Geografia dell'Economia Mondiale PDF

Summary

This book, "Geografia dell'Economia Mondiale," by Conti, Dematteis, Nano, and Vanolo, explores the relationships between geography and economics. It examines concepts such as geo-economic space, territorial organization, the economic value of land, external economies, and geographical regions. The book provides a comprehensive overview of these key elements, with specific focus on the influence of geographical factors on economic activities.

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GEOGRAFIA DELL’ECONOMIA MONDIALE AUTORE: Sergio Conti, Giuseppe Dematteis. Ferruccio Nano, Alberto Vanolo QUINTA EDIZIONE VIVIUNINA SCIENZE POLITICHE È DA SEMPRE VICINA ALLE ESIGENZE DELLA PLATEA STUDENTESCA. PER TALE MOTIVO L’ASSOCIAZIONE METTE A DIS...

GEOGRAFIA DELL’ECONOMIA MONDIALE AUTORE: Sergio Conti, Giuseppe Dematteis. Ferruccio Nano, Alberto Vanolo QUINTA EDIZIONE VIVIUNINA SCIENZE POLITICHE È DA SEMPRE VICINA ALLE ESIGENZE DELLA PLATEA STUDENTESCA. PER TALE MOTIVO L’ASSOCIAZIONE METTE A DISPOSIZIONE IL PROPRIO MATERIALE DIDATTICO, AFFINCHÉ POSSA FORNIRE UN SUPPORTO COMPLETO ED ADEGUATO AGLI STUDENTI CHE DECIDANO DI USUFRUIRNE. VIVIUNINA SPECIFICA CHE TALE MATERIALE NON PUÒ SOSTITUIRE I MANUALI ED I LIBRI DI TESTO ADOTTATI PER GLI SPECIFICI ESAMI CHE RISULTANO ESSERE, IN QUALSIASI CASO, LO STRUMENTO PIÙ VALIDO PER POTERSI PREPARARE. VIVIUNINA RIMANDA ALLO STUDENTE LA SCELTA DELLA FONTE, DA CUI STUDIARE, PIÙ APPROPRIATA ALLE PROPRIE ESIGENZE. Capitolo 1 - Lo spazio geo- economico: territorio, regioni, reti. 1.1 Le relazioni geografico-spaziali e l’organizzazione del territorio La geografia è una scienza di relazioni. L’insieme delle relazioni che legano tra loro oggetti e soggetti localizzati sulla superficie terrestre costituisce lo spazio geografico. Se poi in questo spazio geografico isoliamo le relazioni che riguardano l’economia, parleremo di spazio geo-economico. Le relazioni geografico-spaziali connettono i diversi soggetti e quindi prendono forma tra le diverse località in cui operano. Queste sono definite relazioni orizzontali. Le relazioni verticali invece riguardano il rapporto delle singole attività economiche con le caratteristiche in cui hanno sede: il clima, la presenza di risorse naturali ecc. L’insieme delle relazioni verticali e orizzontali e degli oggetti e dei soggetti che queste relazioni legano tra loro e al suolo prende il nome di territorio. Quando parliamo di organizzazione territoriale ci riferiamo all’ordine complessivo che queste relazioni assumono in un dato contesto. Nella distribuzione delle attività economiche, i legami orizzontali e verticali interagiscono e si condizionano a vicenda. Infatti, le relazioni orizzontali legano tra loro luoghi, sedi e impianti che obbediscono altresì a relazioni verticali. La maggior parte delle discipline economiche tiene scarsamente conto di tutto questo. ponendosi in generale a un livello di astrazione e di generalità alquanto elevato, trascurando così la gran varietà delle condizioni territoriali che incidono sulle attività economiche. Queste condizioni sono studiate dalla geografia economica, che vuole quindi unire astrazione e concretezza. La geografia economica viene analizzata prendendo in carico tre ordini di fattori: 1. le differenti condizioni naturali dei diversi luoghi e regioni; 2. le condizioni ereditate dal passato, sia quelle materiali, sia quelle sociali, culturali ed economiche; 3. l’organizzazione attuale: economico-sociale, politica e amministrativa. 1 e 2 sono condizioni oggettive, 3 dipendono in larga misura dai soggetti. Nel passato si pensò di poter spiegare la geografia economica ricorrendo a fattori e regolarità geografico-naturali, come il clima o la fertilità dei suoli. Questa corrente di pensiero, detta determinismo geografico, venne superata all’inizio del novecento con l’affermarsi del possibilismo geografico. Secondo questa interpretazione, ogni territorio offrirebbe un certo numero di possibilità di sviluppo e di organizzazione territoriale, che le popolazioni hanno la facoltà di scegliere nel corso della loro evoluzione a seconda delle loro capacità tecniche e disponibilità economiche. Il prevalere di questi fattori soggettivi portò poi anche ad immaginare un determinismo storico, secondo cui il percorso di sviluppo di ogni territorio sarebbe più o meno fortemente condizionato dalle caratteristiche che ha assunto nelle fasi precedenti (path-dependence). Oggi si tende a pensare che non sia ragionevole né il totale volontarismo, né il determinismo assoluto. 1.2 Il valore economico del territorio. La terra, da semplice bene di uso collettivo, diventa un bene di chi, possedendo il capitale, può acquisirne la proprietà per accrescere la propria ricchezza. Si tratta di un processo che prese l’avvio nell’Europa di epoca comunale (1300) e segnò l’inizio della società capitalistica, nella quale la terra ha assunto un valore di scambio. Finché l’uso del suolo è quello agricolo, la produttività non può superare un certo limite, oltre il quale, anche aggiungendo nuovo capitale e lavoro, le rese per unità di superficie non aumentano. Inoltre il mercato dei prodotti agricoli si satura abbastanza rapidamente, in quanto soddisfa in prevalenza una domanda di consumi alimentari che non si può moltiplicare all’infinito. Questi limiti del capitalismo agrario furono superati allorché il meccanismo dell’accumulazione capitalistica di mercato si applica all’industria, dove l’aumento della produttività del lavoro umano sembrava non avere limitazioni. Da un punto di vista geografico, il modo di produrre capitalistico-industriale ebbe come principale conseguenza la concentrazione dello sviluppo economico in pochi paesi e in poche aree centrali, in quanto la concentrazione spaziale del lavoro portava a far crescere la produttività dei fattori impiegati. In alcune tipologie di produzione, i costi decrescono se il lavoro viene suddiviso in tante operazioni ripetitive affidate a lavoratrici e lavoratori diversi, oppure se si aumentano i volumi di produzione: simili vantaggi, detti economie interne di scala, sono tipici dei grandi stabilimenti industriali, e non sono invece disponibili alle imprese che operano piccole unità diffuse sul territorio. 1.3 Economie esterne e infrastrutture I vantaggi connessi alla posizione geografica e alle condizioni favorevoli del luogo in cui opera l’impresa sono definite economie esterne o esternalità positive. Al contrario si parla di diseconomie esterne o esternalità negative quando una localizzazione si presenta dannosa per l’impresa o per gli abitanti, come nel caso di condizioni ambientali insalubri. Marshall, nel 1890, indicò i vantaggi offerti dal territorio con il termine “economie esterne” o “di agglomerazione”. E’ possibile identificare diverse tipologie. Le economie di localizzazione, si riferiscono a incrementi di produttività che le imprese operanti in uno stesso settore economico realizzano concentrandosi in certe aree, poiché la vicinanza può permettere vantaggi. Le economie di urbanizzazione, derivanti principalmente da altri elementi presenti sul territorio o dalla presenza di altre attività economiche o servizi operanti in differenti settori: a. opere di urbanizzazione primaria, infrastrutture tecniche che inducono l’insediamento delle imprese (strade, fognature, acquedotti, linee elettriche, ecc.) b. formazione di un sempre più vasto e qualitativamente diversificato mercato della forza lavoro a cui le imprese possono attingere c. presenza di servizi pubblici (o infrastrutture sociali) necessari per la formazione e riproduzione della forza lavoro (case popolari, trasporti, scuola, sanità, cultura, sport, ecc.) d. sviluppo parallelo dei servizi privati per le famiglie e di servizi per le imprese. Per infrastrutture si intende tutto ciò che tramite una spesa pubblica rende un ambito territoriale stabilmente idoneo a svolgere funzioni economiche e abitative. Si possono distinguere: 1. infrastrutture materiali o tecniche 2. infrastrutture sociali, che comprendono la rete territoriale dei servizi sociali che funzionano come mezzi di “consumo collettivo”: scolastici, sanitari, culturali, ricreativi, ecc. e in genere tutti quei consumi senza i quali non sarebbero garantiti i livelli qualitativi minimi del lavoro necessari per le funzioni produttive di un determinato territorio. 3. infrastrutture economiche, costituite dalle imprese pubbliche o miste che in certe economie e in certi paesi svolgono funzioni ritenute essenziali per il funzionamento dell’economia nazionale. 4. infrastrutture dell’informazione e della ricerca. Le infrastrutture presentano inoltre le seguenti caratteristiche: a. sono strutture territoriali: la loro distribuzione geografica non è uniforme. b. sono beni non escludibili, non possono cioè essere condizionati al pagamento di un prezzo di mercato, in quanto sono ritenuti necessari al funzionamento della società e dell’economia nel suo complesso. c. sono sovente beni pubblici indivisibili, che producono utilità collettive. d. in genere, non generano profitti, e quindi nessun capitale privato viene investito, a meno che non intervenga a sostegno un finanziamento pubblico. 1.4 La rendita del suolo L’utile che ricava chi possiede il suolo o il sottosuolo si chiama rendita agraria e rendita mineraria. Nelle agglomerazioni e nelle regioni urbane diventa invece di gran lunga prevalente il secondo, cioè il valore della "posizione", il quale, visto come reddito del proprietario o della proprietaria del suolo, viene definito rendita urbana. La proprietà del suolo offre dunque una posizione tendenzialmente monopolistica: offre una merce non sostituibile con altre, oppure sostituibile con poche altre presenti contemporaneamente sul mercato. Il profitto si definisce come differenza tra valore del prodotto e costi di produzione sostenuti dall’impresa che opera in un mercato concorrenziale. Il concetto di rendita si applica a diverse situazioni. La rendita agraria è il compenso che il proprietario riceve in proporzione alla fertilità del terreno. Nella rendita urbana, il proprietario del terreno si fa pagare i vantaggi di posizione prodotti da altri, in quanto derivanti dalle infrastrutture e dall’agglomerazione di popolazione e attività economiche. 1.5 Le regioni geografiche Per regione geografica si intende una porzione della superficie terrestre che: - è costituita da un insieme di luoghi contigui; - tali luoghi hanno qualche caratteristica comune o qualche relazione preferenziale tra di loro; - essi si distinguono e si differenziano in modo più o meno netto rispetto ai luoghi circostanti. Il concetto scientifico di regione geografica è diverso da quello di regione utilizzato nell’uso comune, dove si intende la dimensione degli enti territoriali immediatamente inferiori allo stato. Per quanto riguarda la geografia economica, al livello microregionale appartengono regioni delle dimensioni di uno o pochi comuni; il livello mesoregionale corrisponde a dimensioni intermedie; il livello macroregionale considera interi paesi o aggregati di regioni istituzionali, anche transfrontalieri; infine abbiamo le megaregioni continentali o intercontinentali. La regione politico-amministrativa è ben definita da confini istituzionalmente riconosciuti ma spesso è omogenea solo perché soggetta all’autorità di uno stesso ente pubblico territoriale. Ne sono esempi in italia il comune, la comunità montana, la provincia o la regione. La regione politica corrisponde di regola allo stato. Essa può riscontrarsi anche a livelli gerarchici inferiori, corrispondenti alle unità politico-territoriali che compongono uno stato federale, oppure a livello gerarchici superiori, dove esistono organizzazioni politiche sovranazionali (come l’Unione Europea). La regione naturale è identificata dalle sue caratteristiche fisiche e in essa prevalgono pertanto le relazioni di tipo verticale. Es. la pianura padana. Un tipo di regione che considera allo stesso tempo i caratteri naturali e le trasformazioni umane è l’ecoregione, essa comprende un intero ecosistema. La regione storica è caratterizzata anch’essa da fatti fisici e naturali a cui si sovrappongono peculiarità di una cultura e di storia. Spesso la regione storica è anche una regione culturale, relativamente omogenea o comunque identificabile sotto il punto di vista etnico-culturale. Es. la Provenza, il Kurdistan, le Fiandre. 