Profarmaci e farmaci ipolipemizzanti PDF

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Questo documento tratta i profarmaci come intermedi per migliorare la solubilità in acqua dei farmaci, e approfondisce l'argomento dei farmaci ipolipemizzanti, concentrandosi sulle iperlipidemie e sulle lipoproteine, includendo le statine come terapia di scelta. Sono descritti i meccanismi di azione e gli effetti collaterali.

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Profarmaci come mezzo per migliorare la solubilità in acqua I profarmaci sono utilizzati anche per migliorare la solubilità in acqua dei farmaci. Ciò è particolarmente utile per i farmaci somministrati per via endovenosa. Per esempio, è stata migliorata la solubilità in acqua del cloramfenicolo der...

Profarmaci come mezzo per migliorare la solubilità in acqua I profarmaci sono utilizzati anche per migliorare la solubilità in acqua dei farmaci. Ciò è particolarmente utile per i farmaci somministrati per via endovenosa. Per esempio, è stata migliorata la solubilità in acqua del cloramfenicolo derivatizzando questo antibiotico nella forma di emiestere succinico, che si giova della presenza di un gruppo carbossilico addizionale. Una volta idrolizzato, l’estere rilascia il cloramfenicolo e l’acido succinico. Questi profarmaci si sono dimostrati utili anche nel prevenire il dolore associato alle iniezioni di farmaci caratterizzati da scarsa solubilità nel sito di iniezione. Per esempio, la clindamicina provoca dolore se somministrata per via parenterale, ma l’uso del suo estere fosforico evita il dolore. FARMACI IPOLIPIDEMIZZANTI Iperlipoproteinemie e malattie cardiovascolari Le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di mortalità e disabilità sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo. Ogni anno le malattie cardiovascolari uccidono più di 4,3 milioni di persone in Europa e sono causa del 48% di tutti i decessi. Le principali forme di malattie cardiovascolari sono le malattie coronariche e l’ictus. I maggiori fattori di rischio sono l’ipertensione, il fumo, l’ipercolesterolemia, il diabete e l’obesità, oltre all’inattività fisica. L’aterosclerosi è la causa principale delle coronaropatie e consiste in un accumulo di lipidi, con conseguente formazione di placche, fino all’occlusione delle arterie stesse. A sua volta, l’aterosclerosi trova tra le sue principali cause l’iperlipidemia, unitamente alla presenza di bassi livelli di lipoproteine plasmatiche ad alta densità, HDL. Il colesterolo e gli altri lipidi plasmatici Il colesterolo, i suoi esteri, i fosfolipidi e i trigliceridi sono i principali lipidi presenti nel sangue. Il colesterolo svolge un ruolo fisiologico essenziale, in quanto è un costituente di tutte le membrane cellulari degli organismi animali. Inoltre, il colesterolo è il diretto precursore degli acidi biliari e di numerosi composti steroidei di natura ormonale o vitaminica. Il colesterolo viene sia assunto con la dieta che prodotto dall’organismo a partire dall’acetil-CoA. I trigliceridi sono esteri del glicerolo in cui tutti e tre i gruppi alcolici sono esterificati con acidi grassi e sono caratterizzati da un’elevata idrofobicità. Rappresentano una forma di deposito dell’energia in quanto possono essere idrolizzati a opera delle lipasi, liberando così gli acidi grassi, che sono utilizzati a livello mitocondriale per la produzione di energia mediante una reazione di β-ossidazione. Analogamente, anche i fosfolipidi rappresentano forme di immagazzinamento degli acidi grassi. Inoltre, sono costituenti importanti delle membrane cellulari e sono implicati nella formazione di secondi messaggeri. Per iperlipidemia si intende una condizione in cui le concentrazioni di uno o più di questi lipidi risultano al di sopra della norma. Si parla anche di iperlipoproteinemia, in quanto a una situazione di iperlipidemia si associa sempre un incremento delle lipoproteine plasmatiche. Lipoproteine Poiché i lipidi hanno scarsa solubilità in ambiente acquoso, per poter essere trasportati nel circolo sanguigno devono necessariamente essere legati a proteine di trasporto solubili. Le lipoproteine sono particelle sferiche costituite da un core idrofobico coperto da un singolo strato di fosfolipidi, le cui teste polari rivolte all’esterno facilitano la solubilizzazione in ambiente acquoso, interdispersi con molecole anfifiliche quali colesterolo libero e proteine specializzate, dette apolipoproteine. Queste ultime conferiscono stabilità da un punto di vista strutturale e sono coinvolte nell’interazione con specifici recettori. In base alla densità si distinguono, in ordine crescente, VLDL, LDL, HDL e chilomicroni. I lipidi assunti con il cibo vengono assorbiti a livello intestinale sotto forma di colesterolo, acidi grassi liberi e monoacilgliceroli. A livello delle cellule della mucosa intestinale, gli acidi grassi insieme al colesterolo e all’apoproteina, sono incorporati nei chilomicroni. Le VLDL svolgono la funzione di veicolare dagli epatociti ai tessuti periferici i trigliceridi in eccesso. Le VLDL contengono anche colesterolo libero ed esterificato. Ad opera della lipoproteina lipasi, le VLDL sono convertite in particelle più piccole che prendono il nome di LDL. Queste ultime sono le principali responsabili del trasporto e del rilascio di colesterolo ai tessuti periferici. Il loro contenuto è costituito principalmente dal colesterolo e dai suoi esteri. Infine, le HDL sono le lipoproteine più piccole e con il più alto contenuto proteico. Il loro ruolo fisiologico è quello di trasportare il colesterolo non esterificato dai tessuti periferici al fegato. Le HDL sono perciò considerate benefiche. Iperlipoproteinemie La classificazione delle iperlipoproteinemie si basa sul tipo di lipoproteina la cui concentrazione ematica risulta superiore ai valori normali. Gli individui che presentano alti livelli di colesterolo LDL sono più soggetti al rischio di fenomeni aterosclerotici. Il metabolismo lipidico può risultare alterato in diversi modi, portando a cambiamenti nei livelli o nella funzionalità delle lipoproteine plasmatiche. Questo fatto può contribuire allo sviluppo di aterosclerosi. Le dislipidemie possono essere la conseguenza di altre patologie o essere il risultato dell’interazione tra predisposizione genetica e fattori ambientali. Approcci terapeutici I livelli di colesterolo sono determinati da una combinazione di fattori genetici e ambientali. La decisione di intraprendere un trattamento farmacologico dipende dal rischio di sviluppare malattie cardiocircolatorie, che viene stimato valutando diversi parametri, oltre naturalmente alla presenza di altre patologie che rappresentano fattori di rischio aggiuntivo, come l’insufficienza renale o il diabete. Inibitori dell’HMG-CoA reduttasi (statine) Le statine rappresentano la terapia di prima scelta nell’ambito del trattamento farmacologico delle iperlipidemie. Questa classe di farmaci agisce inibendo l’attività dell’enzima HMG-CoA reduttasi. La prima statina, la mevastatina o compactina, fu scoperta nel 1976 dallo studioso giapponese Akira Endo. La mevastatina è un prodotto di fermentazione di Penicillium citrinum e inibisce l’enzima HMG-CoA reduttasi a concentrazioni nanomolari. Questa molecola non è mai entrata in terapia, in quanto la sperimentazione clinica fu interrotta quando si evidenziò l’insorgenza di alterazioni morfologiche. Al contrario, la lovastatina, superò con successo tutte le fasi di sperimentazione clinica e ottenne l’approvazione da parte della FDA nel 1987, con il nome di Mevacor. La lovastatina differisce dalla compactina per la sola presenza di un metile addizionale nella posizione C-6’ del sistema decalinico. La pravastatina inizialmente evidenziata come metabolita della mevastatina nelle urine mostrò una maggiore efficacia e un profilo farmacocinetico favorevole, grazie alla maggiore idrofilia impartita dal gruppo ossidrili-co presente nella posizione C-6’. La simvastatina è un derivato semisintetico della lovastatina, dalla quale differisce per la presenza di un metile addizionale sulla catena laterale acilica. Dal punto di vista strutturale, le statine ottenute per fermentazione, conosciute anche come statine di tipo I, sono tutte caratterizzate dalla presenza di un sistema decalinico legato, mediante uno spaziatore contenente due atomi di carbonio, a un anello lattonico. La forma lattonica è in realtà da considerarsi un profarmaco. Infatti, viene idrolizzato enzimaticamente a dare il corrispondente idrossiacido. Quest’ultimo rappresenta il vero e proprio farmacoforo delle statine, in quanto mima l’intermedio che si forma dalla prima reazione di riduzione catalizzata dalla HMG-CoA reduttasi. Tra le statine di tipo I, solo la pravastatina presenta già l’anello lattonico aperto. Il substrato interagisce con l’enzima mediante formazione di quattro importanti interazioni con la tasca catalitica: un legame a idrogeno tra il carbonile del tioestere e il residuo lisina, due legami a idrogeno tra il gruppo ossidrilico in posizione 3 del substrato e i residui asparagina e serina ed infine un legame ionico tra il carbossilato e la lisina. Dopo l’attacco dello ione idruro, si genera l’intermedio mevaldil-CoA. Poiché l’intermedio della reazione è più stabile del substrato di partenza, l’energia di attivazione per il primo passaggio di reazione si abbassa, favorendo la reazione stessa. Accanto alle statine ottenute per fermentazione o per semi-sintesi, esiste un secondo tipo di statine, le statine di sintesi o di tipo II. Ad oggi si trovano in commercio quattro statine di sintesi: l’atorvastatina, la fluvastatina, la rosuvastatina e la pitavastatina. Quest’ultima rappresenta la statina più recente. Le statine di sintesi differiscono da quelle di tipo I per la presenza del sistema idrossiacido in luogo del lattone e per la sostituzione dell’anello decalinico con una porzione idrofobica più grande e complessa. Questa risulta più semplice da sintetizzare rispetto alla corrispondente porzione presente nelle statine di tipo I, anche grazie alla notevole semplificazione dal punto di vista della stereochimica. Infatti, nelle statine di sintesi ritroviamo solo i 2 centri stereogenici della catena idrossiacida. Le statine hanno un’affinità notevolmente superiore per l’enzima rispetto al substrato naturale. Ciò è dovuto a due ragioni. Innanzitutto, le statine possiedono una porzione idrofobica più complessa, in grado di instaurare con l’enzima interazioni aggiuntive con la tasca di legame. Inoltre, nel caso del substrato naturale, subito dopo la formazione dell’intermedio mevaldil-CoA si ha una reazione di eliminazione del coenzima A, le statine sono resistenti all’azione dell’enzima proprio perché non possiedono nella loro struttura un gruppo uscente. Perciò l’inibitore resta ancorato saldamente al sito di legame inibendo l’enzima in maniera molto efficiente. Le statine sono dunque inibitori competitivi dell’HMG-CoA grazie alla porzione idrossiacida che si lega all’enzima in maniera del tutto simile. Meccanismo di azione Come si è detto, il meccanismo d’azione delle statine si basa sull’inibizione della biosintesi del colesterolo. Accanto a questo esiste un altro che concorre all’effetto finale di riduzione del colesterolo plasmatico. In seguito a somministrazione di statine, si assiste infatti a un aumento dell’assorbimento di colesterolo LDL mediato da recettori. Quest’ultimo meccanismo risulta estremamente importante, in quanto porta a una maggiore captazione recettore-mediata delle LDL e anche dei loro precursori ILDL e VLDL con conseguente diminuzione delle LDL circolanti. L’effetto finale è dunque una leggera diminuzione della sintesi di colesterolo e una più significativa riduzione del colesterolo LDL plasmatico. Effetti collaterali e interazioni con altri farmaci L’assunzione di statine porta a un’alterazione temporanea dei test di funzionalità epatica, con un aumento delle transaminasi. Inoltre, in una bassa percentuale di pazienti si possono verificare fenomeni di miopatia che vanno dalla mialgia alla miosite, fino alla rabdomiolisi. La rabdomiolisi è una sindrome derivante da un danno del sarcolemma che determina il rilascio nel circolo ematico di sostanze contenute nei miociti scheletrici. Questa condizione può portare a insufficienza