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Questo documento è un manuale aggiornato sulla codicologia medievale, scritto in italiano. Si concentra sui problemi principali della disciplina, riassumendo la materia e fornendo una bibliografia ragionata degli ultimi anni. Il destinatario principale è lo studente o il professore universitario.

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STORIA DEL LIBRO MANOSCRITTO ARCHEOLOGIA DEL LIBRO MANOSCRITTO 0 Premessa Il testo si presenta come un nuovo manuale aggiornato riguardo alla codicologia medievale, di formato modesto e in lingua italiana, cosa assolutamente non scontata. Lo scopo è mostrare i problemi principali di q...

STORIA DEL LIBRO MANOSCRITTO ARCHEOLOGIA DEL LIBRO MANOSCRITTO 0 Premessa Il testo si presenta come un nuovo manuale aggiornato riguardo alla codicologia medievale, di formato modesto e in lingua italiana, cosa assolutamente non scontata. Lo scopo è mostrare i problemi principali di questa disciplina, e non una raccolta di fonti e dati sparsi, il testo è diviso in due parti: 1) breve riassunto della materia 2) una bibliografia ragionata sulla produzione degli ultimi anni. Il destinatario principale è lo studente o professore universitario. Le più recenti rassegne equivalgono a oltre 10 anni fa, e purtroppo c’è il problema della lingua; ed inoltre quasi tutti si sono focalizzati sul manoscritto di origine latina, mentre la parte greca (tranne rari casi) è praticamente ignorata. Una svolta arriva un pò con la rivista ‘Scriptorium’, e infatti è una delle fonti principali per il nostro studio. Altra difficoltà sta proprio nel capire cosa sia la codicologia: letteralmente studio del codice, ma è stato ampliato a studio dell’intera produzione manoscritta. Il libro non è un oggetto a sé stante, ma è una scatola di contenuti, non solo un oggetto di studio ma anche una funzione simbolica e sacra. Ci sono numerosissimi aspetti da considerare, ma ne sono stati rimossi molti, e ci focalizzeremo solo sugli aspetti della fabbricazione materiale del libro. Ci si è focalizzati sul mondo greco e latino. Le fonti primarie usate sono quelle uscite nel periodo 1980-2001, anche perché la codicologia è abbastanza recente come disciplina. 1 Orientamenti e problematiche della ricerca codicologica Lo studio del manoscritto nella sua specificità di oggetto è molto recente, tanto che ancora a inizio ‘900 il codice era considerato un mero contenitore di testi, e questo per una errata concezione per cui fosse ritenuto ‘banale’ in quanto privo di un significato più profondo, come scrittura e pittura. Tanto che la codicologia nasce non come disciplina autonoma, ma come un aspetto della filologia. La svolta avviene a metà secolo con la nascita della rivista belga ‘Scriptorium’, e l’interesse dei creatori era di creare una disciplina nuova, giovane e libera da altre. Tanto che definirono la codicologia come l’archeologia del libro, cioè un insieme di competenze volte a comprendere la nascita del manoscritto. Con la nascita dell’informatica (anni Sessanta) la disciplina assume sempre maggiore rilievo. Ovviamente ci furono limitazioni come la mancanza di fondi oppure una difficoltà nella massiccia raccolta dei testi. Il fondatore de facto di questa disciplina è il belga Leon Gilissen, studioso degli anni settanta del XX secolo, ed è definito tale per il suo scopo primario di indagare a fondo tutto il processo della nascita del testo. Per lui la fabbricazione di un testo non è altro che il riassunto del risultato di numerose operazioni tecniche da analizzare a lungo, vuole ‘vedere da dietro’ il lavoro. Questo modo di studiare i testi è anche frutto della propria esperienza nella Biblioteca Reale di Bruxelles, dove si era occupato del restauro. Tutto questo per evitare un processo molto pericoloso: un'indagine invasiva che possa danneggiare il testo, e quindi l’idea è di studiare il codice nei suoi aspetti per evitarla. Questa necessità si è fatta presente anche in Italia, con la nascita dell’Istituto centrale per la patologia del libro (1938), oggi con nome leggermente diverso. Ovviamente esiste comunque un rischio che la grande frammentazione di conoscenze possa portare a danni importanti. Ed infatti si sono usate nel tempo numerose tecnologie per cercare di sostituire i limiti dell’occhio umano, per quanto si siano evolute molto più lentamente del previsto. Anche perché spesso sono invasive e distruttive, e richiedono personale molto specializzato, ma di contro quelle non invasive richiedono costi enormi, e materiali molto difficili da trovare e spesso enormi. Questo per dire che la codicologia strumentale non è priva di incertezze: da un lato la tecnologia progredisce, di contro ci sono critiche ideologiche da parte di alcuni studiosi o appunto i limiti pratici. Molto più semplici sono le prospettive di far emergere dal nulla dei testi vari, che sono nascosti tra le righe e invisibili a occhio umano. La parola palinsesto, cioè la pratica su cui è già presente un altro testo, fa ovviamente venire in mente il cardinale Angelo Mai, che ritroverà il libro VI del De Republica di Cicerone in questo modo, cioè raschiando un testo e andando nella sua versione più antica. Ovviamente oggi nessuno farebbe un lavoro così distruttivo, per questo si parla di restauro virtuale, perché le interazioni fisiche tra testo e macchina sono molto limitate, e vengono fatte con delle fotografie, per quanto questo sistema non sia così recente, visto che un esempio è la lampada di Wood a raggi ultravioletti nel 1935, ancora oggi usata in alcune biblioteche. La codicologia quantitativa, iniziata dal Gilissen, si basa sulle analisi delle caratteristiche materiali, per poi riunire i dati per fare delle elaborazioni statistiche. Ufficialmente questa visione viene fatta iniziare nel 1980, con la pubblicazione dei ‘Trois essais’ di Bozzolo e Ornato, dedicati a tre momenti della produzione del manoscritto: 1) Francia medievale 2) costruzione dei fascicoli di codici cartacei del XV secolo 3) evoluzione dei fogli nel medioevo occidentale Le caratteristiche comuni in questo studio in tutti e tre i periodi sono due: a. perdita dell'individualità del singolo libro, a favore di una indagine su numerosi campioni anonimi b. perdita della singolarità dei dati osservati, cioè classificare sistematicamente in un ampio parametro di ‘parametri banali’ che compaiono in tutti i testi presi in esame Ovviamente è stata criticata da molti studiosi come non un metodo di ricerca, quanto l’illusione di usare i numeri per studiare; tanto che gli studiosi del movimento hanno detto che fosse semplicemente un metodo di studio per quanto riguarda i testi in epoca medievale. Il libro è visto come un elemento della storia intellettuale, culturale, artistica, tecnologica, ma anche della storia sociale ed economica: la sua produzione può essere significativamente influenzata, ad esempio, da eventi come la peste, che determinano sovvertimenti a livello demografico, o da imperativi contrastanti, come la leggibilità del testo e la gestione parsimoniosa dello spazio. Dato che però ci sono numerosi elementi che rendono unico un pezzo e non un altro, è nata la codicologia comparativa per analizzare il singolo testo. Essendo una disciplina molto recente, anche un vero e proprio manuale è nato molto dopo, anche perché alcuni studi precedenti (come Wattenbach dell’1800) sono stati ritenuti superati. Tra i testi principali si potrebbero segnalare gli studi nel mondo spagnolo di Elisa Ruiz (1988), ma privo di un approccio critico, o gli studi nel mondo del Levante come Déroche per gli arabi o Beit-Arié per gli ebrei. Molto apprezzato è il testo del belga Lemaire (1989), il quale è una ripresa di Gilissen, mentre in Italia si potrebbe citare lo studio di Paul Canart per la Scuola Vaticana di Paleografia. Mancando la manualistica, la terminologia ha cercato di riempire il vuoto, visto anche che la terminologia è una delle spie dello sviluppo di una certa disciplina. Un esempio molto famoso è il primo Vocabolario Codicologico, di origine francese e redatto nel 1985, curato da Muzerelle, e seguito nel 1995 da studi nella lingua italiana e castigliana. Ogni opinione espressa in merito alla qualità, alla quantità e alla fruibilità dell'informazione codicologica oggi disponibile in Rete è inevitabilmente esposta al rischio di risultare rapidamente superata da evoluzioni ulteriori e al momento difficilmente prevedibili: le considerazioni che seguono si limitano quindi a «fotografare» a grandi linee la situazione attuale, con l'intento di fornire, soprattutto, all'utente meno esperto della Rete, un'idea d'insieme ed una classificazione sommaria del materiale disponibile, evidenziando anche alcuni limiti significativi. La maggior parte dell'informazione relativa al libro manoscritto reperibile su Internet è condizionata da una serie di difetti, in larga parte indipendenti dalla specificità dell'argomento: - eterogeneità di chi scrive → non tutti hanno la stessa formazione - ridondanza e circolarità → i siti si rimandano a vicenda in un grande loop - assenza di coordinamento tra i vari siti - degrado di un link/sito - incompiutezza dei contenuti - errori nelle ricerche - violazione dei diritti d’autore Ma dove posso cercare su Internet, premesse queste difficoltà? Si possono guardare: - OPAC → Online Public Access Catalogue → cataloghi di biblioteche, importante in Italia è l’Indice del Servizio Bibliotecario Nazionale - riviste e periodici online - cataloghi di manoscritti consultabili online con le loro relative immagini digitali → con i limiti della mancanza di profitti, visto che si possono vedere e consultare gratuitamente - bibliografie e repertori a fine testi - musei o mostre virtuali Altri strumenti di lavoro possono essere i portali (con tutti i limiti di manutenzioni e controlli) o siti didattici, che possono essere di semplice sintesi dei concetti o di argomenti molto specifici. I siti di riproduzione del manoscritto, cioè la possibilità di consultarlo senza averlo lì fisicamente. O i forum di discussioni con altri studiosi della materia. 2 Supporti e materiali per la scrittura e la decorazione Il papiro è strettamente legato al mondo egiziano, e risale la III millennio a.C., mentre nel mondo greco risale al IV di secolo a.C.. Ha una storia molto antica. I ritrovamenti principali si trovano in Egitto, in particolare la Palestina, e in Italia nella zona di Ercolano. Ci sarebba da fare una premessa: il fatto che le fonti siano prevalentemente egiziane non vuol dire che fosse SOLO egiziano, ma visto gli alti costi di importazione è probabile che ne fossero i più grandi utilizzatori, essendo i più ricchi della zone. Fondamentale per noi è un passo di Plinio il Vecchio, risalente alla Naturalis Historia, al libro 13 ai passi 74-82, in cui è presente un resoconto, anche se non del tutto lineare e basato su esperienze di altri. Sappiamo che i fogli di papiro (plagulae) venivano fatti sovrapponendo a due a due striscie perpendicolari (philyrae), ricavate dal fusto di una pianta (Cyperus papyrus), e erano battute in modo energico per essere compattate. La difficoltà sta nel capire: il modo in cui venissero tagliate, e quindi le loro dimensioni, la sostanza usata come colla (forse il succo della pianta e acqua del Nilo), mentre l’uso di una colla di amido era per le rifiniture, e la gerarchia qualitativa dei fogli. Le misure di Plinio divergono dai papiri che abbiamo, ma molto probabilmente è perché sono cambiate nel tempo, e le dimensioni delle piante influenzano quelle del papiro. Se ci basassimo su Plinio avremmo una larghezza di 30 cm, mentre noi ne abbiamo di massimo 20, e di altezza su 24. Venivano incollate in serie di 20, per una lunghezza totale di circa 3.5 mt, e messe sul mercato come rotoli commerciali, che potevano essere ritagliati e attaccati, sulla base delle richieste del cliente. Risulta complesso fare altri studi anche per la necessità di conservare la pianta. L’uso di un supporto animale nella scrittura è anch’esso antico, e molti pongono uno sviluppo primordiale alla pergamena nello storico scontro culturale tra la città di Alessandria e di Pergamo, grossomodo al III secolo a.C. Diventa uno dei supporti primari della scrittura del mondo greco, e rimane tale fino all’arrivo della carta nel XV secolo. Tutte le ‘ricette’ risalgono al Medioevo. Le tappe sono simili a quelle della confezione del cuoio: lavaggio, eliminazione del sale dalla pelle, immersione in un bagno di calcio per eliminare il grasso, depilazione; specifiche invece sono: tensione della pelle sul telaio, eliminazione dei resti di carne o pelle, riparazione di difetti e levigatura. La tensione sul telaio porta all’allineamento in fasci paralleli delle fibre di collagene (che stanno nella pelle) e conferisce al materiale le caratteristiche ideali per scrivere. La tecnica è cambiata nel corso del tempo. Negli ultimi anni sono stati fatti numerosi e importanti progressi negli studi della pergamena, e si è arrivati al volume ‘Pergament’ (1953) con una ricchissima bibliografia. Oggi si usa anche lo studio del DNA per cercare di capire la specie esatta usata. Trovare la specie corrisponde a tre finalità diverse molto importanti: 1) stilare una mappa geocronologica della diffusione delle specie 2) comprendere le logiche sottese alla scelta di una specie piuttosto che di un'altra 3) desumere indicazioni utili per capire le dimensioni delle pelli Fatto sta che la pergamena non si presenta come una superficie compatta e uniforme, ma conserva caratteristiche che fanno capire qualche animale fosse quello usato. Una lavorazione fatta pene tenda a cercare di eliminare gli scalfi, cioè le parti dove era attaccata la zampa, che invece è la cosa cercata oggi per capire che animale fosse usato. Lo spessore era limitato, cioè tra i 100 e i 400 millesimi di millimetro, e si è sviluppata una tendenza medievale nel tentativo di diminuire sempre di più lo spessore. L'analisi dell'omogeneità degli spessori misurati su più punti dello stesso bifoglio consente di quantificare la maggiore o minore attenzione portata alla lavorazione uniforme delle pelli nell'intento di attenuare le discontinuità delle sezioni naturalmente più spesse, come la linea della schiena. Dai primi sondaggi compiuti sembra che l'uniformità dello spessore delle superfici («planarità») non sia stato né un obiettivo uniformemente perseguito, né un connotato indispensabile della qualità della pelle lavorata. Il rilevamento degli spessori ha fornito, insieme ad altri indizi, nuovi elementi per chiarire il rapporto fra i bifogli e le pelli da cui sono stati ritagliati, contribuendo alla revisione delle ipotesi comunemente accettate sulla confezione dei fascicoli. L'osservazione della pelle si è estesa di recente anche ai difetti della lavorazione, in particolare ai fori visibili sulla superficie della pagina. Quantità e posizione dei fori sono state valutate come indicatori semplici e obiettivi della qualità globale delle pelli disponibili e, di riflesso, come indicatori della qualità dei libri prodotti. Molto più difficile risulta lo studio della storia della carta, in quanto ha avuto una evoluzione molto lunga (dal I secolo d.C. al XIX), e una zona enorme. Purtroppo non esiste una bibliografia generale, e bisogna studiare le enormi quantità di testi singoli; mentre sono stati fatti numerosi studi per la ‘carta orientale’. È opinione comune che le fonti utilizzabili per la storia della carta siano assai più ricche, quantitativamente e qualitativamente, di quanto non lo siano per la pergamena; ma per il Medioevo è difficile in quanto solo dopo il XVI secolo abbiamo informazioni in massa, spesso riguardanti compravendite di mulini. E solo dal XVIII abbiamo dei manuali, in quanto prima la sua fabbricazione era tramandata a voce, venendo considerata un'arte meccanica. Tanto che fonti antiche come l’Encyclopédie di Diderot viene considerata un'opera primaria. Di tutte le apparecchiature e gli utensili impiegati dai primordi della produzione della carta a mano fino all'avvento della fabbricazione meccanizzata della carta non rimangono che rari specimina del XIX secolo, il che elimina qualsiasi possibilità di osservazione archeologica diretta. Al contrario numerosissimi sono ancora i fogli di carta conservati nelle biblioteche e negli archivi sotto forma di libri, di registri o di documenti sciolti, che costituiscono quindi un campo di osservazione praticamente inesauribile. Esaminato in trasparenza, infatti, un foglio di carta evidenzia numerose particolarità che consentono di risalire non solo alle tecniche di fabbricazione, ma anche alla sua origine. Va sottolineato, infine, il ruolo svolto dalla filigrana (incisione cartacea) nella datazione dei documenti grafici cartacei, dato l' interesse che esso ha suscitato ben al di là della storia della carta, e data soprattutto la grande quantità di lavori direttamente o indirettamente connessi all'argomento. Tra le opere principali da segnalare c’è lo studio di Dard Hunter. L’unica grande opera che cerca di riassumere tutto è Les Fligranes di Briquet (1907). Le cartiere bresciane, che si sviluppano a partire dalla metà del XV secolo, rifornivano in particolare Venezia, l'Austria, la Dalmazia e l'Impero ottomano. Altri contributi riguardano il Trentino e Milano, città certamente ricca di mulini, ma ben rappresentativa della povertà della documentazione conservataci per il secolo XV. Il concetto di «diffusione della carta>> non può esaurirsi comunque in una semplice mappa dello sviluppo progressivo dei centri di produzione o nella giustapposizione di numerosi «resoconti di attività» delle cartiere, e ciò anche perché la correlazione fra lo sviluppo dei centri di produzione e l'incremento dei consumi è lungi dall'essere perfetta. La carta si diffonde prima negli archivi europei, poi nelle biblioteche, secondo un processo che si rivela ricco di contrasti e di sfumature. La produzione è divisa in 3 fasi: 1) macerazione → degli stracci in dei mulini ad acqua vengono schiacciati da grandi ruote e resi della polpa 2) fabbricazione dei fogli → in una tina vengono immersi due telai di legno (forme gemelle), che hanno lo stesso cascio, cioè la stessa cornice, su questa cornice sono fissati (lato corto) dei bacchetti a forma di triangolo (colonnelli), che sostengono piccoli fili di metallo, in perpendicolare e cuciti alle bacchette. L’agitazione di questa forma fa uscire l’acqua e la polpa si uniforma su questa trama, e poi messo su una pila di feltro 3) preparazione dei fogli per l’uso → i fogli vengono pressati e l’umidità va via, successivamente avviene la collatura per renderli impermeabili, vengono lisciati ed eliminati quelli difettosi, e poi uniti in risme, cioè delle pile Un bel resoconto è fornito da La Lalande (seconda metà 1700), ma ne manca una versione critica visto che abbiamo solo un riassunto basilare di Federici e Rossi (seconda metà 1900). Va sottolineato che tutte le fasi del ciclo, e tutti i momenti di ogni fase, creano numerose difficoltà al fabbricante: «naturali» (si pensi alla qualità dell'acqua e alla quantità necessaria, nonché all' influsso delle condizioni climatiche), tecnologiche ed economiche; tali difficoltà si ripercuotono sulla qualità del manufatto e, di conseguenza, sul consumatore. La maggior parte della bibliografia relativa agli aspetti tecnologici della storia della carta riguarda l'utensile che serviva alla fabbricazione dei fogli: la fanna. Privilegio comprensibile, se non altro per il fatto che, mentre nulla ci è rimasto delle altre apparecchiature all' infuori di qualche rara e estremamente sommaria descrizione negli inventari, la trama metallica della fanna è inscritta nettamente e indelebilmente in decine di migliaia di fogli e può rivelarsi una preziosa fonte di informazioni. L'unica monografia interamente dedicata alla fanna - il volume di Edo Loeber - è tuttavia prevalentemente riconducibile ad un altro filone, e cioè all’«archeologia sperimentale, promossa essenzialmente da quanti si ingegnano ancor oggi a fabbricare carta a mano cercando di riprodurre il più fedelmente possibile l'esperienza e la manualità degli artigiani di un tempo. Non va trascurato, inoltre, un terzo filone di indagine, rappresentato soprattutto dai lavori di Theo Gerardy, e cioè l'utilizzazione delle caratteristiche della trama come elemento indispensabile ad una corretta identificazione delle singole fanne per ricostituire nella diacronia l'attività produttiva di una cartiera (Arensburg, XVII secolo) che per determinare la durata d'uso dell'utensile; dato, quest'ultimo, che si rivela essenziale ai fini della datazione tramite le filigrane. Per ricostituire un panorama della qualità reale del prodotto e tracciarne l'evoluzione, occorre sottoporre a misure obiettive vasti corpora di fogli, il che necessita di strutture e di mezzi importanti e non sempre facilmente accessibili. Ciò detto, fatta eccezione per la regolamentazione bolognese (nota soltanto molto parzialmente, in quanto è all'origine della famosa «lapide di Bologna» che raffigura i rettangoli corrispondenti alle dimensioni prescritte per le forme), quasi tutte le informazioni disponibili attraverso le fonti documentarie si trovano sparse in lavori monografici, e solo da pochissimo tempo un buon numero di notizie sugli aspetti qualitativi della produzione e del commercio della carta è stato raccolto in un primo tentativo di sintesi. È noto che la totalità dell'Europa ha utilizzato per secoli i medesimi formati - assai simili, peraltro, ai nostri DIN A3 e A4 - ma ciò non significa che la loro stabilità fosse assoluta. Per ciò che riguarda le osservazioni strumentali più complesse, va lamentata l'assenza di qualsiasi analisi a fini storici delle fibre di cellulosa che compongono la carta. Fino ad oggi, le sole misure strumentali della carta in una prospettiva diversa da quella conservativa sono quelle effettuate nel quadro dell'operazione «Progetto carta>> - promossa dall' «Istituto centrale per la patologia del libro» - e si riferiscono allo spessore e al «grado di bianco» in un corpus di libri manoscritti e a stampa originari dell'Italia nord-orientale. L'analisi ha evidenziato una tendenza costante ed omogenea alla diminuzione dello spessore, soprattutto dopo l'avvento del libro a stampa. Come già si è accennato, la maggioranza assoluta dei lavori sulla storia della carta a mano ha come centro di interesse la filigrana: raffigurazione di un «soggetto», ottenuta piegando appositamente un filo di metallo non ferroso, che veniva cucita per lo più nel centro di una delle due metà della forma. Questa onnipresenza della filigrana nella storiografia della carta è imputabile alla sua «valenza emblematica>>: mentre le altre caratteristiche della trama della forma si perdono nell'anonimato e possono ritrovarsi praticamente identiche in decine di migliaia di fogli la filigrana è invece ricca di elementi figurativi che favoriscono il lavoro d'identificazione e di confronto. La natura del soggetto e le particolarità del disegno rendono ai fogli di carta la loro individualità e consentono al tempo stesso di raggrupparli in insiemi omogenei: la presenza di filigrane identiche accomuna tutti i fogli originati dalla medesima forma in una medesima cartiera, quali che ne siano il luogo e la data d'uso. Chi fabbricava le filigrane, e con quali procedimenti? La ricchissima bibliografia sulle filigrane contiene un solo articolo, peraltro non molto recente. In realtà, solo una delle caratteristiche materiali della filigrana è stata presa seriamente in considerazione: la deformabilità. Fin dalla metà del XIV secolo, è attestato che la filigrana fungeva da marchio di fabbrica, e perciò di proprietà; sappiamo inoltre che per tutelare gli interessi dei consumatori era previsto l'impiego di almeno due filigrane distinte per contrassegnare carta di qualità diversa. Allo stato attuale della ricerca, è impossibile garantire che due filigrane di soggetto identico provengano veramente dallo stesso stabilimento; analogamente, nulla garantisce che due filigrane coeve di soggetto diverso provengano da mulini diversi. L'unica ricostituzione anno per anno della produzione di una cartiera attraverso l'analisi sistematica della trama visibile sui fogli di carta è quella, già citata, operata da Theo Gerardy per la cartiera tedesca di Arensburg. L'analisi è risultata possibile solo perché le filigrane della cartiera contengono tutte una foglia di ortica, emblema del principato locale. Al di fuori di queste circostanze privilegiate, è assai raro che un disegno di filigrana possa essere ricondotto con certezza ad una determinata cartiera. A che