1.6 Regioni economiche formali e funzionali Le regioni economiche possono essere individuate in due modi. Il primo individua le regioni formali in base a certi attributi che caratterizzano pressappoco allo stesso modo tutti i luoghi che le compongono. Le regioni funzionali sono individuate in base a relazioni orizzontali. Esse vengono identificate per il fatto che i luoghi sono tra loro connessi da relazioni più intense rispetto a quello che gli stessi luoghi possono avere con l’esterno. Sono cioè regioni in cui si ha un certo grado di auto-contenimento dei flussi e delle relazioni spaziali in genere. Una tipica regione funzionale è l’hinterland di un porto. Questo esempio si riferisce alle forme più semplici di regioni funzionali: quelle monocentriche. Le regioni monocentriche possono essere polarizzate (i flussi si dirigono tutti verso un unico centro principale) o gerarchiche, l’organizzazione monocentrica si riparte a vari livelli. Infine si possono avere le regioni funzionali policentriche, in cui non c’è una gerarchia tra i centri, ma ognuno si specializza in funzioni particolari ed è perciò connesso agli altri da relazioni di complementarità. Una regione considerata al tempo stesso per i suoi caratteri formali e funzionali è una regione complessa. Es. la megalopoli nord-atlantica degli Stati Uniti. Un particolare tipo di regione complessa è la regione programma che corrisponde all’ambito territoriale entro cui si svolgono interventi programmati. 1.7 Regioni gerarchiche e polarizzate La struttura delle regioni gerarchiche è stata descritta dal geografo Christaller con il modello delle località centrali. Con questo termine si intendono i centri di offerta di servizi che servono ciascuno un’area circostante la cui ampiezza dipende dal numero e dalla rarità dei servizi offerti dal centro. In uno spazio astratto come quello del modello di Christaller, i centri urbani si disporrebbero a distanze regolari. Superata la portata dei singoli servizi di un centro si formerebbe un altro centro e così via. Nella realtà ciò non avviene perché lo spazio geografico non è omogeneo. Questi squilibri sono dovuti soprattutto a processi di concentrazione legati al fatto che le attività economiche traggono vantaggio dal localizzarsi le une vicino alle altre. Ciò accelera la crescita delle città, spesso a scapito delle aree circostanti dove le economie di localizzazione e di urbanizzazione non si sono sviluppate allo stesso modo. Questi processi danno origine a strutture regionali polarizzate. L'eccessiva concentrazione di attività in un polo può provocare, oltre a un certo limite, diseconomie di agglomerazione che non solo respingono nuove attività, ma influiscono anche negativamente su quelle già presenti, mettendo in crisi lo stesso polo. Le diseconomie si avvertono anzitutto nei servizi pubblici che sono sempre più costosi da gestire quanto più aumenta il numero di utenti. Tutto ciò, assieme ai costi crescenti delle abitazioni e dei servizi, fa sì che il costo della vita cresca con la dimensione urbana. Le diseconomie di agglomerazione possono portare all'arresto della crescita polarizzata e a fasi di depolarizzazione, in cui popolazione, attività economiche e servizi si ridistribuiscono prima in modo continuo e compatto nei dintorni del polo (suburbanizzazione) e poi in modo meno compatto e con un raggio più vasto (periurbanizzazione). 1.8 Deconcentrazione e nuove strutture regionali a rete Le funzioni direzionali, i servizi di rango più elevato e le attività tecnologicamente avanzate continuano tuttavia a concentrarsi, sia nelle città dei vecchi poli industriali, sia nei grandi agglomerati metropolitani che hanno conosciuto uno sviluppo economico in tempi più recenti. Nello stesso tempo una struttura reticolare a maglie più fitte si viene formando nei territori economicamente più forti, per esempio in Europa nella regione del Reno, nelle Midlands inglesi, nella Pianura padana e in genere nel “pentagono” (New York, Tokyo, Londra, Francoforte o Milano). Queste strutture reticolari policentriche sembrano oggi le più adatte a favorire lo sviluppo delle aree economicamente forti. Si tratta di uno spazio discontinuo, in cui i nodi (centri urbani, sedi di imprese ecc.), anche se fisicamente distanti, sono più “vicini” tra loro in quanto ad accessibilità all'informazione, facilità di comunicazione o diffusione delle innovazioni. Nell’economia odierna le relazioni orizzontali, i flussi di capitale e di informazioni e il loro controllo nodale diventano fattori decisivi dello sviluppo regionale. 1.9 Il territorio fra locale e globale Uno degli effetti della globalizzazione economica è quello di mettere in competizione tra loro vari territori, in quanto sedi di risorse potenziali che possono essere valorizzate allorché per mezzo di relazioni a rete di livello globale. Questa competizione riguarda soggetti privati e ibridi che, operando in uno stesso territorio, si conoscono e sviluppano strategie comuni. Gruppi di soggetti localizzati in uno stesso territorio e accomunati da obiettivi comuni, se coordinati e diretti da leadership efficace (di regola pubblica), possono elaborare e condividere progetti di sviluppo e cooperare tra loro per realizzarlo. Essi formano una rete locale di soggetti la quale si comporta come un attore collettivo con l'obiettivo di valorizzare risorse, potenzialità e meccanismi di funzionamento del territorio nel suo complesso, combinando per esempio risorse locali con altre che circolano nelle reti globali. Ciò che tiene insieme la rete locale e la fa spesso coincidere con un certo territorio è che il progetto di sviluppo condiviso riguarda la valorizzazione di risorse e condizioni specifiche proprie di quel luogo e difficilmente trasferibili o riproducibili altrove. Questo insieme di potenzialità è definito dal concetto generale di milieu o capitale territoriale. Il milieu territoriale è un patrimonio comune a cui attinge la rete locale dei soggetti, in quanto attore collettivo dello sviluppo locale. L'ambito territoriale delle reti e dei milieu locali è delimitabile geograficamente e quindi costituisce anch'esso una regione, spesso indicata nella letteratura geografica sistema territoriale (o sistema locale, o ancora sistema locale territoriale), il cui riferimenti implicito è all'enfasi su relazioni di rete di livello locale che presuppongono rapporti di vicinanza fisica e valorizzazione di condizioni specifiche. In questo senso si usa parlare di sviluppo locale. L’esempio più tipico di un sistema locale in italia è il “distretto industriale”. Capitolo 4 - Popolazione, lavoro, migrazioni, società, culture 4.1 La crescita della popolazione mondiale La popolazione del pianeta ha superato all’inizio del XXI secolo i 6 miliardi di abitanti e ha raggiunto, nel 2021, i 7,9 Miliardi. Raggiunto il primo miliardo di abitanti all’inizio dell’800, ci volle circa un secolo per raddoppiare questo numero una prima volta e poco più di 50 anni per raddoppiare di nuovo negli anni settanta del 900. Questo rapido aumento fu definito esplosione demografica. Negli ultimi decenni, il tasso di crescita della popolazione mondiale ha cominciato a ridursi: dal 2% annuo degli anni Sessanta del XX secolo è sceso a poco più dell’1% nel 2020. L’incremento demografico continua tuttavia ad essere di circa 80 milioni di individui l’anno. Il tasso di crescita demografica è l’incremento percentuale annuo rispetto alla popolazione totale. Questo valore è comprensivo del tasso di crescita naturale, cioè della differenza tra tasso di natalità e tasso di mortalità e tasso migratorio, cioè della differenza tra i tassi di immigrazione e emigrazione. La variazione di tassi di natalità e di mortalità, nel tempo e nello spazio, dà luogo a regimi demografici differenti. Questo ha portato a formulare il modello teorico della transizione demografica, secondo il quale vi sarebbe un regime demografico antico e uno moderno, separati da uno stadio di transizione. La situazione definita antica, tipica delle società preindustriali, è caratterizzata da elevati tassi di natalità compensati da alti tassi di mortalità. Lo stadio della transizione si divide in due fasi. Nella prima si riduce innanzitutto la mortalità, la seconda fase presenta una riduzione del tasso di natalità, per cui si ha un conseguente rallentamento nella crescita demografica. Infine, nel regime moderno, il tasso di natalità diminuisce ancora, fino ad eguagliare quello di mortalità; si raggiunge a questo punto il livello di crescita zero, per passare poi in alcuni periodi anche a un saldo naturale negativo. 4.2 La distribuzione della popolazione mondiale Esistono parti della Terra completamente disabitate, perché ostili all'insediamento umano; tali zone, indicate come anecumene, comprendono Antartide, Canada settentrionale, gran parte della Groenlandia e della Siberia settentrionale, isole artiche e massime altitudini montane. La restante superficie delle terre emerse, stabilmente abitata, è detta ecumene e presenta densità di popolazione fortemente variabili. Il continente più densamente popolato è l’Asia mentre i valori più bassi sono registrati in Oceania. Queste differenze sono ribadite dai valori assoluti: quasi il 60% dell’umanità vive infatti in Asia, mentre l’Oceania ospita solo lo 0,5% della popolazione mondiale. Le persone che vivono in Europa sono passati dal rappresentare il 22% della popolazione mondiale nel 1950, al 10% del 2020, con una popolazione dall'età media più alta al mondo e quindi sempre più «vecchia». Nello stesso periodo gli africani e le africane hanno registrato il passaggio dal 9% al 17% della popolazione del pianeta e oggi sono anche il continente con la maggiore crescita demografica e con la popolazione più giovane. 4.3 Le migrazioni Secondo il rapporto annuale dell’International Organization for Migration (IOM) del 2020, nel mondo vi sono più di 270 milioni di persone migranti, circa il 3,5% della popolazione mondiale, che avevano lasciato, per scelta o forzatamente, il paese d’origine per spostarsi in un altro (tab, 4.4). La quota di popolazione migrante sul totale della popolazione mondiale è in costante crescita; nel 1970, si trattava per esempio del 2,3% del totale. In forte crescita negli ultimi decenni sono inoltre i profughi e le profughe, persone che hanno dovuto abbandonare il loro paese a causa delle guerre in corso o ne sono stati espulsi per motivi politici o a causa di persecuzioni religiose, e anche, persone che hanno dovuto emigrare a causa di fenomeni ambientali, legati per esempio all’innalzamento della temperatura del pianeta e alle sue conseguenze (alluvioni, frane ecc.) che hanno reso invivibili le loro terre. Si tratta secondo l’UNHCR (Alto Commissariato dell’ONU per i Rifugiati), di circa 80 milioni di persone (circa l’1% della popolazione mondiale, che si somma ai 270 milioni di migranti), fuggite soprattutto da Afghanistan, Siria, Sud Sudan, Myanmar, Venezuela e vari Stati dell’Africa centrale. Un tipo particolare di migrazione è rappresentato da persone legate al mondo della ricerca, della cultura e della scienza. Questo fenomeno è definito fuga di cervelli, che di per sé potrebbe essere un fenomeno positivo, se si accompagna a un analogo flusso in entrata: in questo caso si trasforma in uno scambio detto brain exchange. Prima della sua transizione demografica la popolazione europea rappresentava il 18% di quella mondiale; nel periodo della sua massima espansione demografica, intorno al 1930, la percentuale era salita al 35% e uomini e donne di origine europea, grazie a due secoli di emigrazione, popolavano gran parte del mondo. Su 38 milioni di immigrati e immigrate in ingresso negli Stati Uniti tra il 1800 e il 1935, ben 35 milioni venivano dall'Europa, così come 10 milioni di persone immigrate sui 14 milioni dell'America del Sud. Da alcuni decenni la situazione si è trasformata, e l'Europa è diventata il continente che ospita il maggior numero di soggetti migranti provenienti da tutte le parti del mondo: in Europa hanno superato nel 2020 gli 80 milioni di persone. Nel nostro continente, inoltre, dopo la caduta del muro di Berlino (1989) e il crollo del sistema sovietico, si sono notevolmente intensificati i flussi migratori interni, da Est verso Ovest. Altri movimenti importanti hanno direzione Sud-Nord. Le principali rotte sono quella che attraverso il Mediterraneo va dall’Africa all’Europa e quella che dall’America Latina si dirige verso l’America anglosassone e gli Stati Uniti in particolare. Hanno invece direzione est-ovest quelle che collegano l’Africa con i paesi petroliferi del Medio oriente. 