renale acuta e aritmia o arresto cardiaco. Una strategia per ridurre la tossicità muscolare delle statine potrebbe essere quella di veicolarle in maniera selettiva al fegato, limitando l’esposizione degli altri tessuti periferici. Tale ipotesi è tuttavia decaduta in seguito alla dimostrazione che tutte le statine vengono assorbite mediante trasportatori sia nel fegato che nei tessuti extraepatici. L’interazione tra farmaci può riguardare diversi aspetti della farmacocinetica, quali metabolismo, assorbimento mediante trasporto attivo, interazione con i trasportatori di efflusso, e tali fenomeni non sono necessariamente legati all’idrofilia. In particolare, poiché molte statine vengono metabolizzate a livello epatico ad opera del citocromo CYP3A4, queste sono soggette a fenomeni di interazione tra farmaci se cosomministrate con inibitori di tale enzima. Questo fenomeno può portare a un accumulo di statine, aumentando proporzionalmente il rischio di tossicità muscolare. Sequestranti degli acidi biliari La conversione in sali biliari è l’unico modo a disposizione dell’organismo per eliminare gli eccessi di colesterolo. Una volta riversati nell’intestino tenue, gli acidi biliari vengono in parte riassorbiti attraverso il ricircolo entero-epatico e in parte eliminati con le feci. I sequestranti degli acidi biliari, che includono la colestiramina, il colestipolo e il colesevelam, sono resine a scambio anionico, che svolgono la loro azione legando con alta affinità gli acidi biliari riversati nel tenue, promuovendone l’eliminazione per via fecale. Come conseguenza, l’effetto finale dovuto all’assunzione di queste resine a scambio anionico è una riduzione del colesterolo ematico, che però è in parte limitata dall’aumento della sintesi endogena. Da un punto di vista strutturale, si tratta di resine a scambio anionico fortemente basiche. Le resine a scambio ionico possono limitare l’assorbimento di alcuni farmaci, come ormoni tiroidei, vitamine liposolubili, β-bloccanti, diuretici tiazidici. Si raccomanda pertanto che l’assunzione di resine a scambio ionico avvenga ad un’opportuna distanza di tempo da quella di altri farmaci. Un altro limite al trattamento con sequestranti degli acidi biliari è l’ipertrigliceridemia. Qualora, si renda necessaria un’importante riduzione della colesterolemia, il farmaco può essere associato a statine. Ezetimibe L’ezetimibe è un inibitore potente e selettivo dell’assorbimento di colesterolo a livello intestinale. Riduce sia l’assorbimento del colesterolo assunto con la dieta sia della frazione di colesterolo secreta nell’intestino attraverso la bile. L’aspetto importante è che la sua azione è selettiva per il colesterolo. L’ezetimibe inibisce la captazione e il trasporto di colesterolo attraverso la membrana apicale degli enterociti, agendo sulla proteina di trasporto Niemann-Pick C1-like 1. Dopo somministrazione orale, l’ezetimibe viene rapidamente metabolizzata e convertita, nel corrispondente glucuronide, che rappresenta un metabolita attivo. Per effetto del ricircolo entero-epatico, l’ezetimibe e il suo glucuronide continuano a svolgere la loro attività per periodi prolungati. L’ezetimibe può essere somministrata in monoterapia o in associazione con statine. Agonisti del PPAR (fibrati) I fibrati costituiscono una ben consolidata classe di farmaci ipolipidemizzanti, con la capacità di abbassare il colesterolo e i lipidi plasmatici. A livello molecolare agiscono come agonisti del recettore nucleare PPAR-α, il quale regola l’espressione di geni coinvolti nel metabolismo delle lipoproteine. La loro azione prevalente consiste nel provocare una marcata riduzione dei trigliceridi, una diminuzione delle VLDL e un lieve rialzo del colesterolo HDL. In dettaglio, l’attivazione del recettore PPAR-α attiva l’espressione delle apoproteine A1 e A2, determinando un innalzamento dei livelli di HDL. L’effetto di riduzione dei trigliceridi è invece legato all’induzione dell’espressione della lipoproteina lipasi e dell’apolipoproteina A-V e all’inibizione dell’espressione dell’apolipoproteina C-III. I fibrati promuovono la captazione di acidi grassi a livello epatico, la loro conversione in acil- CoA-derivati e il loro catabolismo mediante β-ossidazione. Dal punto di vista strutturale, il prototipo di questa classe di farmaci è il clofibrato, che è in realtà un profarmaco del corrispondente acido clofibrico. Fu inizialmente approvato dalla FDA nel 1967; tuttavia il clofibrato non era in grado di ridurre il rischio di malattie cardiovascolari, la cui incidenza tendeva anzi ad aumentare. Il clofibrato ha però rappresentato un utile composto modello per la progettazione di derivati più efficaci, tra cui ricordiamo il fenofibrato e il gemfibrozil. In tutti i derivati di questa serie ritroviamo sempre almeno il raggruppamento isobutirrico. La forma attiva è sempre quella con il gruppo carbossilico libero, mentre gli esteri sono dei profarmaci. Studi recenti hanno messo in evidenza l’utilità dei fibrati, superiore a quella delle statine, per la riduzione del rischio cardiovascolare in pazienti affetti da diabete o da sindrome metabolica. In particolare, i fibrati, risultano particolarmente utili in quei pazienti il cui quadro lipidico mostra elevata trigliceridemia e/o bassi livelli di colesterolo HDL. FARMACI PER IL TRATTAMENTO DEL DIABETE Diabete Il diabete mellito è una patologia cronica. Da un punto di vista clinico, il diabete è caratterizzato da alcuni sintomi tipici quali polifagia, polidipsia, poliuria e perdita di peso ed energia, e da tipici marcatori clinici quali iperglicemia e glicosuria. Le tipiche complicanze del diabete sono di tipo vascolare, con danni alla micro- e alla macrovascolatura, che si traducono in retinopatia, danni a livello renale e dei nervi, oltre che disturbi cardiocircolatori e patologie cerebrovascolari. Come si è detto, il diabete è caratterizzato da un deficit di insulina, un ormone di natura polipeptidica prodotto dalle cellule β del pancreas. Anche se le basi molecolari del diabete sono ben comprese, in molti casi l’eziologia è sconosciuta. Si distinguono due tipi principali di diabete: il diabete di tipo 1 e il diabete di tipo 2. Diabete di tipo 1 Il diabete di tipo 1 è noto anche come diabete insulino-dipendente. Questa forma della patologia è caratterizzata da un’insufficiente produzione di insulina da parte delle cellule β del pancreas, dovuta ad un processo di distruzione delle cellule β di origine autoimmune. In assenza di adeguate quantità di insulina, l’organismo non è più in grado di utilizzare il glucosio come principale fonte energetica. Il glucosio non viene assorbito dalle cellule dell’organismo e di conseguenza si accumula nel sangue, causando il primo evidente segnale di diabete, rappresentato da un innalzamento della glicemia. L’unico modo per ripristinare una corretta omeostasi del glucosio consiste nella somministrazione di insulina esogena. Diabete di tipo 2 Si tratta di una patologia più complessa, con origine multifattoriale. In questo caso si verifica una forma di insulino-resistenza per cui, quest’ultima non svolge correttamente la sua azione a livello dei tessuti bersaglio. Inoltre, può essere presente un difetto nella secrezione di insulina da parte del pancreas. Il diabete di tipo 2 rappresenta quasi il 90% di tutti i casi di diabete. Altre forme di diabete Tra le altre forme di diabete va ricordato il diabete gestazionale, che colpisce circa il 7% delle donne in gravidanza. Il diabete gestazionale determina un aumentato rischio di ipertensione cronica per la madre e, se non trattato, può causare macrosomia, ipoglicemia, ipocalcemia e iperbilirubinemia nel feto. Infine, l’OMS ha definito ‘sindrome metabolica’ quel complesso quadro patologico caratterizzato dalla contemporanea presenza di diabete e due o più dei seguenti fattori: obesità o ipertensione. Ormoni che controllano l’omeostasi del glucosio L’insulina è un ormone polipeptidico prodotto dalle cellule β del pancreas, che si trovano nelle isole di Langerhans. Il rilascio di insulina è stimolato principalmente dal glucosio, anche se amminoacidi, chetoni, vari nutrienti e soprattutto i cosiddetti ormoni incretinici possono a loro volta influenzare la secrezione di insulina. Gli effetti dell’insulina si possono definire anabolizzanti, in quanto stimolano l’immagazzinamento intracellulare di glucosio, amminoacidi e acidi grassi e, contemporaneamente, inibiscono i processi catabolici di degradazione di quelle che sono le naturali riserve energetiche dell’organismo, quali glicogeno, lipidi e proteine. Il principale altro ormone coinvolto nell’omeostasi del glucosio è il glucagone, anch’esso secreto dal pancreas, dalle cellule α. L’azione del glucagone si contrappone a quella dell’insulina, in quanto quest’ormone agisce a livello epatico stimolando la glicogenolisi e la gluconeogenesi, provocando quindi un innalzamento dei livelli glicemici. Un’altra importante funzione è svolta dagli ormoni incretinici GLP-1 e GIP, che sono ormoni secreti dal tratto gastrointestinale in seguito all’assunzione di cibo, in particolare di carboidrati. Il GLP-1, secreto dalle cellule enteroendocrine L situate a livello dell’ileo e del colon, è il prodotto dell’azione delle proconvertasi sul proormone proglucagone. Ipoglicemizzanti orali Tenendo conto del meccanismo d’azione, gli agenti ipoglicemizzanti orali possono essere classificati in: 1. Agenti che stimolano la secrezione di insulina; 2. Agenti insulino-sensibilizzanti; 3. Agenti che ritardano e riducono l’assorbimento dei carboidrati a livello intestinale; Solfoniluree Storicamente, i primi agenti ipoglicemizzanti orali sono stati le solfoniluree. Questa classe di molecole fu scoperta negli anni 1940, basandosi sull’osservazione che alcuni pazienti erano morti per coma ipoglicemico in seguito al trattamento con gliprotiazolo. A questa prima osservazione seguirono alcune modifiche alla struttura chimica del gliprotiazolo, che portarono a ottenere la carbutamide, la prima solfonilurea immessa in commercio in Europa come agente ipoglicemizzante. Tuttavia, la carbutamide fu presto ritirata dal commercio e fu rimpiazzata dalla tolbutamide, che venne utilizzata estensivamente per il trattamento del diabete di tipo 2. Nel passaggio da carbutamide a tolbutamide è stato eliminato il gruppo amminico, che è stato rimpiazzato da un metile. Il gruppo metilico presenta però lo svantaggio di poter essere metabolizzato per via ossidativa a dare il corrispondente acido carbossilico. Al contrario, nella clorpropamide la sostituzione del metile con un alogeno stabilizza la molecola nei confronti del metabolismo, prolungandone così l’emivita. Va detto che l’emivita della clorpropamide è eccessivamente lunga, e per tale ragione non fa più parte dei trattamenti d’elezione. In genere, tutte le solfoniluree di prima generazione presentano un sostituente di piccole dimensioni sull’anello aromatico. Al contrario, la seconda generazione di solfoniluree, che comprende glibenclamide, glipizide e glimepiride, è caratterizzata dalla presenza di un sostituente più complesso e ingombrante. Questi farmaci presentano un migliore schema di dosaggio: è infatti sufficiente una somministrazione al giorno anziché due. Di contro però, si è osservata una maggiore incidenza di casi di ipoglicemia. Dal punto di vista farmacocinetico, le solfoniluree vengono assorbite rapidamente a livello gastrointestinale e sono trasportate nel sangue legate alle proteine plasmatiche. Il metabolismo è prevalentemente epatico, mentre l’escrezione dei metaboliti avviene per via renale. Il meccanismo d’azione delle solfoniluree consiste nella stimolazione del rilascio di insulina da parte delle cellule del pancreas. Le solfoniluree interagiscono con specifici recettori, situati appunto a livello delle cellule β pancreatiche. Tali recettori sono accoppiati a canali del potassio ATP-dipendenti, che sono complessi costituiti da due subunità proteiche, una che forma il poro transmembrana e un’altra, con funzione regolatoria, che viene denominata recettore delle solfoniluree-1. Le solfoniluree, legandosi a questo recettore, provocano la chiusura del canale, con conseguente depolarizzazione della membrana, che provoca l’apertura dei canali del calcio voltaggio-dipendenti. L’aumento del calcio