serve, allora, raccogliere sistematicamente così tanti specimina di filigrane? La risposta è semplice: non tanto ad agevolare l'accesso a un vastissimo materiale di base indispensabile alla storia della carta, quanto piuttosto a facilitare la datazione dei documenti grafici. Due sono i repertori di filigrane cui ricorrono prevalentemente gli studiosi: Les filigranes di Briquet, che risale a un secolo fa, ma che è stato ripubblicato nel 1968 in forma ampliata, riveduta e corretta da Allan Stevenson e il Findbuch di Gerhard Piccard, di cui sono stati pubblicati nel corso dell'ultimo trentennio 25 volumi relativi a 17 soggetti o gruppi di soggetti. Benché simili nella struttura i due repertori differiscono profondamente nell' impostazione: il Findbuch si configura come una lista pura e semplice di disegni accompagnati unicamente dalla menzione dell'anno e del luogo d'uso del foglio di carta corrispondente. Il repertorio di Briquet al contrario è una vera e propria miniera di informazioni di carattere storico sulle filigrane e, più in generale, sulla produzione e sul commercio della carta. Indipendentemente dai loro pregi e difetti rispettivi, entrambi i repertori principali non sono in grado di svolgere pienamente il loro ruolo di «serbatoi» di immagini finalizzati alla datazione: Les filigranes è troppo povero di riproduzioni; il materiale riunito nel Findbuch è invece troppo connotato sul piano geografico, in quanto proviene in massima parte dagli archivi dei Paesi germanici. Va notato, tuttavia, che le filigrane riprodotte sono !lungi dall'esaurire il materiale raccolto dai due studiosi: decine di migliaia di disegni inediti sono infatti conservati presso la «Bibliothèque publique et universitaire» di Ginevra e nello «Hauptstaatsarchiv» di Stoccarda. Al momento attuale, la catalografica delle filigrane attraversa un periodo di transizione, per non dire di crisi. In questo àmbito, un'iniziativa particolarmente riuscita e per molti versi esemplare, promossa presso la «Koninklijke Bibliotheek» dell'Aja da Gerhard V an Thienen, è costituita da WILC (Watermarks in lncunabula of Low Countries), che non solo si propone di descrivere e riprodurre tutte le filigrane reperibili negli incunaboli stampati in Belgio e in Olanda, ma prosegue alacremente e con successo (finora più di 4.000 filigrane riprodotte) l'obiettivo prefissato. Finalizzata alla datazione dei numerosi incunaboli privi di sottoscrizione tipografica, l'iniziativa brilla per il realismo degli obiettivi perseguiti e l'equilibrio della realizzazione. Questo progetto dimostra indirettamente che sarebbe oggi possibile realizzare il progetto di Roberto Ridotti, giudicato utopistico 45 anni orsono, di un censimento completo di tutte le filigrane reperibili negli incunaboli stampati in Italia. Se l'obiettivo appare ancora lontano, ciò non è dovuto soltanto ai prevedibili problemi di natura finanziaria, ma anche alla difficoltà di realizzare pienamente le finalità euristiche del database: ritrovare una data filigrana in mezzo a centinaia di migliaia e di determinare l' identità o quantificare il grado di somiglianza con altri specimina compresenti. Per ciò che riguarda i metodi di datazione, sarà sufficiente accennare, in questa sede, al principio che sottende tutte le procedure, e cioè il riscontro fra una filigrana osservata in un documento da datare e un'altra, ad essa identica o molto somigliante, reperibile in un documento datato. Una conoscenza precisa e perfetta delle strumentazioni adoperate per la lavorazione del codice è ostacolata da due problemi primari: 1) assenza pressoché totale di documentazione archeologica 2) eterogeneità delle informazioni fornite dalle fonti Le documentazioni che abbiamo tendono a far parte di queste categorie: - rappresentazioni di scribi al lavoro, per quanto molto stereotipati, e spesso basati su idee medievali - fonti testuali di origine letteraria o enciclopedica/glossografia, come l’Enciclopedia di Isidoro dove ci viene fornita una lista abbastanza vaga Abbiamo oggetti che conosciamo come righe, squadre, penne, o oggetti più complessi da comprendere come specchio, lucerna, scaldino. Di nuovo Isidoro distingue varie categorie di oggetti: - calami vegetali come cannuccia con fessura - penna di volatile - stilo di legno, o di metallo, usato forse col calamo Un apposito coltellino era impiegato per temperare e temperare la penna, a punta larga e zoppa a destra o a sinistra ovvero «a becco d'aquila», secondo l'esito grafico desiderato. Un discorso a parte va dedicato infine agli inchiostri per la scrittura, documentati da un quantitativo alquanto consistente di ricette attestate fra l'Estremo Oriente e l'Europa bassomedievale, e suddivisi nelle due categorie essenziali: - al carbone - metallo-gallici, ottenuti con reazioni chimiche con noci di galla e solfato di ferro L'analisi di inchiostri manoscritti utilizzati nella stessa epoca (secolo XI) e in aree geografiche contigue (l'Italia centrale) per trascrivere codici in romanesca, in beneventana e in minuscola greca ha messo in luce l'esistenza di differenze di composizione significative, corrispondenti alla diversità delle tradizioni grafiche e tecnico-librarie. Una menzione meritano infine gli inchiostri d'oro e d'argento adoperati per trascrivere la totalità o più spesso soltanto alcune pagine di manoscritti membranacei di pregio eccezionale; pregio talvolta ulteriormente enfatizzato anche dalla colorazione della pergamena in rosso e più raramente in blu. Come l'esistenza del testo ha occultato per secoli agli studiosi la percezione del libro in quanto oggetto, e la presenza della filigrana ha monopolizzato l'attenzione a detrimento della conoscenza della carta a mano in quanto manufatto, così gli aspetti stilistici e formali dell'apparato decorativo e illustrativo si sono naturalmente imposti come centro di interesse pressoché esclusivo, privilegiando l'eccezionalità immateriale dell'arte e relegando sullo sfondo la banale e quotidiana concretezza delle tecniche artigianali. I problemi da affrontare in questa diversa ottica possono essere classificati in tre categorie: 1) materie prime strumenti 2) tecniche per la decorazione 3) interazioni tra personaggi e luoghi della decorazione Come per tutte le altre arti «meccaniche», tramandate oralmente da maestro ad apprendista nel corso di un lungo tirocinio, anche nel campo della miniatura scarseggiano i prontuari di tipo manualistico contenenti la descrizione esauriente e dettagliata di tutte le tappe della procedura: l'anonimo trattato del XIV secolo De arte illuminandi - di cui abbiamo un unico esemplare - costituisce una fortunata eccezione. Il medioevo conosceva essenzialmente due tipologie di sostanze coloranti: - i pigmenti naturali - pigmenti artificiali D'altra parte, il solo apprezzamento visivo non consente di determinare la composizione di un colore: una medesima tonalità poteva essere ottenuta, infatti, con il concorso di diversi ingredienti e processi, per lo più indistinguibili all'occhio. Il mimetismo fra colori di diversa composizione non impediva tuttavia all'artigiano e al committente di applicare una precisa gerarchia qualitativa, facendo corrispondere l'uso di sostanze più preziose e più costose alle sezioni più visibili del codice. Esemplare, a tale proposito, è il caso del blu di lapislazzuli importato via mare dall'Oriente: non a caso, in alcuni codici umanistici esso risulta impiegato per il solo frontespizio e sostituito nel resto del volume dal meno raro e costoso azzurro della Magna o azzurrite. Meno esplorati sono i problemi relativi alle tecniche di esecuzione della miniatura, cioè alla scansione delle operazioni e alle relazioni fra i diversi attori coinvolti. Negli spazi previsti dalla mise en page, il miniatore, dopo una fase di preparazione del fondo eseguiva innanzitutto il disegno, con una punta secca o a «piombo». Il disegno stesso poteva essere eseguito a mano libera, ricalcato su un modello o forse anche riportato con la tecnica dello spolvero, punteggiando con minuti forellini il contorno del modello. Certa è l'esistenza e l'ampia diffusione di istruzioni per il miniatore, ancor oggi visibili in un gran numero di manoscritti. Può trattarsi di indicazioni discorsive o sintetiche, che forniscono precetti in merito ai soggetti da eseguire e/o ai colori da impiegare. Le istruzioni per il miniatore sembrano intensificarsi nel corso del tempo, in relazione all'affermarsi di una produzione libraria di stampo professionale: ma il fenomeno è difficile da quantificare, dato che le menzioni, iscritte in prossimità dei bordi del codice o all'interno dell'area riservata al disegno, erano destinate ad essere asportate dalla rifilatura o nascoste dagli strati di colore. Al disegno seguiva l'applicazione dell'oro. Ben poco si sa quanto all'esistenza di eventuali dispositivi atti a facilitare e ad accelerare il compito del decoratore che era remunerato sulla quantità di iniziali eseguite, in base a prezzi unitari dipendenti da altri fattori. Si tratta di una vera e propria lavorazione in serie che, per i volumi più imponenti, implicava l'esecuzione di migliaia di iniziali minori. In tale situazione, è difficile supporre che il decoratore si rassegnasse a ridisegnare a mano, una per una, tutte le lettere. L'esistenza di alfabeti di lettere-modello predisegnate, che potevano essere riprodotte meccanicamente sulla pagina con sistemi di cui ci sfugge la natura, è stata evidenziata da Léon Gilissen in un libro d'Ore del XV secolo, ove sono visibili iniziali capovolte. Lo studioso belga ipotizza che il codice sia stato trascritto su fogli non tagliati, secondo il sistema dell'«imposizione». 3 La confezione del libro Non abbiamo troppo informazioni certe per il mondo medievale e precedente. Sappiamo che Greci e che Romani usassero il rotolo di papiro. Le fonti sul papiro riguardano principalmente l’Egitto, mentre abbiamo anche rotoli di pergamena, per quanto minori in Egitto. Per il mondo latino, in cui il rotolo riprende i modelli precedenti, fa capire che ci fossero delle tradizioni locali. Le dimensioni dei rotoli sono correlati alla lunghezza del testo da contenere. il rotolo di papiro era avvolto in un umbilicus, e c’era un sillybos, cioè un piccolo cartellino di papiro con su scritte alcune sommarie indicazioni del testo come autore e contenuto. Si scriveva sulla faccia interna del testo, sulle fibre orizzontali, mentre sulla faccia esterna c’era il titolo. I rotoli letterari erano scritti in modo parallelo sul lato lungo, senza tenere conto delle kolleseis, cioè le collonne verticali, e c’era un inclinamento verso il lato sinistro; esattamente opposti erano i rotoli membranacei, prodotti ancora in Medioevo. Un altro prodotto usato erano le tavolette, che potevano essere cerate (incisione con lo stile) o non cerate (inchiostro). Potevano essere legate insieme tramite delle corte in piccoli blocchi sfogliabili, con una sequenza, utilizzati prevalentemente per i testi non dedicati alla conservazione. Abbiamo trovato anhe piccoli taccuini di pergamena. Oggi le tavolette sono state studiate come ‘l’anello di congiunzione’ tra l’antico rotolo ed il nuovo codice, codice non così nuovo, visto appunto il fatto che le tavolette potessero essere legate insieme. L’affermazione del codice avverrebbe dunque intorno al I o II secolo d.C. nel mondo romano, in connessione con il codice di pergamena. Questo serve anche ad abbattere l’idea di un passaggio radicale, visto che ci sono varie motivazioni del passaggio: pratiche (meno costi, più capienza), e ideologiche, ad esempio era usato prevalentemente dal mondo popolare cristiano. Sono estremamente numerose le forme e le strutture del libro, tanto che il termine stesso ‘libro’ ci sfugge come significato. Di contro il termine codice è molto più chiaro, perché fa riferimento ad un solo tipo di libro: un libro formato da fogli piegati in due (bifogli) e riuniti in fascicoli, legati con un filo in mezzo. Il problema sta nella definizione certa di unità codicologica, in quanto la struttura fascicolare distingue il codice dalle altre forme, ma il fatto che una successione di fascicoli sia riunita in un volume non vuol dire affatto che sia codice. Ai due estremi la distinzione non presenta problemi: un volume omogeneo monotematico da un lato, e un assemblaggio arbitrario di