Insegnare a Trasgredire: Educazione come Pratica di Libertà (PDF)

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Università degli Studi di Firenze

Bell Hooks

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pedagogia educazione femminismo razzismo

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Nel libro 'Insegnare a trasgredire' di Bell Hooks, l'autrice esplora la pedagogia come pratica di libertà, esaminando tematiche quali il razzismo e il femminismo, cercando di promuovere un'educazione inclusiva e critica, basata sull'ascolto reciproco e sul riconoscimento delle differenze individuali. Hooks mette in luce l'importanza di un insegnamento che vada oltre la mera trasmissione di informazioni, promuovendo l'apprendimento come esperienza di trasformazione personale.

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INSEGNARE A TRASGREDIRE Bell Hooks Varie definizioni di politica: TRECCANI→ 1 a. La scienza e l’arte di governare, cioè la teoria e la pratica che hanno per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica […]. b. Più concretamente, l’attiv...

INSEGNARE A TRASGREDIRE Bell Hooks Varie definizioni di politica: TRECCANI→ 1 a. La scienza e l’arte di governare, cioè la teoria e la pratica che hanno per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica […]. b. Più concretamente, l’attività svolta per il governo di uno stato, il modo di governare, l’insieme dei provvedimenti con cui si cerca di raggiungere determinati fini, sia per ciò che riguarda i problemi di carattere interno (p. interna), sia per ciò che riguarda le relazioni con altri stati (p. estera, p. internazionale) […]. c. Modo particolare con cui uno stato, un governo, un capo di governo imposta e cerca di risolvere l’insieme dei problemi politici di varia natura, spec. quelli di maggior portata e gravità […]. d. L’attività di chi partecipa direttamente alla vita pubblica, come membro del governo, del parlamento, di un partito, di un sindacato, di un movimento […] 2 Particolare modo di agire, di procedere, di comportarsi in vista del raggiungimento di un determinato fine, sia nell’ambito pubblico sia in quello privato […]. 3 Linea di condotta accorta e astuta al tempo stesso, caratterizzata dalla capacità di destreggiarsi abilmente nelle situazioni e nei rapporti con gli altri, talvolta unita a una certa dose di opportunismo […]. Hannah Arendt, Che cos’è la politica?, (1995). «La politica, si dice, è una necessità inalienabile per la vita umana, sia per la vita del singolo che per quella della società. Poiché l'uomo non è autarchico ma dipende nella sua esistenza dagli altri, deve esservi una cura dell'esistenza che riguarda tutti, e senza la quale non sarebbe possibile convivere. Compito e fine della politica è tutelare la vita, nel senso più ampio del termine». «La politica ha ancora un senso? Alla questione del senso della politica si può dare una risposta così semplice e convincente, da rendere in apparenza del tutto superflue ulteriori risposte. La risposta è: il senso della politica è la libertà». Nilde Iotti «Fare politica vuol dire capire le ragioni degli altri» Lezione 25/09 Gloria Jean Watkins, 1952, Hopkinsville (Kentucky) – 2021, Berea (Kentucky). Notoriamente conosciuta come bell hooks, pseudonimo militante: bell come la madre Rosa Bell Watkins e hooks come la nonna materna Bell Blair Hooks. Scrittrice, poeta, attivista, femminista, accademica, è una figura di spicco del pensiero critico radicale. Lo pseudonimo (scritto volutamente minuscolo) ha una triplice funzione: 1. affermare con forza la valenza politica di un atto di ri-nominazione che è gesto fondativo di una soggettività inedita; (me lo scelgo io) 2. ancorare quel nuovo sé femminista, battezzato con nomi materni, a un continuum femminile che solo ora, alla luce di una pratica politica collettiva che sa dirsi tale, può riscattarsi da una silenziosa, secolare, apparente passività; (il nome Gloria lo aveva scelto il padre) 3. sfidare il “proprietario” - e per le donne “espropriativo” - sistema dei nomi, che lungo l'asse maschile incensa non contraddittoriamente individualità e continuità, negandole entrambe lungo quello femminile. (presa di posizione) Nasce nel 1952 a Hopkinsville (Kentucky), nel