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Questi appunti trattano il concetto di estetica, branca della filosofia che si occupa della conoscenza sensibile quando ha significato. L'analisi esplora la storia dell'estetica, concentrandosi sul concetto di bello in diverse epoche e culture, inclusi i contributi del mondo classico e moderno.

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Estetica Che cos’è l’estetica? ESTETICA: Branca della filosofia che si occupa della conoscenza sensibile quando trasmette un correlato valoriale à CONOSCENZA SENSIBILE QUANDO HA SIGNIFICATO. L’estetica è una disciplina moderna (nasce nella modernità), quando parliamo di esteti...

Estetica Che cos’è l’estetica? ESTETICA: Branca della filosofia che si occupa della conoscenza sensibile quando trasmette un correlato valoriale à CONOSCENZA SENSIBILE QUANDO HA SIGNIFICATO. L’estetica è una disciplina moderna (nasce nella modernità), quando parliamo di estetica antica lo facciamo a posteriori. Nasce quando il CANONE DEL BELLO crolla/decade. Nei primi secoli della propria formazione, questa disciplina, ha un’ossessione per il mondo classico. La modernità è un’epoca in cui viene disincantato il mondo. In natura il FIORE è un esempio di bellezza, in particolar modo la ROSA, si riconosce in lei una regolarità non del tutto geometria. In CAMPO ARTISTICO è la SATUARIA GRECA, ripresa da parte del Rinascimento, la modernità ha idealizzato l’arte greca, il candido marmo non esisteva, le statue erano dipinte. QUALI SONO LE CARATTERISTICHE CHE MI PERMETTONO DI DIRE CHE UNA COSA È BELLA? à problema dell’estetica, punto di domanda iniziale dell’estetica La questione del bello È quindi la categoria regina e fondamentale dell’estetica La storia dell’estetica si basa sul concetto del bello IL CONCETTO DEL BELLO È un concetto incerto, non lo possediamo come altri tipi di concetti. La parola “bellezza” evoca in noi un’idea familiare, ogni giorno formuliamo giudizi (l’estetica attribuisce giudizi che non garantiscono una conoscenza determinata), parliamo di bello come un’esperienza dotata di evidenza, immaginiamo sia in qualche misura un sentire condiviso. Ogni tentativo di definizione ci sembrerà misero e generico, o al contrario troppo dettagliato. La parola “bello” presenta un’ambiguità di significato, è una parola polisemica. Goethe, per esempio, individuava 33 possibili varianti di bellezza, consapevole che questo elenco fosse impreciso e incompleto. Charles Kay Ogden e Ivor Armstrong Richards, nel 1923 pubblicavano Il significato del significato ove si propone di distinguere due di]erenti usi del discorso: simbolico (idoneo a indicare referenti reali) ed evocativo (atto a suscitare sentimenti e intenzioni). In base a questa distinzione, in una frase come “X è bello”, l’aggettivo “bello” non introduce alcuna di]erenza in X. Attribuzioni di questo tipo costituiscono solo in “segno emotivo che esprime il nostro atteggiamento". Ogden e Richards si dilettano a elencare sedici diverse possibili definizioni di bellezza (“bello è ciò che ha una forma specifica, è un’imitazione della natura, è opera del genio…) nella consapevolezza che l’elenco non solo non è completo, ma non potrà mai esserlo. Il punto è che la parola “bello” non designa a]atto una qualità. Quando sostengo ad esempio che un’opera d’arte è bella intendo soltanto dire che è riuscita, e non a]ermo nulla sul suo aspetto, i suoi caratteri, il genere di arte che è. Se dico che qualcosa è bello, sto giudicando e approvando quella determinata cosa. Dico che è come dovrebbe essere, è fatta bene. Non corrisponde con la funzionalità, alcuni oggetti funzionano molto bene anche se sono brutti. È senz’altro cero che la persistente latenza dell’equivoco circa il senso del “bello” si radica nella “predominanza che per lunghissimo tempo ha avuto nell’arte occidentale il paradigma classico, relativamente soprattutto alle arti figurative”. Pensiamo che ARTI e BELLEZZA convergano, in realtà questa connessione nasce nel XVII secolo (‘600) quando si introduce il concetto di BELLE ARTI*. Il mondo antico non pensava all’arte come noi, nel mondo greco pittore e scultore non erano colleghi, si inizia a pensare ai vari artisti/artigiani come colleghi quando si dice che le arti fanno la stessa cosa, ovvero producono il bello. “Bello” non ha lo stesso significato nelle diverse epoche storiche ma raggruppa problematicità simili. Arthur Coleman Danto ha potuto parlare di Abuso della bellezza rivendicando la fine di quella concezione secondo la quale il carattere specifico dell’arte consisterebbe proprio nel possesso di qualcosa come la bellezza. La bellezza sarebbe una qualità estetica fra le tante, tale qualità sarebbe stata tuttavia 1 ormai ampiamente a]iancata e sostituita da altre. L’apprezzamento del valore artistico non corrisponde (più) al riconoscimento di una qualità ambigua e indefinibile come la bellezza. L’arte è anche Balkan Baroque di Marina Abramovic performance eseguita in occasione della biennale del ’97, l’Azionismo viennese, corrente artistica dei primi anni ’60, caratterizzata da performance che prevedevano atti di autolesionismo, il versamento di sangue e il coinvolgimento di animali sacrificati. Questi elementi stanno nello stesso campo: l’estetica. Anche il DISGUSTO fa parte dell’estetica. Il bello sta nelle ambiguità e non nella conoscenza determinata, l’estetica è un modo di pensare che ci mette di fronte al governare la complessità e sapere che non la possiamo governare, però dobbiamo averci a che fare. Estetica per avere un senso di conferma rispetto a ciò che abbiamo di fronte. L’estetica ci obbliga a dire che l’idea del bello c’è, anche se non è sotto il nostro controllo. Tramite l’accordo estetico dice Hannah Arendt esiste una comunità umana non violenta unita dal gusto, dimostrazione empirica che esiste una comunità. TO KALÒN – GRECIA ANTICA Nella cultura greca arcaica la domanda per eccellenza è “qual è la cosa più bella?”, per Sa]o il concetto di kalòn = oggetto del desiderio (“ciò che uno ama”) à desiderio che risiede al di là delle singole predilezioni, la ricerca della risposta lascia trapelare un’universalità, che non implica il sacrificio del particolare. To kalòn =bello per il greco è ciò che appare, brilla e risplende in tedesco Das Schöne deriva dalla radice di apparire à etimologia fatta propria da Hegel nel Fedro platonico l’anima può riconoscere la bellezza perché ha già goduto di una visione luminosa d’un mondo di pure forme La risposta di Sa]o, “ciò che uno ama”, implica che “la cosa più bella” sia quella definita dall’amore à POTENZA DI EROS che è in grado di spezzare legami e che induce ad a]rontare qualunque pericolo à Elena possedeva ciò che chiunque avrebbe potuto desiderare, lo abbandona e si fa carico del dolore di tutti, poiché rapita da qualcosa di bello. Se “la cosa più bella” è “ciò che uno ama” ogni individuo si erge a criterio incontestabile di bellezza di qualcosa à IMPLICA PRECIPIZIO RELATIVISTICO? à più complesso, l’aspetto essenziale della risposta di Sa]o consiste non nell’assoluta relatività del giudizio sul bello quanto bella relazione personale indispensabile per definire “bello” qualcosa. Qualcosa di “amato” intrattiene una relazione personale; è tale relazione a far sì che “una cosa bella” sia “insostituibile” in quanto tale e non già in possesso di presunte caratteristiche o “proprietà”. Elena, il soggetto del desiderio Il destino della bellezza come oggetto di desiderio è un destino funesto. Luciano di Samosata lo ricorda in uno dei suoi Dialoghi con i morti, il filosofo scettico Menippo si rivolge a Hermes (divinità che accompagnava le anime dei defunti nell’Ade) per chiedergli notizia dei personaggi di cui ha sentito parlare per la loro bellezza. Hermes mostra a Menippo che di Elena sono rimaste solo le ossa, Menippo dunque confida ad Hermes di non capire come gli achei non si fossero accorti di star dannando per una cosa tanto e]imera e rapida a sfiorire come la bellezza. Le numerose reticenze del mito concorrono a presentarci la complessità della figura di Elena e della sua condizione. In quanto donna, ossia “ambiguo malanno”, Elena è un oggetto di massima di]idenza. La stessa bellezza che tutto sembra farle perdonare come dicono gli anziani troiani seduti presso le Porte Scee, non è altro che l’altra faccia di “un’ideologia inesorabilmente misogina”: la donna è ritratta come un essere “infido” e privo di aidós (pudore). Ma proprio quest’ultimo costituisce il fondamento del tessuto etico condiviso e l’elemento indispensabile per definire l’elemento che gli antropologi hanno chiamato shame culture, “civiltà della vergogna”. Il paradosso sta proprio in questo: una donna considerata fragile, cedevole, priva della capacità di autodeterminarsi può essere responsabile delle proprie scelte e delle proprie azioni? Un profilo del personaggio di Elena più complesso si trova in un’altra tragedia di Euripide, le Troiane, la cui composizione richiede di essere brevemente ricondotta al contesto storico-politico di una delle fasi più drammatiche della guerra del Peloponneso, la battaglia dell’isola di Melo. Tucidide (storico ateniese) riporta “gli ateniesi uccisero tutti i meli adulti che catturarono e resero schiavi donne e bambini. Il lógos, (che significa scegliere, raccontare, enumerare, parlare, pensare, e quindi è traducibile come «parola», 2 «discorso», o «ragione») strumento per la ricerca della giustizia, cede quindi il passo senza mediazioni all’esercizio del bía, violenza brutale. Euripide traspone l’episodio di Melo alla conclusione della guerra di Troia. Il poeta sceglie di dar voce alle troiane: in quanto donne prive di aidós secondo la mentalità comune, per le quali è paradossalmente più facile esprimersi contro le scelte politiche della città. In questo contesto avviene lo scontro tra Ecuba (moglie di Priamo e madre di Paride) ed Elena (moglie di Menelao, scappata con Paride a Troia). Ecuba attacca Elena con lo strumento maschile del lógos. A questa tenzone assiste anche Menelao, ostinatamente a]ezionato all’idea che la causa della guerra di Troia sia da cercare nell’o]esa di Paride, pur di non riconoscere a Elena alcuna reale autonomia di scelta e d’azione. L’argomentazione è: se Elena è una donna, non poteva non tradire il marito, perché come s’è detto sarebbe naturalmente priva di pudore. Eppure, Menelao sembra poco convinto da un sofisma del genere: è proprio Ecuba, una donna, a richiamarlo alla coerenza bell’uso della ragione. Ecuba può così denunciare Elena: la donna più bella del mondo può non essere virtuosa né buona. Proprio perché è responsabile, Elena non è solo oggetto desiderio maschile, ma è soggetto di desiderio. Si può sottoscrivere da Sa]o: “Elena è bella, ma certo. Ma ciò che conta di più, è che permetta a chiunque intorno di capire cosa sia la bellezza”. DISTINZIONE SCHEMATICA: TEORIA ANTICA DEL BELLO Oggettiva Nell’antichità si parla per predicati (ad eccezione di sofisti), attributo dell’oggetto è bello. TEORIA MODERNA DEL BELLO Soggettiva Nella modernità si parla di proprietà dell’oggetto, sentimento dell’oggetto che è bello Pitagorici Avevano una concezione mistica della numerologia, erano una sorta di setta. Cercavano il richiamo numerico in tutto (es. sezione aurea, la proporzione matematica su cui è costruita la natura o