4.4 La popolazione come forza produttiva La popolazione di un paese può essere considerata una risorsa economica di fondamentale importanza, tanto da essere indicata come capitale umano. Si definisce popolazione attiva l’insieme delle persone in età lavorativa, che lavorano o che cercano un lavoro. Nei paesi del Nord del mondo una percentuale di disoccupazione del 3-4% è fisiologica, in quanto sempre presente, anche in periodi di crescita economica. In periodi di crisi o di ristrutturazione dell’economia la quota può superare il 10%: per esempio in Italia alla fine del XX secolo il tasso di disoccupazione sfiorò il 12%. Inoltre la disoccupazione in questi paesi è sempre strettamente legata alle politiche per il lavoro: una deregolamentazione determina una maggior flessibilità e di conseguenza fa aumentare il numero delle assunzioni (com’è avvenuto nel Regno Unito negli anni Novanta del XX secolo), anche se non garantisce dall’incertezza derivante da forme di lavoro precarie. Bisogna tener conto che i dati sul lavoro possono essere falsati dal fatto che le rilevazioni sono spesso approssimative e ignorano il lavoro informale, irregolare e “nero”, cioè quella parte dell’economia che, pur non strettamente illegale, non è formalmente riconosciuta o regolamentata dall’economia (per esempio i venditori di strada, il lavoro sessuale o quei lavori mantenuti “invisibili” per evadere il fisco), oltre che il lavoro illegale in senso stretto (come l’economia legata alle droghe). Per fornire un esempio, viene in genere nascosto il lavoro dei bambini e delle bambine che è in realtà assai diffuso: secondo l’UNICEF, il fenomeno colpisce un bambino o bambina ogni 10 nel mondo, nei paesi più poveri come Etiopia, Burkina Faso, Benin, Mali, ecc. tutti paesi in cui si stima che più di un terzo dei bambini e bambine siano impiegati nel lavoro. 4.5 Caratteristiche sociali della popolazione Due caratteristiche della popolazione che hanno notevole importanza, oltre che dal punto di vista sociale, anche da quello della produttività del capitale umano, sono la salute e l'istruzione. Tra il 1960 e il 1990 la speranza di vita media nel Sud del mondo è aumentata di un terzo, raggiungendo l’84% del livello dei paesi del Nord. I tassi di mortalità infantile e neonatale si sono più che dimezzati e il numero di bambini e bambine vaccinate è passato dal 30% al 70%, con circa un milione e mezzo di vite salvate ogni anno. Nei paesi più ricchi, come l’Italia, l’analfabetismo in senso stretto sta progressivamente scomparendo, essendo ormai inferiore all’1% (0,1% se si considera la fascia di età 15-24 anni), ma rimangono significativi problemi di analfabetismo funzionale: si tratta del caso di persone che posseggono abilità di base di lettura, scrittura e calcolo, ma hanno difficoltà nell’utilizzarle efficacemente nella vita quotidiana. Secondo uno studio dell’OECD, l’Italia nel 2016 è stata il paese europeo maggiormente colpito dal problema, con il 28% della popolazione con competenze inadeguate. Gli squilibri economici a livello mondiale appaiono in tutta la loro gravità se si prende in considerazione la popolazione che vive con un reddito Inferiore a 1,90 dollari al giorno, cifra che rappresenta convenzionalmente, nei paesi a basso reddito, Il minimo vitale al di sotto del quale vi è lo stato di povertà estrema. Nel 2017, circa il 9% della popolazione mondiale viveva sotto questa soglia. A scala mondiale la sovrapproduzione agricola coesiste di fatto con la denutrizione: mentre statisticamente ciascun abitante del globo dispone di una quota giornaliera di alimenti pari a circa 2.700 calorie, superiore quindi alle necessità filologiche, calcolate in media sulle 2.200 calorie, secondo l'UNICEF nel 2019 oltre 690 milioni di persone soffrivano di denutrizione, e quasi 2 miliardi affrontano livelli gravi o moderati di insicurezza alimentare. A livello geografico, l'Asia è la regione con il più elevato numero di persone denutrite, seguita dall'Africa , e dall'America Latina. In base alle tendenze attuali, si calcola che nel 2030 oltre la metà degli affamati cronici del pianeta sarà concentrato nel continente africano. 4.6 L’indice di sviluppo umano L'indice di sviluppo umano – abbreviato ISU o Human Development Index, HDI – è l'indicatore statistico che consente di valutare la qualità della vita, definita anche sviluppo umano, e di stilare una graduatoria degli Stati in base al benessere dei loro abitanti. Esso è stato elaborato a partire dal 1990 dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNPD), e si basa su tre indicatori principali: - La speranza di vita alla nascita (dato che riflette le condizioni alimentari e sanitarie); - - Il tasso di alfabetizzazione degli adulti e di istruzione dei giovani, cioè la percentuale di persone in grado di leggere e di scrivere e quella di giovani che frequentano scuole superiori; - Il PIL pro capite (prodotto interno lordo per abitante), cioè la ricchezza prodotta in un anno da un Paese, suddivisa per il numero degli abitanti, corretto in base al potere d'acquisto locale. L'ISU di ciascun Paese viene calcolato ogni anno e a ogni Paese viene assegnato un punteggio tra 0 e 1. In base ai punteggi viene poi compilata una classifica, che consente di operare confronti. Nella classifica del 2020, l’Italia è in 29esima posizione. Oltre ai tre indicatori di base dell'ISU ve ne sono anche altri che ci forniscono ulteriori informazioni sulla qualità della vita nel mondo e sul benessere nei vari stati. Tra questi gli indicatori ambientali, gli indicatori delle libertà civili, il Gender gap index (che indica il divario di genere). Anche con l'aggiunta di questi altri indicatori i paesi nord europei ottengono i dati migliori. 4.7 La globalizzazione delle culture e le regioni culturali Il termine “globalizzazione” utilizzato anche in ambito culturale, dove si descrive il rischio di omologazione e riduzione della varietà culturale, nonché il ruolo culturale della globalizzazione economica. Nell’epoca contemporanea ci si rapporta spesso con le altre culture, realizzando così una “contaminazione” tra culture, che avviene anche grazie alle migrazioni. La contaminazione è particolarmente semplice e frequente per aspetti quali la cucina, il modo di vestire, la musica o il modo di divertirsi. Questi aspetti più superficiali della cultura da tempo si stanno globalizzando, anche se ovviamente non ovunque e non per tutti. È invece molto più rara, complessa e lenta la comprensione ed eventualmente l’acquisizione di ideali religiosi, filosofici, modi di essere e di pensare di un'altra società, cioè la cultura profonda di un popolo. Per questi aspetti della cultura la globalizzazione è molto modesta, quasi inesistente. Per cultura si intende quindi, in quest’ottica, l’insieme delle conoscenze, credenze religiose, istituzioni, abitudini, stili di vita, espressioni linguistiche e artistiche che caratterizzano una popolazione e la distinguono dalle altre. Oggi nel mondo vi sono alcune culture e civiltà dominanti, perché coinvolgono molte persone o perché hanno parecchia influenza sul resto del mondo. Tra queste annoveriamo le civiltà statunitense, europea, arabo-islamica, cinese e indiana. Tra le civiltà contemporanee ha grande rilevanza anche quella arabo-islamica. Essa è diffusa in vari territori del Sud del mondo ed è un riferimento per molti abitanti della Terra, circa 1,6 miliardi. Oggi, nonostante l’omogeneità culturale, il mondo musulmano si differenzia in correnti (sunniti e sciiti le principali), spesso in contrasto tra loro e alcuni tra questi stati sono separati da rivalità politiche ed economiche molto forti, nonché da dispute geopolitiche per l’incremento della propria influenza regionale, come nel caso dell’Iran (sciita) o della Turchia e dell’Arabia Saudita (sunniti). Tra le altre regioni culturali, il continente Africano a sud del Sahara, un tempo chiamato «Africa nera», rimase isolato dalle altre culture fino all’età moderna, in quanto la colonizzazione araba ed europea rimase limitata alle coste. Nonostante una progressiva penetrazione della religione musulmana, conservò a lungo un tipo di vita regolato da antiche tradizioni e una società di tipo tribale che praticava religioni animiste. Capitolo 5 - Gli spazi agricoli 5.1 L’attività agricola L'agricoltura comprende, in senso lato, le coltivazioni agricole, l'allevamento, l'economia forestale e la pesca, tutte attività umane strettamente legate ai processi naturali. Le condizioni che l'ambiente naturale pone alle attività economiche possono diventare facilmente protagoniste nello studio dell'agricoltura, dove il clima, la conformazione dei terreni e la qualità dei suoli possono, in linea generale, favorire oppure limitare e talvolta impedire l'attività agricola. Va però tenuto presente che l'intervento umano può esercitare forme di controllo e modificare parzialmente l'ambiente naturale. Perciò è preferibile parlare di «condizioni ambientali» e non di «cause naturali», in quanto la dipendenza dell'attività agricola dei fattori naturali non è mai diretta, ma è sempre mediata da scelte e da interventi umani. Vi sono conflitti e le competizioni per l'uso dei prodotti e del suolo: una parte dei terreni agricoli non viene utilizzata per scopi alimentari (e neanche per la produzione di fibre tessili o legname), ma per produrre biocarburanti, come l'etanolo, che ha il vantaggio rispetto ai carburanti derivati dal petrolio di non inquinare l'ambiente, ma che sottrae alimenti alla popolazione. Le scelte di utilizzo del suolo riguardano anche altri campi, per esempio la scelta tra produzioni biologiche o transgeniche, oppure tra una produzione di piantagione (rivolta all'esportazione - come caffè, cacao, caucciù) e una di sussistenza. In generale l'agricoltura è l'attività economica più diffusa sulla Terra e riguarda circa un miliardo di persone, pari al 28% dei lavoratori e lavoratrici. Il dato non rivela però enormi differenze regionali: in paesi poveri come il Madagascar, circa tre quarti dei lavoratori e lavoratrici si collocano nel settore agricolo, mentre in paesi ricchi come la Germania o gli USA sono solamente 1'1-2% della popolazione attiva. 5.2 Le condizioni ecologico-ambientali Tra le attività umane l'agricoltura, con l'allevamento, è quella maggiormente legata ai fattori fisici dell'ambiente, in particolare il clima e le acque, il rilievo e il suolo agrario. Questi fattori condizionano ovunque, ma sono più incisivi nel Sud del mondo, dove vi sono meno possibilità di intervenire per carenza di capitali e tecnologie. Il clima assume un'importanza determinante per l'agricoltura, in quanto i vegetali per svilupparsi, crescere e fruttificare hanno bisogno di calore e di acqua. Per quanto riguarda l'acqua, per poter praticare coltivazioni sono necessari almeno 250 mm di pioggia all'anno; più che la quantità è tuttavia importante la distribuzione delle piogge: per esempio, nelle zone tropicali la pioggia è abbondante, ma la sua concentrazione in uno o due periodi dell'anno (stagioni delle piogge) la rende poco adatta ai bisogni dell'agricoltura. I cambiamenti climatici attuali stanno incrementando le superfici predesertiche colpite da siccità, come avviene per esempio nel Sahel e nella Cina settentrionale, ma va segnalato che l'incremento delle temperature in altri casi sta portando all'aumento delle superfici coltivate, come nel caso della Siberia centrale, dove lo scioglimento del permafrost permette già ora la coltivazione e del grano e il governo russo spinge gli agricoltori a trasferirsi in queste nuove terre arabili per incrementare ulteriormente la produzione nazionale. Ogni coltivazione agricola ha propri limiti latitudinali oltre i quali non può essere praticata. In generale ci sono sulla Terra regioni agricole naturali ben definite, descritte poco oltre, che condizionano molto la distribuzione dei vari tipi di coltivazione. Il suolo, o terreno agrario, è il substrato fertile su cui si coltiva; esso è formato da sostanze minerali e organiche. Le prime hanno origine dalle rocce che, esposte alla pioggia, al gelo, al vento e all'azione delle radici delle piante si sono lentamente disgregate; le seconde derivano dalla decomposizione degli organismi viventi, animali e vegetali. Il suolo ospita numerosissime forme di vita: microrganismi vegetali e animali, uova, larve di insetti e piccoli invertebrati, come lombrichi, acari e millepiedi. In generale un suolo ricco di humus, formato cioè da una buona quantità delle suddette sostanze organiche, è il più adatto alle coltivazioni. Infine, il rilievo condiziona l'agricoltura per l'altitudine e la pendenza (cioè la forma del rilievo). L'altitudine influisce sul clima, in quanto con l'altitudine la temperatura diminuisce, aumentano le precipitazioni e si intensifica l’azione del vento. Per quanto riguarda le forme del rilievo, sono nel complesso favorevoli all'agricoltura le zone pianeggianti e collinari, o di bassa montagna con pendici non molto ripide. Versanti anche molto inclinati possono però essere sistemati a terrazze, come avviene per le colture della vite e dell'olivo nell'area mediterranea e per il riso alle pendici dell'Himalaya. In sintesi, i diversi tipi di suolo, insieme ai diversi tipi di clima, permettono di individuare le seguenti grandi regioni agricole naturali. 