire il proprio aiuto come comandante. Gli elementi ci riportano a una tecnologia della visione: attraverso gli oblò, Delano vede la parte più interna della nave e un insieme di scuri cappucci che gli fa pensare a dei monaci. Le prime pagine di incertezza danno luogo a una visione nitida dell’oggetto misterioso. Viene definita “la Valle delle Ossa Secche”, con un riferimento a un passo di Ezechiele. Le immagini continue di chiusura delle superfici si oppongono quella di visione. La nave è completamente in rovina, in uno stato di abbandono, quindi si pone la domanda: come è arrivata questa nave in queste condizioni pietose? (29/02) [pag. 8] Qui c’è l’ultimo momento in cui lo sguardo che non è del personaggio, uno sguardo che sa cosa accadrà in seguito viene introdotto. Dopo questa dichiarazione, tranne che per un unica eccezione, il punto di vista aderirà in maniera fissa e rigida al Capitan Delano. In questo senso abbondano i verbi di percezione (ex. pensare, immaginare, credere), che alludono a una prospettiva individuale sui fatti oggetto del discorso; un’altra locuzione chiave è “as if”, come se, che allude alla ricostruzione che via via fa il personaggio di fronte ai fatti. La nave che il capitano trova è una nave schiavista, che trasporta neri, i quali girano liberi sul ponte: questo è il primo elemento di stranezza, a cui ne seguono altri, interpretati attraverso lo sguardo di questo personaggio. Tutta la giornata è una raccolta di segni, fenomeni che Delano cerca di leggere facendo diverse ipotesi. Sulla nave incontra vari elementi di stranezza: ci sono pochissimi bianchi, ma moltissimi neri, non ci sono ufficiali, c’è un captano, chiamato Benito Cereno, uno spagnolo assistito da un servo nero. Benito Cereno racconta una storia centrale su una tempesta che la nave ha incontrato e sulle epidemie che hanno decimato equipaggio e passeggeri e l’hanno ridotta a una specie di nave fantasma. Questo capitano è il rebus più grande per Delano, perché appare estremamente cagionevole di salute, pieno di ritrosia, di distanza ed è quasi sgarbato, asociale. Ha un atteggiamento inspiegabile nei confronti di Delano che è salito a bordo di questa nave offrendo solidarietà. Poi ci sono altri aspetti che colpiscono la sua attenzione: il fatto che questi schiavi neri appaiano insubordinati rispetto alle sue aspettative, che ci sia uno strano rapporto di parità tra neri e bianchi, i neri appaiono mansueti e assoggettati ma con uno strano regime di libertà. Tutta la giornata che Delano passa sulla nave è segnata da un continua altalena tra un crescere di sospetti, del senso di inquietudine e da una sorta di movimento immerso attraverso cui Delano scaccia questi sospetti. Questa altalena marca tutta l'esperienza sulla nave ed è scandita da una serie di ipotesi che vengono decostruite. È come se non riuscisse ad assumere una postura definita rispetto alla situazione. [pag. 29-31] Benito Cereno ha raccontato a Delano le sventure della nave. Delano riflette sullo sfarzo dell’abbigliamento di Benito Cereno che andrà a stabilire un rapporto di solidarietà con altri elementi che rimandano a forte teatralità. Le costruzioni linguistico-sintattiche ci mostrano il fatto che le frasi riportate sono inferenze del capitano, non fatti. L’interpretazione di Delano è che le bonacce che hanno logorato la nave siano dovuto all’incompetenza del capitano Benito, a causa della sua giovinezza, del suo alto lignaggio, ecc. Delano nota sei neri che stanno pulendo delle accette dalla ruggine per tutto il giorno e si interroga: questo è un esempio dell’altalenante percezione stereofonica di ciò che vede: prova sì una forma di malessere, ma riesce sempre a tranquillizzarsi. [pag. 36] Un altro nero, Atufal, si presenta in un contesto che appare molto enigmatico al capitano. Sul capitano passa sul viso qualcosa che sembra un’espressione di risentimento. [pag. 40] Delano si chiede se Benito Cereno non stia tramando qualcosa a danno di capitan Delano. Dopo un’altra difficile conversazione fra i due, don Benito si allontana. Il punto di vista limitato fa sì che il racconto non segua Benito, ma solo Delano. Il racconto fissa spesso dei precisi limiti spaziali oltre i quali lo sguardo del racconto, il narratore non può andare se il suo punto di vista rimane limitato alle possibilità conoscitive di un personaggio. Le idee di Delano si polarizzano: o è stupido o ha delle cattive intenzioni. Da qui fino alla fine, i sospetti di Delano si andranno a focalizzare sul capitano e anche su altre figure, come gli spagnoli a bordo della nave. Delano sale a bordo e vede delle manifestazioni esteriori e cerca di capire la situazione e attraverso la percezione. Vengono trasmessi al lettore le informazioni; questa è la dimensione conoscitiva. Per quanto riguarda la dimensione ideologica, le interpretazioni che Delano produce sono