sequenza di Fibonacci). Cercavano di spiegare la natura numericamente o in maniera proporzionalmente numerologica. Su cui si fonda la teoria del bello. L’arte e la natura nel mondo greco hanno un rapporto molto stretto. La produzione artistica era intesa come idealizzazione della natura, la natura non viene imitata, ma rappresentata per come dovrebbe essere. Ad es. le sculture sono idealizzazioni, non c’è peluria, poiché è una cosa da sempre considerata non bella. L’intento è comunque quello di vivificare le proporzioni. Platone Dottrina delle idee Per Platone Bello e Arte sono diversi: il bello risiede nella proporzione e nell’idealizzazione, l’arte è una diminuzione/falsificazione della realità. Il bello è una delle 5 somme idee platoniche (bello, buono e vero a cui si rifarà Kant). Idee à Realtà (copia sbiadita delle idee) à Arte (copia della realtà, copia della copia) Nella sua città ideale l’arte è bandita. È una forma di illusione che corrompe le masse. L’arte ha tuttora problemi ad essere sé stessa. Un testo della filosofia antica conferma in pieno una concezione del kalón irriducibile alla mera valenza “estetica”. È il dialogo Ippia maggiore riconducibile a Platone (non c’è certezza), annoverato tra i cosiddetti dialoghi aporetici. I personaggi principali sono appunto il sofista Ippia, Socrate e un terzo interlocutore. La sofistica funge da “artefatto platonico” la cui essenza consiste nel “fare del sofista l’alter ego negativo del filosofo”. Con ciò, “il filosofo a sua volta (non) si definisce (se non) per essere l’altro del sofista”. Cattivo filosofo, non-filosofo che sia, nell’Ippia maggiore il sofista costituisce una componente essenziale per la stessa definizione dei suoi limiti. 3 Rispetto al problema della definizione, in un dialogo come l’Ippia maggiore, il problema potrebbe riassumersi nel seguente modo: come di fa a dire che “qualcosa è B”, cioè attribuire a X la proprietà B, se non disponiamo di un’adeguata conoscenza della definizione di B? Senza conoscere il bello, senza già sapere cos’è, non è possibile dire quali cose siano belle e quali non lo siano. D’altronde la stessa conoscenza di B sembra a sua volta dipendere dalla precedente conoscenza delle singole cose B, vale a dire la conoscenza della bellezza parrebbe subordinata alla conoscenza delle singole cose belle. Traduzione semplificata della questione: immaginiamo che B sia l’idea (cioè la forma ideale) di qualcosa, idea del Bello. Ora gli enti particolari (cioè le singole realtà di questo mondo) si collocano fra l’essere-B e il non-essere-B. Nel quadro generale gli enti belli si mostreranno allora a. belli per un certo aspetto, ma non-belli per altri (es. volto bello nei lineamenti ma non nell’incarnato) b. belli in un determinato frangente, ma non in un altro momento (es. stesso viso bello ad un’età ma non ad un’altra) c. belli a paragone con certe cose, ma non con altre (es. Elena bella se paragonata a Santippe, moglie di Socrate, ma non se paragonata ad Afrodite) d. belli in certi contesti, ma non in altri (es. un cappello può stare bene a qualcuno e su qualcun altro può sembrare ridicolo). Solamente l’idea di Bellezza sarebbe realmente e compiutamente bella: si tratta infatti di quel bello in sé che, come si legge nel Simposio: “sempre è e non nasce né muore, non cresce né diminuisce, e che, poi, non è in parte bello e a volte no, né bello rispetto a una cosa e brutto rispetto a un’altra, né qui bello e là brutto…”. Tutte queste proprietà del bello in sé hanno a che fare con il cosiddetto principio di autopredicazione, secondo il quale l’idea di B dev’essere essa stessa B, anzi: deve esserlo al sommo grado. Questa esigenza spalanca un abisso di di]icoltà. Che cosa accomuna infatti l’idea di B e le singole cose-B? Per tacere dell’altro problema: che accade, poi, se all’idea di B si riconoscono altre proprietà oltre a B?. Sul piano semantico tò kalón designa anzitutto il contrario di tò aischrón, ovvero “ciò di cui vergognarsi”: una buona traduzione di kalón potrebbe essere ad esempio il latino honestum. Dunque, nei poemi omerici un’azione, un gesto o un discorso sono “belli” a vedersi o udirsi così come è bello per un uomo di valore cadere combattendo coraggiosamente in battaglia. Qui il kalón si riferisce però evidentemente alla giustizia e alla perfezione morale, prima che alla loro visibilità e dunque allo loro valenza “estetica”. Ma non va dimenticata l’accezione per cui la parola designa anche la buona qualità di certi oggetti d’uso. Poco dopo aver proposto il tema del bello, Socrate introduce il personaggio dell’Anonimo: quel “tale” che non senza insolenza gli avrebbe domandato “sai quali sono le cose belle e quali brutte?” Domanda che egli riformula subito in maniera tutt’altro che innocente: “sapresti dirmi cosa è il bello?”. Lo stratagemma dell’Anonimo consente a Socrate di evitare di giungere ad uno scontro diretto con Ippia. Socrate non è disposto a “riconoscere ragione a nessuno”, e tuttavia non rivela mai il proprio pensiero su alcunché. Non si tratta semplicemente di citare una o più cose belle, bensì di provare a definire cosa sia “il” bello. Socrate … egli non ti chiede cosa è bello, ma cosa è il bello. Ippia … e gli risponderò cosa è il bello in modo tale da non essere mai confutato. Se bisogna dire il vero, Socrate, sappi che bello è una bella ragazza. Che “bello” sia “una bella ragazza” non costituisce comunque che una semplice battuta cameratesca tra uomini, in una cultura come quella ellenica, che sa sempre sta sotto il segno di Elena, fin quasi nel nome. Comunque, quel che l’Anonimo chiedeva non era una serie di cose belle e no, ma il bello in sé. Il problema è che le risposte di Ippia investono in modo ostinato sulla particolarità e risultano ine]icaci e inappropriate alla definizione. Ippia … massimamente bello per un uomo è l’essere ricco, sano e onorato dai greci, arrivare alla vecchiaia, allestire una bella sepoltura per i propri genitori nel momento che muoiano e ricevere dai propri figli onori funerari belli e magnificenti. La terza definizione di Ippia non parrebbe molto di]icile da confutare poiché non può costituire una risposta universalmente valida alla domanda su cosa sia il bello a) in sé, b) agli occhi di tutti, e c) in tutti i tempi (passato, presente e futuro). 4 Il quarto tentativo di definizione: il bello è “il conveniente”, il conveniente è ciò che fa sembrare belle le cose, o ciò che le fa essere tali? Il quinto e il sesto tentativo propongono rispettivamente “l’utile” e “il vantaggioso”. È solo all’altezza dell’ultima definizione che nell’Ippia maggiore, la trattazione del bello sembra avvicinare un ambito che si potrebbe definire più propriamente “estetico”. La proposta viene da Socrate: … se rispondessimo a quell’uomo arrogante “Nobile uomo, il bello è il piacevole tramite l’udito e la vista”, non credi potremmo arginarne la sua arroganza? Questa definizione pone una quantità enorme di nuovi problemi. Perché privilegiare il piacere prodotto da questi due senti su tutti gli altri piaceri? Bisogna supporre che l’opzione per i sensi a distanza costituisca qualcosa come un indizio dell’estetizzazione del bello. Vista e udito sono fra l’altro i senti del teatro, i sensi “teoretici” grazie al cui ra]inato esercizio il vantaggio biologico della percezione a distanza si è trasformato, nella cultura, in un’e]icace paideía per l’esistenza comunitaria, oltre che in una propedeutica alla vita speculativa. La consistenza dell’ultima definizione del bello proposta nell’Ippia maggiore viene citata da Plotino, il quale riprende il tema platonico della bellezza conferendogli un profilo filosofico più definito, sullo sfondo della grande questione del rapporto fra essere e libertà. Per spiegare la bellezza abbiamo bisogno di qualche altro principio, che si a]ianchi alla misura e alla simmetria. “Si deve riconoscere che anche quaggiù la bellezza non consiste così tanto nella simmetria quanto invece nello splendore che brilla nella simmetria; ed è questo che a]ascina”. Nella simmetria brilla dunque di uno splendore. I corpi, e più in generale le cose sono belle perché partecipano di una “forma” o “idea” che “ordina, combinando insieme, le parti diverse, le riduce a un tutto armonioso e forma l’unità mediante un accordo”. L’anima può riconoscere questa bellezza in virtù del principio secondo cui il simile conoscere il simile. In perfetta coerenza con l’insegnamento platonico, come la bellezza si lascia percepire da chi ama, permettendogli di provare “lo stupore, la meraviglia gioiosa, il desiderio, l’amore e lo spavento accompagnato da piacere”. La bellezza non può mai essere semplicemente vincolata a leggi o formile di sorta. Ben vengano i canoni estetici della proportio, che attraversando il Medioevo avrebbero mostrato la loro vitalità fino alle soglie dell’Età moderna: ma se la quesitone fosse tanto semplice da ridursi a calcoli o rapporti numerici, già disporremmo a piacimento di formule e di tecniche per riprodurre la bellezza nei modi più ra]inati, e non ci resterebbe che applicarle. Aristotele Per il bello ha una posizione greca classica, sempre fatta di proporzioni, canone, armonia. L’arte viene trattata nella Poetica (testo scoperto molto tardi), in cui il filosofo connette il bello con gli ideali di grandezza e disposizione regolare fra le parti. Per Aristotele non c’è il concetto di arte in realtà, gli artisti sono artigiani, siamo noi a vedere il collegamento con l’arte. Ado ogni modo è presente un’AUTOMIZZAZIONE DEL DISCORSO ARTISTICO, la verità artistica ha una propria autonomia. Il vero per Aristotele è: nella storia (ciò che è stato precedentemente detto); nel possibile (logica); nella poetica (il verosimile). Il verosimile è qualcosa che noi possiamo credere sia vero. Non è solo qualcosa in cui possiamo credere, ma siamo invogliati a crederci. Il vero è più ristretto e noioso, il verosimile ci attira. (Es. le fiction storiche prendono la macrostruttura della storia, ma è il personaggio secondario che ci intrattiene con la sia vita. Si gioca sul rapporto realtà/finzione). 