più fascicoli nel medioevo. Partiamo da un concetto facile: per confezionare un codice servono tanti materiali; nel caso del papiro c’è il rotolo formato dai tanti fogli, nel caso della pergamena abbiamo le pelli, nella caso della carta i rettangoli. Tutti questi tre hanno in comune avere due facce. Si cercava di unire due facce uguali, visto che qualche differenza c’era. Lo scopo dell’artigiano era cercare di riparare queste varianti e metterle a posto. Una regola della pergamena era la regola di Gregory, dallo studioso americano di metà 1800. La regola presuppone sempre due opzioni: la pagina iniziale mostra il lato pelo o il lato carne; e tutti i fascicoli di un codice mostrano sempre la stessa disposizione. Nel mondo latino di norma il lato pelo era quello esterno, mentre nel mondo bizantino il contrario. Nel papiro il rotolo consente di ottenere una serie di bifogli già pronti ad essere usati. Studi sulla pergamena sono anche di Pollard e Gilissen, secondo cui le pelli erano poi piegate in due (in quarto) o in tre (in ottavo). Manca ancora un'indagine quantitativa generalizzata su tutte le tecniche di rinforzo della solidità dei fascicoli, che consentirebbe di valutare tempi e ambiti dell'abbandono o della persistenza dei pregiudizi che gravavano sulla durevolezza della carta. Il fenomeno è stato chiaramente evidenziato nel codice occidentale e bizantino, dove è stata individuata una propensione ad uniformare lo spessore della pergamena all'interno dei fascicoli; a disporre il bifoglio più spesso all' inizio degli stessi a fini protettivi; a «nascondere» all 'interno del fascicolo i bifogli che presentano il maggior numero di difetti. La struttura intrinseca del codice è determinata anche dalla fascicolazione; termine che designa, più concretamente, la quantità di bifcgli che compongono un fascicolo. Nella tarda antichità, la fisionomia fascicolare dei codici in papiro ci in pergamena è pressappoco la stessa: la struttura dominante per entrambi i supporti è il quaternione, anche se non mancano volumi strutturati in quinioni. Tutte le altre tipologie (binioni, ternioni ecc.) compaiono solo sporadicamente. Quanto ai fascicoli «sporadici>> la loro presenza non è l'espressione del libero arbitrio dell'artigiano, ma risponde quasi sempre ad un criterio funzionale, ed è per questo che la loro esatta localizzazione costituisce un aspetto tanto essenziale quanto delicato della descrizione del codice. Può trattarsi della preoccupazione di risparmiare un materiale costoso quale la pergamena alla fine di un volume: non per nulla soltanto i fascicoli dei codici cartacei presentano spesso alla fine un certo numero di pagine bianche; visto il basso costo della carta ci si poteva permettere di tenere alcune pagine bianche. Caso tipico sono gli evangeliari fino al XII secolo, dove la fine di un vangelo coincide con la fine di un fascicolo, o delle Bibbie monastiche, dove si tengono le pagine esatte del testo. Gli studi in questo ambito si sono ritardati di molto, e questo per vari motivi: - indagini molto difficili perché lunghe e faticose, e spesso troppo impegnative secondo le norme di alcune biblioteche - i cataloghi vecchi non includono quasi mai la fascicolazione fra gli elementi descrittivi Questo non significa che ci sia un vuoto enorme, anzi sappiamo per dato che sia in ambito occidentale che orientale il quaternone fosse la struttura predominante, per essere poi seguito dal senione e quinione. Studi recenti vedono il senione nascere in Inghilterra e nelle università francesi e italiane, ma senza diventare egemonico, tranne nel caso delle Bibbie tascabili e i manoscritti giuridici italiani di glossari. Anche la carta muta lo scenario: i codici cartacei spesso sono quinioni, mentre il senione altrove, fino a creare fascicoli ancora più grandi come dodecanioni. Nuovi studi mostrano come l’aumento del quinione e senione siano anche frutto dell’aumento della carta. Mentre la scelta di un tipo e dell’altro in base al tipo usato prevalentemente in quel determinato Paese: la diffusione del quinione nel manoscritto italiano, dal fatto che la piegatura in-folio per le pelli di capra. Una pagina è una superficie appositamente strutturata e suddivisa in zone di riferimento indispensabili per guidare l'operato del copista, del decoratore o dell'illustratore: lo specchio di scrittura e la successione delle rettrici, che funge da supporto o dà:"gliida alle righe di scrittura. Nella sua accezione di «schema» funzionale, atto a guidare il flusso della scrittura e al tempo stesso tendente a «confinarlo» all'interno di zone predelimitate, la mise en page è costituita da un insieme di linee parallele e perpendicolari, la cui materializzazione è definita dal termine globale «rigatura» e il cui aspetto visivo differisce secondo le prassi adottate in diversi tempi, luoghi e culture. Assai spesso - ma non sempre - è visibile sulla pagina anche una serie di fori la cui presenza, di solito direttamente connessa a quella della rigatura può apparire in qualche caso scollegata da essa, e perciò come un fenomeno a sé stante, di non facile interpretazione. Va sottolineato tuttavia che foratura e rigatura possono essere considerate come la punta di un iceberg: entrambe le operazioni presuppongono l'uso ragionato di strumenti più o meno sofisticati ma adeguati alle finalità perseguite; eventualmente la disponibilità di sostanze che materializzano il tracciato sul supporto; ma soprattutto un'interazione fra la gestualità dell'artigiano, gli strumenti impiegati per forare e rigare, le sostanze traccianti e i supporti; interazione che deve necessariamente corrispondere ad esigenze concrete di funzionalità: in altri termini, una volta definite le caratteristiche tipologiche e dimensionali della rigatura; l'artigiano avrà interesse a costruire la mise en page di un fascicolo riducendo al minimo la quantità e la complessità delle operazioni necessarie per raggiungere lo scopo prefissato. Va tenuto conto di un fattore aggravante: la relazione fra modus operandi e risultato finale non è sempre univoca, nel senso che manipolazioni diverse delle pelli o dei bifogli possono condurre a risultati di apparenza identica. Benché nulla sia concettualmente più semplice di un foro, la varietà dei fori osservabili su un bifoglio rimanda di fatto ad una pluralità di funzioni. Quando la foratura è direttamente legata alla preparazione della pagina, essa risponde ad un duplice obiettivo: a) materializzare i punti di riferimento per la costruzione della rigatura b) trasmettere lo schema della mise en page in tutte le pagine del fascicolo Se i fori di preparazione risultano pressoché onnipresenti nel codice medievale, altre tipologie si osservano più sporadicamente, come i fori di simmetria, utilizzati per il reperimento dell'asse centrale della pelle in vista della costruzione del fascicolo. Questo tipo di fori è stato esplicitamente segnalato, finora, su un solo manoscritto, sul quale la mise en page è stata evidentemente realizzata su una pelle intera prima che venissero ritagliati i bifogli, ma non è detto che indagini appositamente mirate non conducano al reperimento di altri casi. Assai più frequenti, come vedremo, sono invece i fori che potremmo definire di ancoraggio, che caratterizzano l'uso di un determinato strumento di rigatura, il pettine. Malgrado la complessità del fenomeno, la bibliografia specificamente dedicata alle caratteristiche dei fori di preparazione e alle loro proprietà non è né ricca né recente: le sole informazioni sistematiche in nostro possesso sono quelle raccolte una sessantina d'anni orsono da Leslie Webber Jones. Sul piano della ricostituzione delle tecniche le analisi di Jones vertono sugli strumenti impiegati per forare, sulla posizione dei fori all'interno della pagina e sul sistema di foratura, cioè la procedura mediante la quale i fori sono stati realizzati. Quanto al primo punto, i fori individua ben dodici tipologie diverse, senza riuscire però a classificarli. Come strumenti ne abbiamo vari tipi: coltelli o punte di compassi. Resta il fatto che sappiamo molto poco sul loro metodo di lavoro. Sulla posizione dei fori per le rettrici nella pagina Jones credeva di individuare tra III e IV secolo e medioevo alcune evoluzioni. Ad esempio nel IV secolo i fori erano nascosti nella scrittura e meno visibili, mentre nel V secolo iniziano a vedersi i fori nel margine esterno. Molto meno bello da vedere ma più comodo per lo scriba, in quanto la scrittura non era bloccata dai fori. Alla fine del VI secolo compare l’uso di forare sia il margine esterno che interno, secondo un sistema tipico del mondo insulare; solo nel VII secolo compare la foratura marginale, tendente ad andare verso il bordo, e diventa definitivo solo nel X secolo. Il sistema più usato (secondo i suoi studi) era quello della foratura simultanea di un fascicolo intero piegato. La rigatura viene spesso analizzata sotto tre angolazioni diverse: 1) la tecnica di rigatura → denominata spesso in base al tipo di sostanza impiegata per materializzare il tracciato delle righe. Quindi a secco indica che le linee sono sostituite da solchi che si presentano in rilievo sulla faccia opposta del supporto, a colore indica l’uso di una sostanza tracciante 2) il sistema di rigatura → valida solo per l’ambito della rigatura a secco → si riferisce alla modalità di successione dei solchi, primari sono quelli tracciati, secondari quando sono prodotti dal solco di un foglio sopra di esso 3) il tipo di rigatura → indica le caratteristiche della ‘gabbia’ di impaginazione → approfondito nel prossimo capitolo Vediamo le cose più nel dettaglio. La rigatura a secco è tipica del mondo bizantino e occidentale, e lo strumento usato fino al XI secolo era una punta che doveva tracciare un solco, la difficoltà era di evitare di sfondare il piccolo foglio. Si può ottenere anche con altri strumenti, ad esempio abbiamo fonti che nel mondo arabo venissero usate le unghie, ma la vera svolta sta nella tabula rigandum (mistara per gli arabi), è una tavoletta di legno con piccoli solchi che riproducono il sistema di rigatura, riempiti da piccole corde di metallo, veniva posta sotto il supporto per imprimere i segni, e facilitare il lavoro, tipica del mondo del Levante ma anche in Occidente, con la crescente diffusione del manoscritto umanistico. Quella a colore può essere tracciata a mina di piombo o a inchiostro, che poteva essere il normale inchiostro usato nella trascrizione del testo, oppure un vero e proprio inchiostro colorato di valore. Ci sono casi in cui la traccia è labile e incerta, probabilmente per il progetto di ottenere una apparenza ‘discreta’, ad esempio nei Corani di alto livello, o ad una ricetta particolare. Nel XV secolo si diffonde in Europa uno strumento a più punte, una sorta di pettine, nato probabilmente dal rastrum usato nei manoscritti musicali, questo strumento permette di tracciare più linee nello stesso momento, usando un solo foro come guida. Vari indizi ce ne mostrano l’esistenza come la presenza di un solo foro guida marginale per tutta la sequenza, la lunghezza diversa delle linee nei punti di attacco, la presenza di irregolarità. Quella a colori arriva nel XII secolo, e si afferma praticamente subito, a differenza del mondo bizantino con la prevalenza di quella a secco. Solo per lo studio del codice ebraico, fatto da Malachi Beit-Arié, abbiamo una ipotesi di legame tra rigatura a colore e lo sviluppo di commenti a lato; del resto sulla sostituzione da a secco a a colori sappiamo molto poco. Leroy fa un'analisi del manoscritto occidentale, considerata una delle più importanti in assoluto. Per quanto presenti dei limiti, ed è stata un pò superata. Gli schemi proposti da Leroy si limitano a visualizzare attraverso sequenze di triangoli chiusi e di uncini la successione di solchi e di rilievi così come essa si presenta nel fascicolo, senza raggruppare in «famiglie» le sequenze che rimandano di fatto ad una medesima gestualità e che si differenziano soltanto all'atto della composizione o ricomposizione del fascicolo una volta rigato. La varietà analizzata non corrisponde a una differente maniera di rigatura, e le differenze sono più che altro a dove fosse il lato della pelle, come la differenza tra sistema 3 e sistema 4 è praticamente nulla, e cambia solo su dove fosse l’incisione. Se