intracellulare promuove infine il rilascio di insulina. Dato il loro meccanismo d’azione, le solfoniluree sono attive solo quando il pancreas è ancora in grado di produrre insulina. Glinidi Accanto alle solfoniluree, esistono altre molecole in grado di stimolare il rilascio di insulina. Il nome ‘glinidi’ deriva dalla somiglianza strutturale con la meglitinide. In realtà, gli altri membri di questa classe, repaglinide, mitiglinide, nateglinide, sono stati sviluppati in maniera del tutto indipendente e appartengono alla stessa classe terapeutica più per il loro profilo farmacologico. Tra le molecole appartenenti a questa classe, le due più utilizzate sono senz’altro la repaglinide e la nateglinide. Le glinidi sono caratterizzate da un’insorgenza d’azione più rapida e una durata più breve, il che le rende ideali per il controllo della glicemia post-prandiale. Assunte appena prima dei pasti, permettono di tenere sotto controllo la glicemia post-prandiale, con un basso rischio di indurre crisi ipoglicemiche. Biguanidi Questa classe di ipoglicemizzanti a struttura guanidinica ha origine dalla Galega officinalis e si scoprì che l’alcaloide gualegina in essa contenuto, era in grado di indurre crisi ipoglicemiche. Il primo farmaco appartenente a questa classe ad essere stato introdotto sul mercato negli Stati Uniti, negli anni 1950, fu la fenformina. La fenformina fu però ritirata dal commercio nel 1977 perché responsabile di diversi decessi per acidosi metabolica. La metformina venne introdotta sul mercato in Europa a partire dal 1979 e da allora è largamente utilizzata. Attualmente la metformina rappresenta quindi l’unica biguanide ampiamente utilizzata per il trattamento del diabete di tipo 2. Le biguanidi, definite “sensibilizzanti all’insulina”, agiscono da un lato promuovendo la riduzione della produzione di glucosio a livello epatico e dall’altro stimolando la captazione di glucosio a livello periferico. Tiazolidindioni I tiazolidindioni sono farmaci ipoglicemizzanti orali recentemente introdotti per la terapia del diabete di tipo 2. Queste molecole sono in grado di ridurre la glicemia nei pazienti diabetici senza stimolare la secrezione di insulina. Il meccanismo d’azione consiste nell’attivazione del recettore nucleare PPAR-γ, un recettore attivato da diversi acidi grassi ed eicosanoidi. La classe dei tiazolidindioni fu sviluppata agli inizi degli anni 1980. In seguito a un intenso studio di relazioni struttura-attività venne sviluppato il prototipo di questa classe, il ciglitazone, che tuttavia non fu mai utilizzato come farmaco. Il troglitazone fu il primo tiazolidindione ad essere immesso in commercio. Nel frattempo, venne sviluppato il rosiglitazone, che si dimostrò capace di normalizzare la glicemia nei pazienti con diabete di tipo 2, con una potenza e una selettività superiori a quelle del ciglitazone. In parallelo la venne sviluppato il pioglitazone, anch’esso in grado di migliorare sensibilmente il profilo glicemico e lipidico dei pazienti diabetici. Tutti i derivati appartenenti a questa classe presentano un centro stereogenico al C-5 dell’anello tiazolidindionico. Tuttavia, le molecole sono state sviluppate come miscele racemiche, in quanto tale centro subisce rapidamente racemizzazione in vivo. Farmaci che agiscono sul sistema incretinico Peptidi che mimano l’azione di GLP-1 Il peptide GLP-1 agisce, a livello fisiologico, stimolando la secrezione di insulina dal pancreas in maniera glucosio-dipendente. Sfortunatamente, il GLP-1 non può essere utilizzato come farmaco per il trattamento del diabete perché ha un’emivita brevissima, in quanto viene rapidamente inattivato dall’enzima DPP-IV. L’enzima si trova sia in circolo che come enzima di membrana in diversi organi, tra cui i reni, l’intestino, il fegato e il pancreas, oltre che sui linfociti T. Allo scopo di aumentare l’emivita del GLP-1 sono poi stati progettati degli analoghi caratterizzati da una maggiore resistenza all’azione dell’enzima DPP-IV. A tale scopo, la sequenza amminoacidica del GLP-1 è stata modificata rimpiazzando il residuo [L-Ala-2] con [D-Ala-2]. Sempre allo scopo di aumentare l’emivita del GLP- 1 è stata prodotta la proteina ricombinante liraglutide. Infine, nel 2014 è stata approvata una proteina di fusione ricombinante formata da GLP-1 ed albumina umana, albiglutide. Inibitori della DPP-IV La DPP-IV è una glicoproteina con attività peptidasica responsabile dell’inattivazione di GLP-1. Tale enzima agisce preferenzialmente su peptidi che presentano nella posizione 2, un residuo di Pro o di Ala, rimuovendo il dipeptide X-Pro o X-Ala N-terminale. Gli inibitori della DPP-IV sono piccole molecole progettate cercando di mimare il substrato dipeptidico X-Pro classicamente riconosciuto dall’enzima e inserendo, un gruppo elettrofilo, in grado di stabilire interazioni con la Ser del sito attivo. Un inibitore della DPP-IV, il sitagliptin, è caratterizzato dalla presenza di un residuo β- amminoacidico e da un anello triazolopiperazinico scelto, al fine di conferire stabilità metabolica alla molecola. Gli inibitori della DPP-IV, che sono tutti attivi per via orale, rappresentano una nuova e promettente classe terapeutica per il trattamento del diabete di tipo 2. Esercitano una serie di effetti, tutti associati a un miglioramento del controllo della glicemia, con un meccanismo d’azione che si differenzia da quello di tutti gli altri ipoglicemizzanti orali e non provocano episodi di ipoglicemia. Inoltre, non determinano aumento di peso. Il linagliptin si differenzia dagli altri derivati di questa classe perché non viene escreto per via renale e potrebbe perciò costituire una valida alternativa agli altri ipoglicemizzanti orali in tutti i pazienti con insufficienza renale moderata o severa. FARMACI ANTINFIAMMATORI NON STEROIDEI Infiammazione L’infiammazione è la risposta ad un insulto tissutale dovuto ad uno stimolo fisico o chimico o alla presenza di un parassita. A seguito di questo insulto viene rilasciata una grande varietà di mediatori chimici esogeni o endogeni, che danno origine ai segni cardinali dell’infiammazione. A tutt’oggi sono stati identificati centinaia di potenziali mediatori chimici dell’infiammazione (mediatori pro- infiammatori), di origine cellulare o plasmatica. Il rilascio sequenziale dei diversi mediatori regola il movimento di proteine sieriche e di leucociti dal sangue al tessuto insultato. Negli interstizi tissutali i leucociti aumentano a seguito di chemiotassi e/o proliferazione, si differenziano e rimuovono lo stimolo nocivo o i detriti cellulari da esso derivanti. Oggi è chiaro che la risoluzione dell’infiammazione a decorso acuto è un processo attivo controllato da mediatori endogeni (mediatori pro-risolutivi) che inibiscono sia l’espressione di geni proinfiammatori sia la chemiotassi e che inducono apoptosi e fagocitosi delle cellule infiammatorie da parte dei macrofagi. Quando questo fallisce, l’infiammazione da acuta diviene cronica. Quest’ultima è correlata al tipo di tessuto infiammato e in cui prevalgono i fenomeni vasculo-essudativi, è caratterizzata da un’intensificazione di migrazione, proliferazione e differenziamento dei leucociti nell’interstizio tissutale e dalla loro morte per necrosi e non per apoptosi. Ciò comporta la rottura della cellula ed il riversamento del contenuto citoplasmatico nell’ambiente extracellulare. Prostanoidi e leucotrieni La maggior parte dei farmaci antinfiammatori oggi usati in terapia è stata sviluppata sul concetto di inibire la sintesi dei mediatori proinfiammatori. Nonostante il gran numero di mediatori conosciuti, l’attenzione è stata pressoché unicamente rivolta all’inibizione della produzione di prostaglandine e leucotrieni, due classi di eicosanoidi ampiamente coinvolte nel fenomeno infiammatorio. Nell’uomo il principale esponente è l’acido arachidonico (AA), che si accumula nei fosfolipidi di membrana sotto forma di estere nella posizione 2 del glicerolo e da questi viene liberato per azione di un enzima, la fosfolipasi A2. L’AA libero è rapidamente trasformato in diversi prodotti attraverso reazioni ossidative catalizzate da enzimi specifici o mediate da radicali. Le più interessanti trasformazioni metaboliche sono quelle iniziate da due enzimi, la PGH 2 sintasi e la 5-lipoossigenasi. La prima porta alla formazione dei prostanoidi, alla cui famiglia appartengono le prostanglandine, la prostaciclina ed i trombossani, la seconda alla formazione dei leucotrieni. Biosintesi dei prostanoidi La PGH2 sintasi, colloquialmente detta cicloossigenasi o COX, è un enzima dotato di due distinte attività catalitiche: una cicloossigenasica, ed una perossidasica. I due siti catalitici, distinti ma accoppiati dal punto di vista meccanicistico, sono posti al termine di un canale idrofobico ripiegato a L, all’inizio del quale è presente un residuo di arginina, il sito di ancoraggio dell’AA. La PGG2 risultante dall’ossidazione è poi ridotta a PGH 2, sotto l’azione catalitica del sito perossidasico. La PGH2 ha diversi destini metabolici. Sotto l’azione della PGI sintasi porta alla formazione della prostaciclina PGI2, mentre sotto l’azione della TxA sintasi genera il trombossano TxA2. Infine, una famiglia di enzimi, le PGE sintetasi, catalizza la trasformazione della PGH 2 nelle prostaglandine PGE2, PGD2, PGF2α, dotate di potenti azioni biologiche spesso contrastanti fra loro. Tali azioni sono mediate da specifici recettori, tutti accoppiati a proteine G. I recettori dei prostanoidi sono denominati recettori P e ne esistono cinque tipi diversi, a seconda della loro affinità per lo specifico prostanoide. Ad oggi si conoscono quattro sottotipi dei recettori EP e due dei recettori DP. Nel 1991 sono state identificate per la prima volta due isoforme dell’enzima COX. La COX-1 è un enzima costitutivo espresso nella maggior parte delle cellule dell’organismo, dove modula importanti funzioni omeostatiche inducendo la formazione dei prostanoidi. A tal proposito, è da sottolineare l’importante ruolo citoprotettivo esercitato dai prostanoidi sulla mucosa gastrica e gli effetti sul flusso ematico renale e sulla filtrazione glomerulare esercitati da PGE2, PGI2 e TxA2. La COX-2 è un enzima prevalentemente inducibile ed è la maggior sorgente di prostanoidi. Tuttavia, la distinzione dei diversi ruoli delle due isoforme è semplicistica, in quanto anche la COX-2 può contribuire, soprattutto in alcuni tessuti, alla generazione di prostanoidi omeostatici, mentre la COX-1 può anch’essa contribuire alla formazione di prostanoidi nei processi infiammatori. Come già accennato l’esistenza delle due isoforme dell’enzima COX è stata riportata per la prima volta nel 1991; il loro grado di omologia è di circa il 60%. Le strutture terziarie di questi enzimi presentano tre domini, il primo denominato EGF-like, il secondo MBD, che permette l’accesso dell’AA al terzo dominio, detto catalitico, in cui sono presenti il sito COX ed il sito POX. Si può notare come in ambedue le isoforme sia presente una tasca polare alla cui terminazione è posto un residuo di istidina nella prima isoforma, rimpiazzato nella seconda da un residuo di arginina. Tale tasca è più accessibile nella COX-2 rispetto alla COX- 1, principalmente a causa della presenza di un residuo di valina rispetto al più ingombrante residuo di isoleucina. Farmaci antinfiammatori non steroidei, FANS I FANS sono un’importante classe di farmaci strutturalmente eterogenei. Il loro nome è stato coniato per distinguerli dai glucocorticoidi. Il principale impiego dei FANS è il trattamento di affezioni infiammatorie acute dell’apparato muscolo-scheletrico, grazie alla loro capacità di lenire il dolore ed altri sintomi associati all’infiammazione. Sono inoltre usati nel trattamento dei processi infiammatori cronici, quale l’artrite reumatoide, ma senza effetti rilevanti sulla progressione della malattia. Oltre a questo impiego generale, i singoli FANS possono avere specifiche applicazioni, a seconda del dosaggio utilizzato e/o della loro classe di appartenenza. Meccanismo d’azione dei FANS Le proprietà farmacologiche dei FANS sono largamente dovute alla loro capacità di bloccare la trasformazione dell’acido arachidonico a PGH2 catalizzata dalla COX-1 e dalla COX-2. Tale blocco è conseguenza della competizione di questi farmaci con l’AA per i siti