5 TRANSIZIONE Se ci dev’essere vera bellezza, è necessario che ci contempla metta da parte ogni intenzione di possedere, usare, consumare l’oggetto contemplato. Le parole che aprono la Storia della bellezza curata da Umberto Eco sono in questo senso esemplari. Bello […] è un aggettivo che usiamo sovente per indicare qualcosa che ci piace. […] noi parliamo di Bellezza quando godiamo di qualcosa per quello che è, indipendentemente dal fatto che lo possediamo. […] È bello qualcosa che, se fosse nostro, ci rallegrerebbe, ma che rimane tale anche se appartiene a qualcun altro. Se l’estetica moderna, almeno a partire da Kant, riconosce nella bellezza un sentimento di piacere in cui l’impulso al possesso e alla consumazione lascia spazio a un godimento diverso, disinteressato alla cosa nella sua presenzialità, sappiamo tuttavia che nella prospettiva degli antichi greci, il kalón non esclude a]atto in linea di principio il desiderio: anzi presso di loro il “bello” sembrerebbe definirsi tale anche per la sia capacità di suscitarlo. Presso i greci il kalón sembra tale proprio per la sua capacità di suscitare attenzione. L’etimologia proposta da Platone nel Cratilo è perfettamente coerente con la concezione ellenica di kalón. Per Sa]o la cosa più bella è “ciò che uno ama”. Nel Simposio Socrate sublima invece la pulsione erotica per il Bello nel desiderio di conoscenza. L’Ippia maggiore si concludeva con un’aporia, cioè lasciando in sospeso la risposta alla domanda su che cosa mai sia davvero il bello: “di]icili sono le cose belle”. Aporie, queste, che l’estetica porta sempre con sé: sarebbe infatti illusorio ritenere che, nei secoli successivi, la storia del pensiero filosofico abbia saputo rispondere una volta per tutte alle domande sull’essenza del bello e sul senso dell’esperienza della bellezza. L’interesse che la Scolastica manifesta per la bellezza ha a che fare con la metafisica, trasmettendo meditazioni intorno alla relazione del bello con il vero e il buono. Il mondo è manifestazione dello splendore divino: a questo modello di Agostini si ispira ancora un’estetica fondata su basi teologiche. Non bisogna dimenticare le riflessioni dei pensatori medioevali intorno alla relazione fra il piacevole e il bello nelle sue varie manifestazioni; in Tommaso d’Aquino, convergono le linee dia della tradizionale “Grande Teoria”, sia della claritas. Tuttavia, le vicende della storia delle idee sfuggono a ogni eccesso di semplificazione lineare: ecco allora che per quanti provengono (come noi) da una certa tradizione, da una parte sembra perfino ovvio che la bellezza abbia per così dire naturalmente un riferimento privilegiato all’arte, mentre non andrebbe dimenticato che le cosiddette “arti belle” * solo relativamente tardi si sono rese autonome dalle tecniche artigianali e dalle arti meccaniche. Ad un certo punto storico è molto bello non pensare all’arte come al bello. Nascono appunto le Arti Belle (o belle arti): partiche umane con un fine comune il bello. Il Rinascimento (da circa metà del ‘300 a fine del ‘500) prepara il terreno per questa convergenza di arte e bellezza. Leon Battista Alberti: “scultura, pittura, architettura producono il bello”. Petrarca (1304-1374) introduce l’allegoria non più come figura educativa, ma come figura retorica dal significato esteticamente bello. Petrarca reintroduce l’Antichità, gli antichi producevano naturalmente il bello, il Medioevo è visto come periodo di allontanamento/periodo buio (secondo l’Umanesimo), la Modernità ricostruisce l’antico. La Modernità pone l’inizio del recupero dell’Antichità dopo averla persa, pur mantenendo conquiste ed innovazioni, ripensando alle parti belle dell’antichità. Piero della Francesca: invenzione della prospettica, geometrizzazione della realtà secondo il punto di vista dell’occhio umano. Nel Rinascimento l’occhio umano era ordinatore del cosmo. Il disegno è una riproposizione della natura per come dovrebbe essere à Accademia fiorentina del disegno Michelangelo con la Pietà (1498-1499) è il primo esempio eclatante di opera scultorea firmata. Michelangelo incide il suo nome sulla fascia, per Vasari l’artista vuole porre il punto perché all’epoca ci si domandava se l’opera appartenesse ad un altro scultore. Inizia ad esserci la centralità dell’artista come individuo, l’opera non è più solamente un elemento importante per la collettività, questo passaggio ci metterà molto tempo per istituzionalizzarsi. Punto di rottura: l’arte rinascimentale dice che esiste una forma di verità che è autonoma rispetto a quella scientifica, che è quella del bello, che si costruisce tramite la proporzione è un’illusione. 6 Madonna Sistina di Ra]aello (1513-1514) L’arte è in grado di far apparire la verità (es. religiosa) e di farla apparire più bella. Potere di creare un’altra realtà, illusoria, che ha la capacità di farci credere in qualcosa. Apre un canare di comunicazione diretta rispetto ad una comunicazione pedagogica. Allegoria estetica > allegoria pedagogica. La verità estetica derealizza la verità scientifica. Bellezza e arte si unificano nel ‘600 nella disputa tra Antico e Moderno. Chi ha pensato al classico in modo più profondo sono i modernisti (da Manet alle Avanguardie), non ci si può limitare a copiare il classico dobbiamo idealizzarlo. Gli antichi non hanno copiato nessuno. Già nel ‘600 ad esempio con l’Estasi di santa Teresa d’Avila del Bernini (1645-1652) si inizia a profanizzare la Vergine. Il volto della Vergine sembra pervaso da un’esperienza dell'estasi mistica in termini di pulsione erotica. A cavallo dell’800 inizia la rivoluzione della concezione del museo. Il Louvre è l’esempio smaccante della struttura attuale dei musei (tematiche, artisti, influenze, cronologia…). Fin prima non era così, il museo deriva dalle Wunderkammer tedesche, in cui non c’era coerenza se non cromatica o morfologica. KANT (1724-1804) Di]erenza tra CONOSCERE e PENSARE. Conoscere: discipline scientifiche, conoscenza determinata Pensare: anche per discipline non-scientifiche Le 3 domande di Kant: Che cosa posso sapere? Critica della ragion pura Che cosa devo fare? Critica della ragion pratica Che cosa mi è lecito sperare? Critica del giudizio à riguarda la capacità di giudizio, teoria sul bello, non si occupa solo di estetica ma anche di giudizi teologici (finalità naturali). Diventa famoso a fine ‘700 con la Critica della ragion pura (1781). Con la pubblicazione della Critica del giudizio (1790), Kant aggiungeva un tassello decisivo al proprio progetto critico. Che cosa accade quando diciamo che una cosa è bella? A]ermando “questa rosa è bella”, abbiamo formulato in questo modo un giudizio, ossia un’operazione discorsiva per cui un soggetto S viene congiunto a un predicato P tramite una copula (SOGGETTO è PREDICATO). Costituisce dunque un giudizio a]ermativo del tipo “S è P”; il quale non pare distinguersi a]atto da giudizi a]ermativi di altro tipo, come “la pagina è bianca” o “il triangolo ha tre lati”. Gli ultimi due giudizi esprimono rispettivamente uno stato delle cose e una proprietà geometrica. Invece a]ermare “questa rosa è bella”, secondo Kant, non ci fa propriamente conoscere nulla della rosa in questione. Esso ci parla in qualche modo di noi, più che della rosa: ci dice un sentimento che proviamo al cospetto della rappresentazione di un certo fiore. Giudizi riflettenti Quando dico “la pagina è bianca” esprimo uno stato delle cose del mondo. Questo giudizio può essere giusto o sbagliato. La sua pretesa di verità può essere in qualche modo giustificata da una serie di assunti di partenza: a) Che la mente umana opera secondo regole asseverate e costanti; b) Che i giudizi discorsivi se debbono essere veri debbono rispettare queste leggi; c) Che quando riteniamo di a]ermare la verità di qualcosa, stiamo esprimendo discorsivamente il modo in cui la nostra mente determina quel qualcosa; d) Che per attribuire un predicato P a un soggetto S io debbo sapere se il caso che mi è dato rientra o meno nella regola P. Secondo Kant, quando dico di qualcosa che “è bello”, P non determina a]atto S, ma si limita a riflettere un sentimento che è provato da chi formula un giudizio. Non è a]atto necessario che tutti concordino nel riconoscerne la bellezza, ossia che provino piacere estetico nel vederla. 7 Ciò è una distinzione fondamentale per Kant, si tratta della distinzione fra giudizio determinante e giudizio riflettente. L’attività del pensiero di esplica come attività del giudizio: “pensare è giudicare”. Si tratta di una funzione dell’animo umano che consente di elaborare a]ermazioni del tipo “S è P”: il che significa appunto. “pensare il particolare come contenuto dell’universale”. Se il foglio è bianco, ciò vuol dire che si addice all’universale della bianchezza (naturalmente l’essere bianco non si predica solo al mio foglio). Ci sono dei giudizi di conoscenza e universalmente validi (es. la borraccia è verde), giudizi determinanti. Poi ci sono dei giudizi sul privato e gradevole (mi piace il gelato al pistacchio, mi piace il piccante), non hanno nessuna pretesa di universalità. Ci sono poi i giudizi che coinvolgono il sentimento estetico (la rosa è bella, quel libro è bello), niente ci può dire che non siano universali, stiamo dicendo qualcosa in più rispetto ai giudizi privati, siamo portati a discutere se siamo in disaccordo. Comunque, i modi per operare la connessione fra soggetto e predicato sono due: La possibilità di formulare i giudizi determinanti è garantita dalla presenza nella mente umana di forme pure della conoscenza che costituiscono le regole tramite cui il molteplice empiricamente viene ordinato. Se posso dire sensatamente “questo foglio è bianco” ciò è possibile perché la struttura della mente o]re delle regole per vagliare la corretta applicazione dell’universale al particolare. I giudizi riflettenti partono per così dire dal basso. Ciò significa che in essi il principio universale non è già dato disponibile. Rispecchia per così dire il sentimento di chi fa l’a]ermazione, sto giudicando me stesso. … La rappresentazione non è riferita all’oggetto, ma unicamente al soggetto; e il piacere non può esprimere altro che l’accordo con le facoltà conoscitive che sono in gioco nel giudizio riflettente […] e quindi soltanto una finalità soggettiva formale del soggetto. Come se vi fosse una finalità per cui i due elementi in gioco sembrano fatti l’uno per l’altro; anche se questa finalità non è comprovabile in maniera oggettiva, ma è puramente soggettiva. Chi formula un giudizio, e dunque prova piacere estetico, la coglie in qualche modo. Che implicazioni possiede dunque un’a]ermazione del tipo “X è bello” che Kant chiama “giudizio di gusto”? Un giudizio di questo tipo non dice nulla di utile alla conoscenza di X, e pertanto a rigore non può avere pretese di verità teoretica; esso esprime un piacere disinteressato. Nella sezione della Critica del giudizio intitolata “Analitica del bello” Kant propone allora quattro definizioni, il cui esame può aiutarci a comprendere quali siano le peculiarità del giudizio circa il bello. Le quattro definizioni sono: I. Bello è ciò che piace in quanto è oggetto del giudizio di gusto (piacere disinteressato); II. Bello è ciò che piace universalmente senza concetto; III. Bellezza è la forma di finalità di un oggetto; IV. Bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario. La definizione [I] chiarisce che quando si dice che qualcosa è bello non si formula un giudizio logico-conoscitivo, bensì un giudizio “estetico”: giudizio che tramite la facoltà dell’immaginazione lo riporta al sentimento di piacere e dispiacere provato da chi lo formula. Il fondamento del giudizio estetico “non può essere se non soggettivo”. Dire “questa rosa è bella” non è né vero né falso: esprime un modo di sentire da parte di chi fa l’a]ermazione. Il gradevole (“ciò che piace ai sensi della sensazione”), e il buono (sia esso inteso come utile quando “ci piace soltanto come mezzo” o come buono in sé, riferimento a un autentico valore morale) si mostrano legati a un interesse di esistenza della cosa, presuppongono un coinvolgimento pratico che nulla ha a che fare con la purezza contemplativa del gusto. Il piacere è suscitato nell’animo della forma di un certo oggetto, e in questo senso è contemplazione: così vengono prese le distanze da ogni cognizione sensistica del gusto estetico. Essendo il piacere del bello libero da qualunque inclinazione, colui che lo prova finisce per giudicarlo come “valevole per ognuno” e crederà “di aver ragione di pretendere degli altri lo stesso piacere”. Per cui “egli parlerà del bello come se la bellezza fosse una qualità dell’oggetto, e il suo giudizio fosse logico sebbene sia soltanto estetico”. L’esigenza di universalizzazione è tuttavia legittima. Giudizio sul bello non è un’universalità astratta, bensì piuttosto una validità comune. Il bello “non postula il consenso di tutti; esso esige soltanto il consenso da ognuno”, vale a dire richiedere la possibilità di un accordo. Come se io rivolgessi a tutti i miei potenziali interlocutori dicendo: “A me piace… anche a te, vero?”