si cerca di definire la dinamica che conduce alla rigatura new style, due ricostruzioni sono possibili, a seconda che il lavoro venga effettuato su bifogli tagliati o su pelli piegate, riferendosi all'allestimento di un codice di dimensioni medie e di piegatura «in-quarto». Se si propende per la visione del taglio precoce questo è lo schema: a) i bifogli sono sovrapposti secondo la regola di Gregory, e piegati b) sulla prima pagina del fascicolo viene progetta la mise en place e fatta la foratura c) il fascicolo viene scomposto, e la rigatura fatta sul lato pelo di ogni foglio d) viene poi tutto ricomposto Invece questa è la visione se lavorasse su pelli intere: a) due pelli vengono piegate in quattro e giustapposte b) sulla prima viene progettata la mise en page e fatta la foratura c) le due pelli vengono di nuovo separate e spiegate, e viene fatta la rigatura d) il fascicolo viene ricomposto assemblando le pelli secondo la formula A, cioè ripiegando e disponendole una dentro l’altra Il new style sembra connotato da due vantaggi basilari: 1) esso estende anche alla rigatura la regola di Gregory (entrambe le pagine sono coperte di solchi o rilievi) 2) tutte le incisioni sono primarie Un libro può dirsi pienamente riuscito soltanto se la successione delle pagine rispetta scrupolosamente la sequenza testuale, consentendo una lettura perfettamente lineare e senza intoppi di sorta. Ciò non può avvenire se l'assemblaggio dei bifogli nel fascicolo e dei fascicoli nel codice è stato eseguito in maniera difettosa, e poiché di norma il legatore non sa o non vuole determinare la sequenza corretta sforzandosi di ricostruire la coerenza interna del discorso sintattico, l'esigenza di leggibilità implica l'esistenza di segnali espliciti ed univoci atti a facilitare la procedura di montaggio e ad evitare l'insorgere di errori: in sostanza, la presenza di segnature e di richiami. Questi segnali non vanno confusi con i dispositivi di accesso ad una determinata sezione del volume o del testo, siano essi materialmente dissociati dal libro (segnalibri), oppure presenti sulla pagina ma del tutto indipendenti dal testo (cartulazione o paginazione), oppure ancora dipendenti dal testo e al tempo stesso dalla specificità della strutturazione in pagine di un determinato volume (titoli correnti, indice del volume), o, infine, strettamente associati al testo e indipendenti dalla struttura fisica del libro (capitolazione, titolazione, indice analitico ecc.). La situazione peggiora ulteriormente quando il codice è soggetto a spostamenti o cambi di proprietario: i pericoli di traumi troppo energici crescono a dismisura, e per di più è probabile che un nuovo possessore o un nuovo bibliotecario, spinti dal desiderio di preservare l'integrità del codice e/o di iscrivere in maniera visibile sull'involucro la propria impronta personale, decidano di sostituire la legatura. Disponiamo di documentate rassegne per i manoscritti bizantini, arabi, arabi di ambiente cristiano, ebraici e siriaci che mostrano un ampio ventaglio di soluzioni di cui in effetti risulta difficile percepire la coerenza nella diacronia. Queste preziose rassegne scaturiscono dall'esperienza quotidiana di specialisti riconosciuti, assidui frequentatori di biblioteche, che hanno osservato nel corso degli anni centinaia di manoscritti. Le informazioni fornite presentano di conseguenza una casistica molto ricca e sempre corredata da abbondanti rimandi alla realtà concreta di questo o quell'esemplare. Tuttavia, proprio questa ricchezza ingenera talvolta una sensazione di «smarrimento», in quanto la giungla dei dettagli rischia di occultare l'orizzonte interpretativo: per quanto esaurienti sul piano descrittivo, i panorami delineati non costituiscono il frutto di indagini mirate e ragionate, condotte su insiemi di codici appositamente selezionati in base a criteri preliminarmente definiti. Per ciò che riguarda il medioevo occidentale, la situazione attuale delle ricerche non è molto rosea: la bibliografia recente offre soprattutto contributi specifici che rivelano in taluni casi prassi insospettate. Tuttavia va segnalata la ben documentata analisi comparativa sulla tipologia dei richiami intrapresa recentemente a partire dalla realtà spagnola; realtà particolarmente interessante, come in altri casi, per via dell'intersecarsi delle culture cristiana, araba ed ebraica. Purtroppo, non esiste ancora un'analisi storica e tipologica che si prefigga di motivare l'assenza, la comparsa, la diffusione e la decadenza dei diversi dispositivi intesi a facilitare il compito del legatore. Dal momento che l'apposizione di segnature e richiami o di un qualsiasi altro dispositivo di ordinamento non costa praticamente nulla in termini di lavoro, e se si considera che la loro esistenza non entra di norma in contraddizione con specifiche esigenze estetiche o con costrizioni di ordine tecnico, è stato ipotizzato che le mutazioni osservate nel corso del tempo siano riconducibili ad un processo di evoluzione lineare, o addirittura di «progresso» più o meno consapevole verso l'adozione di sistemi sempre più efficaci. Gli artigiani e i committenti del codice umanistico, pur così propensi a simulare le prassi in uso negli scriptoria monastici, si guardano bene dal rinunciare ai nuovi sistemi di ordinamento introdotti nell'aborrito periodo «gotico». Malgrado la numerazione delle pagine e delle carte risulti attestata già nel codice antico ne è stato notato il carattere saltuario e recente nel manoscritto medievale, tanto che essa appare spontaneamente come l'apice del progresso nell'ambito dei dispositivi volti a garantire la corretta sequenzialità della struttura del codice. La cartulazione si afferma di fatto al di fuori della sfera di fabbricazione del libro. Da un lato, essa si sviluppa nell'ambiente delle biblioteche in quanto strumento di controllo: se tutte le carte di un libro sono numerate, sarà molto più facile evidenziare la presenza di lacune e di sottrazioni fraudolente. Dall'altro la numerazione delle carte si diffonde in quanto segnale di riferimento. Nel manoscritto essa appare come un dispositivo concepito ad uso personale: nei volumi miscellanei, il solo mezzo per ritrovare agevolmente l'inizio di un testo è un indice redatto a cura del possessore, che rimanda necessariamente ad un luogo preciso di quel volume. Nel mondo del manoscritto, l' idea stessa di un referenziale uniforme è inconcepibile, data la varietà delle dimensioni, delle mise en page, delle scritture e delle maniere individuali di trascrivere: non per nulla i bibliotecari medievali identificavano i volumi tramite le prime parole del secondo foglio e le ultime parole del penultimo foglio, con scarsa probabilità di equivoco. Letta in questi termini, la rarità con cui la cartulazione è attestata nel libro medievale cessa di apparire come un fatto incomprensibile. Anche nel medioevo, come in tutte le epoche, le innovazioni finiscono con l'apparire e l'affermarsi, malgrado il peso della tradizione, al momento in cui se ne avverte il bisogno. l ritmi sono certo incomparabilmente più lenti; ma ciò avviene perché la produzione del libro, soprattutto negli scriptoria" dell'epoca altomedievale, è scarsa, spesso saltuaria, e si svolge in un contesto di estrema stabilità. La situazione è del tutto diversa nell'universo del libro a stampa, ove la produzione annua di un'officina è relativamente elevata, l'investimento deve essere remunerato e la concorrenza è perpetuamente in agguato. 4 Costruzione e utilizzazione della pagina Fabbricare un codice non è solo assemblare fisicamente i pezzi, ma anche preparare la pagina, in modo che possa supportare le scritte. Il problema primario è gestire l’interazione tra massa testuale e spazio, e gestire in modo ottimale è produrre un oggetto che sia funzionale, ma che garantisca un uso comodo e immediato. Il concetto francese ‘mise en page’ definisce proprio il risultato visivo di tutto questo processo. Inoltre designa anche gli altri elementi: i quattro margini, le linee orizzontali e verticali in cui si crea lo specchio di scrittura, le linee create per scriverci sopra. Ci sono due tipi di aspetti per la mise en page: 1) aspetto progettuale → la formattazione preliminare 2) aspetto esecutivo → le scelte operate in modo pragmatico La mise en page assume le forme di un controllo dello scritto perché riguarda tutto: non è solo aspetto grafico sull’esecuzione, ma anche fenomeni perigrafici come la limitazione della spettettazione delle parole. La prima tappa della progettualità di un libro consiste nel definirne le dimensioni future. Le dimensioni possono essere intese: a) in senso assoluto → estensione del rettangolo della pagina b) in senso relativo → rapporto tra base e altezza, chiamata anche proporzione Per trovare quella assoluta basta misurare la somma dei due lati del foglio, anche se trovare la ‘taglia’ è solo una delle modalità per sintetizzare le dimensioni del libro. Come H+L. Mentre la proporzione può essere descritta in modo frazionale, che con un quoziente. sono modalità di rappresentazioni vari ma non sono ambigui, a differenza di formato. Che può designare: - l’altezza del volume - il tipo di materiale nella superficie - dimensioni dei due lati del foglio Ci sono alcuni limiti comunque, come in base al tipo di materiale utilizzato nella lavorazione, o alla tecnologia usata dal copista, e sono rari manoscritti molto piccoli perché ad un certo punto assumono la funzione di oggetto ornamentale e di amuleto. Nel caso del papiro, per esempio, la necessità di ridurre il numero delle giunture limita la larghezza possibile, mentre la pergamena è anch’essa stretta. Fatto sta, che una volta determinate le dimensioni delle pagine, si passa a delimitare lo spazio in cui scrivere. E questa operazione ha duplice valenza: 1) piano funzionale → ottenere compromesso tra non sprecare spazio ma neanche mettere così tante scritte da non riuscire a leggere 2) piano estetico Va sottolineata la mancanza di qualsiasi indizio testuale o materiale relativo agli strumenti utilizzati per la costruzione e alla maniera di usarli. Fa eccezione una ricetta araba del XIII secolo, che menziona espressamente l'uso del compasso. In realtà, le sole fonti superstiti che documentano algoritmi di costruzione della pagina sono un numero esiguo di ricette, che non si esprimono per nulla in termini di relazioni notevoli. Nell'Occidente latino le ricette conservate sono soltanto due: la «ricetta di Saint-Remi (IX secolo)» e la ricetta «monacense (XV secolo)>>. Oltre che per un periodo molto diverso, differiscono per il tipo di pagina analizzata: larga e squadrata nella prima, più allungata nella seconda. Ma hanno somiglianze come ci mostrano dei rapporti matematici, ci parlano dell’ampiezza dei margini. Ma non sappiamo quanto venissero seguite durante la lavorazione. Tra i problemi primari ci sono la ripartizione tra spazio dei margini e specchio di scrittura, sia in senso orizzontale che verticale. La ricetta di Saint-Remi sembra trovare un riscontro positivo nella produzione bizantina fino al XII secolo, mentre la seconda trova spazio nel mondo occidentale. A prescindere da tutte queste difficoltà, l’estetica del libro si può considerare governata da tre principi fondamentali: 1) principio di regolarità → dice che la presentazione di componenti della pagine sia uguale in tutte le parti del codice 2) principio di proporzionalità → tutte le dimensioni siano commisurate in base a quella pagina, e quindi nulla sia lasciato al caso 3) principio di gerarchia → impone che la scrittura degli elementi sia commisurata al loro rango gerarchico Tutti e tre i principi possono essere ritenuti categorie strettamente legate all’esistenza stessa dell’oggetto, e son sempre presenti. Per definire la densità di una pagina sono stati introdotti due concetti essenziali: 1) riempimento (nero) → rapporto tra superficie di scrittura e superficie di pagina 2) sfruttamento → quantità dei segni dentro una unità di superficie L'impaginazione a due colonne, che riduce drasticamente la lunghezza delle righe costituisce un dispositivo inteso a minimizzare per quanto possibile la perdita di rendimento dovuta all'applicazione del principio di proporzionalità. È per questa ragione che la sua presenza è sempre positivamente correlata alle dimensioni della