del canale in cui avviene l’ossidazione. L’interazione di questi composti con le due isoforme dell’enzima può avvenire con tre meccanismi distinti, che permettono di raggrupparli in tre classi: I, II, III. I FANS appartenenti alla classe I, il cui prototipo è l’ibuprofene, inibiscono l’enzima con un meccanismo competitivo reversibile. Il complesso enzima-inibitore si forma rapidamente ed altrettanto rapidamente si dissocia. I FANS appartenenti alla classe II, i cui prototipi sono l’indometacina ed il diclofenac, inibiscono l’enzima con un meccanismo tempo-dipendente lentamente reversibile. Questi inibitori formano rapidamente il complesso reversibile enzima-inibitore, provocando un cambiamento conformazionale della proteina enzimatica che porta alla formazione di un nuovo complesso, da cui l’inibitore si dissocia lentamente. Alla classe III appartiene un unico farmaco, l’aspirina, ASA, che inibisce l’enzima con un meccanismo irreversibile. La potenza di un FANS nell’’inibire le due isoforme dell’enzima COX varia da composto a composto. Classificazione e descrizione delle principali classi di FANS Salicilati La classe dei salicilati è piuttosto vasta. Il prototipo, l’acido salicilico, è molto irritante e viene oggi utilizzato soltanto per uso esterno. Molti suoi derivati sono profarmaci, comprendendo esteri sia alla funzione carbossilica che alla funzione fenolica. Fra questi si annovera l’aspirina, ASA, che resta ancora oggi uno dei più importanti farmaci di tutto l’armamentario terapeutico ed è senza dubbio l’agente analgesico, antipiretico ed antinfiammatorio più largamente utilizzato, nonché lo standard di riferimento per la valutazione di altri FANS. Tra i derivati dei salicilati merita certamente un cenno la sulfasalazina, che ridotta da enzimi batterici azoreduttasici, che la trasformano in due componenti, la sulfapiridina e l’acido 5-amminosalicilico, 5-ASA. A proposito di profarmaci, merita un cenno il benorilato, 4-acetammidofenil-O-acetilsalicilato, che è costituito da una molecola di aspirina esterificata con una molecola di paracetamolo. Il vantaggio di questo farmaco è quello di unire le proprietà antinfiammatorie dell’ASA con quelle analgesiche ed antipiretiche del paracetamolo. Il gran numero di salicilati sintetizzati ha permesso di definire in modo esauriente le relazioni struttura-attività della classe: la porzione attiva sembra essere l’anione salicilato che viene liberato sotto l’azione delle esterasi plasmatiche. L’eliminazione del gruppo carbossilico o del gruppo fenolico, riduce la tossicità dei derivati, ma riduce anche drasticamente l’azione antinfiammatoria. Un significativo miglioramento del profilo farmacologico-terapeutico dell’acido salicilico e dell’aspirina è stato ottenuto introducendo un anello fenilico in posizione 5, a sua volta sostituito con uno o due atomi di fluoro. Il diflunisal, risulta più attivo dell’ASA come antinfiammatorio, mentre gli effetti antipiretico ed analgesico sono paragonabili a quello del prototipo. Il diflunisal possiede inoltre un’emivita più lunga senza presentare apprezzabili effetti collaterali a livello gastrointestinale. Farmacocinetica e metabolismo Poiché i salicilati sono acidi deboli, il pH del mezzo può influenzarne l’assorbimento. Prendendo come riferimento l’aspirina, la forma indissociata è quella che attraversa più facilmente le membrane cellulari, ma la forma dissociata è quella più solubile. Quindi, anche se l’aumento del pH nel tratto gastrointestinale dovrebbe ridurne la velocità di assorbimento, in realtà prevale l’aumento di solubilità, e l’assorbimento che avviene prevalentemente nell’intestino tenue risulta facilitato. Dopo somministrazione orale, l’aspirina viene deacetilata ad acido salicilico per circa il 50% già durante ed immediatamente dopo l’assorbimento. Il tempo di emivita plasmatico è di circa 15 min. Un’altra importante sede metabolica dell’ASA è il fegato, dove l’acido salicilico formatosi viene coniugato con glicina per dare acido salicilurico oppure ossidato ad acido gentisico, che poi è a sua volta trasformato nei corrispondenti glucuronidi. Impieghi in terapia L’acido salicilico è un debole inibitore reversibile delle COX, mentre l’aspirina acetila selettivamente l’ossidrile della serina 530 sia della COX-1 che della COX-2. L’inibizione irreversibile di tali enzimi spiega i differenti dosaggi richiesti per ottenere i diversi effetti farmacologici attribuiti a questo farmaco in quanto la durata dell’effetto inibitorio delle COX prodotto da una singola dose di aspirina è sensibilmente diversa a livello dei vari tessuti. L’acetilazione della COX piastrinica deve avvenire nel tratto portale nei primi minuti dopo la somministrazione. In virtù di questo particolare comportamento, sono sufficienti 30-50 mg/die per ottenere l’effetto antitrombotico, mentre occorrono 500 mg/die per l’effetto analgesico e circa 2 g/die per ottenere l’effetto antinfiammatorio. Effetti collaterali e tossici Gli effetti collaterali associati all’uso cronico di aspirina sono soprattutto a carico del sistema cardiovascolare, gastrico e renale. L’intossicazione dei salicilati è piuttosto frequente e colpisce soprattutto i bambini. È anche riportata l'intossicazione cronica da salicilati, salicismo, che comporta numerosi sintomi a carico del SNC, del sistema respiratorio, del bilancio acido-base ed elettrolitico. Acidi arilalcanoici Questa classe è rappresentata da un numero molto elevato di esponenti e comprende i derivati degli acidi aril/eteroarilacetici e degli acidi aril/eteroarila-metilacetici o propionici. Questi sono accomunati da alcune caratteristiche strutturali comuni, tra cui spicca la presenza di un gruppo carbossilico legato ad un anello aromatico o eteroaromatico attraverso un ponte metilenico o metinico. Acidi aril/eteroarilacetici L’indometacina è considerata il prototipo dei derivati arilacetici. È tuttora uno dei FANS più potenti. Purtroppo, a causa della sua elevata tossicità a carico del tratto GI e del SNC, il suo utilizzo è limitato al trattamento a breve termine di artrite reumatoide ed osteoartrite. Le SAR generali sono ampiamente condivise con gli altri derivati della classe, essendo vincolanti per l’attività la presenza della sottostruttura acida e di porzioni aromatiche. Dallo sviluppo dell’indometacina hanno avuto origine vari analoghi a struttura indenacetica, di cui il sulindac, che è considerato un profarmaco, in quanto il gruppo solfossido presente come sostituente all’anello fenilico viene ridotto nel fegato a solfuro. La presenza di un doppio legame nella struttura benzilidenindanica, così come l’introduzione di un metile in posizione 3, ha permesso di chiarire importanti aspetti stereochimici responsabili dell’ottimizzazione del legame con l’enzima dei derivati dell’indometacina. In particolare, laddove sia presente una sottostruttura α-metilacetica, l’enantiomero S, +, è il principale responsabile dell’attività, mentre la conformazione più favorevole al legame con la COX è quella in cui il gruppo N-p-clorobenzoilico si trova in posizione non complanare all’indolo e dalla parte opposta del metile in posizione 2. Il sulindac è considerato un profarmaco, poiché il gruppo solfossido presente nella sua struttura è una funzione metabolicamente vulnerabile, bersaglio di reazioni redox. Le sue due forme redox rappresentano i due metaboliti quantitativamente e qualitativamente rilevanti ai fini del comportamento farmacodinamico e farmacocinetico del farmaco. Il sulindac è ben assorbito a livello intestinale nella forma nativa e come tale passa nel torrente circolatorio, dove si lega fortemente alle proteine sieriche. In seguito al metabolismo di primo passaggio, in particolare nel fegato, il solfossido è ridotto al solfuro corrispondente, con cui si trova in equilibrio. Il secondo metabolita si forma per ossidazione irreversibile del solfossido a solfone, quest’ultimo privo di attività ed escreto nelle urine immodificato o coniugato con l’acido glucuronico. Il ketorolac, sale di trometamina, si può considerare un analogo rigido della tolmetina in cui il gruppo benzoilico è stato inserito sulla porzione pirrolica dell’anello che caratterizza il vettore del gruppo acido. Quest’ultimo si trova sull’anello ottenuto unendo formalmente il residuo N-metilico alla posizione 2 del gruppo acetico attraverso un ponte metilenico. Il ketorolac è caratterizzato da un’elevata potenza analgesica, oltre che antinfiammatoria, e viene utilizzato prevalentemente come sintomatico in episodi dolorosi acuti. Un altro rappresentante della classe degli acidi arilacetici, di grande rilievo clinico, è certamente il diclofenac, un derivato dell’anilina. La struttura del diclofenac può considerarsi un ibrido tra quella degli acidi arilacetici e quella degli acidi antranilici. Con i primi condivide la funzione arilacetica, con i secondi la porzione dicloroanilinica. Studi recenti indicano che il diclofenac si lega all’enzima assumendo una conformazione in cui il gruppo carbossilato interagisce attraverso legami a idrogeno con la Tyr-385 e la Ser-530. Il suo profilo clinico rientra in quello classico dei FANS, mostrando attività nettamente superiori a quelle dei farmaci di riferimento. Il profilo farmacodinamico del diclofenac è piuttosto complesso ed in parte si differenzia dai classici FANS in quanto riduce il rilascio intracellulare di acido arachidonico ed inibisce la via delle lipoossigenasi, riducendo la formazione di leucotrieni. Acidi aril/eteroarilproprionici Questa classe di FANS, spesso identificati con il suffisso -profene, annovera il più elevato numero di esponenti di interesse clinico. Ibuprofene, flurbiprofene, fenoprofene, ketoprofene, naprossene sono esempi di particolare rilevanza. Essi possiedono in generale un miglior profilo di tollerabilità rispetto ad altri FANS. La presenza di un metile in posizione α alla funzione carbossilica, oltre a migliorare il profilo farmacologico e tossicologico, introduce nella molecola un centro stereogenico. La rilevanza della stereochimica associata al centro chirale in questa classe di derivati è stata approfondita in particolare per l’ibuprofene, prototipo della serie. Saggi in vitro e in vivo hanno dimostrato che l’attività risiede quasi esclusivamente nell’enantiomero S, +. Tale configurazione sembrerebbe favorire il legame con l’enzima target anche in altri derivati arilpropionici. È stato inoltre dimostrato che, i metaboliti che si ritrovano nei fluidi biologici possiedono prevalentemente configurazione S, +. L’enantiomero R, -, viene infatti convertito ad opera di una racemasi acetil-CoA, dipendente in S, +. L’ibuprofene è un farmaco di grande successo che trova un largo impiego anche come farmaco da banco in preparazioni a basso dosaggio per il trattamento di forme dolorose lievi. A più alti dosaggi viene impiegato per svariate forme di affezioni infiammatorie. Il successo dell’ibuprofene ha dato origine all’ampio sviluppo di questa classe, di cui i principali esponenti sono flurbiprofene, fenoprofene, ketoprofene e naprossene. Quest’ultimo è 55 volte più potente dell’aspirina, 11 volte più potente del fenilbutazone ed è paragonabile all’indometacina, essendo però meglio tollerato di quest’ultima a livello del SNC e del tratto GI. Acidi enolici A questa classe appartengono importanti esponenti accomunati dalla presenza di una struttura enolcarbossammidica inserita in uno scheletro comune, la 4-idrossi-1,2-benzotiazincarbossammide- 1,1-diosso. Da questo motivo strutturale derivano il termine ossicami e il suffisso “ossicam”. Il sostituente R alla funzione carbossiammidica è in genere un eteroarile, quale ad esempio la piridina nel pirossicam. In derivati sviluppati più recentemente l’anello benzotiazinico è sostituito da un anello tienotiazinico, tenossicam, mentre drossicam, ampirossicam e cinnossicam sono profarmaci del pirossicam. Tutti i componenti della classe sono dotati di attività antinfiammatoria, analgesica ed antipiretica. Studi meccanicistici volti a esplorare le basi molecolari dell’inibizione delle COX da parte delle enolcarbossiammidi, suggeriscono che il gruppo chetoenolico, presente alla posizione 4 dell’anello ariltiazinico, pKa compreso tra 4 e 6, si comporta come bioisostero della funzione carbossilica. Ciò favorisce l’inibizione della