1. Regioni equatoriali. Caratterizzate da clima caldo e umido, senza escursioni termiche, possiedono una fitta vegetazione forestale in parte utilizzata per la produzione di legname. In molte regioni, la foresta tende a essere sostituita dall'agricoltura commerciale e speculativa, specializzata nella produzione di caucciù (Malaysia, Indonesia e Amazzonia) e cacao (Ghana, Congo). Altrove si pratica ancora un'agricoltura di sussistenza, in larga misura cerealicola. 2. Regioni della savana. Con le sue temperature elevate e la stagionalità delle precipitazioni (una stagione secca e una piovosa), ospita un’economia pastorale, talvolta nomade (come in Nigeria e Zambia), e un'attività agricola tradizionale poco redditizia. In alcune aree della savana si è diffusa la monocoltura commerciale, specializzata nella produzione di caffè, canna da zucchero, cotone e frutta. 3. Regioni desertiche. L'estrema aridità dei suoli consente a stento l'allevamento nomade, come nel Sahara. Le oasi costituiscono le uniche e rare zone irrigue in cui pratiche intensive consentono la coltivazione di mais, cotone, canna da zucchero, palma da cocco. 4. Regioni Monsoniche. Caratterizzate da temperature elevate e forti precipitazioni stagionali (come la savana), queste regioni dell'Asia meridionale hanno una fitta vegetazione naturale. Tuttavia, l'alta densità demografica ha fatto sì che il manto vegetativo originario sia stato sostituito da un'agricoltura intensiva, in cui predomina un'elevata produzione di riso. Spesso, nel corso delle stagioni sec- che, è possibile coltivare un secondo prodotto 5. Regioni mediterranee. Inverni miti ed estati calde e precipitazioni limitate essenzialmente alla stagione invernale. Sono presenti produzioni che non necessitano di molta acqua, come agrumi, olivo, vite, grano duro, nonché l'attività pastorale nelle aree meno sviluppate. 6. Regioni temperate. Comprendono le principali aree agricole del pianeta, sia perché corrispondono ai paesi economicamente più solidi, sia per via del clima temperato. Nelle zone oceaniche, come nell'Europa nord-occidentale e nel Nord-Est degli USA, l'agricoltura è intensiva e praticata su appezzamenti in cui predominano l'allevamento, gli ortaggi destinati ai mercati urbani e, nelle aree più asciutte, i cereali. Altrove prevalgono l'allevamento e la coltivazione cerealicola estensivi. 7. Regioni della taiga e del freddo. Si tratta di aree di grandi boschi e foreste (come la taiga) con poche coltivazioni, praticate anche in serre, che si riducono man mano che si sale di latitudine verso i poli, incontrando nella tundra solo muschi e licheni e poi i ghiacci perenni. Ugualmente fredde e con lo stesso tipo di vegetazione sono le aree di alta montagna. 5.3 Sistemi colturali e società rurali Oggi, nei paesi del Nord del mondo, e spesso anche in quelli del Sud, si è arrivati alla separazione fisica fra luogo di produzione e luogo di consumo e l'agricoltura in molti casi è in grado di recepire innovazioni scientifiche e tecnologiche. L'agricoltura intensiva è rivolta a ottenere la massima produttività del suolo, cioè la più alta quantità di prodotto agricolo ottenuto da ogni ettaro, tramite l'utilizzo intenso del terreno agricolo, di solito attuato in aree a elevata densità di popolazione. Nell'agricoltura intensiva moderna la necessità di intensificare le colture richiede continui investimenti nella meccanizzazione, l'introduzione di moderne tecniche di fertilizzazione e irrigazione, nonché di infrastrutture agricole. Questo tipo di agricoltura si attua soprattutto in Europa, in Giappone e in Israele, territori con poca superficie agraria rispetto alla quantità di popolazione presente. L'agricoltura intensiva è invece tradizionale quando si ottengono alte rese per ettaro attraverso il lavoro, avendo poco capitale a disposizione e quindi poca possibilità di meccanizzare e infrastrutturare. L'agricoltura intensiva tradizionale è spesso policolturale e diffusa in regioni africane, in gran parte dell'Asia e in America meridionale. La seconda forma di agricoltura è quella estensiva. Nella sua versione moderna, tende a ottenere il massimo di produzione per persona impiegata, cioè una elevata produttività per addetto. In questo caso le rese del Terreno possono essere basse; tuttavia, il profitto è assicurato dalla vastità dei terreni messi a coltura in ogni azienda. Nelle grandi pianure del Canada, dell'Australia e degli Stati Uniti, la coltura cerealicola estensiva è consentita dall'elevato livello di meccanizzazione e dall'estensione dei suoli disponibili. Nell'agricoltura estensiva tradizionale invece si fa scarso uso di macchinari e gli investimenti sono minimi. Si tratta della forma meno redditizia. 5.4 Superfici aziendali, proprietà della terra e riforme agrarie L'ineguale distribuzione della proprietà fondiaria è tipica delle campagne del Sud del mondo. Lo squilibrio nella distribuzione della proprietà delle terre deriva dal colonialismo, ma tuttora produce strutture sociali fortemente inique, in cui una percentuale assai limitata di individui detiene il controllo dell'economia di interi paesi mentre si accresce, al contrario, la massa di contadini e contadine poveri. Soprattutto a partire dall'ultimo dopoguerra, in molti paesi (anche del Nord del mondo) si è assistito a una trasformazione della distribuzione della proprietà terriera attraverso le riforme agrarie. Si è trattato di solito di una suddivisione delle terre dei latifondi o delle grandi proprietà in piccoli e medi appezzamenti gestiti direttamente da contadini e contadine, cui è stata affidata la terra espropriata alle grandi proprietà, che solitamente erano sotto-sfruttate. In altri casi invece, come nell'Europa settentrionale, le riforme agrarie hanno trovato ispirazione nell'esigenza di accorpare le piccole proprietà, favorendo così la formazione della media impresa agricola, innovatrice e organizzata commercialmente. 5.5 Il commercio dei prodotti agricoli Il commercio di prodotti agricoli tropicali ha rilevanti conseguenze sull'equilibrio economico dei paesi del Sud del mondo: in decine di paesi l'esportazione di prodotti agricoli riguarda un solo prodotto e i flussi di esportazione sono diretti verso un numero limitato di mercati. Prendendo come esempio il cacao, il 70% della produzione viene dall'Africa occidentale, in particolare dal Ghana, che contribuisce per circa il 40% al mercato globale, e dalla Costa d'Avorio. I semi di cacao, una volta essiccati, sono destinati in particolare agli Stati Uniti, al Belgio (dove giungono via nave al porto di Anversa) e ai Paesi Bassi (al porto di Rotterdam). Tuttavia, i contadini e le contadine godono relativamente poco di questa importante presenza sui mercati internazionali: circa 1'80% dei profitti sono nelle mani di chi trasforma le fave e distribuisce il prodotto finale, e gran parte delle forniture sono destinate a grandi marchi (Nestlé, Ferrero, Mars, Mondelez, Hershey) con un potere contrattuale molto elevato. Le economie fortemente tributarie dell'agricoltura, e in particolare quelle specializzate in un solo prodotto e con pochi grandi clienti internazionali, sono particolarmente vulnerabili di fronte alle fluttuazioni della domanda e dei prezzi sui mercati mondiali. Una riduzione della domanda o un ribasso dei prezzi, che vengono trattati nei paesi ricchi, possono tradursi in gravi crisi economiche nei paesi esportatori. I grandi flussi commerciali di prodotti agricoli sono spesso gestiti da un numero limitato di grandi imprese come Carrefour (Francia), Metro (Germania), Walmart (USA) e Tesco (Regno Unito), che da sole commercializzano una quota significativa dei prodotti agricoli europei e statunitensi. Su scala mondiale, attraverso il WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), vi sono da tempo tentativi di accordo sulle modalità di commercio tra Nord e Sud del mondo. Un elemento geoeconomico interessante e recente è il fatto che le relazioni commerciali non sono solo, come fino pochi anni fa, tra Nord e Nord oppure tra Sud e Nord del mondo, ma che è in crescita il commercio Sud-Sud: per esempio oltre la metà delle esportazioni agricole del Brasile si dirige verso altri paesi dell'emisfero meridionale, soprattutto latino-americani, ma anche africani e asiatici. Un secondo elemento geoeconomico innovativo si sta facendo invece strada in alcune regioni del Nord del mondo, e si riassume nell'espressione «chilometri zero», Acquistare gli alimenti nel luogo di produzione significa ridurre il trasporto degli stessi che nell'odierna economia globalizzata ha un'incidenza elevatissima sui volumi complessivi del traffico merci. Ovvero risparmiare carburante e quindi, contribuire a contenere il livello delle emissioni che alterano il clima.Acquistare a «chilometri zero», e comunque il più vicino possibile ai luoghi di consumo, significa abbattere anche una serie di costi legati alla lunghezza della catena distributiva e quindi ridurre i prezzi finali. 5.6 Le strutture territoriali dell’agricoltura contemporanea Nel mondo i modi di organizzare il territorio destinato all'attività agricola sono vari e differenti. In alcuni casi vi sono agricolture, considerate più « tradizionali», dove le relazioni verticali sono nettamente dominanti, dove cioè l'organizzazione del territorio in cui si pratica l'attività agricola dipende molto dalle condizioni naturali e poco da relazioni commerciali o di altro tipo con altri territori, anche perché si produce soprattutto per la sussistenza; in altri casi l'organizzazione del territorio, pur restando importanti le relazioni verticali, è molto segnata da relazioni orizzontali, nel senso che si produce e si lavora relazionandosi molto con il mercato mondiale o nazionale, vi sono investimenti dall'esterno, si acquisiscono innovazioni tecnologiche e organizzative, per un'agricoltura che si definisce «moderna» o «capitalistica», nel senso che si basa su criteri di efficienza d'impresa e di aumento dei profitti. Tenendo conto del problema della fame, per raggiungere l'obiettivo principale di produrre cibo per tutta la popolazione non sempre è da considerare efficace l'agricoltura più moderna. Va infatti tenuto presente che in molti paesi e regioni del Sud del mondo non si raggiunge l'autosufficienza alimentare e che in questi casi la popolazione non può acquistare cibo perché ha poca disponibilità di denaro. In queste stesse regioni i tentativi di modernizzazione ispirati all'agricoltura del Nord del mondo sono falliti e quindi l'unica strategia da perseguire è quella di aumentare la produzione locale. 