pagina: in altri termini, la percentuale dei volumi a due colonne aumenta significativamente con il crescere delle dimensioni. Attestato fin dalla tarda antichità, il passaggio all'impaginazione a due colonne era praticato probabilmente al fine di agevolare la lettura in ambito sia occidentale che bizantino. Le soluzioni via via adottate obbediscono di fatto al variare delle situazioni non solo nel tempo e nello spazio, ma anche nei diversi contesti economici e sociali e non di rado anche in funzione di nuovi ed impellenti imperativi culturali: si pensi all 'apparizione delle Bibbie e dei breviari «tascabili» cui si assiste nell'Europa occidentale durante il XIII secolo. Se la storia secolare del libro nella sua forma «codice» è caratterizzata a lunga scadenza da una diminuzione tendenziale del riempimento e da un aumento progressivo dello sfruttamento della pagina, è vero anche che la tendenza si afferma soprattutto nei periodi di mutamento e di sviluppo del tessuto culturale. Classica è ad esempio l'opposizione tra libro «volgare» e libro «dotto», che si manifesta più o meno palesemente in tutte le aree di produzione del codice. Altrettanto nota è l'esistenza, nell'Italia del XV secolo, di due concezioni antitetiche dell'oggetto libro che fanno capo rispettivamente al libro umanistico e al libro di fattura «gotica» tradizionale. Si tratta di postulati estetici e funzionali che vengono enfatizzati dal successo della nuova tipologia presso le classi dominanti, generalmente più facoltose, e quindi più ricettive al richiamo seducente dello «spreco». Per fortuna la letteratura scientifica è molto ricca sulla mise en page in alcune aree, in particolare il mondo Mediterraneo. Fra tutte le tipologie specifiche, la mise en page del manoscritto commentato, che prevede la compresenza sulla medesima superficie di due «flussi testuali>> fisicamente autonomi, ma intrinsecamente collegati, ha interessato in maniera particolare gli studiosi e merita, per tale ragione, una menzione specifica. e ragione, una menzione specifica. L'interazione fra un testo principale e il suo commento va considerata come la concretizzazione sulla pagina di esigenze che sono in primo luogo di natura intellettuale. Non appena si tratta di gestire un processo di lettura simultanea, la progettualità della mise en page si trasforma infatti in un compito di estrema complessità; compito che la necessità di realizzare comunque un libro funzionale, e le esigenze via via introdotte dall'evoluzione dei circuiti di trasmissione del sapere, dall'esegesi di nuove tipologie testuali e dal diversificarsi delle modalità dell'esegesi stessa, rinnovano senza sosta, senza che sia possibile proporre soluzioni universalmente e meccanicamente riproducibili. Se si tiene poi conto del fatto che nel mondo del manoscritto il concetto di «copia fotografica» di un modello ha una diffusione estremamente limitata, ne risulta che l'abilità professionale del copista, costretto ad un incessante e penoso lavoro di riflessione e di controllo, viene messa costantemente a durissima prova. Le difficoltà progettuali e esecutive inerenti all'interazione testo/commento sono numerose e svariate, e vertono essenzialmente sulla maniera secondo la quale i due flussi testuali si succedono, si alternano, si affrontano o si intersecano; sulle modalità della loro corretta differenziazione visiva sulla pagina; sull'ottimizzazione del percorso di va e vieni dell'occhio del lettore dall'uno all'altro di essi. Ciò detto, l'analisi delle diverse realizzazioni di mise en page dei manoscritti commentati può essere impostata secondo due prospettive diverse: 1) una serie di osservazioni sull’interazione testo/glossa, condotte su numerosi manoscritti. In questa visione l’analisi della pagina mette in luce alcune mutazioni spesso suggerite dalla necessità di armonizzare il testo, e accade nel caso delle Bibbie 2) come oggetto dell’analisi la successione delle mise en page fatte dall’artigiano, allo scopo di evidenziare le strategie adottate Le ricerche ad ora si sono focalizzate sui testi con una glossa a corona, cioè che circonda il testo. Su questa si è dimostrata la presenza di due strategie opposte: 1) numero di pagine del testo uguale mentre glossa variabile, quindi permette di fare la glossa dopo 2) più spazio alla glossa che al testo, I tipi di mise en page che possiedono le medesime proprietà qualitative si prestano ad essere accorpati in classi omogenee. La loro classificazione non presenta in prima analisi alcuna utilità, a meno di ipotizzare che i tipi appartenenti alla medesima classe possiedano altre proprietà comuni. Fra queste proprietà, la data e l'origine sono ovviamente oggetto di un interesse particolare. Tra gli studi si segnalano Leroy nel mondo bizantino, che ha studiato i testi dal IX secolo al XII secolo, e lui si focalizza sul disegno dei tipi di rigatura. Altro studio è del già citato più volte Gilissen, che si focalizza sulle dimensioni. Leroy aveva proposto una codifica relativa al manoscritto bizantino, ricchissima di schemi «normali» «speciali», che ha riscosso un ampio successo, specie fra gli studiosi di codici greci. Tuttavia, la codifica di Leroy ha suscitato anche qualche perplessità, sia perché la formula non si rivela strutturalmente aperta e applicabile a tutti i casi già noti e tanto meno a quelli teoricamente possibili ma ancora non censiti, sia perché presenta qualche elemento di ambiguità, sia infine perché non consente di distinguere agevolmente e «a colpo d'occhio» tipi raggruppabili sulla base di caratteristiche comuni, come la presenza o l 'assenza di giustificazione doppia. Un sistema alternativo di codifica, applicabile a qualsiasi manoscritto, è stato elaborato più di vent'anni orsono da Denis Muzerelle, anche se la sua pubblicazione è molto più recente. Contrariamente a quello di Leroy, il sistema di Muzerelle è basato su una preliminare riflessione teorica, che mira a rendere conto a priori di tutte le modalità possibili di tutte le proprietà della mise en page. 5 Il copista e il libro Dato che la funzione della confezione è di essere il supporto del testo, non ci si può disinteressare dal suo creatore: il copista. Da un punto di vista grafico il copista è l’autore di un tracciato le cui caratteristiche possono essere oggetto di analisi, e il compito di questi studi è del paleografo. Dal punto di vista testuale ri-produce una sequenza lessicale che dovrebbe essere sempre uguale a quella del modello. Gli studi si sono focalizzati su due tipi di fenomeni: 1) perigrafici → tecniche usate dal copista per gestire con i mezzi lo spazio in cui mettere il flusso di scrittura; come l’abbreviazione delle parole o ti tagli di parole, è un territorio di nessuno che dovrebbe essere del paleografo 2) peritestuali → il flusso di trascrizione, come l’interpunzione e ortografia. Che fanno varie di varie branche di studi La storia dell'interpunzione e dell'ortografia nei manoscritti medievali in lingua volgare rimane di conseguenza un deserto poco esplorato, e di prerogativa dei linguisti. In particolare, la problematica non è stata finora mai affrontata comparativamente e in una prospettiva «sperimentale>>, esaminando cioè passo dopo passo diverse trascrizioni di un medesimo testo al fine di evidenziare eventuali motivazioni e tendenze sistematiche, alla base di scelte che appaiono a prima vista arbitrarie, se non addirittura cervellotiche. In questo contesto, nel quale lo scriba è preso fra l' incudine e il martello, l'analisi statistica delle convergenze e delle divergenze rispetto al testo dell'antigrafo dovrebbe consentire di penetrare, per così dire, nell'universo mentale del copista e di motivare i comportamenti assunti nelle diverse situazioni. Un'indagine di questo tipo viene tuttavia a cozzare contro la difficoltà preliminare di ritrovare manoscritti legati da un rapporto di filiazione diretta dimostrabile con assoluta certezza. I fatti perigrafici e peritestuali potrebbero essere considerati a buon diritto come parte integrante di una codicologia intesa lato sensu, e più ancora di una storia globale del libro medievale.. Nell'ambito dell'archeologia del manoscritto, le interazioni di vario genere fra l'atto del trascrivere e l'oggetto libro sono soprattutto considerate da un punto di vista strettamente materiale. Dal punto di vista archeologico l’interazione tra atto di scrivere e oggetto possono essere considerate dal punto di vista materiale, come lo studio degli strumenti e dei supporti, eccezione forse l’evangelario di Enrico il Leone (XI secolo) dove lo scriba si adatta in base a vari parametri. Alla domanda: su cosa scriveva il copista possiamo dare numerose possibilità: - bifogli sciolti a sé stanti - bifogli sciolti ma assemblati pur indipendenti - bifogli assemblati e uniti - su pelli ancora solidali lungo il margine di testa, secondo due possibilità: non separati o separazione durante il lavoro In questo caso, ci sono due opzioni: a) trascrizione in sequenza → seguendo le parole originali b) trascrizione una facciata dopo l’altra → abbandono della sequenza ‘naturale’ Sull’iconografia facciamo fatica, se non che dopo il XVI secolo compaiono dei quadrifogli cioè due coppie di bifogli legati sul margine di testa. Recenti studi hanno portato a questa ipotesi → le prassi fino al XII erano di scrivere su fogli fissati in modo provvisorio, mentre al XIII secolo si decide di scrivere su bifogli sciolti. Ipotesi che sembra avere riscontro nel mondo islamico. È lecito presumere che il copista si ponesse anzitutto l 'obiettivo di preservare la comodità del futuro lettore, eventualmente anche a scapito della propria, quando lavorava su bifogli slegati. Per ciò che riguarda la trascrizione su «quadrifoglio>> con taglio eseguito pagina dopo pagina, non vi è alcun dubbio che essa sia effettivamente esistita, se si considera la presenza nei fascicoli di bifogli vergini ancora parzialmente solidali in testa già attestata in codici membranacei di epoca anteriore, ma frequente soprattutto nei codici cartacei del XV secolo. Se abbiamo misteri sulla disposizione dei fogli, è ampiamente attestata l’esistenza l’esistenza di volumi trascritti con fogli non tagliati. L’uso di questa perifrasi è più aderente al termina imposizione, usato in modo errato fin dall’inizio dai codicologi, per analogia al libro a stampa. Anche se nella stampa i fogli sono fatti nello stesso tempo e non in modo sequenziale. Una lista dei casi di imposizione è presente dal Gilissen nel 1974. La stragrande maggioranza dei codici identificati appartiene alla seconda metà del XV secolo, ma la loro anteriorità rispetto all' invenzione della stampa non lascia adito a dubbi. Ciò esclude ipso facto l 'ipotesi secondo la quale l'apparizione del fenomeno nel manoscritto sarebbe il frutto di un'imitazione delle tecniche tipografiche, di cui non si intravede la necessità. Quanto alla sequenza di trascrizione, gli indizi forniti dall'analisi di un certo numero di casi testimoniano quasi sempre in favore della sequenza naturale, anche se questa maniera di procedere complica notevolmente la manipolazione dei fogli e moltiplica il rischio di errori di percorso. La sequenza naturale è infatti strettamente connaturata ai procedimenti di copia manuale e, verosimilmente, a qualsiasi procedimento di copia, dal momento che il modello è il più delle volte un libro già rilegato che ri-spetta ovviamente tale sequenza. Il problema non si pone per i volumi membranacei di grandi dimensioni e per i volumi cartacei in-folio, ma in teoria qualsiasi codice che fosse frutto di una piegatura in-quarto o in-ottavo potrebbe essere stato trascritto senza che i fogli fossero stati previamente tagliati. Dopotutto, un manoscritto «imposto> ben riuscito, trascritto rispettando la sequenza naturale del testo, non si distingue in nulla, dopo il taglio dei fogli, da un manoscritto copiato su bifogli «normali»; e a chiunque esplorasse le nostre biblioteche pubbliche, ove tutti i libri sono rilegati e rifilati, non verrebbe mai in mente che si tratta, senza eccezione, di volumi «imposti». Nella nostra Europa ormai estremamente laicizzata, urbanizzata e «globalizzata», ove è possibile procurarsi (a condizione di poterselo permettere) tutto ciò che si vuole in qualsiasi epoca dell'anno, in qualsiasi giorno della settimana e in qualsiasi ora