COX attraverso interazioni analoghe a quelle dei classici FANS. Dal punto di vista delle SAR, le carbossiammidi eterocicliche sono più attive dei corrispondenti analoghi arilici o alchilici. Ciò è stato attribuito in particolare alla maggiore acidità dei derivati eteroarilici, in cui l’anione enolato è ampiamente stabilizzato dalla risonanza. Dal punto di vista farmacocinetico, gli ossicami mostrano in generale una lunga durata d’azione dovuta a diversi fattori, quali un lento assorbimento, in particolare per il pirossicam, il riassorbimento del farmaco attraverso la circolazione enteroepatica. La lunga durata d’azione può rappresentare un vantaggio rispetto ad altri FANS, in quanto ne consente una singola somministrazione giornaliera. Oltre agli effetti collaterali comuni agli altri FANS, sono stati rilevati sintomi di rilevanza tossicologica a carico del SNC, manifestazioni cutanee ed alterazione del sistema ematopoietico. Nimesulide Tra i FANS di un certo rilievo clinico, troviamo la nimesulide, una arilsolfonammide che deve il suo successo a un migliore profilo di tollerabilità gastrica. Ciò è da attribuirsi ad una modesta selettività nei confronti della COX-2 dovuta al legame della sottostruttura arilsolfonammidica nella tasca laterale delimitata dalla Val-523. Il profilo farmacologico e tossicologico è essenzialmente quello degli altri FANS. Tuttavia, EMEA ha disposto che il farmaco può essere dispensato solo con ricetta non ripetibile, esclusivamente per il trattamento del dolore acuto, dell’osteoartrite e della dismenorrea. Paracetamolo Il paracetamolo fa parte di una più ampia serie di derivati para-amminofenolici ormai non più in uso. Esso deriva dalla modificazione strutturale dell’acetanilide. Il paracetamolo ha anche rimpiazzato la fenacetina, il suo precursore metabolico. Sebbene il paracetamolo sia uno dei farmaci ad oggi più utilizzati, il meccanismo che sta alla base delle sue proprietà terapeutiche è ancora in parte da chiarire. Infatti, il paracetamolo alle dosi terapeutiche esplica proprietà analgesiche ed antipiretiche equivalenti all’aspirina, ma possiede scarsa attività antinfiammatoria. Esso è un debole inibitore di COX-1 e COX-2 nei tessuti periferici, ma sembra che agisca preferenzialmente sulla cicloossigenasi a livello del SNC. Una possibile spiegazione è che l’isoenzima presente nel SNC sia maggiormente sensibile al paracetamolo. Un altro meccanismo proposto comporterebbe un’inibizione indiretta della COX grazie alle proprietà riducenti del paracetamolo. Queste contribuirebbero ad inattivare la cicloossigenasi o attraverso un’interazione diretta con il radicale tirosilico o attraverso il quenching di tale radicale. Si possono tuttavia casi di tossicità epatica, specie se il farmaco è utilizzato a dosi elevate, e ciò sembra da attribuirsi alla sua particolare via metabolica: mentre la maggior parte del paracetamolo somministrato si ritrova nelle urine come coniugato dell’acido glucuronico, una piccola frazione viene ossidata per formare la N-acetilbenzochinonimmina, un composto altamente reattivo che viene detossificato reagendo con il glutatione. Elevate dosi di paracetamolo consumano tutto il glutatione epatico, cosicché il metabolita chinoide del paracetamolo in eccesso è libero di reagire con i gruppi tiolici di altre proteine, con conseguente necrosi epatica e renale diffusa. Inibitori selettivi della COX-2, COXib I COXib sono una classe di antinfiammatori con la capacità di inibire selettivamente la COX-2. I più importanti esponenti di questa classe sono i derivati a struttura diarileterociclica. Sulla base della conoscenza della struttura dei siti cicloossigenasici della COX-1 e della COX-2 è stato possibile progettare un gran numero di COXib, di cui i più importanti sono quelli a struttura diarileterociclica. Celecoxib e rofecoxib sono i primi due COXib introdotti in terapia per il trattamento del dolore cronico da osteoartrite e del dolore acuto da dismenorrea. Il celecoxib è una pirazolilbenzensolfonammide, mentre il rofecoxib ha come eterociclo centrale un anello 2- oxofuranico portante in posizione 4 un gruppo metilsolfonilfenilico. Studi di grafica molecolare hanno evidenziato che entrambi i composti proiettano il gruppo amminosolfonile o metansolfonico, rispettivamente, nella tasca idrofilica della COX-2, occupandola stabilmente a seguito della forte interazione di legame a idrogeno che si instaura tra il p-sostituente ed il residuo Arg-513. Ciò non è possibile nel caso della COX-1, dal momento che la presenza dell’isoleucina ne impedisce l’accesso. Su questa base è stato successivamente sviluppato un gran numero di inibitori selettivi della COX-2, la cui struttura generale è rappresentata da un sistema eterociclico centrale a cinque o sei termini, portante su posizioni adiacenti due anelli fenilici, uno dei quali sostituito in para con un gruppo metansolfonico o amminosolfonilico. L’etoricoxib ed il lumiracoxib sono i COXib con la più elevata selettività verso la COX-2. Varie sperimentazioni hanno confermato l’azione antiflogistica e la scarsa gastrotossicità, ma purtroppo ne hanno evidenziato un’elevata incidenza di rischio cardiovascolare. Questo è dovuto al fatto che la prevalente inibizione della COX-2 induce uno sbilanciamento nella produzione dei due prostanoidi, il trombossano TxA2 e la prostaciclina PGI2. Tale sbilanciamento si riflette in un’aumentata probabilità di infarto e di ictus nei soggetti già a rischio cardiovascolare. Visto comunque il notevole interesse di questi derivati non solo nel campo dell’infiammazione, ma anche in altri ambiti terapeutici, si sta tentando di sviluppare nuovi COXib con ridotta cardiotossicità. Una prima strategia consiste nell’unire a noti COXib sottostrutture NO-donatrici. Esso, infatti, a concentrazioni pico- o nanomolari, esplica azione vasodilatatrice, inibisce l’aggregazione piastrinica, attenua l’aderenza dei leucociti e la loro attivazione, preserva la funzione glomerulare renale ed inibisce la proliferazione delle cellule della muscolatura liscia vasale. Una seconda strategia prevede la realizzazione di molecole polifunzionali che siano capaci di inibire la COX-2 e simultaneamente di modulare altri target fisiologici che riportino all’omeostasi il distretto cardiovascolare. AGENTI ANTIBATTERICI Storia degli agenti antibatterici Lo scienziato che può avanzare il diritto di essere considerato il padre della chemioterapia è Paul Ehrlich. Ehrlich dedicò gran parte della sua carriera allo studio dell’istologia, poi dell’im- munoistochimica. Il ‘principio della chemioterapia’ di Ehrlich si basava sulla capacità, da parte di un’entità chimica, di interferire direttamente con la proliferazione dei microrganismi, a concentrazioni tollerate dall’ospite. Questo concetto era comunemente noto come il “proiettile magico”. Il processo consiste in una tossicità selettiva, per cui l’entità chimica mostra tossicità maggiore per il microrganismo bersaglio piuttosto che per le cellule dell’ospite. Tale selettività può essere rappresentata dal termine “indice chemioterapeutico”, che esprime il confronto tra la dose minima efficace del farmaco e la dose massima che può essere tollerata dall’ospite. La misura di questa selettività è stata poi sostituita dal termine correntemente usato di indice terapeutico. Nel 1910 Ehrlich presentò il primo esempio di composto antimicrobico realizzato totalmente attraverso la sintesi. Questo era un composto contenente arsenico chiamato salvarsan, che mostrò attività verso la malattia del sonno, di origine protozoaria, e nei confronti della sifilide, malattia causata da spirochete. Il prodotto fu usato fino al 1945, quando fu sostituito dalla penicillina. Nel 1944 fu scoperta la streptomicina attraverso una ricerca sistematica di microrganismi presenti nel terreno. Questo antibiotico estese l’ambito della chemioterapia al bacillo della tubercolosi e ad una varietà di batteri Gram-negativi. Questo composto fu il primo degli amminoglicosidi. Dopo la Seconda Guerra Mondiale continuarono gli sforzi per trovare altre nuove molecole e queste ricerche portarono alla scoperta del cloramfenicolo, degli antibiotici peptidici, delle tetracicline, dei macrolidi, dei peptidi ciclici e, nel 1955, del primo esemplare di un secondo grande gruppo di antibiotici β-lattamici: la cefalosporina C. La cellula batterica Il successo degli agenti antibatterici è dovuto molto al fatto che essi possono agire selettivamente nei confronti delle cellule batteriche piuttosto che nei confronti di quelle animali. Consideriamo alcune delle differenze che intercorrono tra la cellula batterica e quella animale: 1. La cellula batterica non possiede un nucleo delimitato; 2. La cellula batterica è relativamente semplice; 3. La biochimica di una cellula batterica differisce significativamente da quella di una cellula animale; 4. La cellula batterica ha una membrana ed una parete cellulare; La parete cellulare è indispensabile alla sopravvivenza della cellula batterica. I batteri sopravvivono in un’ampia varietà di ambienti e di pressioni osmotiche. Se una cellula batterica venisse privata della sua parete cellulare e posta in un ambiente acquoso contenente una bassa concentrazione di sali, l’acqua entrerebbe liberamente nella cellula per osmosi. Questo causerebbe il rigonfiamento della cellula ed infine la sua lisi. I batteri possono essere classificati in Gram- positivi e Gram-negativi in base ad una tecnica di colorazione. I batteri con una spessa parete cellulare, che assorbono il colorante assumendo una colorazione viola, sono definiti Gram- positivi. I batteri con una parete cellulare sottile assorbono solo una piccola percentuale di colorante. Questi batteri si colorano poi di rosa con un secondo colorante e sono detti Gram- negativi. Sebbene i Gram-negativi abbiano una parete cellulare sottile, possiedono una membrana esterna in più rispetto ai Gram-positivi. Tale membrana esterna è composta di lipopolisaccaridi. Queste differenze a livello di parete e membrana cellulare sono responsabili della diversa vulnerabilità di Gram-positivi e Gram-negativi quando esposti ad agenti antibatterici. Meccanismi dell’azione antibatterica Cinque sono i principali meccanismi attraverso i quali agiscono gli agenti antibatterici: 1. Inibizione del metabolismo cellulare; gli agenti antibatterici che inibiscono il metabolismo cellulare sono chiamati antimetaboliti. Questi composti inibiscono il metabolismo del microrganismo attraverso una reazione catalizzata da un enzima che è presente nella cellula batterica, ma non nelle cellule animali. Gli esempi più noti sono i sulfamidici; 2. Inibizione della sintesi della parete cellulare; porta alla lisi della cellula batterica e alla sua morte. I farmaci che agiscono in questo modo includono penicilline, cefalosporine e vancomicina; 3. Interazioni con la membrana plasmatica; alcuni agenti antibatterici interagiscono con la membrana plasmati-ca delle cellule batteriche modificandone la permeabilità. Questo risulta fatale per la cellula; 4. Inibizione della sintesi proteica; comporta che gli enzimi essenziali richiesti per la sopravvivenza della cellula non vengono più prodotti. Gli agenti sono gli amminoglicosidi, le tetracicline e il cloramfenicolo; 5. Inibizione di trascrizione e replicazione degli acidi nucleici; previene la divisione cellulare e/o la sintesi degli enzimi essenziali; Agenti batterici che agiscono sul metabolismo cellulare, antimetaboliti Sulfamidici Storia dei sulfamidici I sulfamidici rappresentano i migliori esempi di composti antibatterici agenti come antimetabo- liti. La storia dei sulfamidici cominciò nel 1935, quando si scoprì il prontosil. Tuttavia, non poteva arrestare la crescita batterica in provetta. Ciò rimase un mistero fino a quando non fu scoperto che il prontosil veniva metabolizzato dai batteri presenti nell’intestino tenue degli animali da esperimento e frammentato per dare un composto chiamato sulfanilammide. Questo era il composto che rappresentava in realtà il vero agente antibatterico. Così il prontosil rappresentò il primo esempio di profarmaco. Ulteriori sviluppi portarono a una serie di solfo- nammidi che si rivelarono attive contro organismi Gram-positivi, in particolare pneumococchi e meningococchi. Nonostante i loro indubbi benefici, i