5.7 L’agricoltura di sussistenza Nel senso stretto del termine, questa forma di agricoltura comprende i sistemi agricoli “naturali” che non prevedono scambi di prodotti. Nel senso lato, si parla di agricoltura di sussistenza anche in presenza di limitati scambi con gruppi vicini, che possono avvenire sia in moneta sia in natura. Nell'agricoltura di sussistenza predominano il lavoro manuale, l'utilizzo di strumenti tradizionali e la prevalenza della policoltura, cioè la coltivazione di diverse specie vegetali in una stessa area e in una stessa azienda e l'associazione dell'allevamento all'agricoltura. Lo scopo della policoltura è anche quello di differenziare gli alimenti per la famiglia dell’agricoltore o agricoltrice. Semplificando, nel mondo si possono individuare almeno tre tipi di agricoltura di sussistenza. 1. L'agricoltura di sussistenza intensiva è presente dove le colture predominano nettamente sull'allevamento, e il terreno disponibile, sebbene sfruttato sistematicamente, è tuttavia esiguo se rapportato all'elevata densità della popolazione. In alcune regioni agricole, quelle irrigue soprattutto, l'agricoltura di sussistenza intensiva si sta evolvendo verso forme più commerciali di produzione, con la vendita di parti importanti del raccolto nei mercati locali, soprattutto urbani. Finché la quota di produzione consumata dalla famiglia dell'agricoltore o agricoltrice resta rilevante (fino a un terzo del raccolto) si tratta comunque di agricoltura di sussistenza. 2. L'agricoltura di sussistenza itinerante (del ladang) è la forma tipica di agricoltura tropicale umida, dove l'accetta è spesso lo strumento privilegiato rispetto alla zappa: essa viene utilizzata infatti per l'abbattimento della foresta la quale, una volta bruciata, lascerà spazio alle colture. Questa agricoltura rudimentale, che non esclude l'allevamento, trova sviluppo soprattutto sui terreni poveri della foresta equatoriale e monsonica: è diffusa in tutta l'Africa centrale, in quella parte del Sud-Est asiatico dove non è diffusa la risicoltura, nell'America Latina e nelle regioni dell'America centrale dove non è ancora giunta l'agricoltura di piantagione. A volte nelle regioni del ladang l'agricoltura diventa sedentaria, ma il fenomeno è comunque limitato ad alcune aree. 3. L'agricoltura di sussistenza delle zone semiaride, anch'essa praticata con strumenti rudimentali ma con l'aggravante della siccità, che permette raccolti modestissimi e una pratica agricola obbligatoriamente estensiva tradizionale. Questo, insieme al precedente, è proprio il tipo di agricoltura che più avrebbe bisogno di aiuti, anche internazionali, orientati verso pratiche e tecnologie «appropriate», cioè compatibili con le condizioni ambientali e con il livello di conoscenze e disponibilità economica della popolazione locale. 5.8 L’agricoltura di piantagione nei paesi del Sud del mondo Questa forma di agricoltura del Sud del mondo è specializzata nella coltivazione di prodotti tipici delle regioni a clima tropicale umido, in particolare in America centrale e caraibica, il Sud-Est del Brasile, l'Africa occidentale e del golfo di Guinea, l'Asia sud-orientale. Trattandosi di un'agricoltura interamente votata all'esportazione, predilige la localizzazione lungo le coste e le vie navigabili interne. Si tratta di un’agricoltura che produce un numero limitato di beni, per i quali si possono individuare grandi regioni altamente specializzate, monocolturali. Impiega molta manodopera a basso costo e non molti macchinari, per cui nella maggior parte dei casi è organizzata in modo intensivo e tradizionale. Nelle campagne del Sud del mondo, grazie anche ai finanziamenti elargiti dagli organismi internazionali (ONU, FAO, Banca Mondiale), iniziò dopo il 1960 un'intensa attività di investimento con la costruzione di pori, vie di comunicazione, opere irrigue, per l'introduzione di nuove varietà e dei concimi chimici; contemporaneamente, nei singoli stati, si formavano le prime industrie indigene per la lavorazione dei prodotti della terra. Questo vistoso processo di trasformazione, chiamato rivoluzione verde, comportò in alcune regioni l'accorpamento dei piccoli appezzamenti in grandi superfici di colture specializzate (le piantagioni) e l'introduzione su vasta scala di nuove tecniche e strumenti produttivi la cui fornitura poteva essere assicurata soltanto dalle grandi imprese del settore, per lo più multinazionali ma anche di grandi proprietari terrieri nazionali. L’agricoltura di piantagione ha avuto conseguenze sull’organizzazione economica e sociale dei paesi interessati che vanno molto al di là dei confini del settore. a) Un primo effetto è stato l’attivazione di migrazioni su vasta scala. b) Questa agricoltura speculativa, diffondendosi a spese di quella tradizionale di sussistenza, è altresì responsabile di consistenti migrazioni interne dalle campagne alle città e, di conseguenza, dell’esplosione demografica delle aree urbane. c) Infine, trattandosi di un sistema votato interamente all’esportazione, esso necessita di strette relazioni con i mercati di destinazione dei prodotti. Nodi centrali di tali relazioni sono i centri di commercio, smistamento e prima trasformazione del prodotto, collegati fra loro e con le piantagioni, oltre che con il centro di rango più elevato rappresentato solitamente dal grande porto specializzato. 5.9 Il land-grabbing Il land-grabbing riguarda gli effetti di acquisizioni (o affitti) da parte di imprese straniere, di estensioni agrarie (di solito vaste) in regioni del Sud del mondo. I governi locali cedono intere regioni a prezzi irrisori o affitti modesti. Se è vero che il land-grabbing è positivo per le entrate statali, esiste quasi sempre il rischio, per le popolazioni locali, di perdere la possibilità di scegliere cosa coltivare sulle terre cedute e l’accesso all’acqua. Gli acquirenti hanno varie motivazioni. Possono provenire da paesi con disponibilità di capitali, ma con poche terre coltivabili e scarsità d’acqua, da paesi con alta densità di popolazione e scarse superfici agricole, da aree che vedono crescere la domanda interna di beni alimentari, o infine da pesi con imprese in cerca di investimenti esteri profittevoli. Anche l’attività mineraria, quella industriale e i progetti turistici sono oggetto di contratti land grabbing, ma con un’estensione dei terreni nettamente minore rispetto alle due principali attività. Le modalità principali di sottrazione delle terre sono: - impianto di piantagioni su terreni sottratti a singoli contadini con compensazioni irrisorie, - concessione di terre dal governo che espropria le comunità locali, - espropri (e concessioni) con cacciata/espulsione di minoranze (come nel caso della popolazione Rohingya in Myanmar) - contract farming, cioè contratto di acquisto di beni coltivati da agricoltori e agricoltrici locali, ma con obbligo per questi ultimi di praticare coltivazioni «di piantagione» (come caucciù o palma da olio). Il dossier FOCSIV sulle espropriazioni rurali nel mondo è il primo rapporto sul fenomeno del Land grabbing). Dai rapporti emerge che siano coinvolte molte aree del Sud del mondo, e i cosiddetti paesi target (cioè dove le acquisizioni sono più frequenti) sono spesso oggetto di guerre, anche civili, e non di rado guidati da classi dirigenti fragili e corrotte. 5.10L’agricoltura capitalistica dei grandi spazi Questa forma di agricoltura è caratterizzata dalla distanza che separa i luoghi di produzione dai centri di mercato e di consumo del prodotto, al pari dell'agricoltura di piantagione. Si differenzia però dalla precedente per via della localizzazione in regioni a clima temperato anche non densamente abitate, sovente comprese in territori di paesi del Nord del mondo: le grandi pianure degli Stati Uniti e del Canada, l'Australia occidentale, la Nuova Zelanda. Si distingue inoltre per il suo carattere estensivo e la scarsa quantità di manodopera impiegata, che però utilizza un gran numero di macchinari. Le origini di questa forma di agricoltura risalgono anch'esse alla colonizzazione europea nei territori d'oltreoceano, dove lo sfruttamento di nuovi spazi si accompagnò al popolamento di immigrati europei. Inizialmente fu l'allevamento estensivo ad assorbire le energie di colonizzatori e colonizzatrici. In seguito, due fenomeni tra loro connessi aprirono la strada alle coltivazioni cerealicole. In primo luogo, la rivoluzione industriale in Europa e in America settentrionale portò alla formazione di grandi mercati per l'assorbimento dei prodotti, mentre le nuove industrie fornirono i macchinari agricoli e consentirono la diffusione delle tecniche di trasporto. In secondo luogo, i bassi costi dei terreni e i bassi costi di produzione posero i prodotti di queste regioni nelle condizioni di competere con successo con quelli delle vecchie regioni agrarie europee. Dalle coltivazioni di queste regioni agricole totali provengono oggi enormi quantità di cereali e prodotti dell'allevamento, sui quali agricoltori e agricoltrici non esercitano quasi prelievo per i loro consumi personali. Questo tipo di agricoltura riesce inoltre ad adattarsi rapidamente alle nuove tecniche. Con lo sviluppo delle comunicazioni e del popolamento, l’allevamento estensivo, che dominava in queste regioni, è stato spinto progressivamente verso occidente, dove il prezzo dei terreni è sensibilmente inferiore. 5.11 L’agricoltura commerciale contadina Questa forma di agricoltura è presente soprattutto in paesi ricchi e densamente popolati della fascia climatica temperata, per esempio il Giappone e i paesi dell'Europa. È un tipo di agricoltura intensiva, che adotta sistemi moderni di coltivazione, ma che non ha vaste superfici aziendali ed è condotta di solito a livello familiare. I prodotti sono quasi completamente destinati al mercato, ma a differenza dell’agricoltura dei grandi spazi e di quella di piantagione essi sono spesso destinati a mercati urbani, regionali o nazionali relativamente vicini ai luoghi di produzione, pur non escludendo la presenza di colture aventi anch'esse un mercato di dimensione mondiale. Un altro fattore che distingue l'agricoltura contadina della zona temperata è l'alto prezzo dei terreni, soprattutto in prossimità dei centri urbani e nelle aree a coltura altamente specializzata, e ciò si ripercuote in costi elevati del prodotto. Anche per questo, l'Unione europea mantiene dazi verso l'esterno a protezione dei prodotti e degli agricoltori europei. Più in particolare, nel caso di attività agricole svolte nelle vicinanze delle grandi aree urbane (agricoltura periurbana), il settore si è trasformato e specializzato. Capitolo 6 - La produzione mineraria ed energetica 6.1 Le materie prime minerarie Nella classificazione delle materie prime minerarie, è innanzitutto utile distinguere fra minerali metallici, non metallici ed energetici. I minerali metallici assumono un'elevata importanza in numerosi settori industriali generalmente grazie alla loro elevata resistenza al calore e all'azione di agenti chimici Dal punto di vista dello sfruttamento industriale sono utilizzabili solamente i depositi di rocce caratterizzati da una presenza ferrosa almeno del 30%. Oltre al ferro, trovano largo impiego nei processi industriali anche rame, stagno, zinco, piombo e alluminio (derivato dalla bauxite), nonché minerali preziosi come oro, argento e tungsteno. Per quanto riguarda invece i minerali non metallici, essi sono estremamente diffusi nella crosta terrestre e trovano impiego in una pluralità di settori economici, come nell'industria, nell'agricoltura e nell'edilizia. Inoltre, sono comprese in questa categoria pietre preziose come gemme e diamanti. Infine, i prodotti minerari energetici comprendono essenzialmente carbone, gas, petrolio e uranio. Per definire i valori ei giacimenti, occorre considerare come i minerali siano raramente disponibili allo stato puro, bensì frammisti a ganga, ossia materiale privo di utilità. Non tutti i materiali che formano la crosta terrestre sono infatti economicamente e tecnologicamente sfruttabili: le risorse, in questo senso, si riferiscono ai soli volumi il cui impiego in attività umane è possibile, anche dal punto di vista dei costi di estrazione. Si intende con riserva, una tipologia ancora più ristretta, relativa ai soli elementi effettivamente disponibili, per i quali esistono cioè le condizioni tecnologiche, economiche e politiche per il loro immediato sfruttamento. Nel caso dei minerali, l'attività di riciclaggio ha un impatto