della giornata, è difficile rendersi conto di quanto l'universo dell'uomo medievale fosse invece dipendente da ritmi ferreamente imposti dal calendario astronomico, liturgico e anche commerciale (fiere e mercati). In verità, forse l'unico ciclo rimasto praticamente intatto dal medioevo ad oggi - probabilmente in quanto non sussiste uno specifico interesse ad eliminarlo - è quello dell'anno scolastico. Dovrebbe quindi venire spontaneo domandarsi se l'attività dei copisti non dipendesse in buona parte dai cicli di insegnamento: è probabile che professori e studenti tenessero ad entrare in possesso dei loro libri soprattutto all' inizio dell'anno accademico, ovvero che l'afflusso di nuovi studenti in quel periodo dell'anno provocasse un forte aumento della domanda. Tra gli studi da segnalare c’è quello di Devoti, che ha mostrato come 320 contratti del XIII secolo fossero per il periodo di settembre e ottobre, contro i soli 140 di marzo e aprile. L’ipotesi dell'esistenza di ritmi stagionali a livello generale è comunque meno singolare di quanto non possa apparire a prima vista: si pensi alla difficoltà di maneggiare la penna con sufficiente scioltezza durante i mesi invernali in ambienti oscuri e mal riscaldati; o anche al fatto che, in un grande centro di produzione come Parigi, una buona parte della pergamena era acquistata al momento delle fiere, che cadevano sistematicamente in determinate epoche dell'anno. Non tutte le copie terminate in un determinato mese sono state iniziate esattamente n mesi prima: bisogna tenere conto della diversa lunghezza dei testi e del variare della velocità di copia, oltre che di singole circostanze non ricostruibili; inversamente, le copie iniziate nello stesso mese daranno necessariamente luogo a sottoscrizioni finali scaglionate nel tempo. Un altro aspetto del «copista al lavoro)) al quale si è rivolta l'attenzione è la velocità della trascrizione. Una prima valutazione compare nel classico Schriftwesen di Wilhelm Wattenbach e risale alla fine del XIX secolo. Bisognerà attendere qualche decina d'anni perché una seconda stima, basata questa volta su un campione di 65 manoscritti, fornisca un risultato molto vicino alla media calcolata a partire dei pochi esempi forniti da Wattenbach: 2,85 carte al giorno. A ciò va aggiunta un'ultima considerazione. In generale, le velocità sono calcolate dividendo l'intervallo tra due sottoscrizioni per il numero di carte che le separano. Va da sé che tale modo di procedere include necessariamente nella stima una quantità più o meno cospicua, e salvo eccezioni non calcolabile, di tempi morti che costituiscono innegabilmente un fattore parassita. Ciò che viene ad essere calcolato nella migliore delle ipotesi è perciò il ritmo della vita professionale del copista, e non la velocità vera e propria di trascrizione consentita da un determinato tipo di scrittura e da un determinato standard di qualità esecutiva. Se è lecito supporre che negli scriptoria monastici tutte le fasi dell'allestilllcnto si svolgessero in un unico luogo, l'oscurità è pressappoco completa per ciò che riguarda l'organizzazione del lavoro in ambiente urbano a partire dal XIII secolo. L'unica certezza indiscutibile per ciò che riguarda l'organizzazione dell'allestimento è costituita dal fatto che le operazioni di legatura erano affidate ad uno specialista che teneva bottega in città. Per il resto è certo che la decorazione era l'opera di un artigiano che non coincideva di solito con il copista, ma non sappiamo se fosse più spesso l'artigiano a spostarsi nel luogo ove avveniva la trascrizione del volume ovvero se fossero i fascicoli a viaggiare successivamente da una sede all'altra, né con che ritmo: fascicolo per fascicolo o a trascrizione ultimata. È probabile che le abitudini abbiano subito mutamenti notevoli nel corso degli ultimi secoli del medioevo, e che prassi diverse siano state in vigore, non solo nei vari centri di trasmissione della cultura scritta, ma anche all' interno di ciascuno di essi. Uno dei pochi casi palesi è quello dell'incunabolo, per il quale la «rifinitura>> del libro dopo il passaggio sotto il torchio era necessariamente effettuata manualmente. Esisteva un rubricatore, che si incaricava di apporre i titoli in inchiostro rosso e eventualmente di far rrisaltare mediante un inchiostro giallo trasparente l' inizio dei paragra fi che si susseguivano sulla pagina senza soluzione di continuità. Ciò detto, non è possibile sapere se questi rubricatori fossero impiegati al servizio di un tipografo o di un libraio, oppure se lavorassero su committenza individuale; e non sappiamo, a maggior ragione, se lavorassero nella bottega del tipografo o in una sede propria, oppure svolgessero un'attività itinerante. Nel manoscritto, invece, il lavoro di rubricazione era quasi sempre eseguito dal copista, che procedeva a tale operazione in un secondo tempo sulla base di indicazioni preparatorie destinate a scomparire una volta terminato il lavoro. Un altro esempio di grande incertezza è costituito dalla confezione dei fascicoli e dalla preparazione della mise en page. Nell'universo del manoscritto, non esisteva, in situazione «normale>>, nessun incentivo tecnologico o commerciale a fornire simultaneamente diverse sezioni di un modello a più copisti, secondo un procedimento che potremmo chiamare di «copia distributiva» o anche di «distribuzione simultanea» Se lo scopo principale della clausola era evidentemente quello di evitare la rottura inopinata del contratto, e comunque di prevenire qualsiasi ritardo nella consegna, il suo rispetto implicava necessariamente il carattere omogeneo della presentazione del volume. Non va dimenticato che la necessità di rispettare il «principio di regolarità» esercitava un condizionamento non indifferente sull'artigianato librario e imponeva, in particolare, che tutte le pagine presentassero il medesimo aspetto. Mentre nel libro a stampa, grazie alla quasi perfetta regolarità morfologica dei caratteri mobili, la distribuzione simultanea del modello a più compositori non comprometteva l'uniformità delle pagine, nel manoscritto la stessa operazione non era esteticamente «indolore», dal momento che, malgrado tutti i possibili sforzi di mimetismo, non era possibile che l'operato di due copisti differenti apparisse del tutto indiscernibile; tanto più che era già estremamente difficile, per uno stesso copista, «stabilizzare» la propria scrittura dall' inizio alla fine di un codice. L'assenza di necessità stringenti e la preoccupazione di preservare l'uniformità del libro sul piano visivo spiegano verosimilmente la rarità di esempi inconfutabili di «distribuzione simultanea». Il rispetto del principio di regolarità presupponeva di fatto che un unico copista, legato per contratto ad un unico committente, trascrivesse in sequenza «naturale)) un unico codice. Il sistema della pecia Sistema attestato nelle principali Università del mondo medievale: Bologna, Parigi, Oxford e Napoli. Nell’Europa Orientale c’era un altro sistema (pronuntiatio), in cui il testo veniva dettato a tutti gli studenti. Questo sistema non si affermò nel mondo bizantino e le altre aree, perché per esistere presuppone due condizioni: 1) domanda costante di numerosi codici 2) la necessità di ricorrere dal un exemplar autenticato da una autorità centrale La produttività individuale della copia manuale rimane esattamente la stessa: per ottenere un nuovo esemplare di un testo quale il Digesto bisognerà comunque aspettare 12 o 18 mesi; e se è vero che nello stesso lasso di tempo si possono ottenere nuove copie, ciò avviene semplicemente perché si è fatto ricorso a più copisti. Indipendentemente dal sistema della pecia, si sarebbe potuto ottenere lo stesso risultato se fosse stato possibile disporre simultaneamente non solo di nuovi copisti, ma anche di nuovi modelli autenticati. La pecia va dunque interpretata come un ingegnoso adattamento ad un determinato contesto di trasmissione della cultura scritta, che ne condiziona interamente la sopravvivenza. Nelle sue grandi linee, il funzionamento del meccanismo della pecia è relativamente semplice. Il sistema è basato sulla fruizione scaglionata nel tempo di tutti i fascicoli di uno stesso archetipo modello - l'exemplar - da parte di un unico copista, e la fruizione scaglionata dello stesso fascicolo da parte di tutti i copisti interessati a trascrivere quell' exemplar. L'exemplar era approntato in fascicoli sciolti.e veniva conservato nella bottega di uno stazionario. Esso non era unico nell'ambito di un'università ma ne esisteva uno presso ogni stazionario. Ciascuna pecia veniva affittata al committente del codice a un prezzo, fissato per decreto dalle autorità universitarie. Le implicazioni del sistema sul piano codicologico non sono state molto studiate e non si rivelano d'altra parte spettacolari, dato che lo scopo finale era, appunto, quello di ottenere copie che non fossero visivamente differenti da quelle che venivano allestite senza ricorrere al sistema. Di fatto, i manoscritti «peciati’’ si distinguono di norma soltanto grazie alla presenza di indicazioni marginali relative al numero della pecia trascritta. Quando i numeri non esistono o sono stati rifilati, il riconoscimento risulta impossibile, a meno che la presenza di righe bianche o al contrario di righe supplementari, ovvero di fluttuazioni inesplicabili della quantità di abbreviazioni e/o del modulo della scrittura, inducano a pensare che il copista, non potendo disporre della pecia successiva a quella che aveva appena terminato di trascrivere, abbia lasciato in bianco, calcolando approssimativamente lo spazio necessario per le pagine corrispondenti. Non si tratta di fascicoli sciolti ma di volumi normalmente rilegati, riconoscibili non soltanto per l'inconsueta struttura fascicolare - si ha sempre a che fare con binioni - ma anche per la piega verticale che attraversa spesso centralmente la pagina. La scelta del binione, decisamente deviante rispetto alla prassi abituale, costituisce una soluzione funzionale, mirante a consentire una più rapida rotazione dei fascicoli. È certo che, almeno a Bologna, le pecie erano in un primo tempo composte normalmente di quaternioni. È stata formulata l'ipotesi che le pecie fossero di fatto dei fascicoli «imposti» - in pratica delle pelli piegate in quattro - il che implica che fossero state trascritte senza prima procedere preliminarmente al taglio dei bifogli. L'unico argomento che potrebbe essere forse avanzato in suo appoggio è di ordine lessicale: è vero che il termine pecia designa indifferentemente qualsiasi tipo di fascicolo sciolto; tuttavia, il cambiamento di denominazione a Bologna da quaternio a pecia (anziché binio), che accompagna il passaggio al binione, potrebbe sottintendere anche un cambiamento di statuto materiale. 6 La legatura La legatura ha tre scopi principali: 1) tenere insieme i vari fogli 2) funzione di protezione dalle varie sollecitazioni 3) funzione estetica I principali studi sulla legatura si sono focalizzati su di essa come ‘oggetto artistico’, e studi sulle legature medievali più funzionali sono solo degli ultimissimi anni. La storia di Tommaso De Marinis, il massimo studioso italiano sulla legatura. Nasce nel 1878 a Napoli, e nel 1904 a Firenze apre una propria libreria antiquaria dopo aver fatto varie esperienze. Fu definito molto intraprendente da Nardelli per i suoi viaggi in Oriente del 1913; e ne comprò 50, anche senza saper leggere la lingua perché prese quelle che più, secondo lui, erano belle e apprezzabili. Il suo lavoro gli permette il ritiro nel 1924, e la conduzione di una vita molto agiata, fino alla morte nel 1969. Nel 1960 esce la sua opera fondamentale, frutto delle sue esperienze. Gli studiosi delle legature non artistiche sono molto pochi, e hanno fatto studi anche ‘superficiali’, tanto che il 90% delle legature studiate sono andate distrutte, a causa di interventi demolitori. Gli studi più importanti sul mondo della legatura sono di Paul Adam e Berthe van Regemorter, entrambi vissuti tra 1800 e 1900. A metà anni Ottanta fu fatto fare in Italia un censimento di oltre 13.000 legature. 