sulfamidici si sono mostrati inefficaci nelle infezioni sostenute da Salmonella. Altri problemi sono derivati dal modo con il quale questi farmaci vengono metabolizzati, poiché sono ottenuti prodotti tossici. Per tali motivi i sulfamidici sono stati in seguito sostituiti dalla penicillina. La sintesi di un gran numero di sulfamidici ha portato alle seguenti conclusioni: 1. Il gruppo amminico in para è essenziale per l’attività e non deve essere sostituito. La sola eccezione si ha quando esso è un gruppo acile. Pertanto, le ammidi possono essere usate come profarmaci dei sulfamidici; 2. L’anello aromatico e la funzione solfonammidica sono entrambi necessari; 3. Sia la solfonammide che il gruppo amminico devono essere direttamente legati all’anello aromatico; 4. L’anello aromatico deve essere sostituito soltanto in posizione para; 5. L’azoto solfonammidico deve essere primario o secondario; 6. Nei sulfamidici l’unico sostituente che può essere variato è R2; Analoghi della sulfanilammide Negli analoghi della sulfanilammide R2 può essere variato introducendo un’ampia gamma di strutture eterocicliche o aromatiche, che influenzano la capacità del farmaco di legarsi alle proteine plasmatiche. Un farmaco che si lega fortemente alle proteine plasmatiche verrà rilasciato lentamente in circolo e durerà più a lungo. Variando il gruppo R2 si può agire anche sulla solubilità dei sulfamidici. Queste variazioni sono quindi determinanti per la farmacocinetica del composto. Il gruppo amminico primario dei sulfamidici viene acetilato nell’organismo e le ammidi che ne risultano hanno una ridotta solubilità che può condurre ad effetti tossici. Per esempio, il metabolita che si forma dal sulfatiazolo è scarsamente solubile e può rivelarsi fatale se blocca i tubuli renali. Si scoprì in seguito che il problema della solubilità poteva essere superato sostituendo l’anello tiazolico del sulfatiazolo con un anello pirimidinico per dare la sulfadiazina. La ragione dell’aumentata solubilità sta nell’acidità del protone legato all’NH solfonammidico. Nel sulfatiazolo questo protone non è molto acido, per cui il sulfatiazolo e i suoi metaboliti si trovano prevalentemente indissociati al pH del sangue. Sostituendo il nucleo tiazolico con il nucleo pirimidinico, si ha un aumento dell’acidità del protone dell’NH per stabilizzazione dell’anione risultante. Quindi, la sulfadiazina e i suoi metaboliti risultano essenzialmente dissociati ai valori di pH del sangue. Di conseguenza, sono più solubili e meno tossici. Applicazioni dei sulfamidici Prima dell’avvento della penicillina i sulfamidici erano i farmaci di scelta nel trattamento delle malattie infettive. Attualmente i sulfamidici hanno le seguenti utilizzazioni terapeutiche: 1. Trattamento delle infezioni del tratto urinario; 2. Colliri e bagni oculari; 3. Trattamento delle infezioni delle mucose; 4. Trattamento delle infezioni intestinali; I sulfamidici sono stati particolarmente utili nelle infezioni intestinali. Per esempio, il succinilsulfatiazolo è un profarmaco del sulfatiazolo. Il gruppo succinilico converte il sulfatiazolo basico in un prodotto acido, il che significa che il profarmaco viene dissociato nelle condizioni debolmente basiche dell’intestino. Come risultato viene trattenuto a livello intestinale. Alla fine, una lenta idrolisi enzimatica del gruppo succinilico rilascia il sulfatiazolo attivo dove necessario. Meccanismo d’azione I sulfamidici agiscono come inibitori enzimatici competitivi della diidropteroato sintetasi, bloccando la biosintesi del tetraidrofolato nella cellula batterica. Esso è importante dal momento che agisce come trasportatore di unità monocarboniose per la sintesi delle basi pirimidiniche degli acidi nucleici richieste per la sintesi del DNA. Da notare che i sulfamidici non distruggono direttamente le cellule batteriche, ma impediscono a queste di crescere e moltiplicarsi. Gli agenti antibatterici che inibiscono la crescita cellulare sono classificati come batteriostatici, mentre quelli che uccidono le cellule batteriche sono classificati come battericidi. Dal momento che i sulfamidici richiedono un sistema immunitario sano per completare l’azione di difesa, non sono raccomandati a pazienti immunocompromessi. I sulfamidici agiscono come inibitori competitivi substrato-mimetici della diidropteroato sintetasi, sostituendosi all’acido para-amminobenzoico. Una volta che si è legata al sito attivo, la solfonam- mide non permette al PABA di legarsi. Come risultato, il diidropteroato non può essere più sintetizzato. I sulfamidici sono inibitori enzimatici competitivi e producono un effetto reversibile. Ciò è dimostrato da certi microrganismi, che possono acquisire resistenza sintetizzando maggiori quantità di PABA. In questi casi, le dosi di sulfamidico devono essere aumentate per ripristinare lo stesso livello di inibizione. Il tetraidrofolato è chiaramente indispensabile per la sopravvivenza della cellula batterica, ma è altrettanto essenziale per la sopravvivenza delle cellule umane. Queste sintetizzano il tetraidrofolato seguendo un percorso diverso. Nelle cellule umane il tetraidrofolato è prodotto a partire dall’acido folico acquisito dalla dieta come vitamina. L’acido folico è veicolato attraverso la membrana cellulare da una proteina di trasporto. Riassumendo, il successo dei sulfamidici è dovuto a due differenze metaboliche tra le cellule batteriche e quelle dei mammiferi: 1. I batteri possiedono un enzima sensibile che non è presente nelle cellule dei mammiferi; 2. I batteri mancano della proteina di trasporto che permetterebbe loro di acquisire l’acido folico dall’esterno della cellula; Esempi di altri metaboliti Trimetoprim Il trimetoprim è una diamminopirimidina attiva per via orale che ha mostrato di essere un agente antibatterico e antimalarico altamente selettivo. Agisce nei confronti della diidrofolato reduttasi portando ad inibizione della sintesi del DNA e della crescita cellulare. Il trimetoprim spesso viene somministrato in associazione con il sulfamidico sulfametossazolo in una preparazione detta cotrimossazolo. Il sulfamidico inibisce l’inserimento del PABA nel diidropteroato, mentre il trime- toprim inibisce la diidrofolato reduttasi. Quindi, vengono inibiti due enzimi coinvolti nello stesso percorso biosintetico. Questo costituisce il più efficace metodo di inibizione di un cammino biosintetico, con il vantaggio che le dosi di entrambi i farmaci possono essere tenute al di sotto dei livelli di sicurezza. Questo approccio è stato definito “blocco sequenziale”. Agenti antibatterici che inibiscono la parete cellulare Penicilline Storia delle penicilline Nel 1928, Fleming notò che una coltura batterica, lasciata aperta all’aria per molte settimane, era stata infettata da una colonia di funghi. Egli giustamente concluse che le colonie di funghi stavano producendo un agente antibatterico che si stava estendendo nell’area circostante. Questo evento, considerato in assoluto, potrebbe apparire un notevole colpo di fortuna. Nella vicenda, tuttavia, erano coinvolti altri eventi favorevoli - non ultimo il clima! Questi eventi climatici costituirono le condizioni sperimentali ideali perché: 1. I funghi producessero penicillina durante il periodo freddo; 2. Le proprietà antibatteriche della penicillina si manifestassero durante il periodo caldo; Se il tempo si fosse mantenuto freddo, i batteri non sarebbero cresciuti in modo apprezzabile e non sarebbe stata osservata la scomparsa delle colonie cellulari vicine ai funghi. Se, invece, il tempo si fosse mantenuto caldo, i batteri sarebbero cresciuti più dei funghi e la penicillina prodotta sarebbe stata insufficiente. Fleming dedicò molti anni allo studio della nuova sostanza antibatterica, dimostrando che aveva notevoli proprietà antibatteriche e che, in particolare, non era affatto tossica per gli esseri umani. Sfortunatamente, la sostanza era anche instabile e Fleming non fu in grado di isolarla e purificarla. Il problema di isolare la penicillina fu alla fine risolto nel 1938 da Florey e Chain, che usarono il processo dell’essiccamento a freddo e della cromatografia, che permisero la separazione dell’antibiotico in condizioni molto più blande. Nel 1941 Florey e Chain riuscirono ad effettuare le prime prove cliniche con estratti grezzi di penicillina e ottennero un successo spettacolare. La struttura del composto non era ancora definita e si rivelò essere fonte di un acceso dibattito. La questione fu finalmente risolta nel 1945, quando Dorothy Hodgkins stabilì la struttura attraverso l’analisi ai raggi X. La sintesi di questa molecola eccezionalmente tensionata si presentò come una enorme sfida - sfida che fu fronteggiata con successo da Sheehan nel 1957. Questa sintesi totale era troppo complessa per poter essere di uso industriale, ma l’anno seguente Beechams isolò un intermedio biosintetico della penicillina chiamato acido 6-amminopenicillanico, 6-APA. Questo risultato rivoluzionò il settore delle penicilline, fornendo materiale di partenza per un’ampia serie di molecole semi-sintetiche. Struttura della benzipenicillina e della fenossimetilpenicillina La penicillina contiene un sistema biciclico fortemente instabile, che consiste di un anello β-lattamico a quattro termini fuso con un anello tiazolidinico a cinque termini. Lo scheletro della molecola suggerisce che esso deriva dalla biosintesi degli amminoacidi cisteina e valina. La catena laterale acilica varia in funzione della composizione del mezzo di fermentazione. Per esempio, il corn steep liquor contiene grandi quantità di acido fenilacetico e fornisce la benzilpenicillina, penicillina G. Un mezzo di fermentazione ricco di acido fenossiacetico dà luogo invece a fenossimetilpenicillina, penicillina V. Proprietà della benzilpenicillina La benzilpenicillina è attiva nei confronti di una serie di infezioni batteriche. Tuttavia, essa presenta diversi inconvenienti. È inefficace quando assunta per via orale e mostra uno spettro ristretto di attività antibatterica, poiché vi sono molte infezioni batteriche su cui non ha alcuna influenza - in particolare quelle provocate da microrganismi che producono un enzima detto β-lattamasi. Ciò ha fornito lo stimolo per la produzione di analoghi più attivi. Meccanismo d’azione delle penicilline La parete batterica è composta da peptidoglicano. Strutturalmente si compone di serie parallele di polimeri dati da due tipi di zuccheri, l’acido N-acetilmuramico e l’N-acetilglucosammina. Le catene peptidiche sono legate agli zuccheri NAM ed è interessante notare la presenza di D- amminoacidi in queste catene. Nella biochimica umana ci sono solo L-amminoacidi, mentre i batteri hanno degli enzimi, le racemasi, che convertono L-amminoacidi in D-amminoacidi. Sono circa 30 gli enzimi coinvolti nella biosintesi della parete cellulare, ma è lo stadio finale di cross-linking ad essere inibito dalle penicilline. L’enzima responsabile della formazione dei legami crociati è noto come transpeptidasi. Le varie specie batteriche sono caratterizzate da proprie isoforme enzimatiche, ciascuna con diverse caratteristiche, ma tutte sensibili alle penicilline, seppur in diverso grado. Nel normale meccanismo enzimatico, il residuo serinico agisce da nucleofilo per scindere il legame peptidico tra le due insolite unità di D-alanina su una catena peptidica. La D-alanina terminale si allontana dal sito attivo. La porzione pentaglicinica di una seconda catena peptidica entra quindi nel sito attivo e la glicina terminale di questa catena pentaglicinica forma un legame peptidico con la D- Ala della prima catena peptidica, rimuovendo così questa dal sito attivo a seri-na e lasciando legate insieme le due catene peptidiche. È stato proposto che la penicillina abbia una conformazione simile a quella dello stato di transizione assunto dalla porzione D-Ala-D-Ala durante il cross-linking. Una volta legata, la penicillina subisce l’attacco nucleofilo da parte del residuo serinico dell’enzima. L’enzima è in grado di attaccare l’anello β-lattamico della penicillina ed aprirlo. La struttura della penicillina però è ciclica e, come risultato, non consente la rottura in due parti della molecola né l’abbandono del sito attivo. La successiva idrolisi del gruppo estereo che tiene legata la penicillina al sito attivo non ha luogo. Se