prodotte dalle sue credenze, dai suoi pregiudizi, dalle conoscenze che sono precedenti all’incontro con la nave misteriosa, ma che plasmano le sue interpretazioni, il suo modo di leggere dei segni. Un esempio è quello di interpretare le peculiarità di Benito tramite la sua nazionalità (ex. è eccentrico perché è spagnolo): sono credenze che pre-esistono al dato e plasmano il dato stesso dell’osservazione. L’altra grande categoria di pregiudizi che agisce sulla percezione di Delano è la sua percezione degli schiavi. La sua percezione è legata all’ideologia razziale della metà dell’800. È un’incarnazione buona, bonaria: rappresenta un razzismo non violento, non aggressivo, anzi, lui stesso subisce la fascinazione di questi neri perché li vede come esseri naturali, contrapposti ai bianchi che sono esseri di cultura. Poi considera i neri inferiori, nel senso che sono stupidi, passivi, esecutori di ordini: non si spaventa di fronte ai neri perché il suo sguardo è filtrato da queste credenze. Da questi pregiudizi, Delano pensa anche sulla base di assunti generali: qui ci troviamo davanti a un altro punto di vista che non è più solo relativo alle informazioni da trasmettere ai lettori, ma relativo alle credenze, alla posizione ideologica di un determinato personaggio e come queste credenze lo portano a leggere gli elementi in un modo piuttosto che un altro, a dare peso a determinate informazioni, ecc. Il punto di vista è sinonimo di una posizione sul mondo che va ad avere un impatto forte sull’interpretazione del testo. (1/03) [pag. 102/142] La nave di Delano ha come titolo “La Gioia dello Scapolo”. Tutto quello a cui Delano ha creduto e le interpretazioni dei segni cadono per lasciare posto alla verità: gli schiavi si sono ammutinati contro la nave e il loro padrone e hanno preso la nave. Tutto quello che Delano ha visto e che noi abbiamo visto con lui prende un altro senso, che ci verrà chiarito con la lettura. Proust in À la Recherche au Temp Perdu, nella sezione intitolata “La prigionia”, mostra come in determinate condizioni possiamo scambiare urla di dolore con urla di piacere: allo stesso modo Delano interpreta come riserva il fatto che su quella nave il capitano è ostaggio degli ammutinati. La teatralità corrisponde al fatto che tutto ciò che vede Delano su quella nave è una messa in scena orchestrata a suo beneficio. I marinai stanno cercando di avvertirlo tramite gli sguardi, rischiando di essere ammazzati. È una costruzione di un’abilità narrativa straordinaria ma anche di una grande forza, perché non è un equivoco come un altro, ma mobilita anche un problema di postura etica: questi schiavi hanno rotto le catene che li portavano a lavorare senza libertà. Quello che può sembrare un esercizio tecnico è anche un esercizio che mette in qualche modo alla prova la postura etica dei lettori: con chi vogliamo identificarci? L’elemento che ci fa riflettere sul rovesciamento è: che ruolo hanno i pregiudizi ideologici enll’equivoco? I suoi pregiudizi lo allontanano dal pensare che una cosa del genere possa accadere, che i neri sulla nave abbiano una agency. Per la sua formazione e i suoi punti di riferimento ideologici siamo quasi oltre il razzismo, siamo in un razzismo che si è fatto natura: per Delano è impensabile attribuire ai neri questa capacità di autodeterminazione che li porta a prendere la nave in una forma di ammutinamento, quindi interpreta tutti i segnali sistematicamente secondo un paradigma di assoggettamento. Quelle categorie sono il velo più grande che sta davanti ai suoi occhi. A un certo punto, Delano vede una donna nera addormentata: vedere questo spettacolo e leggerlo in quel modo aumenta la sua incertezza e fa scacciare tutti i dubbi. La lucidità con cui mette in scena l’agire del pregiudizio ideologico è formidabile. Si fa riferimento a immagini di naturalezza, animalismo, ecc: si ricostruiscono immagini dei neri e, soprattutto, di come gli europei le hanno costruite attraverso necessità ideologiche delle imprese coloniali. Questo velo dell’ideologia svolge un ruolo fondamentale nel modo in cui Delano percepisce lo spettacolo che ha di fronte. Tutti questi luoghi potenti scolpiscono la sua percezione. Al di là del giudizio etico-politico che possiamo dare su queste posizioni, quello che è interessante è l'abilità di Melville nel delineare una forma mentis, una visione che precede che mostra l’ottusità, la piattezza che gli impedisce di vedere oltre quello che lui stesso immagina essere il corso delle cose. [pag. 85 Feltrinelli] A livello del punto di vista, l’unica violazione che c’è è quando Delano si accinge a portare la nave al porto di Santa Maria, il punto di vista del narratore in terza persona gode per un attimo di una prospettiva più ampia rispetto a quella di Delano perché il testo ci dice qualcosa che egli non ha notato. [pag. 99 Feltrin