sud rurale e segregato degli Stati Uniti, in una famiglia dalle origini di classe molto umili e vive la sua infanzia e adolescenza negli anni in cui vigeva un sistema di apartheid totale. Nella sua città natale il mondo dei neri era separato dal mondo dei bianchi non solo ideologicamente ma anche fisicamente dai binari della ferrovia, una sorta di “confine” che i neri ogni giorno valicavano per andare a lavorare e servire nella città bianca e riattraversavano ogni sera perché obbligati a tornare al loro posto, senza lasciare traccia di sé. La sua famiglia è composta di sette figli, sei femmine e un maschio, ed è governata da un padre dispotico e violento. L'oppressione che sperimenta in casa portano il duplice segno della discriminazione razziale e dell'autoritarismo paterno (patriarcato), che interagiscono strettamente tra loro. Bell hooks giungerà a dire che la discriminazione razziale – frutto di un sistema sociale dissennato che attribuisce al colore della pelle il significato di inferiorità – altro non è che il frutto di un rapporto di potere e di una “travestita” ingegneria delle disuguaglianze, che al tempo stesso si riverbera tra le mura domestiche nella asimmetria tra ruolo paterno e ruolo materno, tra parola maschile e silenzio femminile. Ed è proprio all’interno del contesto familiare che bell hooks inizia a costruire una complessa e radicale analisi teorica e politica sulle questioni femminili a partire dalle relazioni tra padre-madre e genitori-figli. (è nella famiglia che comincia la prima lotta) Durante le elmentari frequenta la scuola per neri, in quanto era ancora presente l’Apartheid, le insegnanti nere sostenevano e promuovevano un pensiero critico negli studenti neri, a differenza di quanto facevano gli insegnanti bianchi una volta cessato l’Apartheid e che i bianchi e i neri andavano a scuola insieme. La divisione fisica non esisteva più, ma si notava una netta differenza nell’approccio degli insegnanti (prettamente bianchi) con gli studenti bianchi e con quelli neri, i secondi risultavano invisibili. L’invisibilità la porta ad essere ancora più radicale→ decide di RISCHIARE: sfida di pratica femminista per riconoscere e valorizzare le differenze. Lascia precocemente la casa dei genitori e, grazie a una borsa di studio, frequenta l'università di Stanford, in California. Il campus in quegli anni è attraversato da una forte ondata libertaria: gli studenti sono in lotta contro la guerra del Vietnam, i neri militano nelle file del Black Power Party e delle Black Panther, le donne cominciano a separarsi dalle organizzazioni politiche della sinistra per dar vita ai primi collettivi femministi e ai primi gruppi di autocoscienza. (anni ‘60/’70) bell hooks si lega al femminismo quando è ancora una ragazzina. A 17 anni partecipa ai primi corsi di Women’s Studies aperti a Stanford. In quel contesto si accorge che la parola- concetto «donna», che lì si pratica, tende a non comprendere le ragazze e le donne come lei di pelle nera e questo accresce il rischio di ritrovarsi in una nuova condizione di invisibilità, esclusione già vissuta nell’infanzia con l’apartheid. bell hooks sceglie allora di rischiare e intraprende una sfida di pratica femminista volta a riconoscere le differenze senza gerarchizzare. Al pensiero femminista statunitense “di casta” (quello delle donne bianche) contrappone un'analisi più audace, meno ideologica e più realistica. Tra il 1972 e il 1973, inizia a scrivere una raccolta di saggi pubblicati solo nel 1981 nel suo primo volume “Ain’t I a Woman: Black Women and Feminism”. Attraverso questa opera la studiosa mette in evidenza le tante e mai definitive identità e appartenenze di ciascuna donna.