piuttosto limitato, sia per l'impossibilità tecnica di ritrattare alcuni metalli già precedentemente lavorati, sia perché, a fronte del costo di riciclaggio, le imprese trovano ancora conveniente l'utilizzo di nuovi materiali estratti. Negli Stati Uniti, nel 2019, il riciclaggio ha fornito risultati significativi in particolare rispetto ad alcuni minerali, come piombo (73% del consumo nazionale), magnesio (67%), nickel (47%), alluminio (47%); per alcuni metalli come il rame (9%) il riciclo appare limitato, mentre per altri (come asbesto, bauxite, litio, titanio) risulta ancora di fatto insignificante. La distribuzione geografica delle materie prime è assai diseguale: tra i paesi a economia avanzata tre soli stati (Stati Uniti, Canada, Australia) detengono la quasi totalità delle risorse accertate. Questo evidenzia la condizione di relativa dipendenza in cui si trovano molte economie industrializzate, quindi a elevato consumo di materie prime, nei confronti dei paesi che detengono le quote maggiori di minerali. Accanto a diseguaglianze nella distribuzione delle riserve, esistono poi nel-mondo profondi squilibri nei livelli di consumo. L'economia statunitense, ad esempio, con meno del 6% della popolazione, consuma attualmente circa un quarto dei minerali (e delle fonti di energia) mondiali, una quota analoga a quella dell'Europa occidentale nel suo complesso. Il Giappone, dal canto suo, pur disponendo di riserve pressoché trascurabili, utilizza oltre il 10% della produzione mondiale. La Russia è invece esportatrice. La complessa realtà della geografia mineraria può essere sintetizzata individuando quattro grandi tipologie regionali, ognuna delle quali mostra specifiche caratteristiche e problemi: - l'Europa occidentale e il Giappone rappresentano due regioni geografiche altamente consumatrici, ma scarsamente dotate di materie prime, le cui principali aree di approvvigionamento sono rispettivamente l'Africa e l'area del Pacifico; - l'America anglosassone è insieme un'area altamente consumatrice ed esportatrice di determinati minerali, mentre l'America Latina è un'area prevalentemente esportatrice; - sino a pochi decenni fa la Russia e l'Europa orientale costituivano un'area quasi chiusa. I recenti accordi di fornitura di prodotti minerari verso l'Europa occidentale e il Giappone hanno mutato significativamente questa realtà, e attualmente le esportazioni dei paesi dell'ex Unione Sovietica sono rappresentate per circa due terzi da materie prime; - i paesi del Sud del mondo, visti tradizionalmente come esportatori, devono essere invece suddivisi al loro interno. 6.2 Le terre rare Le terre rare sono chiamate così perché la loro identificazione, estrazione e raffinazione è molto complessa. Tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono elementi relativamente abbondanti nella crosta terrestre (due tra gli elementi più rari, tulio e lutezio, sono 200 volte più abbondanti dell'oro). Sono le materie prime strategiche per il futuro, poiché indispensabili per alcune delle tecnologie più promettenti del ventunesimo secolo, utilizzati per produzioni industriali d'avanguardia e per tecnologie militari. Non esistono però giacimenti di questi materiali; essi sono diffusi in natura, in basse concentrazioni, all’interno di altri minerali. Da qui la necessità di processi di estrazione e raffinazione molto complessi che richiedono, per separare i singoli elementi, l'utilizzo di potenti solventi come acido cloridrico o nitrico. Tali processi presentano un forte impatto ambientale, con il conseguente inquinamento di suoli e falde acquifere; attualmente sono perlopiù realizzati in Cina, che da sola detiene circa due terzi della produzione globale e un terzo delle riserve mondiali, nonché il controllo del 90% del loro commercio internazionale. Ai 17 minerali rari possiamo associare alcuni metalli strategici (o critici). come germanio, grafite, magnesio, tungsteno coltan, e soprattutto il litio e il cobalto. Il litio è il metallo più leggero, è un elemento chiave per l'industria dell'auto elettrica; Il cobalto invece viene estratto soprattutto in Congo, ed è utilizzato per produrre le batterie degli smartphone. All'attività mineraria che non si svolge in un quadro di legalità, si aggiunge il fenomeno significativo e controverso del land grabbing, che interessa in Congo numerosi villaggi di minatori e minatrici, dove terreni spesso neanche mappati dal catasto sono oggetto di acquisizioni da parte di imprese straniere. Anche per i metalli critici il ruolo della Cina è dominante: oltre alle proprie produzioni nazionali, controlla infatti il 97% del commercio mondiale di questi minerali. 6.3 Il settore minerario La massa mineraria, il suo tenore in materiali utili, la posizione geologica dei giacimenti e la loro posizione geografica sono dunque le principali condizioni che influenzano la geografia mineraria. Questo è significativo della tendenza, diffusasi soprattutto a partire dagli anni Sessanta, a rifornirsi di materiali estratti nei giacimenti del Sud del mondo, dove le grandi imprese del settore iniziarono a investire massicciamente. Relativamente al minerale di ferro, che costituisce il prodotto più trasportato via mare dopo il petrolio, le principali correnti di scambio si effettuano tra alcuni grandi produttori (Brasile, Australia, India, Canada) e i centri industriali statunitensi, dell'Europa occidentale e, in misura minore, della Cina. Ragionando per grandi aree geografiche, è possibile sostenere che l'aumento della domanda e la riduzione relativa dei costi di trasporto hanno avuto l'effetto di allargare l'area di estrazione e accrescere la resa dei giacimenti minerari marginali e più lontani dalle aree di consumo. Attualmente una regione mineraria è un'area di esportazione di materiali utilizzati altrove, per cui la sua organizzazione territoriale poggia su un efficiente sistema di trasporti e di infrastrutture specializzate per avviare i minerali estratti verso le aree industriali. Negli ultimi decenni, infine, l’innalzamento delle temperature e il relativo disgelo del permafrost artico hanno attivato contrasti geopolitici per l’accaparramento di nuovi giacimenti intorno al Polo Nord, sempre più accessibili; tali contese coinvolgono Canada, USA (Alaska), Russia, Paesi scandinavi, oltre che la danese Groenlandia e la Cina. 6.4 Le risorse energetiche Anche nel caso delle fonti energetiche è utile introdurre una distinzione di primaria importanza: quella tra fonti energetiche rinnovabili e non rinnovabili. Le prime si riferiscono a quelle inesauribili. La principale tipologia è costituita dall'energia idroelettrica, che nel 2019 ha costituito il 2,5% della fornitura mondiale di energia. Le fonti non rinnovabili costituiscono uno stock che può solamente diminuire. Si tratta del caso del petrolio, una fonte di energia caratterizzata da elevata flessibilità di utilizzo e facilità di trasporto, e per questo dominante nella struttura dell'economia mondiale a partire dalla rivoluzione industriale (30,9% del consumo mondiale di energia, nel 2019). Il primato del petrolio rispetto ad altre fonti fossili è legato ai limiti delle soluzioni alternative: il gas naturale (23,2% del consumo totale di energia), per esempio, necessita per il suo trasporto di infrastrutture relativamente complesse e costose (metanodotti e gasdotti) che ne influenzano pesantemente il costo; ancora, il carbone (26,8%) richiede elevati costi di estrazione e trasporto. Un caso particolare è poi quello dell'energia nucleare (5% della fornitura mondiale di energia), il cui costo è certamente elevato, sia a causa della limitatezza delle riserve di uranio, sia per la necessità di garantire la sicurezza degli impianti. In vari paesi (tra cui l'Italia) si stanno così progettando piccole centrali con elevata sicurezza e riduzione drastica e/o riutilizzo delle scorie. Si deve tener conto della bassa produttività energetica delle fonti rinnovabili: se venissero impiegate su vasta scala si rivelerebbero altamente consumatrici di spazio, in quanto necessitano di ampie superfici. Il consumo energetico mondiale è cresciuto in progressione geometrica: è raddoppiato una prima volta fra il 1910 e il 1950 e una seconda volta nel ventennio successivo; in tempi più recenti, invece, il ritmo si è ridotto, con una crescita, fra il 1980 e il 2004, di poco inferiore al 50%. Il carbone, che nei primi tre decenni del secolo copriva oltre il 60% del consumo totale, è stato in seguito sostituito progressivamente dal petrolio e dal gas naturale, e in alcuni casi dall'energia nucleare. Inoltre, la crescita del prezzo del petrolio e la riduzione delle riserve negli ultimi trent'anni hanno portato a un calo della percentuale di petrolio utilizzato sul totale delle fonti di energia; la quota persa dal petrolio è stata sostituita per metà dall'energia nucleare e per metà dal gas naturale. Questo ha aiutato a determinare nel Nord del mondo, un modello di sviluppo economico a consumo energetico estensivo caratterizzato da: un'espansione industriale basata largamente su settori a elevato consumo energetico (siderurgica, petrolchimica); una rapida diffusione di beni di consumo durevoli altamente consumatori di energia (automobili, elettrodomestici ecc.); un sistema di trasporti in cui il mezzo privato si è sviluppato più rapidamente di quello pubblico, e quello su strada più intensamente di quello su rotaia; un modello residenziale spesso basato sulla casa unifamiliare e sulla diffusione suburbana delle residenze, che ha prodotto crescite esponenziali dei consumi energetici per spostamenti e riscaldamento. Una nuova tecnologia ha inoltre permesso di estrarre shale gas e lo shale oil (gas e petrolio ottenuti da rocce che li racchiudono). Si tratta di giacimenti che si trovano per lo più a grandi profondità (da 2000 a 4000 m), intrappolati in rocce, soprattutto argille, assai poco permeabili. L'estrazione avviene attraverso perforazione idraulica e l'ostacolo principale, oltre ai costi, è rappresentato dai danni ambientali che l'estrazione dello shale gas e dello shale oil produce: si va da un consumo massiccio di acqua al pericolo di terremoti provocati dagli interventi nel sottosuolo. In linea di massima si prevede che i paesi del Sud del mondo, alle prese con una massiccia crescita demografica, aumenteranno sensibilmente nei prossimi decenni la quota di consumo totale. Al contrario, nei paesi del Nord del mondo si assisterà verosimilmente a un rallentamento della crescita dei consumi di energia primaria, grazie all'introduzione di nuove tecnologie nell’industria dei trasporti e alla percezione di importanti rischi di degenerazione dell'ambiente naturale. 