. 8 La questione del bello come un problema relativo a un tipo di piacere puro e disinteressato significa tre cose: a) A]rontare uno snodo fondamentale per comprendere ciò in cui davvero consiste per Kant il piacere estetico; b) Consolidare alcune premesse per giustificare le implicazioni della “validità generale” di cui si parlava in precedenza; c) Mettere ordine nella successione delle fasi in cui si articola l’esperienza estetica. L’intera questione è traducibile con il titolo del paragrafo 9 della Critica del giudizio: “se nel giudizio di gusto il sentimento di piacere preceda il giudizio sull’oggetto, o viceversa”. Ad avere la precedenza, nell’ambito del gusto, è il giudizio sull’oggetto, e non potrebbe non essere così; perché se a precedere fosse il piacere, saremmo da capo di fronte a un piacevole fisiologicamente determinato, quindi del tutto soggettivo, incompatibile con qualunque aspirazione alla validità generale. Con il piacere estetico ci si trova di fronte a un’esperienza che non vincola in modo rigido la vita della nostra mente, Kant scrive: quando noi, al cospetto di una data rappresentazione, formuliamo un giudizio di gusto, “Le facoltà conoscitive, messe in gioco da questa rappresentazione, sono qui in libero gioco, perché nessun concetto determinato costringe a una particolare regola di conoscenza”. L’accordo che si genera nella nostra mente è un accordo libero e spontaneo ed è proprio tale accordo libero e spontaneo a far nascere in noi il sentimento di piacere. Ad accordarsi in armonia sono le facoltà della nostra mente che sono sempre all’opera quando abbiamo a che fare con una rappresentazione: l’immaginazione e l’intelletto. Quando tuttavia immaginazione e intelletto cooperano “nel giudizio dell’oggetto allo scopo di conoscerlo” (giudizio determinante) tale coordinazione non è a]atto libera: segue regole ben precise. Se dico “questo foglio è bianco”, abbiamo visto che debbo poterlo fare sulla base di un’idea precisa di che cosa sia il colore bianco e di un riscontro adeguato del fatto che il foglio possieda davvero quella caratteristica. Abbiamo l’immagine di qualcosa e l’intelletto stabilisce nessi e caratteristiche precise, coerenti con le leggi generali del mondo naturale. Nel caso del giudizio di gusto, l’immaginazione e l’intelletto non sono vincolati da una regola preesistente, ma stanno fa loro in un gioco libero. Quel legame che, nell’atto conoscitivo, deve costituire un vincolo determinato e rigido, nel caso del giudizio di gusto diviene il libero accordo di elementi diverso. È per questo che chi trova bella una cosa avverte una finalità nella forma di ciò che giudica. Qui il termine “finalità” va inteso come libero concordare delle parti di un molteplice in un’unità armonica dotata di senso. È dunque questo accordo morfologico a precedere il sentimento di piacere nel giudizio di gusto. Il presentarsi della bellezza nella forma di predicato d’un giudizio spiega d’altronde anche la tendenza per così dire inevitabile dell’essere umano a socializzare questo sentimento. Bello è ciò che “piace universalmente senza concetto”. Non posso comandare a qualcuno di provare un sentimento di bellezza, ma posso certamente raccomandargli la bellezza di qualcosa. Se siamo in disaccordo, siamo feriti perché parliamo di noi stessi e veniamo messi in discussione. Io non riesco a pensare diversamente nei confronti di questa cosa se la trovo bella. Poiché questo giudizio è basato su un sentimento, provo un sentimento di piacere che non è connesso alla stimolazione sensibile, ma solo alla contemplazione della cosa, provo piacere per come è fatta. Perché percepisco nella cosa una forma di finalità rispetto a me, fatta perché mi piaccia, non riesco a non pensare che non ci sia un intelletto terzo che l’abbia fatta a posta così. Abbiamo l’impressione che il mondo sia fatto così per noi, ma non lo possiamo a]ermare. L’aspetto di finalità è dentro di noi, ma non è così (sono dei costrutti sociali). Quando vedo bello un oggetto ho la presunzione di pensare che tutti dovrebbero vederlo bello, i sensi hanno parte nella costruzione del piacere che provo, ma è dato principalmente dall’immaginazione. Libertà nella bellezza: la finalità senza scopo (Il bello naturale è una nostra attribuzione verso la natura. Abbiamo l’impressione che la rosa sia fatta per essere bella, se avessimo una spiegazione teologica del mondo, diremmo che Dio l’ha creata per farci godere dei frutti della natura.) La definizione [III]: “Bellezza è la forma percepita della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo”. Come potrà mai dirsi “senza scopo” la “conformità a uno scopo”? Ecco allora che la definizione [III] potrebbe tradursi provvisoriamente in questo modo: davvero bello è ciò che piace senza subordinare la contemplazione a fini utilitaristici. 9 Provare piacere per qualcosa in vista di uno scopo implica sempre un interesse eccentrico rispetto al puro giudizio di gusto. Kant propone anche una distinzione significativa all’interno dell’ambito del bello. La bellezza può essere di due tipi: libera o aderente. Vi son due specie di bellezza: la bellezza libera, la bellezza semplicemente aderente. La prima non presuppone alcun concetto di ciò che l’oggetto dev’essere; la seconda presuppone questo concetto, e la perfezione dell’oggetto alla stregua di esso. È vero che il bello è stato finora presentato come un piacere della natura essenzialmente aconcettuale: in questo senso una musica senza tema o senza testo, un arabesco, un disegno à la grecque in una cornice o in una tappezzeria, un fregio o]rono senz’altro modelli di bellezza libera. Anche un fiore può costituire un esempio di bellezza libera, quando sia oggetto di un puro apprezzamento di gusto, non so come dovrebbe essere fatto, non lo giudico in base alla sua funzione, la bellezza libera è priva di riferimenti, libera da preconcetti. Perciò esiste anche un altro tipo di bellezza, quella “aderente”, in cui una certa implicazione concettuale è essenziale alla costituzione stessa dell’esperienza del bello: la bellezza di un essere umano, la bellezza di un cavallo, di un edificio, presuppone un concetto di scopo che determina ciò che la cosa deve essere, e quindi un concetto della sua perfezione; ed è ciò la bellezza aderente. Per dire ad esempio che una chiesa è bella, dobbiamo sapere cos’è una chiesa, a cosa serve ecc. La bellezza aderente è in riferimento al concetto di come un oggetto dovrebbe essere. Es. giudico il cavallo bello perché so a cosa serve, conosco i suoi scopi. Utilizza un esempio naturalistico per non distinguere classi naturali e non naturali. Aggiunge che gli scopi per noi sono fondamentali. Usa anche esempi di edifici, una chiesa fatta come un arsenale non è una bella chiesa, un arsenale fatto come una chiesa non è un bell’arsenale. Non è una distinzione tra classi di oggetti, ci fa capire che ci sono modi diversi di giudicare uno stesso oggetto, non distingue l’oggetto. Modi e modi, luoghi e luoghi in cui si giudica lo stesso oggetto. La bellezza libera è pura, la bellezza aderenze non è pura, però può generare regole ed essere insegnata, un bel cavallo da trotto o da galoppo non sarà un bel cavallo da tiro. Tornando alla questione del “libero gioco”. Cosa significa che immaginazione e intelletto, quando ha luogo un apprezzamento estetico, intrattengono fra loro un rapporto non rigido, non schematizzato, cioè appunto libero? La definizione [II], stabiliva la non-concettualità del bello, per cui “Non si può dare alcuna regola oggettiva del gusto, che determini per mezzo di concetti che cosa sia il bello”. Ciononostante, ci sono prodotti che il gusto considera come “esemplari”, cioè modelli. Per realizzare concretamente qualcosa di bello non basta tuttavia imitarli. Piuttosto, bisogna capire in che senso e in che misura quegli esemplari finiscono per assumere un valore normativo. Kant vuole dire che un’intuizione singola assume funzione di regola del giudicare. In concreto, questa regola può coincidere con un modello trattato dall’esperienza; oppure a produrla può essere essenzialmente l’immaginazione. Importante, tuttavia, è comprendere che tali canoni non possono mai esaurire la legalità del bello. Non per nulla l’“ideale del bello” secondo il filosofo deve riguardare essenzialmente l’essere umano: solo ciò che ha in sé stesso lo scopo della sua esistenza, l’essere umano, il quale può determinare da sé i suoi fini mediante la ragione […]; l’essere umano, dunque, tra tutti degli oggetti determinati del mondo, è solo capace dell’ideale della bellezza, così come l’umanità nella sua persona, in quanto intelligenza, è essa sola capace dell’ideale della perfezione. Il che significa che da una parte solo l’essere umano è in grado di concepire l’ideale di bellezza, ma dall’altra solo l’essere umano è in grado di incarnare tale ideale. Denominatore comune tra le quattro definizioni del bello proposte da Kant, tutte quante cercano di definire il bello di un sentimento di libertà: libertà intesa come indipendenza da ogni interesse extra- estetico. I paragrafi 16 e 17 della Critica del giudizio sono stati oggetto di un saggio di Jacques Derrida, Il senza della cesura pura. “La terza Critica è tutta rivolta verso una paradigmatica del fiore. In quest’ultimo Kant cerca sempre l’indice di una bellezza naturale, del tutto selvatica, nella quale si riveli il senza-scopo o il senza-concetto della finalità”. 