*And a’n’t I a Woman è il titolo del discorso pronunciato da Sojourner Truth (Isabella Baumfree, 1797-1883) - nota esponente del movimento antischiavista - dopo aver ottenuto la libertà nel 1827. Il suo discorso fu tenuto ad Akron nel 1851 alla Women's Convention, dedicata ai diritti delle donne. Frammento della trascrizione del discorso di Truth Versione del 1863 di Gage E non sono forse una donna? Guardatemi. Guardate le mie braccia! Ho lavorato nelle piantagioni e ho coltivato i campi mettendo il fieno nei fienili e nessun uomo mi ha mai aiutata! E non sono, forse, una donna? (scoprendo il braccio destro fino alla spalla, mostrando la sua potenza muscolare). Ho arato, e piantato, e raccolto in granai, e nessun uomo potrebbe tenermi testa! Potrei lavorare e mangiare - se avessi [cibo] - a sufficienza quanto un uomo, e sopportare anche la frusta! E non sono, forse, una donna? Ho dato alla luce tredici bambini e visto la maggior parte di loro essere venduta come schiava, e quando ho gridato il dolore di una madre nessuno mi ha ascoltato, tranne Gesù. E non sono, forse, una donna? La specificità di ogni donna - vale a dire il terreno esperienziale su cui ciascuna fonda la propria evoluzione e trasformazione - sta nella sua biografia e nella cognizione che ha di sé come parte di un mondo non statico, complesso, mai banalmente binario. Raccontando di sé, bell hooks dice: «Più di ogni altra cosa ho desiderato essere una scrittrice, ma anche un’accademica. Se questi due desideri in conflitto mi hanno creato tensione e ansia, l'aspirazione a scrivere mi ha permesso però di ribellarmi allo status quo dell'accademia». Trilogia su pedagogia, scuola e comunità educanti (di cui fa parte Insegnare a trasgredire) Teaching to Transgress: Education as the Practice of Freedom, 1994, (trad. it., Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Meltemi 2020). Teaching Community: A Pedagogy of Hope, 2003, (trad. it, Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza, Meltemi 2022). Teaching Critical Thinking: Practical Wisdom, 2010, (trad. it., Insegnare il pensiero critico. Saggezza pratica, (Meltemi 2023) Scrive anche libri per l’infanzia La mia dedizione verso la pedagogia impegnata è un’espressione di attivismo politico L’infanzia: periodo fondamentale della vita di ciascuna persona durante il quale le bambine e i bambini, con il sostegno dei caregivers, fanno (o dovrebbero fare) le prime «scoperte su di sé» e sulle «relazioni» che vivono nei contesti familiari, nelle comunità di appartenenza e nei servizi educativi e scolastici preposti alla loro educazione e istruzione. L’infanzia di bell hooks: famiglia; casa e comunità; scuola. Ruoli di genere in famiglia, razzismo in comunità e emancipazione a scuola (per neri) Apprendimento come rivoluzione e insegnamento come pratica di rivoluzione Come si insegna a trasgredire? Conoscendo chi abbiamo come studenti. Scuola come trasformazione e libertà. Scuola attuale italiana→ assimilazione e non integrazione (intercultura) INSEGNAMENTO→ è un processo rizomatico che stimola uno scambio, prevede una progettualità personalizzata ponendoci obiettivi da seguire, permettendoci obiettivi da seguire. APPRENDIMENTO→ è un processo evolutivo che ha un tempo o più tempi nel quale troviamo delle fasi specifiche per ogni soggettività che porta a una trasformazione 1. Insegnamento inteso come imparare l’obbedienza all’autorità: aula come luogo di punizione e prigione (p. 34); insegnanti demotivati, non realizzati (p. 35); dominio e esercizio ingiusto del potere (p. 35), trasmissione e memorizzazione di informazioni e conoscenze; non conformarsi visto con sospetto. Influenza di Paulo Freire sulla formazione di bell hooks: il potenziale liberatorio dell’apprendimento; l’educazione come pratica di libertà I programmi di Women’s Studies: prerogativa delle docenti bianche ed esclusione di riferimenti alle donne (studiose, scrittrici,…) nere. «L’aula femminista era [comunque] l’unico spazio in cui ogni studente poteva sollevare domande critiche sul processo pedagogico». Primo paradigma della pedagogia hooksiana: aula deve essere un luogo «eccitante» e mai «noioso» (p. 37); in classe si deve vivere un’esperienza di «piacere». Presupposti: pieno riconoscimento di «un’agenda e di programmi» flessibili; accogliere «cambi di direzione» spontanei; considerare gli/le studenti sulla base delle loro «peculiarità individuali»; favorire l’«interazione a partire dalle esigenze delle/degli studenti». Secondo paradigma della pedagogia hooksiana: in una classe intesa come comunità c’è l’ «interesse reciproco ad ascoltare le voci degli altri»; a «riconoscere la presenza reciproca». Presupposti: «valorizzare la presenza di ognuno»; riconoscere che «ogni persona influenza la dinamica della classe»; ogni