6.5 Gli spazi dell’energia L'energia idroelettrica è caratteristica di paesi ricchi di fonti idriche: nel caso europeo, si pensi a Norvegia, Svezia e Austria. Le aree di maggior produzione mondiale sono il Québec e l'Ontario canadesi, che hanno alimentato lo sviluppo della regione industriale dei Grandi Laghi, negli Stati Uniti. Per quanto concerne l'energia nucleare, per la sua produzione si utilizzano minerali di uranio e di torio, i cui atomi hanno la caratteristica di emettere energia (elettroni) in un processo naturale definito come decadimento radioattivo. Quest'ultimo nei reattori nucleari viene accelerato mediante un processo di fissione consistente nel bombardamento dei nuclei dei metalli radioattivi, con conseguente emissione di energia in notevoli quantità. La produzione di energia nucleare è scindibile in due fasi principali: la preparazione del combustibile e il suo utilizzo nelle centrali elettronucleari. La prima fase, a monte del ciclo, consiste nell'approvvigionamento del minerale di uranio e in una serie di operazioni per renderlo utilizzabile (conversione e arricchimento del metallo). La seconda fase comprende l'immagazzinamento, la sua fissione nelle centrali, il ritrattamento delle scorie ancora utilizzabili e infine il condizionamento e lo stoccaggio delle scorie finali. Il ciclo completo prevede varie operazioni di trasporto, i cui costi sono proporzionali a vello di pericolosità dei materiali e alla distanza da coprire; Per quanto riguarda la produzione di energia elettronucleare, la « grande paura» energetica dei primi anni Settanta ha indotto molti paesi ad accelerare i programmi di installazione di centrali nucleari, utilizzando tuttavia una tecnologia che rimane ancora nelle mani di pochi paesi, determinando preoccupazioni geopolitiche. Nel 2021 dei 415 reattori operativi al mondo, il maggior numero sono attivi negli Stati Uniti, seguiti dalla Francia, ma la geografia dell'energia nucleare coinvolge anche paesi del Sud del mondo come Cina, India, Brasile, Pakistan, Taiwan, Argentina, Sudafrica. La produzione di energia di origine nucleare non è più strettamente controllata dai paesi che avevano sviluppato, a partire dalla Seconda guerra mondiale, tecnologie militari basate sulle armi atomiche. Al contrario, molti paesi in tutto il mondo hanno acquisito centrali nucleari non solo per accrescere le proprie fonti energetiche, ma anche per dotarsi di strumenti e risorse nucleari (come il plutonio) in funzione della loro strategia militare. Nel caso del carbone, la possibilità di trasportare il materiale - benché, come si è detto, più costosa e meno redditizia di quella del petrolio - fa sì che questa fonte energetica presenti una localizzazione meno rigida di quella idroelettrica. Tuttavia, diversi fattori ne limitano al contempo la diffusione: i tempi lunghi di attivazione dei giacimenti e di adeguamento dei sistemi di trasporto, l'elevato inquinamento ambientale prodotto dalla sua combustione e, non ultimo, il minor contenuto calorico rispetto ad altre fonti. Per questi motivi, l'utilizzo del carbone a uso energetico si presenta tuttora in buona parte dipendente dalla prossimità fisica ai giacimenti. La Cina rappresenta il principale produttore al mondo (45% del carbone mondiale), seguita dall'India (10%). Gli Stati Uniti costituiscono il terzo produttore al mondo (9% del totale) e detengono circa l’80% delle riserve dei Paesi del Nord del mondo. Il carbone negli USA copre circa il 23% della produzione energetica; La Russia e paesi dell'ex Unione Sovietica producono circa l'8% del carbone mondiale; In Estremo Oriente, Giappone e Corea del Sud importano carbone. Le aree di estrazione degli idrocarburi si sono notevolmente diffuse sul superficie del globo in seguito al perfezionamento delle tecniche di prospezione e di perforazione, nonché alle recenti estrazioni di shale oil e shale gas. Presenti in rocce porose (sabbie, arenarie e rocce salifere) o in scisti (dette “rocce magazzino”), il petrolio e il gas naturale sono non di rado estratti congiuntamente, sebbene la loro produzione presenti caratteri alquanto dissimili. Il gas naturale presenta notevoli difficoltà di immagazzinamento ed è trasferibile soprattutto mediante tubazioni. A causa dei costi di trasporto, il gas naturale è preferibilmente utilizzato in aree relativamente vicine ai luoghi di estrazione. è possibile individuare alcune grandi regioni geografiche del petrolio. Il Medio Oriente fornisce quasi un terzo del petrolio commercializzato nel mondo e possiede due terzi delle riserve conosciute. Soprattutto dopo il 1973, l'afflusso finanziario seguito all'esportazione petrolifera ha prodotto la trasformazione relativamente profonda dell'economia e della società di questi paesi: la crescente immigrazione e la notevole crescita delle città ha qui portato allo sviluppo di un settore terziario abnorme se rapportato alla modesta percentuale degli addetti nel settore direttamente legato alla produzione petrolifera (il 2% circa della popolazione attiva, sempre nella penisola arabica). I paesi costieri del Mediterraneo settentrionale costituiscono un 'importante area di importazione e trasformazione del greggio di provenienza mediorien- tale. La capacità di raffinazione dei paesi rivieraschi, e in particolar modo dell'Italia, è nettamente superiore rispetto alle esigenze dei mercati nazionali, alimentando flussi di esportazione del prodotto raffinato verso le aree industrializzate dell'Europa centrale. Gli Stati Uniti, con il 4% circa delle riserve, sono divenuti la prima produzione mondiale, come detto grazie a shale oil e shale gas e detengono il 17% del totale mondiale. La Russia nel 2020 era il secondo produttore mondiale, con oltre il 12% del totale. In Europa occidentale, infine, l'estrazione petrolifera è rilevante soltanto nel Mare del Nord. Quei giacimenti, sfruttati da Gran Bretagna e Norvegia, pongono entrambi questi paesi nella posizione di esportatori, sebbene, proseguendo l'attuale ritmo di sfruttamento, si stima l'esaurimento di quei giacimenti nell'arco di vent'anni. Le restanti regioni del pianeta producono proporzionalmente alle proprie riserve. L'America Latina ha alcuni produttori importanti, come Brasile, Venezuela e Messico, mentre Argentina, Bolivia, Perù ed Ecuador sono produttori minori. L'area del Pacifico produce il 4% circa del greggio mondiale disponendo del 3% delle riserve accertate. La Cina occupa una posizione ragguardevole. 6.6 Prezzi, mercati, manovre speculative Osservando le fluttuazioni di prezzo di lungo periodo, si rileva come negli anni precedenti l'ultimo conflitto mondiale i prezzi sui mercati internazionali fossero relativamente elevati. Il dopoguerra ha invece inaugurato una fase, protrattasi fino all'inizio degli anni Settanta, in cui i prezzi reali delle materie prime ed energetiche sono rimasti costantemente bassi, cosa che portò a un'intensificazione dei flussi di minerali verso i paesi industrializzati e a un utilizzo estensivo delle risorse stesse. Nel 1973 iniziò una fase di brusca e generalizzata lievitazione dei prezzi, che tuttavia ricominciarono a scendere a partire del 1978, I prezzi delle materie prime sono inoltre soggetti a oscillazioni di breve periodo determinate da operazioni sui mercati a termine. Per i materiali ferrosi, per esempio, la concorrenza fra i paesi esportatori, data la diffusione del materiale e le abbondanti riserve accertate, è relativamente poco aspra. Alcuni prodotti minerari possiedono tuttavia una rilevante importanza strategica, sia perché essenziali in alcune produzioni (come l'industria militare e aerospaziale), sia in quanto prodotti da un numero relativamente esiguo di paesi, spesso nel Sud del mondo. Mercato a termine: nel mercato a termine la transazione economica è differita a un momento successivo a quello della conclusione del contratto. La sua funzione è quella di riduzione dell’incertezza dinanzi alle fluttuazioni dei prezzi. il settore petrolifero è quello che meglio illustra la formazione di un sistema di quasi-monopolio, dominato nel dopoguerra da sette grandi imprese altamente integrate verticalmente, chiamate le sette sorelle: Texaco, Exxon, Standard Oil of California (meglio nota come Chevron). Gulf, Mobil, Royal Dutch-Shell e British Petroleum. Fra gli anni Sessanta e Settanta la situazione mutò sensibilmente. Molte imprese di Stato, sia dei paesi produttori sia di quelli consumatori (fra cui l'Agip in Italia) entrarono in lizza per negoziare accordi di prospezione e di fornitura. Tra i produttori cominciò pertanto ad affermarsi il principio della sovranità degli Stati e la priorità del capitale nazionale sulle proprie riserve e, nel campo petrolifero, prese vigore l'azione dell'Opec, l'Organizzazione dei paesi esportatori. A più riprese, nel contempo, la stessa Assemblea Generale delle Nazioni Unite afferma il principio della sovranità assoluta e permanente degli Stati sulle proprie risorse naturali. L’Opec, in particolare, a partire dal 1973 riuscì a imporre una politica di prezzi alti, grazie al contenimento programmato della produzione offerta. E’ stata avviata una sistematica strategia di differenziazione dei settori di intervento, portando a una crescente interpenetrazione dei settori petrolifero e minerario: l'aumento del prezzo delle materie prime, accanto all' accresciuta capacità finanziaria e al virtuale monopolio della capacità di prospezione, hanno dato luogo a una crescente diversificazione produttiva e geografica. A questo proposito, un esempio di “nuovo” spazio di primaria importanza geopolitica è costituito dall'Artico. 6.7 Le politiche energetiche Durante l'Ottocento e fino a metà del Novecento, le fonti di energia più utilizzate erano il carbone, l'acqua in caduta e la legna, mentre è solo nell'ultimo secolo che il petrolio è andato affermandosi nei suoi vari utilizzi. La Francia, non avendo molta disponibilità di combustibili fossili sul proprio territorio ma intendendo cercare di non dipendere troppo dall'estero, ha deciso da tempo di investire sull'energia nucleare, tuttora assai presente nel proprio mix energetico (col nucleare produceva nel 2020 oltre il 70% dell'energia elettrica). In generale, nei paesi carenti di fonti di energia l'obiettivo è quello di ridurre la dipendenza energetica dall'estero. Invece altri paesi molto ricchi di queste materie prime le utilizzano come condizionamento geopolitico verso altri stati. Ciò vale ad esempio per la Russia, grande produttore di gas naturale. La costruzione dei nuovi gasdotti è per la Russia strumento di gestione delle relazioni geopolitiche, come è avvenuto nel caso del già attivo North Stream (e di North Stream 2, in completamento), che porta gas dagli immensi giacimenti siberiani fino in Germania e in Europa occidentale.. La Russia guarda però anche a Oriente, con un gasdotto (denominato Power of Siberia) diretto verso la Cina. Capitolo 8 - Le infrastrutture e le reti dei trasporti 8.1 Le arterie del territorio Lo spostamento delle persone e lo scambio di beni su distanze superiori all'ambito locale sono stati possibili solo grazie al parallelo sviluppo dei trasporti, che hanno permesso anche la crescita economica. La domanda di mobilità è molto cresciuta e con il volume crescente dei trasferimenti il ruolo dei trasporti è quindi divenuto ancor più strategico essendo, insieme alle ICT (Information and Communication Technologies) il mezzo per effettuare questi collegamenti, e più in generale un fattore fondante del processo di globalizzazione. I miglioramenti tecnologici nei trasporti e nelle ICT hanno infatti ridotto l'attrito della distanza avvicinando molte aree del mondo e producendo il fenomeno definito compressione spazio-temporale. ICT: Ci si riferisce ai sistemi integrati di linee di telecomunicazione che consentono la creazione, conservazione e circolazione di informazioni. Va però precisato che, anche se molte aree sono più «vicine» tra loro e anche se vari paesi del Sud del mondo sono divenuti esportatori globali, vi sono però regioni del mondo che hanno ridotto assai poco la distanza rispetto ai nodi centrali dell'economia mondiale e hanno anzi subìto un processo di ulteriore marginalizzazione. La distanza di cui si sta parlando non è quindi strettamente fisica, quanto funzionale, misurabile per esempio in termini di tempi di percorrenza, costi di trasporto e accessibilità. Le vie di trasporto sono dunque il tramite attraverso il quale si effettuano le relazioni tra località, soggetti e imprese insediati in aree diverse. In questo senso il trasporto è considerato un elemento essenziale dell'organizzazione del territorio, in quanto forma le maglie connettive del territorio stesso, come le arterie per il corpo umano. La distribuzione delle strutture di trasporto sul territorio è di tipo particolare. È infatti una localizzazione a rete sulla quale si inseriscono dei nodi; sulla rete circolano flussi di traffico di diversa intensità, che determinano l'importanza del nodo. Le linee di trasporto più importanti vengono definite assi di trasporto, a loro volta gli assi più frequentati e importanti del mondo sono chiamati corridoi (o direttrici) di traffico. Le reti e i nodi possono assumere forme (strutture spaziali) caratteristiche, suddivisibili in alcune tipologie principali. Rete: in geografia il termine è usato con due significati, uno letterale e uno figurato. Nel primo caso, si intende un insieme di linee materiali e quindi visibili sul territorio, interconnesse attraverso punti o nodi, anch’essi materiali. In senso figurato è un insieme di relazioni tra soggetti, che vengono rappresentate come relazioni tra i luoghi i cui soggetti risiedono, che costituiscono i nodi. 8.2 Le politiche dei trasporti Dall'inizio della rivoluzione industriale fino alla seconda metà dell'Ottocento, i trasporti furono gestiti per la massima parte da compagnie private che, operando in funzione di un