la penicillina agisce mimando il gruppo D-Ala-D-Ala, questo ci dà una ulteriore spiegazione per la sua assenza di tossicità, dal momento che non ci sono D-amminoacidi o dipeptidi D-Ala-D-Ala nelle proteine umane. Ne risulta una buona selettività per le transpeptidasi batteriche e una inattività completa nei confronti delle proteasi seriniche umane. Il composto acido 6-amminopenicillanico, 6-APA, fu identificato come uno degli intermedi sintetici di Sheehan e ciò permise la sintesi di un enorme numero di analoghi attraverso un metodo semi- sintetico. Il 6-APA è attualmente prodotto per idrolisi della penicillina G o della penicillina V con un enzima, penicillina acilasi, o attraverso metodi chimici che consentano l’idrolisi della catena laterale in presenza degli anelli β-lattamici altamente tesi. Relazioni struttura-attività delle penicilline Sono stati sintetizzati e studiati moltissimi analoghi della penicillina. Per quanto riguarda la SAR le conclusioni sono le seguenti: 1. L’anello β-lattamico, stericamente costretto, è essenziale; 2. La funzione carbossilica libera è essenziale. Questa normalmente è dissociata e le penicilline vengono somministrate sotto forma di sali di sodio o di potassio. Lo ione carbossilato forma un legame salino con l’azoto di un residuo β-amminico di lisina; 3. Il sistema biciclico è importante: esso, infatti, conferisce tensione all’anello β-lattamico, quanto più grande è la tensione, tanto maggiori sono l’attività e l’instabilità della molecola; 4. La catena laterale acilamminica è essenziale; 5. Lo zolfo è generalmente presente, ma non essenziale; 6. La stereochimica dell’anello biciclico rispetto alla catena laterale acilamminica è importante; I risultati portano all’inevitabile conclusione che solo una leggera variazione può essere tollerata dal nucleo della penicillina e che questa deve limitarsi alla catena laterale acilamminica. Analoghi della penicillina Tre sono le ragioni per la sensibilità agli acidi della penicillina G: 1. Tensione di anello; la penicillina risente di una forte tensione angolare e torsionale. L’apertura acido-catalizzata della struttura ciclica alleggerisce questa tensione mediante la rottura dell’anello β-lattamico, che rappresenta il punto di maggiore tensione; 2. Gruppo carbonilico del β-lattame estremamente reattivo; il gruppo carbonilico nell’anello β- lattamico è estremamente sensibile ai nucleofili e non si comporta come in una normale ammide terziaria, che invece è abbastanza resistente. Questa differenza di reattività è dovuta principalmente al fatto che nelle ammidi terziarie è possibile una stabilizzazione del carbonile da parte dell’atomo di azoto adiacente, che è invece impossibile nell’anello β-lattamico. L’angolo di legame migliore per un doppio legame è di 120°, ma l’angolo di legame che si instaura nel ciclo β-lattamico è di 90°. Come risultato, il doppietto elettronico rimane localizzato sull’atomo di N ed il gruppo carbonilico risulta molto più elettrofilo; 3. Influenza della catena laterale acilica; partecipazione del gruppo adiacente; Il compito diviene allora quello di ridurre il peso della partecipazione del gruppo adiacente. Questo obiettivo è realizzabile inserendo un buon gruppo elettron-attrattore nella catena laterale, che dovrebbe attirare gli elettroni dall’ossigeno carbonilico e ridurre la sua tendenza a comportarsi come nucleofilo. La fenossimetilpenicillina ha un ossigeno elettronegativo sulla catena laterale acilica. La molecola ha una maggiore stabilità agli acidi rispetto alla penicillina G; la sua stabilità gli permette di resistere all’acidità dello stomaco, per cui può essere somministrata per via orale. Per concludere, il problema della sensibilità agli acidi è stato risolto piuttosto facilmente inserendo un gruppo elettron- attrattore sulla catena laterale acilica. Il problema delle β-lattamasi è diventato critico nel 1960, quando l’ampio uso della penicillina G portò ad un aumento allarmante delle infezioni da S. aureus penicillino-resistente. Un motivo di allarme era che questi ceppi erano resistenti anche a tutti gli altri antibiotici disponibili. Fortunatamente, una soluzione al problema era proprio dietro l’angolo. La strategia è quella di impedire alla penicillina di accedere al sito attivo della penicillinasi, inserendo ad esempio un gruppo ingombrante sulla catena laterale. Questo gruppo può agire come uno ‘scudo’ (Paragrafo 14.2.1) per tenere lontano le penicillinasi e quindi impedire il legame. Ciò nonostante, rimaneva un problema: uno scudo sterico troppo ingombrante avrebbe impedito alla penicillina l’interazione con la transpeptidasi. Fortunatamente furono trovati gruppi capaci di operare questa discriminazione. La prima penicillina semisintetica non attaccata dalla penicillinasi è stata la meticillina. L’impedimento sterico è stato in questo caso ottenuto con l’introduzione di due gruppi metossilici in posizione orto sull’anello aromatico, ed inoltre la distanza tra l’anello aromatico e la funzione acilica si è ridotta di una unità carboniosa. La nafcillina è una penicillina resistente alle β-lattamasi contenente un etossi- naftalene nella struttura, che assicura l’ingombro sterico. La temocillina è un’altra penicillina resistente alle β-lattamasi, interessante per la presenza di un gruppo metossilico nella posizione 6 del β-lattame. In generale le penicilline β-lattamasi-resistenti sono tenute come ‘truppe di riserva’. Sono chiamate a combattere solo nel caso di infezioni che hanno dimostrato di essere resistenti alle penicilline ad ampio spettro d’azione a causa della presenza delle β-lattamasi. Lo spettro di azione di ogni penicillina dipende dalla sua struttura, dalla sua capacità di attraversare la membrana cellulare esterna dei batteri Gram-negativi, dalla sua sensibilità alle β-lattamasi, dalla sua affinità nei confronti dell’enzima target transpeptidasi e dalla misura in cui il batterio Gram- negativo è in grado di espellerla dalle cellule. Tutti questi fattori variano in importanza passando da un ceppo batterico all’altro. La ricerca degli antibiotici ad ampio spettro è stata una ricerca fatta di tentativi e di errori che ha implicato la preparazione di una grandissima quantità di analoghi. I cambiamenti sono limitati a variazioni sulla catena laterale ed hanno portato ai risultati seguenti: 1. I gruppi idrofobici sulla catena laterale favoriscono l’attività nei confronti dei batteri Gram- positivi, ma forniscono una bassa attività contro i batteri Gram-negativi; 2. Aumentando il carattere idrofobico, si ha un piccolo effetto sull’attività nei confronti dei Gram-positivi, ma l’attività nei confronti dei Gram-negativi diviene ancora inferiore; 3. I gruppi idrofilici sulla catena laterale hanno scarso effetto sull’attività nei confronti dei Gram- positivi oppure possono ridurla. Tuttavia, essi portano a un incremento dell’attività contro i batteri Gram-negativi; 4. L’aumento dell’attività nei confronti dei Gram-negativi sembra essere maggiore quando il gruppo idrofilico è legato al carbonio in α al gruppo carbonilico sulla catena laterale; Queste penicilline attive sia su batteri Gram-positivi che su batteri Gram-negativi sono note come antibiotici ad ampio spettro. L’ampicillina e l’amoxicillina sono antibiotici attivi per via orale aventi una struttura molto. Entrambi i composti sono acido-resistenti grazie alla presenza di un gruppo amminico elettron- attrattore. Non hanno alcun ingombro sterico, di conseguenza sono sensibili alle β-lattamasi. Sono scarsamente assorbite a livello intestinale, poiché sia il gruppo amminico che quello carbossilico sono ionizzati a pH fisiologico. Questo problema può essere minimizzato facendone dei profarmaci in cui uno dei gruppi polari sia mascherato da un gruppo rimovibile per via metabolica una volta assorbito. La carbenicillina è stata il primo esempio di questa classe di composti. L’ampia attività contro i Gram-negativi è dovuta al gruppo acido idrofilico sulla catena laterale. Il carbonio in α è chirale e solo uno dei due enantiomeri è attivo. La carfecillina e l’indanil carbenicillina sono profarmaci della carbenicillina e mostrano un maggiore assorbimento attraverso la parete intestinale. Gli esteri arilici sono migliori come profarmaci rispetto agli esteri alchilici, perché sono chimicamente più sensibili all’idrolisi a causa dell’effetto induttivo elettron-attrattore del gruppo arilico. La ticarcillina è simile in struttura alla carbenicillina, ma presenta un anello β-tienilico al posto di quello fenilico. Cefalosporine Cefalosporina C Il secondo grande gruppo di antibiotici β-lattamici scoperto è stato quello delle cefalosporine. La prima, la cefalosporina C, è stata isolata verso la metà degli anni 1940. La struttura della cefalosporina C è simile a quella della penicillina, poiché anch’essa possiede un sistema biciclico contenente un nucleo β-lattamico a quattro termini. Qui, però, questo nucleo è fuso con un anello diidrotiazinico a sei termini. Questo anello più grande riduce parzialmente la tensione nel sistema biciclico, ma resta sempre un sistema reattivo. La cefalosporina C rispetto alle penicilline non è particolarmente potente, ma la sua azione antibatterica è ugualmente efficace nei confronti di batteri sia Gram-positivi che Gram-negativi. Un altro vantaggio sta nel fatto che essa ha un’elevata resistenza all’idrolisi acida e alle β-lattamasi. Dà inoltre un basso rischio di reazioni allergiche collaterali. Sono stati preparati molti analoghi della cefalosporina C che confermano l’importanza dell’anello β-lattamasi all’interno del sistema biciclico, della presenza di un gruppo carbossilico dissociato in posizione 4 e della catena laterale acilamminica in posizione 7. La tensione d’anello è minore rispetto a quanto accade per le penicilline, ma questo è parzialmente controbilanciato dall’effetto del gruppo acetilossi in posizione 3 delle cefalosporine. Questo stesso può agire come buon gruppo uscente nel meccanismo di inibizione. Nella struttura delle cefalosporine c’è un numero limitato di posizioni in cui possono essere apportate modifiche, ma ci sono maggiori possibilità di modificazioni strutturali: 1. Variazioni sulla catena laterale acilamminica in posizione 7; 2. Variazione sulla catena laterale acetilossimetilica in posizione 3; 3. Sostituzioni aggiuntive sul carbonio in posizione 7; Sintesi degli analoghi delle cefalosporine ottenuti per variazione della catena laterale in posizione 7 A differenza delle penicilline, non è stato possibile ottenere analoghi delle cefalosporine per fermentazione. Analogamente, non è risultato possibile ottenere la struttura del 7-ACA, acido 7- amminocefalosporanico, né per fermentazione né per idrolisi enzimatica della cefalosporina C. Occorreva una via per ottenere il 7-ACA dalla cefalosporina C mediante idrolisi chimica, ma un’ammide secondaria doveva essere idrolizzata in presenza di un anello β-lattamico molto reattivo. Il primo passaggio richiede la formazione di un cloruro imminico. Ciò è possibile soltanto con le ammidi secondarie, poiché la tensione del ciclo non permette all’azoto del β-lattame di formare un doppio legame. Il cloruro imminico può quindi esser trattato con un alcool a dare il corrispondente etere imminico. Il prodotto ottenuto è più sensibile all’idrolisi, per cui il successivo trattamento con acido diluito dà il desiderato 7-ACA. Cefalosporine di prima generazione Esempi di cefalosporine di prima generazione includono cefalotina, cefaloridina, cefazolina. In generale, esse sono meno potenti rispetto alle penicilline simili, ma hanno uno spettro d’azione più ampio. La maggior parte di esse è scarsamente assorbita dal tratto gastrointestinale, per cui deve essere iniettata. La comparsa di organismi resistenti è stato un reale problema, soprattutto nel caso di organismi Gram-negativi. Una delle cefalosporine di prima generazione più comunemente usate è stata la cefalotina. Cefalosporine di seconda generazione L’introduzione di un gruppo metossilico in posizione 7 dello scheletro delle cefalosporine è risultata vantaggiosa ed ha portato ad una classe di composti noti come cefamicine. Il prototipo, la cefamicina C è stato il primo antibiotico β-lattamico ad essere isolato da una coltura batterica. Modifiche della catena laterale hanno fornito