persona e ogni suo contributo è una «risorsa»; decostruire la nozione tradizionale secondo cui «chi insegna è responsabile delle dinamiche della classe»; l’«entusiasmo è generato dalla sforzo collettivo»; tener conto delle «resistenze» di chi non vuole apprendere nuovi processi pedagogici; vincere la paura di «trasgredire i confini». La «pedagogia radicale» include il riconoscimento delle differenze determinate da classe, razza, orientamento sessuale, nazionalità, … si avvale dell’interazione tra pedagogia anticoloniale, critica e femminista; mette in discussione i pregiudizi che rinforzano i sistemi di dominio (come razzismo e sessismo); offre strumenti per ripensare le pratiche d’insegnamento e migliorare l’apprendimento La «pedagogia impegnata» riconosce ogni classe come diversa, e chiede costantemente ai/alle docenti di modificare, inventare, riconcettualizzare le strategie per affrontare ogni nuova esperienza di insegnamento. Secondo la pedagogia impegnata «l’insegnamento è un atto performativo» ossia una pratica attraverso cui si fa quello che si decide di fare producendo un’azione reale. LUOGHI DI POSSIBILITA’ di Rahel Sereke Questo è un testo appassionato sulla libertà di pensiero che l’apprendimento e l’insegnamento possono offrire, un testo che suggerisce riferimenti, strumenti e strategie per rinnovare la pedagogia e ripensare il ruolo dell’insegnante così come il valore delle istituzioni scolastiche.”La mia dedizione verso la pedagogia impegnata è un’espressione di attivismo politico”, afferma bell hooks. E questo suggerisce la lettura del testo. Attraverso i quattordici capitoli si articola il percorso che porta l’autrice dall’esperienza dell’apprendimento come rivoluzione. Lo sforzo prodotto dalle femministe bianche per affermare l’autorevolezza del pensiero femminista, ha significato più spesso, ci racconta hooks, il mancato riconoscimento dei contributi che mettevano in relazione altre forme di oppressione legate oltre al genere, alla razza e alla classe. La fatica nel costruire una società multiculturale compiuta è riconoscibile sia nell’incapacità di aprire spazi di intervento e riflessione sull’influenza del nostro recente passato sulle attuali forme di razzismo istituzionale, sia nella qualità scadente del dibattito sull’immigrazione, viziato da pregiudizi, ostaggio di cicliche contese elettorali e appannaggio di élite politiche e intellettuali non razzializzate. L’apprendimento e l’insegnamento possono avere un ruolo anche nella cura di comunità ferite. L’autrice insegnante lei stessa, donna, nera, di umili origini, ci offre uno sguardo sul processo pedagogico che ci informa della necessità di dare voce e riconoscere l’autorevolezza dell’esperienza, non perché la condivisione della propria esperienza diventi l’unico strumento di conoscenza, ma perché crei consapevolezza. Il compito che bell hooks riconosce alla pedagogia impegnata- costruire comunità di apprendimento, creare un clima di apertura e impegno condiviso per un bene comune a cui sentirsi legati- può andare ben oltre le istituzioni scolastiche e appare, allora come un orizzonte più desiderabile rispetto al soffermarsi sul senso di sicurezza che possono generare improbabili formule antisociali, sempre a patto di nominare i problemi, di riconoscerli e di agire per risolverli. Per educare alla libertà, dobbiamo sfidare e cambiare il modo in cui si pensa al processo pedagogico e bell hooks ci invita a pensare all’aula come a un luogo di piacere, contrariamente a come viene vissuta, in cui sfidare i ruoli comunemente attribuiti a insegnanti e studenti e gli strumenti attraverso cui si costruisce la relazione tra loro. Riconoscere il ruolo di studente come ruolo di partecipanti attivi, che concorrono a determinare quello che avviene durante il processo di apprendimento, può offrire la possibilità di un’interazione a partire dalle esigenze che ciascuno esprime. Anche per l’insegnante l’impegno reciproco comporta una sfida all’autorità garantita da un sistema pensato per essere gerarchico. ASPETTANDO GLORIA di Mackda Ghebremariam Tesfau (episodio razzismo Macerata- non rilevante) Esistono delle équipe di emergenza che si occupano di situazioni traumatiche collettive, come cataclismi