7 La descrizione del manoscritto Il libro è un oggetto che contiene testi ed immagini e la cui funzione è quella di trasmettere di generazione in generazione il sapere dell'umanità. Due sono le ragioni essenziali per cui un libro viene catalogato: 1) affinché i lettori sappiano che esista 2) perché contiene un valore venale, oggetto anche di aste Già nel Medioevo alcune biblioteche di istituzioni collettive possiedono un catalogo relativamente elaborato, dotato di una duplice finalità: 1) per i lettori → elenco di cosa ci sia secondo un ordine gerarchico (Bibbia per prima) 2) in quanto tutela del patrimonio ad uso del bibliotecario, e per la sua facile identificazione Negli ultimi secoli del Medioevo i libri sono catalogati anche negli inventari post mortem. Molto spesso sono destinati alla vendita il che suscita un maggiore interesse per l'oggetto; ma ciò avviene soltanto quando la ricchezza dei materiali e il pregio della fattura lo rendono particolarmente degno di attenzione. Con lo sviluppo della stampa, il libro manoscritto perde gradualmente il suo valore d'uso e si trasforma in cimelio. Già gli umanisti, scovando nelle biblioteche monastiche di tutta Europa venerandi esemplari di testi ignoti, avevano favorito il nascere di un culto per il «testimone illustre». La doppia «carriera» del manoscritto come supporto di studio del passato e come oggetto prezioso prosegue durante tutta l'età moderna. Nel primo caso, i dettagli materiali vengono completamente ignorati: non a caso i primi «cataloghi collettivi» di biblioteche non menzionano che i testi; e quando i primi cataloghi delle grandi biblioteche forniscono informazioni quali la data e il supporto, è probabilmente per segnalare al lettore i volumi più degni di attenzione oppure, molto più spesso, quelli da trascurare. Quando invece il libro è considerato come un oggetto prezioso, saranno ovviamente menzionati soprattutto i dettagli materiali più adatti a giustificarne il prezzo di vendita. Poiché tutti gli eruditi si dedicano alla ricerca di testi a lungo i cataloghi di manoscritti non faranno altro che rispondere con impegno più o meno intenso a questa esigenza, e perseguiranno essenzialmente una finalità testuale. Al filologo interessa conoscere non la fascicolazione in sé, ma, in un certo senso, il suo negativo, cioè gli eventuali incidenti (perdite o inversioni di carte, bifogli o fascicoli) che possono comprometterne la struttura originaria, e quindi l' integrità del testo. È verosimile che la richiesta di procedere all'esame attento e minuzioso di un fascicolo dopo l'altro risulterebbe spontaneamente troppo onerosa nella prospettiva della descrizione catalografica di un intero fondo di manoscritti. Al codicologo ciò che interessa conoscere sono invece le intenzioni dell'artigiano, e quindi la struttura fascicolare maggioritaria, la cui identificazione non comporta difficoltà e non richiede un impegno particolarmente gravoso. Per avere una catalogazione degli incunaboli si usano due fonti primarie: 1) un repertorio su CD-ROM (IISTC → Illustrated Incunabula Short Title Catalog) → 27.000 edizioni pubblicate tra 1455 e 1500, la descrizione materiale è ridotta, mentre il catalogo contiene informazioni essenziali come officina, anno e luogo di stampa 2) Gesamtkatalog der Wiegendrucke → un repertorio generale in progress iniziato tempo fa, con lavori molto lenti quindi le descrizioni sono di meno della metà dei testi pubblicati. Le loro descrizioni menzionano una ricchissima quantità di dettagli Del tutto diversa è la situazione nell'ambito della catalografia dei manoscritti. Tuttavia, il fatto che ogni manoscritto, a differenza di quanto accade per l'esemplare di un'edizione a stampa, sia un unicum e vada di conseguenza descritto integralmente non è sufficiente a spiegare le lacune e le carenze persistenti che affliggono la catalogazione dei grandi fondi manoscritti; il dissenso - e quindi il disordine - che regna quasi dappertutto nella scelta delle priorità; l'eterogeneità, infine, che, salvo in rari e fortunati casi, caratterizza i modelli di descrizione: pochi oggetti si somigliano di meno fra loro di due schede di catalogo, nella scelta dei parametri da descrivere, nella formulazione e nell'ordine di presentazione; e ciò non solo nella diacronia, ma, talvolta, nell'identità di tempo e di luogo. Tale situazione non è sinonimo di assoluta paralisi. I punti di applicazione della catalografia del manoscritto, e quindi le occasioni di catalogare, sono infatti numerosi e diversificati: si catalogano i manoscritti accomunati da particolari caratteristiche; quelli rappresentativi di specifiche tipologie testuali, grafiche o codicologiche; quelli contenenti opere o una determinata opera di un determinato autore. Si descrivono manoscritti in occasione di una mostra, oppure nell' introduzione di un'edizione critica, o ancora nel corpo di una monografia. Data la situazione, un'iniziativa interessante potrebbe essere quella di censire in una lista unica i codici descritti altrove che nella loro culla «naturale», vale a dire il fondo manoscritto della biblioteca cui essi appartengono. Malgrado il moltiplicarsi di iniziative interessanti, la situazione italiana è purtroppo caratterizzata da profonde contraddizioni e da ampie lacune che non sarà di certo facile colmare, tanto meno in tempi brevi. Tali lacune non vertono soltanto sull'avanzamento concreto delle operazioni di catalogazione, ma anche, a monte e in via preliminare, sulla stessa valutazione quantitativa dell'immenso patrimonio manoscritto, il quale, come se si trattasse di un impero senza confini, tende a sfuggire a qualsiasi controllo; e tale considerazione è valida non solo per il patrimonio privato, ma anche per quello che viene gestito dagli enti pubblici. 2 contraddizioni in Italia: 1) non tutto viene fatto ovunque allo stesso modo 2) i giovani di oggi sono meno preparati degli anziani di ieri A livello centralizzato sono da segnalare l’Istituto centrale per il catalogo unico (50.000 manoscritti), o il sito MANUS (2.000), ma invece non è sempre tutto uguale: Toscana e Veneto hanno avviato i lavori, altre zone no. La seconda contraddizione oppone la grande esperienza degli studiosi del manoscritto, che sarebbero i soli a garantire al tempo stesso la ricchezza e l'affidabilità delle descrizioni ma che di norma rifuggono dall'attività catalografica, e l'inevitabile impreparazione dei giovani cui viene sempre più spesso affidata la redazione delle schede. È ovvio che la principale funzione di un catalogo è consentire ai lettori di farsi una prima idea della fisionomia di un fondo o delle caratteristiche di un singolo volume. Una seconda funzione consiste nel rendere nota l'esistenza dei codici giunti fino a noi e nel garantire la conservazione in situ, tutelandosi da furti e manipolazioni fraudolente; al limite, di conservare almeno una traccia dell'oggetto nel caso di eventi catastrofici come incendi o alluvioni. Non può essere infine taciuta la tendenza sempre più diffusa e preoccupante ad attribuire implicitamente ai cataloghi anche una terza funzione, sostitutiva dell'oggetto con il digitale, che si tende a difendere ad oltranza dai danni reali e presunti della consultazione. Va detto che la questione dell'accesso ai manoscritti tramite un catalogo comporta un aspetto in una certa misura paradossale: se per conoscere l'esistenza di un manoscritto in un determinato fondo occorre disporre di un catalogo, è altrettanto vero che l'accesso al catalogo è condizionato dal fatto che di esso si conosca l'esistenza. La necessità di un catalogus catalogorum non solo dei cataloghi a stampa, ma anche dei registri e degli schedari manoscritti, si è fatta sentire fin dall'immediato dopoguerra, sia per i codici latini che per quelli bizantini, e non sono mancate le realizzazioni e gli aggiornamenti successivi, fino all'ultimo decennio del XX secolo. Ciò non significa che non manchino le proposte radicali come l' idea di uno «short catalogue» stringatissimo ma dettagliato, ove la descrizione del contenuto è ridotta ai minimi termini e una sia pur ridottissima riproduzione fotografica offre immediatamente allo sguardo del fruitore una percezione sintetica e globale, anche se incompleta, della presentazione del codice descritto. In una prospettiva analoga, va menzionata la proposta di «cataloghi codicologici» contenenti un quantitativo ristretto di informazioni sull'aspetto materiale dei manoscritti. L'idea di catalogare i codici datati è nata ormai molto tempo addietro, nel 1953, ad opera del «Comité intemational de paléographie». Scopo dell' impresa era quello di offrire agli studiosi del manoscritto e della scrittura, Paese per Paese, una descrizione e una riproduzione fotografica di tutti i manoscritti muniti di un'indicazione di data, di luogo e/o di copista reperibili nelle biblioteche del mondo intero. L'operazione, iniziata e proseguita con alterne vicende, è tutt'oggi in corso. Basta già solo percorrere con lo sguardo la quarantina di volumi allineati uno accanto all'altro sugli scaffali per rimanere colpiti dalle evidenti, e stridenti, disparità che caratterizzano i prodotti di un' iniziativa di cui peraltro non si può mettere in dubbio la natura unitaria e - se non altro in astratto - consensuale. Pochissimi sono i Paesi (Olanda, Svezia, Svizzera) che hanno già completato con successo l'operazione; molte, viceversa, sono le assenze totali: la Penisola iberica e gli Stati Uniti, per non citarne che due fra le più flagranti. Inoltre, Paesi universalmente noti per la straordinaria ricchezza del loro patrimonio manoscritto, come l'Italia e la Germania, si sono a lungo fatti notare per la lentezza e l'esiguità del loro contributo all'avanzamento dell'impresa. Le principali cause di eterogeneità possono essere riassunte nell'elenco che segue: - quantità di manoscritti nelle biblioteche dei Paesi - distribuzione cronologica - distribuzione dei codici datati - le finalità dei responsabili - stato di avanzamento Come accade quasi sempre, la maggior parte dei problemi e delle disfunzioni va imputata in ultima analisi a un fattore «genetico»; nel caso specifico, alla natura e alle prerogative dell ' istituzione promotrice. Il «Comité international de paléographie», che raduna gli studiosi più «rappresentativi» di ogni Paese, non disponeva allora, e non dispone tuttora, di fondi propri che consentissero di autofinanziare la catalogazione dei codici datati. Due altri fattori hanno pesantemente influito sulle opzioni fondamentali dell' impresa, e innanzitutto sul concetto stesso di «codice datato»: l'entità numerica del patrimonio manoscritto nei diversi Paesi e la sua ripartizione cronologica. Non stupisce che dopo un avvio rapido e promettente in alcuni Paesi la «raccomandazione» del «Comité intemational de paléographie» abbia tardato ad imporsi proprio nei Paesi che si distinguono per la ricchezza del loro patrimonio manoscritto e che si trovano l'uno all'avanguardia, l'altro invece in retroguardia per ciò che riguarda la sua catalogazione sistematica. La «diffidenza» nei riguardi del censimento dei codici datati si è espressa nell'uno e nell'altro Paese in rapporto alla necessità di concentrare le energie sulla catalogazione generale dei fondi, ma partendo, paradossalmente, da due motivazioni opposte: in Italia, perché i fondi più importanti non sono ancora catalogati; in Germania perché buona parte di essi lo è già stata il che rende superflua una ricatalogazione specifica dei soli codici datati. È questa la ragione che ha giustificato la scelta di ridurre i cataloghi tedeschi di codici datati a puri e semplici album di riproduzioni fotografiche. Il codice datato deve essere considerato come un testimone in una certa misura «paradigmatico)) per la storia del manoscritto. Un testimone prioritario e privilegiato proprio perché provvisto di un dato cronico e/o topico: di conseguenza la sua descrizione dovrebbe possedere particolari caratteristiche di completezza, di esattezza e di omogeneità. Le ricerche di carattere quantitativo finora compiute o avviate avvalendosi dell'esistenza dei repertori sono testimonianza eloquente del potenziale che essi hanno rappresentato per la nascita e lo sviluppo di nuovi metodi di indagine; metodi che hanno innegabilmente contribuito all'emergere di nuove conoscenze nel campo della codicologia. In conclusione, la vastissima mole di dati resi disponibili dall'esistenza dei cataloghi di manoscritti datati non può essere né pien

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