immediato profitto d'impresa, costruivano le reti ove ciò risultasse conveniente. Nel Novecento si impose invece in Europa il concetto di trasporto come servizio collettivo, di interesse pubblico e utilità generale. L'intervento dello stato si intensificò rapidamente, anzitutto attraverso la nazionalizzazione delle compagnie private, in particolare quelle ferroviarie, e più recentemente con la politica delle infrastrutture, cioè la costruzione di vie di comunicazione in determinate aree per agevolare lo sviluppo economico di una regione e in generale cercare di attenuare gli squilibri territoriali. Dagli anni Novanta del secolo scorso nei paesi del Nord del mondo la politica dei trasporti ha parzialmente cambiato rotta. Da un lato ha cercato di migliorare l'integrazione tra reti internazionali e reti locali. In molti paesi del Nord è in atto una deregolamentazione (deregulation) che si manifesta in primo luogo in una minor presenza dello stato nella gestione operativa e nella proprietà dei vettori nazionali, dei porti, degli aeroporti, pur mantenendo di solito la possibilità di indirizzare la gestione dei privati verso gli orientamenti della politica territoriale nazionale decisa dallo stato stesso. L'impiego di capitali privati nella costruzione di grandi opere infrastrutturali, è avvenuto ad esempio per la costruzione del tunnel sotto la Manica. Se nella politica dei trasporti hanno grande rilevanza gli aspetti economici e geoeconomici occorre però soffermarsi anche su quelli politico-militari e geo- strategici. Nel mondo attuale permangono dei gangli strategici il cui libero accesso (e il cui controllo) è condizione essenziale per l'espletamento di una buona parte dei trasporti marittimi mondiali: si tratta dei canali interoceanici di Panama e Suez. Il canale di Suez, storicamente veicolo della penetrazione europea in Asia, Oceania e Africa orientale, è oggi soprattutto un'arteria petrolifera ed è controllato dall'Egitto, che assicura il libero transito; il canale di Panama è dal 1982 sotto la sovranità dello stato centroamericano, ma gli Stati Uniti “assicurano” la difesa e il funzionamento del canale. Infine, una terza tendenza nelle politiche dei trasporti, quella della differenziazione selettiva, è ben rappresentata nell'evoluzione della rete ferroviaria nei paesi del Nord del mondo. 8.3 Le innovazioni tecnico-organizzative e la scelta del mezzo di trasporto Un'analisi generale dei modi di trasporto rivela che ciascuno di essi possiede specifici vantaggi commerciali e geoeconomici. La prima grande innovazione è stata possibile con l'utilizzo del container. Questo modulo di carico di dimensioni standardizzate ha permesso l'integrazione tra i mezzi di trasporto, in quanto è possibile trasferirlo su treno, nave, autocarro. aereo, con costi e tempi di carico e scarico molto ridotti rispetto al passato e con un impiego più contenuto di manodopera. L'intermodalità ha prodotto una concentrazione del traffico nei luoghi in cui sono presenti gli impianti di sollevamento per lo spostamento dei container da un mezzo all'altro e una serie di servizi di supporto. Le navi porta-container, in particolare, sono state le grandi protagoniste, insieme alle petroliere, dell'incremento dei traffici marittimi. Accanto all'intermodalità va anche ricordato il trasporto combinato, del quale una delle forme più diffuse è il cosiddetto roll-on/roll-off, che consente di trasferire direttamente un mezzo di trasporto, con o senza motrice (per esempio tutto l'autoarticolato oppure solo il rimorchio), su un altro per poi scaricarlo a destinazione. Questo sistema, rispetto allo spostamento dei container, permette di risparmiare tempo ma ha l'inconveniente di occupare spazi maggiori e di avere costi superiori. È perciò ancora poco diffuso e nell'Unione europea rappresenta meno del 5% del trasporto merci totale. La stessa modalità, in effetti, privilegia un numero limitato di assi di trasporto, definiti corridoi plurimodali. Il trasporto stradale è organizzato con infrastrutture fortemente consumatrici di spazio e ha il più alto livello di flessibilità tra i modi di trasporto; sono però elevati i costi di manutenzione, sia per i veicoli che per le infrastrutture e presenta una serie di vincoli fisici (nebbia, ghiaccio) e altri derivati dalla congestione del traffico. Il trasporto ferroviario opera su percorsi rigidi, è meno vincolato da limiti fisici (a parte la pendenza) ed è di gran lunga la modalità di trasporto terrestre che offre la più alta capacità (fino a quasi 25.000 tonnellate per convoglio) e velocità. Il trasporto marittimo è invece il modo più efficace per spostare grandi quantitativi di merci lentamente e a basso costo. Infine, i costi elevati del trasporto aereo ne limitano l'utilizzo a pochi tipi di merci e soprattutto ai passeggeri, cresciuti notevolmente negli ultimi decenni, anche grazie ai voli low cost. 8.4 La logistica e l’organizzazione territoriale hub & spoke La seconda grande innovazione organizzativa nel campo dei trasporti delle merci (e in certa misura anche delle persone) deriva dall'organizzazione geografica dei flussi di merci e persone. Per esempio, gran parte dei porti costituisce una piattaforma di interscambio nella rete dei trasporti: i container trasportati via mare possono essere trasferiti in questi luoghi su treni o autocarri per raggiungere le varie destinazioni regionali. Questa considerazione circa l'importanza delle connessioni multimodali evidenzia il ruolo centrale dell'attività logistica. Nel caso europeo, in particolare, una delle regioni meglio organizzate dal punto di vista logistico è costituita dalle Fiandre, regione resa particolarmente attraente dalla presenza dei porti di Anversa e Zeebrugge: qui è stato localizzato il primo Centro di Distribuzione Europeo, una piattaforma logistica di nuova generazione che offre ai propri clienti servizi di trasformazione, etichettatura, smistamento, pezzatura, controlli di qualità. Per ciò che riguarda ad esempio il traffico merci e persone per via aerea i maggiori aeroporti mondiali fungono da nodi centrali, chiamati hub, per lo smistamento o il raccordo verso destinazioni più periferiche, chiamate spoke. Questo sistema, denominato appunto hub & spoke, struttura in maniera gerarchica i flussi aerei: per esempio, in Europa, aeroporti come Amsterdam, Londra, Parigi e Francoforte svolgono la funzione di hub nei confronti delle altre destinazioni continentali - un fenomeno ben evidente anche con riferimento al traffico passeggeri. 8.5 I trasporti nel mondo Il principale flusso di traffico si svolge tra Europa occidentale e America settentrionale. Il trasporto marittimo unisce le due coste per quasi tutto il traffico merci, che poi prosegue via terra tra costa Est e Ovest degli Stati Uniti e tra Europa atlantica e mediterranea, dove sono presenti importanti corridoi di traffico. Grande importanza ha assunto negli ultimi decenni una seconda direttrice di traffico che collega l'America settentrionale ai paesi asiatici che si affacciano sul Pacifico (il Giappone e la Cina in primo luogo). La terza grande direttrice del traffico mondiale è quella che dall'Europa occidentale, attraverso il Medio Oriente (raggiungibile via mare attraversando Suez oppure circumnavigando l'Africa) e l'Asia meridionale, arriva in Cina e Giappone. È una direttrice in cui prevalgono il trasporto marittimo (in massima parte caratterizzato dalle rotte del petrolio) e, secondariamente, quello aereo, ma i terminali europei della direttrice spesso non sono porti marittimi, bensì città dell'interno raggiunte via terra. Occorre infine citare una quarta direttrice che dall'Est asiatico, attraverso la Russia e l'Europa orientale, arriva in Europa occidentale. A questa quarta direttrice possiamo associare una parte della nuova Via della Seta, un'importante iniziativa infrastrutturale della Cina. Capitolo 9 - Il commercio internazionale 9.1 Terziarizzazione dell’economia e globalizzazione Il settore terziario comprende tutte le attività che non producono beni materiali ma servizi. Si tratta di un settore che negli ultimi decenni è costantemente cresciuto. Ciò si è verificato soprattutto nel Nord del mondo, dove si utilizzano molti servizi e dove si spostano anche molte merci sia su scala locale e regionale sia su scala mondiale, attivando perciò un commercio internazionale sempre più consistente. L’industria continua a rimanere il settore chiave dello sviluppo economico e della crescita della domanda dei servizi, da un lato perché consumiamo un gran numero di prodotti fisici, dall’altro perché nonostante la progressiva digitalizzazione e dematerializzazione di molte forme di consumo, la loro produzione e fruizione continua a richiedere una gran quantità di oggetti e strutture fisiche prodotte attraverso processi industriali. Come noto, la globalizzazione dell’economia è caratterizzata dalla crescente estensione e intensificazione dei flussi internazionali. Da un punto di vista geoeconomico, il commercio rappresenta quindi solamente uno fra i molteplici aspetti della globalizzazione, impossibile da isolare dalle dinamiche della divisione internazionale del lavoro e degli investimenti diretti esteri. In effetti, il mutamento dei consumi in seguito alla progressiva integrazione commerciale a partire dal dopoguerra è stato a dir poco vistoso. Questo cambiamento negli stili di vita va di pari passo con mutamenti altrettanto radicali nell’organizzazione della produzione industriale: basti considerare come i flussi commerciali non riguardino solamente prodotti finiti, bensì anche molti beni strumentali, prodotti intermedi e semilavorati. In generale, la globalizzazione ha introdotto trasformazioni assai profonde: non soltanto si è assistito a una crescente estensione geografica delle reti commerciali, a una maggiore velocità nello spostamento di beni e servizi, a una progressiva intensificazione dei flussi commerciali mondiali, ma gli anni dal dopoguerra a oggi hanno visto nascita e sviluppo, per la prima volta nella storia, di un vero e proprio mercato globale, dotato di proprie regole e istituzioni. 9.2 L’intensificazione dei flussi commerciali Dal 1950 ad oggi le merci che circolano a livello mondiale sono aumentate in valore di oltre 40 volte. Nel corso della pandemia Covid-19 del 2020, mentre il turismo internazionale crollava, il volume del commercio marittimo globale è calato solo del 4%: il commercio globale ha mostrato maggiore resistenza perché coinvolge pochi esseri umani. Dal 2010, il principale paese esportatore mondiale è diventato la Cina, che offre un panorama molto diversificato di esportazioni, dai prodotti a basso contenuto tecnologico a macchinari, utensili, prodotti elettronici ecc. Un aspetto particolare della geografia del commercio riguarda il fenomeno noto come e-commerce, il commercio elettronico, legato alla possibilità di acquisto/vendita di prodotti e servizi attraverso internet. L’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ci dice che nel corso del 2018, il 40% della popolazione mondiale ha effettuato almeno un acquisto online, non di rado proveniente dall’estero, incrementando quindi il commercio internazionale. 9.3 La struttura geografica del commercio internazionale Nella geografia del commercio mondiale emerge in primo luogo la cosiddetta Triade, costituita dall’insieme di tre aree regionali: - Europa occidentale, massimo polo commerciale mondiale, con la Germania in posizione dominante e un forte interscambio interno all’Unione Europea; - Asia orientale - America settentrionale, con gli USA preminenti ma Canada e Messico con importanti quote. La triade controlla e gestisce ben l’80% del volume del commercio mondiale. L’analisi dei flussi commerciali conferma, inoltre, come l’area pacifica costituisca oggi il principale nodo economico mondiale: i flussi tra Asia e America settentrionale, infatti, rappresentano i movimenti interregionali quantitativamente più consistenti, mentre, il ruolo dell’UE è invece dominante se si considerano i movimenti intraregionali. Si tratta comunque di flussi commerciali fortemente squilibrati. Gli USA sono costantemente caratterizzati da un forte disavanzo (eccedenza delle uscite sulle entrate) commerciale, mentre gr

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