naturali, terremoti e inondazioni. Avrei scoperto che l’Italia, date la sua storia e conformazione, è particolarmente all’avanguardia rispetto agli interventi post-sismici, ma che non vi era nessuna équipe, nessun esperto pronto a rispondere alla chiamata di un gruppo sotto attacco e traumatizzato. (intervento da parte di Mackda) Tentai di far capire alla platea che il problema del razzismo non era individuale, che il problema non erano i razzisti, bensì il razzismo come condizione strutturale e sistemica. Tentai di sottrarre il razzismo alla dimensione psicologica e morale in cui viene relegato nel momento in cui è individualizzato, per portare l’attenzione sulla trasversalità e ubiquità del fenomeno. In quella platea bianca non avevano cittadinanza né il mio messaggio, né la mia rabbia o il mio lutto. Saved by the bell Questa prima traduzione di Teaching to transgress arriva in un momento cruciale della storia nazionale e globale (Black lives matter, COVID-19). Mai fu dunque momento più propizio per discutere i temi esposti in questa opera di bell hooks. bell hooks, all’anagrafe Gloria Jean Watkins, è una delle pensatrici dei margini più rilevanti tra coloro che hanno avuto la fortuna di rientrare nel canone, perché i processi di teorizzazione sono compositi e collettivi, e la maggior parte delle voci che li compongono non trova spazio in quella letteratura obbligata nella quale invece bell hooks si è ritagliata un posto rilevante. Nata nel 1952 a Hopkinsville, cittadina di vocazione rurale nello Stato del Kentucky, Gloria fu testimone della fine del regime segregante dettato dalle leggi Jim Crow. I primi anni della sua educazione avvennero in scuole per Neri (Apartheid). Le classi Nere erano infatti informate della lotta per la liberazione e le docenti Nere insegnavano alle proprie studentesse e ai propri studenti a sopravvivere all’interno di una società che prosperava sulla loro oppressione. Nelle aule, l’esperienza di nessuna bambina Nera, di nessun giovane Nero veniva invisibilizzata o resa insignificante, perché in quelle aule la comunità tentava di salvare sé stessa e il proprio futuro. Nelle comunità Nere, l’importanza dell’educazione come strumento di emancipazione fu evidente sin dalla costituzione dei primi istituti nei quali neo-liberati schiavi venivano istruiti a leggere e scrivere. Essere in classe era, per le persone Nere, un atto di resistenza, e il sapere uno strumento di lotta. La desegregazione portò alla scomparsa delle classi Nere e della docenza Nera come spazi di resistenza, una perdita in termini di espressione ed elaborazione. Furono infatti i giovani Neri a essere assorbiti nelle scuole bianche. Nella nuova classe, Gloria non trovò gli stimoli di cui aveva bisogno, i suoi insegnanti non lottavano con lei per una comune sopravvivenza: il loro sapere era conservativo, non trasformativo. Nelle nuove classi, gli studenti Neri tornarono a occupare i margini. Tra i temi posti da bell hooks: la distinzione tra teoria e prassi, il valore dell’esperienza nella pedagogia impegnata, l’essenzialismo, il rapporto tra razza, genere e movimenti di liberazione e la classe come spazio politico di costruzione. Gloria Watkins divenne bell hooks solo durante gli anni universitari. Il nome richiama quello della bisnonna materna, Bell Blair Hooks, lo pseudonimo è scritto però con le iniziali minuscole, in parte per distinguere il nome da quello dell’ava, e in parte per sancire un predominio del messaggio rispetto al messaggero, dell'idea sull’identità. Estremamente precoce, durante gli anni dell’Università scrive Ain’t I a Woman? Black Women and feminism, il libro però viene pubblicato nel 1981. L’assenza di un luogo all’interno del quale dibattere di razza e genere, di femminismo Nero, portarono la giovane Gloria a costruire un programma e a insegnare il suo primo corso a soli ventun anni. E fu in virtù di questa consapevolezza che bell hooks indirizzò i propri sforzi teorici e pratici verso l’elaborazione di una pedagogia alternativa, una pedagogia capace di restituire al sapere la sua valenza terapeutica e trasformativa. Ri-scritture Lo stile di bell hooks è caratterizzato da una scrittura scorrevole, aneddotica, esperienziale, l’autrice è presente. bell