10 Ma che vuol dire, in fin dei conti, che la bellezza libera è priva di scopo? Per Derrida ciò significa che il bello kantiano è l’esperienza di “movimento orientato, finalizzato, armoniosamente organizzato in vista di un fine che, malgrado tutto, non è mai visto, di una estremità che manca. Solo questa interruzione assoluta, questa cesura pura, realizzata con un colpo netto produce il sentimento della bellezza”. Se il tulipano o la rosa sono belli, è insomma perché il fiore non manca di alcunché. “Ma non manca di nulla proprio perché manca di un fine”, ovvero è assoluto, prosciolto, separato: forma perfetta. Per contro possiamo avere a che fare con il ritrovamento archeologico di un arnese formato e mancante di un pezzo. Mentre questo arnese “è completo perché incompleto”, il fiore “è incompleto perché completo”. A]ermazione paradossale: l’arnese resta oggettivamente incompleto, ma un concetto può completarlo; sappiamo, ci accorgiamo che è privo di un pezzo. Invece “il senza scopo, il senza-perché del tulipano, non è un significante, non è neppure un significante della mancanza”. La distinzione fra bellezza libera e bellezza aderente non coincide a]atto con la distinzione fra natura e arte, le bellezze libere potranno poi essere di due tipi: naturali o artificiali. Com’è possibile che le produzioni artistiche ci appaiano come finalità senza scopo? Per Kant la bellezza artistica ma errante (libera) sarebbe “ogni organizzazione finalizzata che non significa nulla, non mostra nulla, che non rappresenta nulla, che è priva di tema e di testo”. Se la bellezza libera “istituisce un rapporto di non-rapporto col fine”, sarà allora la bellezza aderente a dirci qualcosa di più su che cosa sia bello per davvero. Critica del giudizio le aporie della bellezza assumono infine la forma di un’antinomia, ossia di un conflitto dialettico fra principi che paiono, singolarmente presi, entrami veritieri, salvo rivelarsi poi assolutamente inconciliabili fra loro. Kant, tuttavia, s’è detto aveva introdotto una novità: il bello non è forse una qualità conoscibile di un certo oggetto, ma il sentimento di piacere suscitato nel soggetto della rappresentazione di esso, una rappresentazione pura, cioè liberata dal desiderio di possesso e consumo, dall’interesse. In primo luogo, il quadro teoretico della Critica del giudizio va ancora pienamente ascritto alla cosiddetta “estetica dell’e]etto”, interessata fondamentalmente a definire l’e]etto dell’esperienza estetica sul fruitore. Non meno vero è tuttavia che la dimensione individuale del gusto si volge alla comunicabilità. In questa prospettiva il soggetto trascendentale fa i conti con la propria dimensione storica e politica, empiricamente determinata, e orientata verso un progressivo ra]inarsi del gusto. Rispetto alla cui storicità, un fenomeno come la moda non poteva lasciare indi]erente neppure un personaggio eccentrico come Kant. Egli invitava infatti a di]idare di chi si rifiutava di tener conto in assoluto della moda, poiché se è vero che aderirvi in modo piatto sarebbe rinunciare al proprio carattere e alla propria personalità, non meno vero è che respingerla del tutto sarebbe un pessimo segno: essere alla moda è una questione di gusto; chi è fuori moda […] si dice antiquato; chi non dà alcun valore all’essere fuori moda è un originale. Tuttavia, è sempre meglio essere stolti seguendo la moda che essere stolti standone fuori. In secondo luogo, per Kant il bello potava egualmente predicarsi in arte e natura. (L’estetica di Kant è naturale, si applica all’arte in seconda battuta). La natura può dirsi bella quando rivela una finalità che ha l’apparenza dell’arte, mentre l’arte può definirsi bella quando rivela nelle proprie forme l’apparente spontaneità della natura. Decisiva l’osservazione kantiana secondo cui “l’arte bella è l’arte del genio”, essendo quest’ultimo “la disposizione innata dell’animo” tramite cui “la natura dà la regola dell’arte”. Il genio è quella disposizione individuale in cui arte e natura per così dire si incontrano. Diviene allora evidente che, introducendo nella sua trattazione il genio, Kant favorisce il passaggio da un’estetica della ricezione a un’estetica del fare e della produzione artistica. Il Genio Nel film Amadeus di Miloš Forman è presente una scena nella quale il giovane Mozart umilia Salieri suonando meglio un brano scritto da quest’ultimo, dopo averlo sentito soltanto una volta. Mozart è un esempio del genio, Entriamo in contatto con la figura estetica del GENIO, la quale stabilisce un nuovo standard, cambiando le regole del gioco. La GENIALITÀ è quella potenza incontrollabile che non ce la si aspetta e stabilisce un nuovo standard, fa immediatamente invecchiare ciò che c’era prima. Stabilire uno standard fa parte del dibattito sulla normatività estetica, è una questione problematica. Il genio è il creatore, colui che è in grado di creare, di tenere insieme due elementi discontinui: novità e familiarità, facendo sì che ciò che è stato prodotto ci sembri corretto e piacevolmente fruibile. 11 Il genio è una figura venerata, presente in ogni epoca. È una figura ibrida, paragonabile ad un sacerdote, si frappone tra noi e il divino. Anche le figure del bambino, del folle e del selvaggio sono figure ibride, sono figure intermedie tra noi e la natura. Il bambino che gioca pone delle regole, ma lo fa per totale piacevolezza e libertà, all’inconscio del bambino accedo tramite il gioco. Il genio ha a che fare con le regole, è a contatto però con una parte irrazionale molto più di noi (genio e sregolatezza). Il genio non sa spiegare come si è o come si diventa dei geni, il tema dell’ispirazione. È qualcosa di animalesco. Il pubblico si abitua immediatamente al genio, è qualcosa che si impone. La produzione del genio per noi è come quando vediamo la produzione della natura (fiori ecc.), sta tra il divino e l’umano. Non sempre però il genio è capito subito da tutti (genio incompreso), sicuramente chi consce la materia lo percepisce prima. Il caos interiore è foriero (annunciatore/precorritore) di produzione quando trova un occhio che lo rispetta. Tutti possono diventare ottimi esecutori, ma non produttori. L’arte si stacca dall’artigianato quando entra in gioco la genialità. Nella Modernità c’è un cambiamento di interpretazione, se nell’epoca antica il genio era colui che era invasato da Dio, nella modernità il genio è chi è in contatto con il sentimento. Il sentimento e l’emozione sono elementi irriducibili alla razionalità umana. Le spiegazioni fisiologiche non dicono nulla a noi che stiamo provando un dato sentimento, poiché esso è irriducibile alla comprensione razionale. È una forma di verità che si sottrae dall’analisi concettuale. Per Kant il genio è un talento naturale, un dono che ci è dato. L’arte fa per lo spirito, quello che l’urlo fa per chi so]re. La Casa danzante di V. Milunić e F. Gehry è iconica e risveglia tante sensazioni. Figura 1 - La casa danzante - Vlado Milunić e Frank Gehry, 1992-1996 C’è una particolare facoltà mentale che è l’IMMAGINAZIONE, è ibrida tra sensibilità e intelletto (che sono facoltà rigide), c’è un rapporto quasi sensibile. Quando ricordiamo è un elemento quasi sensibile, quando progettiamo proiettiamo di fronte a noi un elemento quasi sensibile. L’immaginazione è una facoltà combinatoria, oscilla tra sensibilità e intelletto. Ogni discorso sull’intelligenza artificiale si scontra con la materia della produzione artistica. Felicità e gioia per la produzione di qualcosa di totalmente inutile, non possiamo simulare questa urgenza artistica. Nel Romanticismo viene elaborata quest’idea che il genio sia questo piacere inconscio. Per Kant il bello nella natura lo vediamo quando riconosciamo un senso di finalità, il fiore è fatto per piacermi (finalità senza scopo), sembra che ci sia un intelletto terzo che lo produce. L’arte però è prodotta da una persona che ha una finalità. Il Genio è il modo in cui Kant recupera questo senso di intelletto terzo che produce il bello. Vediamo l’agire del genio e lo vediamo agire in modo naturale. Se vedessimo didascalità non ci piacerebbe, l’opera dev’essere naturale, non deve far scoprire il “trucco”. Dobbiamo essere indotti a credere al verosimile, in modo naturale. Dev’essere creata con naturalezza. 12 Il fiore sembra fatto ad arte anche se non lo è, l’arte sembra naturale anche se non lo è. Critica del giudizio paragrafo 49 “Delle facoltà dell’animo che costituiscono il genio”. Ci sono delle qualità dei prodotti che noi riduciamo a una forma determinata. L’opera d’arte ci o]re delle immagini che noi non saturiamo mai. Il genio è in grado di usare le facoltà e creare regole in modo libero. Il prodotto del genio è libero, non è imitazione, tra ispirazione dal modo di fare. Originalità nell’esemplarità. Individuo che pone regole attraverso l’innovazione. Le idee estetiche per Kant sono un prodotto della ragione. Dio è un’idea per Kant, i problemi ci sono quando l’uomo vuole dimostrare Dio. L’intelletto deve avere dei confini. L’opera d’arte esibisce idee della ragione senza che si possano determinare. Le idee estetiche sono ciò attraverso cui l’immaginazione opera, sono associazioni. In terzo luogo, Kant pone le premesse per un elemento dal ruolo centrale nella filosofia hegeliana dell’arte, distinguendo fra idea e ideale. Terminologia che farà da sfondo al passaggio da un’“estetica dell’e]etto” a un’“estetica del reale”, ovvero da un’estetica intesa nel suo presunto senso etimologico a una filosofia della storia dell’arte. Sarà l’irruzione prepotente della storicità nella definizione stessa del bello. HEGEL (1770-1831) Dopo la morte di Hegel, nell’autunno del 1831, amici e allievi del filosofo si incaricarono di pubblicarne le lezioni: quelle di estetica vennero date alle stampe tra il 1835 e il 1838, a cura di Heinrich Gustav Hotho. Hotho aveva fuso assieme gli appunti raccolti da uditori dei vari corsi, ma non erano esenti da forzature. Solo negli ultimi decenni, il grande lavoro editoriale condotto sui quaderni degli uditori ha finalmente messo a disposizione degli studiosi una quantità notevole di materiali che restituiscono un’immagine più attenta allo sviluppo e alle sfumature delle lezioni hegeliane. I problemi testuali riguardano già quella che, per più di un secolo, è stata considerata come la definizione hegeliana della bellezza. Si legge nell’Estetica: Vera, infatti, è l’idea quale essa è pensata in quanto idea. […] Il bello si determina perciò come la parvenza sensibile dell’idea. In che senso l’idea vive ed esiste storicamente in forma di opera d’arte? Hegel o]re una definizione lapidaria di cosa egli intenda per “idea”: “All’idea in generale appartiene il concetto, la realtà del concetto e l’unità del concetto e della sua realtà”. Il focus si sposta dunque sul termine “concetto”. Se per Kant il termine concetto designa l’universale contrapposto alle sue varie e molteplici particolarizzazioni reali, per Hegel invece il concetto è l’unità germinare in cui si trovano tutti quei caratteri distinti che poi si dispiegano nella realtà e]ettiva di qualcosa. “Il concetto è il germoglio dell’albero, l’albero la realtà”. In sé, il germoglio contiene idealmente l’intero albero, con tutte le sue determinazioni in nuce. Lo spirito è libero, dunque, proprio perché deve realizzare il proprio concetto: la libertà per Hegel non è qualcosa di astratto, uno spazio assolutamente vuoto, né una scelta arbitraria fra alternative, bensì la concreta possibilità di dispiegare la propria realtà e]ettiva in conformità alla propria essenza. Quando poi “l’idea e la sua configurazione come realtà concreta siano rese compiutamente adeguate l’una all’altra”, ovvero quando l’idea risulti una “realtà configurata conformemente al suo concetto”, ecco infine sorgere “l’ideale”: “solo nell’arte più alta, l’idea e la sua ra]igurazione sono veramente corrispondenti l’una all’altra”. Bellezza altro non è, per Hegel, che la manifestazione dello spirito. “Il bello artistico sta più in alto della natura”, e addirittura “formalmente considerando, qualsiasi cattiva idea che venga all’uomo sta […] più in alto di qualunque prodotto della natura poiché in essa [l’idea] è sempre presente la spiritualità e la libertà”. Il punto dell’argomentazione di Hegel è che “la bellezza artistica è la bellezza generata e rigenerata dallo spirito”. Non significa certo che il lavoro che ha prodotto storicamente le opere d’arte sia stato sempre un lavoro libero. … la bella arte […] è soltanto una specie e un modo di portare a coscienza ed esprimere il divino, i più profondi interessi dell’uomo, le verità più ampie dello spirito. Nelle opere d’arte i popoli hanno risposto le loro concezioni e rappresentazioni interne più valide. Ma che cosa significa che l’arte bella deve esprimere il divino, portarlo a coscienza? Non è forse questa un’istanza contraddittoria, rispetto all’idea secondo cui essa sarebbe libera? Tale concezione ha proprio il merito di a]rontare la questione dell’apparire sensibile dell’idea in modo del tutto immanente ai suoi prodotti storici, ossia appunto restituendo concretezza alla vita dello spirito. L’argomentare hegeliano si sviluppa in due fasi. 13 1. Concepire l’apparenza come il contrario della verità significa passare in modo unilaterale. Lungo dall’essere il contrario della verità, l’apparenza è anzi la sua condizione imprescindibile: la verità non sarebbe se non apparisse, cioè se non si manifestasse storicamente. “Ogni verità deve apparire, per non essere vuota astrazione”. 