la cefoxitina, che ha mostrato un più ampio spettro d’ azione rispetto alle cefalosporine di prima generazione. Si ritiene che questo sia dovuto ad una maggiore resistenza nei confronti delle β-lattamasi, correlato all’ introduzione del gruppo metossilico. Cefalosporine di terza generazione Per sostituzione dell’anello furanico delle suddette ossimminocefalosporine con un anello amminotiazolico si è riusciti ad aumentare la capacità delle cefalosporine di attraversare la membrana esterna dei batteri Gram-negativi ed anche ad accrescere la loro affinità nei confronti dell’enzima transpeptidasi. Cefalosporine di quarta generazione Sono composti zwitterionici con una carica positiva in posizione 3 e una carica negativa sul gruppo carbossilato in posizione 4. Tale proprietà sembra aumentare radicalmente la capacità di tali composti di penetrare la membrana esterna dei batteri Gram-negativi. Possiedono anche buona affinità nei confronti della transpeptidasi e bassa affinità nei confronti delle diverse β-lattamasi. Altri antibiotici β-lattamici Carbapenemi La tienamicina è stata il primo esempio di questa classe di composti. È potente e dotata di uno spettro d’azione straordinariamente ampio contro batteri Gram-positivi e Gram-negativi. Presenta bassa tossicità ed elevata resistenza alle β-lattamasi, attribuita alla presenza di una catena laterale idrossietilica. La più grande sorpresa che riguarda la struttura è la mancanza dell’atomo di zolfo e della catena laterale acilamminica. Inoltre, la stereochimica della catena laterale in posizione 6 è opposta a quella comunemente presente nelle penicilline, cosa che potrebbe spiegare la sua resistenza alle β-lattamasi. Imipenem è metabolicamente sensibile all’azione di una deidropeptidasi. In generale, i carbapenemi hanno lo spettro di attività più ampio di tutti gli antibiotici β-lattamici. Monobattami I monocicli β-lattamici come le nocardicine sono stati isolati da fonti naturali. Mostrano una moderata attività antibatterica in vitro contro un limitato gruppo di batteri Gram-negativi. È sorprendente vedere come mostrino ancora una certa attività antibatterica, pur avendo un unico anello β-lattamasi non condensato ad alcun altro sistema ciclico. Una spiegazione della sorprendente attività delle nocardicine si trova nel fatto che esse agiscono con un meccanismo differente rispetto a penicilline e cefalosporine. Le nocardicine non siano attive nei confronti dei Gram-positivi e in genere mostrino uno spettro d’azione diverso dalle altre β-lattamine. È possibile cioè che questi composti agiscano sulla sintesi della parete cellulare inibendo un enzima diverso dalla transpeptidasi; inoltre, mostrano anche bassi livelli di tossicità. L’aztreonam è un esempio di monobattame usato in clinica. Inibitori delle β-lattamasi Acido clavulanico L’acido clavulanico possiede un’attività antibatterica debole e per nulla interessante; tuttavia, si è dimostrato un inibitore potente e irreversibile della maggior parte delle β-lattamasi e viene oggi impiegato, come farmaco sentinella, in combinazione con le più tradizionali penicilline come l’amoxicillina, Augmentin. È da notare che esistono vari tipi di β-lattamasi. Sebbene l’acido clavulanico sia attivo contro molte di queste, non lo è contro tutte. La struttura dell’acido clavulanico è stata il primo esempio di nucleo β-lattamico naturale non unito con un altro contenente un atomo di zolfo. Era unito con una struttura ossazolidinica. Altra cosa insolita era la mancanza di una catena laterale acilamminica. Attualmente sono stati prodotti diversi analoghi con i seguenti requisiti, essenziali per l’attività contro le β-lattamasi: 1. Un anello β-lattamico tensionato; 2. Il gruppo enoletereo; 3. La configurazione Z per il doppio legame dell’enoletere; 4. Nessuna sostituzione in posizione C-6; 5. Configurazione R sui centri chirali nelle posizioni 2 e 5; 6. Il gruppo carbossilico; Si ritiene che il gruppo ossidrilico in posizione 9 sia coinvolto in una interazione di tipo legame a idrogeno con il sito attivo della β-lattamasi. L’acido clavulanico è un inibitore irreversibile basato sul meccanismo e potrebbe essere classificato come un substrato suicida. Derivati solfonici dell’acido penicillanico Gli agenti sulbactam e tazobactam sono stati messi a punto come inibitori delle β-lattamasi e vengono usati in terapia. Agiscono anch’essi come substrati suicidi nei confronti di tali enzimi ed hanno proprietà simili. Il sulbactam ha uno spettro d’attività più ampio contro le β-lattamasi. Il tazobactam è simile al sulbactam anche come spettro d’attività contro le β-lattamasi; la sua potenza è, tuttavia, più elevata di quella dell’acido clavulanico. Agenti antibatterici che inibiscono la sintesi proteica: traduzione Amminoglicosidi La streptomicina è un esempio di antibiotico amminoglicosidico, una struttura costituita da carboidrati che includono gruppi amminici basici. Una varietà di altri amminoglicosidi è stata isolata da altri organismi, come la gentamicina C1a. A pH 7,4, essi sono carichi positivamente e questo è utile per l’attività, che in condizioni debolmente alcaline esplicano meglio la loro attività antibatterica. La carica ionica è importante per il loro assorbimento attraverso la membrana esterna dei batteri Gram-negativi. Una interazione ionica avviene con vari gruppi carichi negativamente sulla membrana esterna, spiazzando ioni calcio e magnesio. Questi ioni normalmente agiscono da ponte tra molecole di lipopolisaccaridi vicine ed il loro allontanamento comporta un riarrangiamento di tali molecole a formare pori. La molecola deve ancora attraversare la membrana cellulare per entrare nella cellula e tale attraversamento è un processo energia-dipendente. Una volta attraversata la membrana, il farmaco rimane intrappolato all’interno della cellula. Una volta avvenuto il legame con i ribosomi, viene inibita la sintesi proteica. In alcuni casi la sintesi proteica termina con la formazione di una proteina più corta. Questo può portare in seguito ad un aumento della permeabilità cellulare, che consente una maggiore entrata di farmaco. Gli amminoglicosidi sono battericidi piuttosto che batteriostatici e si pensa che la loro attività possa essere dovuta agli effetti sia sui ribosomi che sulla membrana esterna. Tetracicline Le tetracicline sono antibiotici batteriostatici con un ampio spettro d’azione e rappresentano il tipo di antibiotico più largamente prescritto dopo le penicilline. Sono anche capaci di attaccare il parassita della malaria. Una delle tetracicline più note è la clortetraciclina, isolata nel 1948 Altre tetracicline sintetizzate e sviluppate sono, ad esempio, la tetraciclina e la doxiciclina. Le tetracicline inibiscono la sintesi proteica legandosi alla subunità ribosomiale 30S ed impedendone il legame con l’amminoacil-tRNA. Ciò non permette l’ulteriore addizione di amminoacidi sulla catena proteica in crescita. Nel caso di batteri Gram-negativi, le tetracicline attraversano la membrana esterna per diffusione passiva attraverso le porine. Il passaggio attraverso la membrana interna è dipendente da un gradiente di pH, che suggerisce che sia coinvolto nel processo un trasportatore a pompa protonica. Cloramfenicolo Il cloramfenicolo è preparato per sintesi. Ha due centri chirali, ma solo l’isomero R,R è attivo. Il cloramfenicolo si lega alla subunità ribosomale 50S e agisce inibendo il movimento dei ribosomi lungo l’RNA messaggero, Poiché esso si lega nella stessa regione del ribosoma in cui si legano macrolidi e lincosamidi, questi farmaci non possono essere usati in combinazione. Sia il gruppo nitro che le due funzioni alcoliche sono coinvolti nelle interazioni di legame. Anche il gruppo dicloroacetammidico è importante, ma può essere sostituito. Il cloramfenicolo è abbastanza tossico e questa sua tossicità sembra sia da attribuire alla presenza del gruppo nitro. Macrolidi I macrolidi sono agenti batteriostatici. L’esempio più noto è l’eritromicina. La sua struttura consiste di un anello lattonico macrociclico a 14 membri con attaccati uno zucchero ed un amminozucchero. L’eritromicina agisce legandosi alla subunità 50S dei ribosomi batterici ed opera inibendo la traslocazione. L’eritromicina è sensibile all’ambiente acido gastrico, ma può essere somministrata per via orale in forma di compresse. Tale sensibilità agli acidi è dovuta alla presenza di un chetone e di due gruppi alcolici che in condizioni acide danno la formazione acido-catalizzata di un chetale intramolecolare. Un modo per prevenire questa reazione è la protezione dei gruppi alcolici. La claritromicina è un metossi-analogo della eritromicina più stabile all’ambiente gastrico e con un maggiore assorbimento per via orale. L’azitromicina è un macrociclo a 15 termini in cui un gruppo N-metile è stato incorporato nel macrociclo. Il cladinosio della eritromicina è stato rimpiazzato da un gruppo chetonico e un carbammato ciclico è stato fuso alla struttura macrociclica. I due gruppi ossidrilici che nella eritromicina sono responsabili della formazione del chetale intramolecolare sono stati mascherati, uno come gruppo metossi e l’altro come parte dell’anello carbammico. Ossazolidinoni Gli ossazolidinoni sono una classe di antibatterici di sintesi. Inibiscono la sintesi proteica in una fase molto precoce rispetto agli altri antibiotici e quindi non soffrono degli stessi problemi di resistenza. Gli ossazolidinoni si legano alla porzione 50S del ribosoma impedendo la formazione del complesso 70S. Come risultato, il processo di traduzione non può iniziare. Il linezolid è stato il primo di questa classe di composti ad entrare in commercio. Studi di cristallografia ai raggi X hanno rivelato che si lega ai ribosomi ed hanno consentito di sviluppare analoghi ancora più potenti. Il radezolid è uno di questi, come conseguenza di un’ulteriore interazione di legame, strategia di estensione. Farmaci che agiscono sulla trascrizione e sulla replicazione degli acidi nucleici Chinoloni e fluorochinoloni I chinoloni ed i fluorochinoloni sono agenti antibatterici particolarmente usati nel trattamento delle infezioni delle vie urinarie. L’acido nalidixico è stato sintetizzato nel 1962. Vari analoghi sono stati sintetizzati con proprietà simili all’acido nalidixico. Un grosso passo avanti è stato fatto con lo sviluppo della enoxacina, caratterizzata da un più ampio spettro di attività. Lo sviluppo è stato basato sulla scoperta che un singolo atomo di fluoro introdotto in posizione 6 incrementava enormemente l’attività e il grado di uptake nella cellula batterica. Un residuo basico inserito in posizione 7 ha dimostrato di migliorare il profilo farmacocinetico del composto, grazie alla capacità del gruppo basico di formare uno zwitterione con l’acido carbossilico in posizione 3. La successiva introduzione di un sostituente ciclopropilico in posizione 1 ha ulteriormente aumentato lo spettro d’azione, mentre la sostituzione dell’azoto endociclico in posizione 8 con un atomo di carbonio ha ridotto gli effetti indesiderati. Questi studi hanno condotto alla ciprofloxacina il più attivo dei fluorochinoloni contro i batteri Gram-negativi. I chinoloni e i fluorochinoloni inibiscono la replicazione e la trascrizione del DNA batterico stabilizzando il complesso formato da DNA e topoisomerasi. Nei batteri Gram-positivi il complesso stabilizzato è tra il DNA e la topoisomerasi IV. Nei batteri Gram-negativi il principale target per i fluorochinoloni è il complesso tra DNA e topoisomerasi II, detta DNA girasi. Sono molti i fluorochinoloni sintetizzati fino ad oggi. Questi agenti chemioterapici hanno un sistema biciclico caratterizzato da un anello 4-piridonico ed un acido carbossilico in posizione 3. Un problema comune alla prima ed alla seconda generazione di fluorochinoloni è la moderata attività nei confronti dello S. aureus, con una rapida insorgenza di episodi di resistenza. La terza generazione di fluorochinoloni, come ofloxacina, levofloxacina e moxifloxacina e besifloxacina, cominciò ad essere sviluppata nei primi anni 1990 con l’intento di risolvere tali problemi. Resistenza ai farmaci Resistenza ai farmaci mediante mutazione I batteri si moltiplicano a una velocità così alta che potrà verificarsi sempre un’occasione pe

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