hooks scrive per la liberazione, scrive per essere compresa da casalinghe e carcerati, vuole che nei suoi testi possano trovare strumenti di emancipazione coloro che sono istituzionalmente esclusi da questa cultura. Partire da sé per uscire da sé, entrare nel proprio corpo e far entrare il proprio corpo nel racconto affinché possa diventare un corpo collettivo è una delle più importanti conquiste del pensiero femminista Nero. Mettere al centro la propria esperienza, tuttavia non deve diventare un pretesto per rinnchiudervisi. Il rischio di un mancato passaggio dal personale al collettivo è quello dell’appiattimento di istanze comuni in politiche iperidentitarie che rendono impossibili nuove alleanze, trasformando il cerchio femminista in una stanza dell’ego-eco. L’esperienza e la sua condivisione sono per hooks strumenti atti a costruire un’identità collettiva e condivisa, critica e politica. In questo senso l’evidente corpo di bell hooks è anch’esso presente in minuscolo. Teoria e prassi L’esperienza però non è solo un espediente conoscitivo che vuole rendere intelligibile un concetto, ma è anche il referente ultimo del sapere che si intende trasmettere. Nella pedagogia hooksiana, il sapere ha un valore terapeutico e l’insegnante un ruolo spirituale. Liberazione e guarigione sono due termini inscindibili nei processi di emancipazione Nera. Guarire è fondamentale al fine di liberarsi, e per guarire è necessario conoscere anzitutto l’origine del proprio male. La sopravvivenza di una persona subalterna è legata all’efficacia con cui essa introietta la norma egemone rispettando, al contempo, i limiti imposti dal proprio gruppo di appartenenza. Affinché essi siano attratti dal sapere, il sapere deve avere un valore pratico, la teoria deve insegnar loro dove trovarsi, deve offrire una diagnosi di cura, deve essere trasportabile nel quotidiano e produrre guarigione a partire da quest’ultimo. bell hooks insiste con forza sul valore educativo del dolore, proprio e altrui, la sofferenza ha un potenziale comunicativo e trasformativo, Imparare e disimparare, costruire e decostruire sono operazioni che esondano la teoria per diventare qualcosa di materiale, qualcosa che rende scomoda la sedia su cui si è stati, inconsapevoli, fino a quel momento. bell hooks dice: sono giunta alla teoria attraverso la sofferenza, il dolore dentro di me era così intenso che non potevo più sopportarlo. Sono arrivata alla teoria disperata, bisognosa di comprendere. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione. E se la classe non può e non deve diventare un gruppo di terapia, ciò non significa che in essa non debbano fluire emozioni, che le storie di vita non possano veicolare messaggi fondamentali utili all’apprendimento e alla liberazione collettiva e che nei contenuti veicolati non vi debbano essere le armi e i farmaci di cui abbiamo disperatamente bisogno. Per una pedagogia impegnata E’ oggi imprescindibile un discorso sulle trasformazioni delle classi a fronte di queste identità emergenti ed è oltremodo imprescindibile il riconoscimento della loro presenza in termini di metodologia e contenuti. Un tema fondamentale della produzione di hooks è quello della rappresentazione, poter fruire di rappresentazioni in cui ci si possa rispecchiare facilita il processo di apprendimento e crea un senso di familiarità e legittimazione. Il curriculum scolastico risponde, da sempre, all’esigenza di creare italiani. Questa inculturazione avviene attraverso una narrazione monolitica della Storia come quella specifica sequenza di macro-avvenimenti che ha portato al manifestarsi del contemporaneo. La pedagogia impegnata tenta il superamento della pedagogia critica e di quella femminista in due direzioni. Anzitutto si sente chiamata alla faticosa opera di ricostruzione che segue la necessaria decostruzione critica delle categorie di oppressione, tentando di agire quel Che fare?. La pedagogia impegnata mira a produrre esclusivamente riflessività, bensì a tradursi in movimento individuale e collettivo quotidiano. Questo non può accadere se i saperi da noi promossi non parlano al quotidiano di chi vogliamo si unisca a questo movimento. In seconda battuta essa porta al centro di questo fare il