2. Quanto alla possibile dimensione di inganno recondita nell’apparenza bella dell’arte, si tratta di assumere l’obiezione condotta da Platone del libro X della Repubblica e di portarla fino alle estreme conseguenze, tanto da rovesciarla nei suoi termini essenziali. L’arte vera, l’arte bella, non mira a]atto a simulare la realtà empirica: e questo semmai è propri quest’ultima a consistere essenzialmente in inganno e illusione. Il compito dello sguardo filosofico, a partire dalla figura iniziale della Fenomenologia (la “certezza sensibile”), è proprio questa comprensione scientifica che insegna a di]idare di ogni assoluta immediatezza. Il bello non è che la maniera con cui lo spirito si esterna nel mondo sensibile in modo da superare l’unilateralità. Hegel prova un sostanziale disinteresse nei confronti del bello naturale, a lui sta a cuore il significato spirituale di una filosofia (della storia) dell’arte. “Le cose naturali sono soltanto, sono solo semplicemente, solo una volta e basta. Invece l’uomo come coscienza si raddoppia, è una prima volta, e poi è per sé: ed è proprio nello spazio aperto da questo raddoppiamento che lo spirito può esprimersi nella sua libertà”. Lo sviluppo dell’ideale dà così luogo alle diverse forme che l’arte assume nella storia: Arte simbolica, produzioni architettoniche dell’Oriente e dell’Egitto antichi, nelle quali il contenuto spirituale non riesce a manifestarsi compiutamente in forma sensibile; Arte classica, greca, ove interno ed esterno, contenuto e forma risultano perfettamente adeguati l’uno all’altro; Arte romanica o cristiana, nella quale la forma sensibile, in ragione della sua finitezza, non è più in grado di esprimere in maniera adeguata un contenuto spirituale infinito. Tale successione storica di epoche e generi artistici corrisponde alla certezza, da parte di Hegel, che forme e configurazioni del bello “non sono a]idate al semplice caso”. Un’a]ermazione che spiega anche il senso profondo del classicismo di cui è intrisa l’estetica hegeliana. Nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio si legge che “vere opere d’arte sono soltanto quelle in cui il contenuto e la forma mostrano di essere assolutamente identici”; e questo perché il “rapporto assoluto tra contenuto e forma è Il rovesciarsi dell’uno nell’altra e viceversa, in modo che il contenuto non è altro che il rovesciarsi della forma in contenuto, e la forma non è altro che il rovesciarsi del contenuto in forma. Di quale “contenuto” si parla dunque qui? La bellezza è segno della connessione della forma artistica con la verità spirituale, ossia con il divino: è irripetibile nella modernità cristiana. È per questo che, per Hegel, l’arte classica esprime l’essenza dell’arte in generale. Quando la libertà spirituale, per manifestarsi adeguatamente, sceglie altre modalità per giungere alla coscienza di sé e sapersi appunto come libera, i tempi sono ormai maturi per altre forme di “spirito assoluto”. Ciò non implica ovviamente che non ci sia più posto per l’arte nella spiritualità umana bensì che il destino dell’arte si separa da quello della bellezza. Com’è possibile che quella compiuta perfezione nutrisse entro di sé il germe della scissione e della frattura? Hölderlin Friedrich Hölderlin, compagno di studi di Hegel, aveva del resto argomentato che bisogna intendere il classico non come perfezione naturale collocata all’origine, bensì come cultura, prodotto di un travaglio che dai popoli orientali è giunto fino agli elleni. La bellezza che caratterizzava il mondo greco, con la sua natura e la sua esperienza del sacro non è più possibile. Cristo ha, ultimo nel corteo delle divinità, assunto forma umana e “chiuso” il convito celeste. La sua parola ha portato consolazione: ma dal momento della sua scomparsa, è cominciata per noi la sera. Noi (noi moderni) veniamo troppo tardi. L’esperienza della pienezza divina è consentita solo per brevi tratti di tempo. Ecco perché i poeti, nel tempo della privazione e della povertà, dovranno come i sacerdoti essere custodi della memoria di tutto questo. Almeno fino a quando non potrà nascere finalmente davvero una nuova generazione di eroi. Ma ha davvero anche solo senso sperare in una nuova stirpe eroica? Guardando al passato, la coscienza moderna non può che constatare la perdita irrimediabile di un’epoca in cui l’arte e la bellezza erano tutt’uno e si o]rivano insieme come frutti maturi. 14 … Così il destino, con le opere di quell’arte, non ci rende il loro mondo, non ci dà la primavera e l’estate della vita etica, in cui esse erano fiorite e maturate, ma unicamente il velato ricordo di questa realtà eeettiva. Nel descrivere un mondo in cui per la bellezza perfetta non c’è più posto Hegel, tuttavia, non sposa in pieno l’ideale nostalgico ed elegiaco di Hölderlin. Sancisce la certezza della fine del nesso fra verità, sacro e bellezza. Nell’Estetica ciò è ribadito in modo perentorio: Quest’epoca è la nostra. Si può, sì, sperare che l’arte s’innalzi e si perfezioni sempre di più, ma la sua forma ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito. E per quanto possiamo trovare eccellenti le immagini degli dèi greci, e vedere degnamente e perfettamente raeigurati il Padreterno, Cristo e Maria; tuttavia, questo non basta più a farci inginocchiare. Alla diagnosi hegeliana va riconosciuto un duplice merito: 1. Essa ci ricorda che è sempre piuttosto improbabile, per chi abbia una sensibilità storica sulla questione del bello, pretendere di resuscitare artificialmente quella pienezza ormai perdura di cui si avverte la nostalgia. 2. Ci fa riflettere meglio sulle ragioni per cui non solo in ambito di filosofia analitica del linguaggio, ma anche presso gli storici delle idee estetiche, il termine bello, quando indichi l’oggetto di un apprezzamento immediato, può suonare equivoco e impreciso. La tentazione di un ritorno alla bellezza classica in quanto tale può rimanere comunque seducente. Il Brutto Altri autori avrebbero in seguito rivendicato la necessità di una presa di congedo da ciò che per il presente appare irraggiungibile e improponibile: il bello ideale. Si assiste così, nell’ambito delle estetiche post- hegeliane, alla prepotente a]ermazione della categoria del “brutto”, la quale al cospetto della realtà presente pare assai più adeguata del bello a esprimere contenuti, prodotti, atmosfere paesaggi della modernità urbana. Ed ecco che in un mondo in cui la bellezza si riduce a oggetto d’uno sguardo nostalgico verso ciò che è ormai perduto. Com’è possibile che la riproduzione di elementi ripugnanti crei piacere? Aristotele Tale quesito si può trovare nelle parole di Aristotele, in riferimento alla tragedia. La domanda fa riferimento al potere dell’immagine del MODIFICARE LA PERCEZIONE DELL’EVENTO. Il potere di reinventare la realtà secondo un paradigma di trasformazione. La capacità dell’immagine di restituire il valore della realtà. ARISTOTELE dice che della tragedia ammiriamo la tecnica dell’artista nel restituire la scena, noi non abbiamo una fruizione solamente intellettuale come questa. Se pensiamo a Balkan Baroque di Marina Abramovic è di]icile pensare che il nostro essere a]ascinati sia dovuto alle sue capacità tecniche. Brutto e orrido devono subire una trasformazione da parte dell’artista per farcele trovare interessanti. Stanotte e per sempre di Luttazzi, un racconto di genere grottesco di un incubo in cui Andreotti sogna di penetrare sessualmente i fori di proiettile che uccisero Aldo Moro, eleva un contenuto molto basso con un linguaggio aulico. Il brutto è all’interno di un’esperienza estetica perché lo possiamo elevare e quindi estetizzare. Il disgusto è una delle culturalizzazioni più forti che proviamo. Mendelssohn distingue rappresentazione e oggetto. In determinati momenti ci auguriamo di avere presso di noi la rappresentazione non l’oggetto. Ci auguriamo che il male non sia avvenuto, ma se è avvenuto noi vogliamo (siamo fortemente attirati a) vedere le immagini. Mendelssohn si riferisce ai drammi luttuosi teatrali. Per la nostra percezione si può trasportare all’esempio di immagini di guerre che noi ricerchiamo. Il brutto è un sentimento misto: insoddisfazione nei confronti dell’oggetto, ma soddisfazione per la sua rappresentazione. 15 Se l’oggetto rappresentato ci tocca troppo da vicino proviamo meno piacere. Winckelmann (1717 - 1768) Per lui i greci hanno idealizzato la natura poiché in quella natura ci vivevano. Noi non viviamo più in quella natura e dobbiamo ispirarci a chi ha idealizzato quella natura. Noi proiettiamo nel mondo antico quello che abbiamo perso. Per W. l’arte classica si basa sull’esposizione della quiete. E spiega ciò attraverso il gruppo scultoreo Laooconte e i suoi figli, per questo è convincente. Laooconte è inquieta tempesta (dolorante), ma un dolore composto, la sua espressione è quieta. “Nobile semplicità e quieta grandezza” descrive così l’arte classica. Lessing (1729 – 1781) Per L. si deve indagare sui mezzi espressivi Nella scultura, arte plastica, si dovrebbe rappresentare Laocoonte che grida e questo è insopportabile. Nella poesia l’atto di gridare è sopportabile perché temporalizzato. Il brutto ha una legittimità estetica se è espresso nell’arte letteraria (poesia/poetica) e non nell’arte visiva Il mondo letterario è lo spazio in cui la dimensione dell’orrido trova spazio molto presto. Il tema del brutto era già del resto emerso nello stesso Hegel: perfino alla rappresentazione della passione e morte di Cristo mostra che l’a]ermarsi del divino e dello spirituale deve ormai passare attraverso l’espressione figurale del dolore, della so]erenza, della crudeltà: Non si può raeigurare nelle forme della bellezza greca Cristo flagellato, coronato di spine, trascinante la croce fino al luogo del supplizio, crocifisso, agonizzante nei tormenti di una lunga e martoriata agonia. Ma la superiorità di queste situazioni è data dalla santità in sé, dalla profondità dell’intimo, dall’infinità del dolore come momento eterno dello spirito della rassegnazione e dalla calma divina. Proprio il lavoro dello spirito, la sia inqueta lotta contro il negativo, ha mostrato che il “classico” non è a]atto la forma canonica di una bellezza senza tempo, bensì il risultato di un divenire storico. Crocifissione di Grünewald (1512-1516) Nelle mani di Cristo si vede il principio del rigor mortis, nell’addome e nel ventre le ferite. Elemento fondamentale è la “natura morta” su Cristo, la carne che marcisce. La modernità stava già cavando un germine del brutto. La possibilità che il brutto assuma valore positivo è dovuta