piacere. Il piacere è il volto opposto e complementare della sofferenza. Insieme, questi elementi fondano il principio di un eros pedagogico che è poi la metodologia stessa della pedagogia impegnata. Ciò significa che l’aula deve poter essere un luogo che accoglie tutti i membri nella loro interezza. L’alternativa è preservare nella riproduzione di un sapere conservativo, che verrà rigettato da coloro che da esso sono escluse e esclusi. Infine, vi è un elemento di criticità, quello delle generazioni non bianche e/o dal background migratorio con la scuola, come un rapporto interrotto, tale interruzione si manifesta in particolare nel passaggio tra il primo e il secondo ciclo della scuola secondaria, ovvero tra le scuole medie e superiori, attraverso un consistente fenomeno dell’abbandono scolastico e un implicito/esplicito che costringe questi giovani a una scelta educativa pragmatica e orientata al lavoro Per tale ragione è fondamentale comprendere che la trasformazione che si vuole innescare è anzitutto indirizzata all’esterno dell’aula. L’obiettivo è quello di utilizzare la conoscenza teoria per cambiare il rapporto di subalternità interiorizzato ed è perciò un lavoro militante. INTRODUZIONE Nel Sud della segregazione razziale, le ragazze nere appartenenti alla classe operaia avevano solo tre opzioni: sposarsi, lavorare come cameriere o diventare insegnanti. Fin dall’infanzia, ero convinta che avrei insegnato e scritto. Scrivere sarebbe stato il lavoro importante, insegnare invece il lavoro non-tanto-importante-ma-necessario-per-vivere. Per i neri, l’insegnamento - l’educazione - era fondamentalmente un atto politico, perché radicato nella lotta antirazzista. In effetti, le scuole elementari per neri sono diventate il luogo in cui ho sperimentato l’apprendimento come rivoluzione. Quasi tutte le nostre insegnanti alla Booker T. Washington erano donne nere, votate a nutrire il nostro intelletto per darci la possibilità di diventare studiosi, pensatrici e operatori culturali - persone nere capaci di usare la testa. Sebbene non definissero o spiegassero queste pratiche in termini teorici, le mie insegnanti mettevano in atto una pedagogia rivoluzionaria della resistenza. Le mie insegnanti avevano una missione. Per portare a termine questa missione si assicuravano di conoscerci. Frequentare la scuola era, quindi, gioia pura. La scuola era il luogo dell’estasi: la casa era il luogo in cui ero costretta a conformarmi all’immagine di qualcun altro su chi e cosa avrei dovuto essere. La scuola era il luogo in cui potevo dimenticare quell’io e, attraverso le idee, reinventarmi. Con l’integrazione razziale la scuola cambiò completamente. Improvvisamente, la conoscenza riguardava solo l’informazione. Non aveva alcuna relazione con il modo in cui una persona viveva e si comportava. Per i giovani neri, l’educazione non riguardava più la pratica della libertà, quando me ne resi conto il mio amore per la scuola finì. Passare dalle amatissime scuole per neri alle scuole bianche mi ha insegnato la differenza tra l’educazione come pratica della libertà e l’educazione che si sforza semplicemente di rafforzare il dominio. Nonostante queste esperienze, mi sono diplomata con la ferma convinzione che l’istruzione sia in grado di valorizzare la nostra capacità di essere persone libere. Negli anni universitari, l’unica lezione importante era sempre la stessa: dovevamo imparare l’obbedienza all’autorità. Ho scritto il mio primo libro durante quegli anni universitari, anche se è stato pubblicato solo anni dopo. Scrivevo, ma soprattutto mi preparavo a diventare insegnante. Nell’accettare la professione di insegnante come destino, ero tormentata dalla realtà delle lezioni che avevo seguito sia come studentessa universitaria che come specializzanda. Alla stragrande maggioranza dei nostri professori mancavano le competenze di base alla comunicazione, non si sentivano realizzati e spesso usavano la classe per inscenare rituali di controllo che riguardavano il dominio e l’esercizio ingiusto del potere. In questi contesti ho imparato molto sul tipo di insegnante che non volevo diventare. L’educazione depositaria non mi interessava, volevo diventare una pensatrice critica. Tuttavia quel desiderio era