all’autonomizzazione dell’estetica, la quale si stacca dalla religione e il brutto prende valore. (Una Carogna di Baudelaire, estetizzazione del brutto) Tra ‘700 e ‘800 si spezza la concezione che finora aveva dominato le categorie estetiche, quella per la quale bello era sinonimo di piacevole. Si iniziava a pensare di poter trovare una fonte di piacere anche nel brutto (es. estetica horror). Al giorno d’oggi sembra più complesso estetizzare il bello. Nel 1853 viene pubblicata Estetica del brutto dell’hegeliano Karl Rosenkranz. Proprio in quanto negazione della libertà spirituale che giunge a manifestarsi nella bellezza, al brutto spetta ora il diritto di trattazione scientifica non solo come categoria estetica autonoma, ma come concetto chiave per ogni futura comprensione della stessa dialettica della bellezza: … il brutto è inseparabile dal concetto di bello: quest’ultimo lo contiene costantemente nel suo sviluppo come quell’errore in sé in cui si può cadere con un troppo o un poco, spesso esigui. Questione decisiva della Fenomenologia dello spirito, al capitolo sesto dedicato alla “bella eticità” greca e al suo “spirito vero”. Nel contesto della Fenomenologia l’origine e la funzione del tragico e la conciliazione della bella eticità mi pare non abbiano a che vedere né con una perentoria e reazionaria naturalizzazione del ruolo di genere, nel rapporto tra il maschio e la femmina, né con una presunta riduzione storico-politica del contrasto fra Creonte (lo stato) e Antigone (la famiglia) in una unità superiore per cui per così dire la cellula e l’organismo individuale dovrebbero stare in armonia e non in opposizione all’interno della totalità organica. Le pagine della Fenomenologia dedicate alla trattazione dello “spirito vero”, procedono alla trattazione dialettica dell’etico individuando all’origine della scissione che determinerà la fine della bella eticità greca due momenti 16 contrapposti: la legge divina, che si realizza nella donna e ha il suo luogo nella sfera familiare, e la legge umana, che si realizza nell’uomo e ha il proprio ambito nella sfera politica. La dialettica dell’etico esposta da Hegel nella Fenomenologia dello spirito o]re le premesse teoriche per rovesciare il punto di vista anticlassico, secondo cui la bellezza ideale sarebbe destinata a un inevitabile invecchiamento e a un più o meno auspicabile oblio. È proprio quando giunge a conclusione lo “spirito vero” che ha inizio per Hegel il cammino storico della “cultura”: la quale, in quanto processo di “formazione”, altro non è che la storia delle configurazioni assunte dal lavoro dello spirito che ha prodotto la civiltà occidentale. MARX (1818-1883) György Lukács (1885-1971) a]ermava che l’estetica hegeliana costituisce il “punto più alto raggiunto dal pensiero borghese, dalle tradizioni borghesi progressiste”. Nella natura dialettica del classicismo hegeliano, per il quale “nulla c’è né ci potrà mai essere di più bello” dell’antichità greca, sembra così emergere una chance inaspettata. A scorgerla è stato Karl Marx, e il testo in questione è l’Introduzione a Per la critica dell’economia politica (1857), che dovremmo ora prendere parzialmente in esame. Nella successiva Prefazione a questo testo, Marx o]re una presentazione del “filo conduttore” che guidava il suo lavoro scientifico: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari […]. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società […]. Il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Secondo Marx il tema della bellezza va collocato tra le “forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche”: ambiti tutti nella cui trattazione scientifica sarebbe metodologicamente scorretto esigere “l’esattezza propria delle scienze naturali”. A ciò si aggiunga che è lo studio delle specie superiori a permettere di comprendere meglio certi aspetti e certe funzioni di quelle inferiori, così è la società borghese a fornire “la chiave” per la comprensione di quella antica. Questo significa che i due poli (nel caso che interessa a noi, moderno e antico) si definiscono solo assieme (il moderno come il non-più dell’antico e l’antico come il non-ancora del moderno). Se si guardasse solo alla relazione struttura/sovrastruttura, a determinati rapporti di produzione dovrebbe quantomeno corrispondere il progressivo ra]inarsi di un certo modo di concepire anche il gusto. La moderna società borghese dovrebbe aver preso congedo dall’ideale della bellezza come forma ideologica legata a un grado di sviluppo ormai consegnato al passato. La visione della natura e dei rapporti sociali che sta alla base della fantasia greca, e quindi della [mitologia] greca, è possibile con le filatrici automatiche, le ferrovie, le locomotive e i telegrafi elettrici? Il punto è che la bellezza dell’arte classica, pur legata come ogni sovrastruttura al proprio contesto storico di produzione, fatica oggettivamente a dismettere il proprio statuto ideale: La dieicoltà sta nel fatto che essi suscitano tuttora in noi un godimento artistico e in un certo senso sono ancora considerati norma e modelli ineguagliabili. Se tutte le manifestazioni della bellezza classica continuano, nonostante tutto, a sembrarci belle, ciò accade perché ci rendiamo conto che essere continuano a valere per noi come paradigmi assoluti di bellezza. Dal punto di vista dialettico non ci si può lasciar sedurre da un passato rispetto al quale le condizioni sociali sono ormai del tutto mutate. Tutto sta insomma a capire in che cosa consista la riproduzione “a un livello più elevato” non già di opere un tempo belle, nella loro natura di cose, bensì della verità di quella bellezza insieme viva e perduta. Il suo ideale ritrova il criterio del bello ancora una volta nella corrispondenza di esso con un’esperienza di libertà: una dimensione in cui il lavoro si sottragga dall’alienazione, per consentire all’essere umano di realizzare la propria natura e divenire pienamente consapevole della propria dignità. ADORNO (1903 – 1969) Nella prospettiva di Theodor Wiesengrund Adorno, alla categoria del bello spettano un ruolo e una collocazione tutt’altro che semplice da decifrare. Minima moralia (1951): 17 … e non c’è più bellezza e confronto se non nello sguardo che fissa l’orrore. Se da una parte l’abbandono della vita ferita, nella consapevolezza dell’impossibilità di qualsiasi redenzione, implica comunque il suo tradimento in quanto le nega dignità e significato, dall’altra anche ogni gesto volto alla salvaguardia di essa finisce per ribaltarsi nel contrario, cioè in un tradimento e]ettivo della sua dolente realtà. Qualunque forma sembra irrimediabilmente compromessa anche alle leggi del consumo e con la falsità dell’industria culturale. In un saggio del 1967, È serena l’arte? si legge: L’arte, che non è più aeatto possibile se non riflessa, deve da sé rinunciare alla serenità. Ve la costringono innanzitutto gli avvenimenti più recenti. Il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz […] non ci si può più immaginare un’arte serena. Essa degenera obiettivamente in cinismo. La separazione della bellezza dal destino dell’arte suggerisce di estendere al tema del bello ciò che Adorno, nella postuma Teoria estetica, a]erma a proposito dell’arte: come l’arte, infatti, anche la bellezza, “deve andare al di là del suo stesso concetto per restargli fedele”. La nozione di bellezza assume una valenza duplice. Da una parte, “bello” è un aggettivo di cui di]idare, proprio perché rivela una troppo facile disponibilità a conciliarsi con l’abominio. Perché un’idea di bellezza intesa come compiutezza formare semplicemente non è all’altezza del presente. D’altra parte “come il bello non va definito, così non si può rinunciare al suo concetto, una stretta antinomia”. Bisogna parlare di una bellezza oltre la bellezza. Adorno ribadisce “solo il dissolversi motivato e concreto delle categorie estetiche correnti è ciò che resta come forma d’un estetica attuale”. Si delinea così un primo movimento dialettico in cui il bello deve rinunciare alla propria determinazione formale assegnatagli alla tradizione. La duplice conseguenza di questo movimento dialettico: 1. A derivarne è la necessità di prendere un congedo dal classicismo, in ogni suo manifestarsi, per la ragione profonda che esso rende possibile una forma più o meno subdola di occultamento delle barbarie: La barbarie reale dell’antichità: schiavitù, sterminio, disprezzo della vita umana, fin dal tempo della classicità attica ha lasciato poche tracce nell’arte; che questa sia rimasta integra, addirittura anche in “culture barbariche”, non è un suo titolo d’onore. 2. Ne consegue la necessità che sia lo stesso concetto del bello a far getto di sé, prendendosi carico della propria negazione, e quindi disponendosi ad assumere al proprio interno il suo stesso contrario, cioè il brutto: “nell’assorbimento del brutto la bellezza è su]icientemente forte da ampliarsi grazie alla propria contraddizione”. Con un secondo movimento dialettico, si tratta di andare ancora oltre Hegel e il suo classicismo estetico, pur rimanendogli fedele almeno in un punto: nel ritenere cioè che un supplemento di riflessione sia indispensabile rispetto a ogni ostentazione della mera forma. Nella prospettiva adorniana tramite cui la presa di congedo hegeliana dal bello naturale viene a sua volta ribaltata, in nome di una riabilitazione dialettica di esso. Secondo Adorno, concetti propriamente umanistici, quali quelli di libertà e dignità umana, che sono alla base della preferenza hegeliana per una filosofia del bello intesa come filosofia del bello intesa come filosofia della storia dell’arte, secondo Adorno non hanno fatto che legittimare l’“usurpazione”, la manipolazione del reale. Di qui l’esigenza di “venir fuori” da un’identità spirituale. Questo “uscire fuori” deve partire da una diversa disposizione nel considerare il rapporto fra natura e storia e fra arte e natura. La prima mossa nel riconoscere il carattere storico che è implicito nella stessa nozione di bello naturale. Il bello naturale ha un fondamento storico; bello naturale e bello artistico sono infatti uniti in un intreccio pressoché indissolubile. “Senza memoria storica non ci sarebbe alcunché di bello” a]erma Adorno. Il Sublime Prima del ‘700 mancava una nozione, un concetto, quello di PAESAGGIO PAESAGGIO come concetto culturale, da ammirare e preservare 18 Foto di Reinhold Messner sulla Cima dell’Everest in solitaria e senza ossigeno il 20 agosto 1980 Da posti come questo si scappava, non li si ricercava (vette, abissi, vulcani…) Frequentare posti inospitali evoca un sentimento estetico preciso: il SUBLIME In immagini come il Viandante sul mare di nebbia di Friedrich, tra i quadri più importanti e potenti, si sedimenta il sublime. L’uomo inizia ad interessarsi a luoghi che potrebbero ucciderlo. Iniziano nel ‘700 le spedizioni, ad esempio alle Piramidi egizie. Ci si trovava in un mondo abbandonato da Dio, ma che credeva nel progresso. Siamo nell’epoca della Rivoluzione francese, che è un momento storico fondamentale (entra in vigore il sistema metrico decimale). Il mondo si trova a dover sopperire alla mancanza di norme dato lo spaesamento collettivo. “L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso” – Kant Nel SUBLIME, nella potenzialità della distruzione, l’uomo scopre la dignità, scopre di avere senso davanti a questo baratro. La pace e la tranquillità appartengono al bello. Dalla categoria del sublime derivano tutte le categorie negative dell’estetica, che oggigiorno sono anche più importanti del bello. Ora come ora del bello se ne occupa solo la neoestetica, poiché il bello fa fatica ad esistere con la filosofia dell’arte contemporanea. Nel postmoderno ci si occupa di tecnologia e sublime. Il termine SUBLIME nasce prima del ‘700 ed inizialmente è un aggettivo e significa altissimo, deriva dal greco hypsous. [Nonumento di Andrea Pinotti] Il trattato sul sublime Peri hypsous di autore anonimo del I sec d.C. parla di retorica e confronta gli stili teorici. Il trattato viene valorizzato in epoca moderna dopo la traduzione dell’umanista Francesco Robortello nel ‘500. Torna in voga perché iniziano ad esserci forme artistiche che indugiano sul macabro. Ci si domanda come mai proviamo piacere di fronte alle tragedie (greche). Lo stile narrativo sublime eleva anche ciò che è orribile, nobilita anche ciò che condurrebbe al dispiacere. Il passo decisivo per la sistematizzazione del sublime è: Un'indagine filosofica sull'origine delle nostre idee di Sublime e Bello di Edmund Burke Il bello ci pacifica, mentre il sublime è l’oscurità, con la quale l’essere umano non ha una totale cordialità. Per Burke: “Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del Sublime... è ciò che produce la più forte emozione che l'anima sia capace di sentire". Questo concetto deriva da Lucrezio che con la metafora del Naufragio di Epicuro spiega come sia piacevole guardare da terra il mare in tempesta, mentre una barca a]onda. È piacevole finché non siamo noi ad essere coinvolti, siamo rallegrati di non essere parte di questa disgrazia. Il SUBLIME è quando proviamo un sentimento di piacere nell’essere salvi di fronte alla disgrazia, dato dallo spirito di auto-conservazione. In realtà la parola SUBLIME ha anche una derivazione latina sublimen che significa “sotto il limite massimo” oppure “salire in obliquo”. KANT “Ma questa terra è un’isola, chiusa dalla natura entro i confini immutabili. E la terra della verità, circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza, dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo trattengono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e alle quali non può mai venire a capo”. Nella Critica della ragion pura dice che gli errori della metafisica sono tutti quelli che varcano i confini dell’intelletto. Anima, Dio e Mondo sono idee metafisiche che non possiamo seguire con la conoscenza. 19 “[…] il sentimento del sublime è un piacere che sorge solo indirettamente, cioè in modo tale che è prodotto dal senso di un impedimento momentaneo delle forze vitali e dell’eeusione che segue immediatamente tanto più forte di questa e di conseguenza, in quanto emozione, sembra essere non un gioco, ma qualcosa di serio nell’attività della forza di immaginazione”. Piacere negativo che deriva dal rispetto SUBLIME MATEMATICO: deriva da qualcosa di talmente grande che non riusciamo a capirlo concretamente (es. l’infinito, serie di numeri matematici), non riusciamo a farcene un’immagine, ma lo capiamo. Questa asimmetria produce il sublime. Frustrazione della nostra coscienza sensibile, proviamo piacere dal sovrasensibile. L’incapacità dell’immaginazione ci fa capire che ci sono altre facoltà. SUBLIME DINAMICO: si prova di fronte alla potenza della natura. Percepiamo di essere indipendenti dalla natura, immaginiamo la nostra resistenza. Il nostro vano sforzo di esistere di fronte a certi fenomeni della natura ce ne distacca, ma ci collega a qualcosa di sovrasensibile. Nel vedere il nostro potenziale annientamento e nell’immaginare di poter resistere contempliamo qualcosa di superiore. In Gli Iperoggetti Timothy Morton a]erma che “per Kant l’esperienza estetica si risolve in un accordo”, MA c’è tutta la “parte del sublime” che nasce da uno squilibrio/disaccordo. Nonostante la frustrazione del non percepire in modo sensibile (es. l’infinito) c’è un contromovimento che ci eleva al sublime. Quando vediamo ciò che potrebbe distruggerci noi ci comprendiamo come esseri soprasensibili (non vuol dire che lo siamo, ma ci comprendiamo così). L’esperienza estetica è fonte di un accordo, ma anche di un forte disaccordo. Il Disgusto (Prof.essa Serena Feloj) Il disgusto è la categoria estetica negativa per eccellenza, nell’estetica della fruizione (prospettiva del fruitore, sentimento del fruitore) Nel 1750 data di pubblicazione di Aesthetica di Baumgarten nasce l’estetica. AUTORI PRINCIPALI DELLA LEZIONE: Kant, M. Mendelssohn (anni 50 del ‘700, esponente dell’illuminismo ebraico tedesco) e Lessing (autore di Laooconte) Perché proviamo piacere per spettacoli negativi (tipo tragedie)? Il disgusto nel ‘700 era l’opposto del bello. Era considerato come un estremo dispiacere. Il disgusto secondo Kant compare come sentimento corporale, reazione fisiologica che si impone sul corpo ed ha a che fare con la vita. Si impone sull’intero sistema dei nervi. Non ci possiamo controllare di fronte al disgusto, non riusciamo a razionalizzare, non possiamo assimilare l’oggetto del disgusto, c’è un deciso rifiuto, speriamo si tolga dalla nostra vista. Vicinanza non desiderata, opposto del desiderio. Termine tedesco ekel indica sia disgusto che nausea. È un termine che ha a che fare con l’appetito. Se siamo nauseati, non vogliamo neanche vedere l’oggetto. Mendelssohn dice che, analogicamente, alla sensazione di nausea che si prova quando si abusa di un cibo troppo dolce, anche abusare della vista di un oggetto troppo bello e puro ci nausea. Per far si che questo non accada dobbiamo sempre mescolare il piacere con una punta di dispiacere (sentimenti misti). Rimandiamo quella soddisfazione all’infinito, perché non si compia mai. Prima duplicità: CONSCIO/INCONSCIO. Siamo coscienti quando proviamo disgusto. Però ci assale inaspettatamente e quindi sembra lavorare per impulsi e che quindi sia inconscio. Seconda duplicità: NATURA/CULTURA. Sembra avere a che fare con la natura, il nostro corpo, le nostre razioni fisiologiche. Il disgusto ha anche un forte carattere culturale, la cultura vuole tenerla fuori. Per Kant, nel ‘700, il gusto è da un lato un tratto universale e dall’altro un elemento di di]erenziazione sociale. Duplicità nella sua relazione con il bello. Per Mendelssohn è ciò che deve essere allontanato. La bellezza nel troppo puro corre il rischio di rovesciarsi nel suo contrario. Il disgusto è puro dispiacere, ma il confine tra piacere e dispiacere è molto sottile. Per Freud c’è una strana forma di attrazione nel disgusto. 20 Perché siamo attirati da spettacoli orrendi? Siamo disgustati se l’oggetto è reale, se ci dicono che è finto la nostra reazione finisce. Problema della rappresentatività: posso rappresentare il disgustoso? KANT Critica del giudizio, 1790, paragrafo 48 Il brutto può essere rappresentato dalle arti belle, ma è il brutto viene annullato dalla bellezza artistica. Il disgusto non può essere riportato alla rappresentazione artistica. Se considero l’oggetto reale sarò pervaso dal disgusto, se valuto la tecnica il disgusto non sarà presente. Per Kant si pone un out-out, o sono disgustato, o la considero una rappresentazione artistica. Problema dell’irrappresentabilità del disgusto. Dobbiamo tenere distinti disgusto e disgustoso. L’arte non è capace di dare al fruitore il sentimento del disgusto. Però può rappresentare oggetti disgustosi, e dare una sensazione di disgusto estetico. Un sentimento su due livelli diversi, lo abbiamo “addomesticato” (come sostiene Freud), addomesticato all’arte. È solo quantitativamente diversa, ma è la stessa sensazione. Cosa succede quando abbiamo a che fare con l’arte contemporanea? Si utilizza molto la rappresentazione del disgustoso (che sia solo per scandalizzare o per richiami morali). L’arte contemporanea utilizza parti di corpi, elementi corporei (come secrezioni), tende così a disfare i divieti posti dal ‘700. Come la rappresentazione all’interno dei corpi, per Winckelmann si rappresenta solo la pelle, non si deve alludere a ciò che sta sotto (si riferiva principalmente alla statuaria). Questa rappresentazione del disgustoso allarga le maglie ed è da domandarsi se c’è ancora bisogno della distinzione tra disgustoso fisiologico ed estetico. Se non ci fossero state le regole del ‘700 non sarebbe stato interessante trasgredirle. Opere di Damien Hirst come lo squalo in formaldeide o Il cimitero delle mosche Figura 2 - The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living ("squalo in formaldeide") - Damien Hirst, 1991 21 Figura 3 - The Last Judjement ("il cimitero delle mosche") - Damien Hirst, 2002 Sembra che il medium artistico anche nell’arte contemporanea svolga il suo compito di “addomesticamento” del disgusto. Dopo opere scabrose come quelle di Hermann Nitsch, che hanno al loro interno animali squartati in diretta (come un’opera teatrale) e con il logo sangue si dipinge una tela. O Balkan Baroque di Marina Abramovic, è ancora possibile la distinzione? Figura 4 - Hermann Nitsch, Schüttbild (action painting), 20th painting action, Secession Vienna 1987. 22 FREUD Il disagio della civiltà Impulso della sessualità e impulso dell’aggressività L’allontanamento dagli impulsi originari nell’uomo civilizzato avviene tramite l’insegnamento di barriere, il disgusto è una di quelle (tra le più forti). Garantisce il progredire della civiltà (anche in Darwin è un sentimento funzionale all’evoluzione). Sottolinea però l’ambiguità del disgusto, siamo attratti dal ritorno a questi impulsi. È una barriera che viene alzata e non si può superare, se lo si vuole (il superamento) si ricade nella perversione. Rifiuto dell’animalità dell’Io originario. L’arte è l’unico modo che la civiltà ha per tornare in contatto con l’Io originario senza incappare nelle perversioni. Rappresentazioni estreme possono aderire a questa spiegazione, sono rese sopportabili dalla barriera dell’artistico. Il Gusto e il rapporto con la critica Il critico sarebbe colui che ha la funzione di aiutare il pubblico a capire perché un’opera meriti o non meriti (dalla metà del ‘700). La recensione riguarda, non l’oggetto, ma noi stessi. Cioè certifico me stesso in primis, è un modo per continuare il godimento della partecipazione. Se la mia recensione è negativa è per dimostrare di essere eccezionale. Se è positiva, per condividere di aver fatto una cosa felice insieme ad altre persone. La critica entra pesantemente in crisi con le bolle. ??? Ogni consumo è una spesa di capitale culturale - Bourdieu Nel critico ci si aspettava di trovare un riscontro dei nostri gusti, sapendo che lui sa di più di noi. Il critico dovrebbe aver sempre chiari i riferimenti ed aiutare a ricomporre il quadro, per cui parlare di sé stessi non è critica (la propria gioia ecc. non è rilevante) La critica del ‘900 è il proseguimento di un fatto storico. È sembrato diverso ad un certo punto dover spiegare le opere d’arte. Si passa dalla Creazione di Adamo di Michelangelo a Olympia di Manet. La Creazione di Adamo ra]igura un nudo senza connotazione erotica. Mentre Olympia ra]igura un nudo che ha qualcosa di erotizzato, non è un corpo plastico, è molle. Il collare, le scarpe e lo sguardo sono erotici. L’

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