spesso considerato una sfida all’autorità. Il non conformarsi era visto con sospetto. La mia relazione allo stress, alla noia costante e all’apatia che pervadevano le lezioni era quella di immaginare i modi in cui l’insegnamento e l’esperienza di apprendimento avrebbero potuto essere diversi. Nel lavoro del pensatore brasiliano Paulo Freire, la mia prima introduzione alla pedagogia critica, ho trovato un mentore e una guida, qualcuno che comprendeva il potenziale liberatorio dell’apprendimento. Attraverso i suoi insegnamenti, ho iniziato a sviluppare il progetto della mia pratica pedagogica. Ero convinta che il mio mentore e guida, se davvero credeva nell’educazione come pratica della libertà, avrebbe incoraggiato e sostenuto la sfida che avevo lanciato alle sue idee. Allo stesso tempo, utilizzai i suoi paradigmi pedagogici per criticare i limiti delle lezioni femministe. Nel corso dei miei anni di studi universitari e di specializzazione, solo le docenti bianche venivano coinvolte nello sviluppo di programmi di Women’s Studies. L’aula femminista era però, l’unico spazio in cui ogni studente poteva sollevare domande critiche sul processo pedagogico. Queste critiche non erano sempre incoraggiate o ben accolte, ma venivano permesse. Quando misi piede nella mia prima aula universitaria per insegnare, decisi di seguire l’esempio delle appassionate insegnanti nere della mia scuola elementare, del lavoro di Freire e del pensiero femminista della pedagogia radicale. Desideravo ardentemente insegnare in maniera differente da come mi era stato inculcato fin dalle superiori. Il primo paradigma che ha plasmato la mia pedagogia è stata l’idea che l’aula dovesse essere un luogo eccitante, mai noioso, la nozione del piacere in classe. L’idea che l’apprendimento debba essere eccitante, a volte persino divertente, è stata oggetto di discussioni critiche da parte degli educatori. L’eccitazione nell’istruzione superiore era considerata potenzialmente distruttiva dell’atmosfera di serietà ritenuta essenziale per il processo di apprendimento. Entrare nelle classi scolastiche e universitarie con la volontà di condividere il desiderio di incoraggiare l’eccitazione, significava trasgredire. I programmi, perciò, dovevano essere flessibili, consentire cambi di direzione spontanei. Gli studenti dovevano essere considerati nelle loro peculiarità di individui e l’interazione doveva necessariamente partire dalle loro esigenze, stimolando un serio impegno intellettuale e/o accademico. Nella classe intesa come comunità, la capacità di generare eccitazione è profondamente influenzata dal nostro interesse reciproco nell’ascoltare le voci degli altri, nel riconoscere la presenza reciproca. La pedagogia radicale deve insistere sul riconoscimento della presenza di ogni individuo. Prima di tutto chi insegna deve valorizzare realmente l’importanza della presenza di ognuno. Ci deve essere un riconoscimento continuo di come ogni persona influenzi la dinamica della classe e contribuisca al processo di apprendimento. L’entusiasmo è generato dallo sforzo collettivo. Considerare l’aula un luogo comunitario aumenta le possibilità di riuscita dello sforzo collettivo volto a creare e sostenere una comunità di apprendimento. In campo accademico, i saggi di pedagogia critica e/o pedagogia femminista continuano a essere principalmente appannaggio di donne e uomini bianchi. Anche Freire, durante una conversazione con me, così come in gran parte delle sue opere, ha riconosciuto costantemente il proprio posizionamento radicato nella maschilità bianca, in particolare in questo paese. Ma negli ultimi anni, il lavoro di pensatrici e pensatori che si occupano di pedagogia radicale ha realmente incluso il riconoscimento delle differenze: quelle determinate da classe, razza, orientamento sessuale, nazionalità e così via. Le mie pratiche pedagogiche sono emerse dalle interazioni illuminanti di pedagogie anticoloniali, critiche e femministe. Questa combinazione complessa e unica di molteplici punti di vista ha rappresentato una prospettiva coinvolgente e potente con cui lavorare, che mi ha permesso di superare confini, di immaginare e mettere in atto pratiche pedagogiche utili a mettere in discussione, senza mezzi termini, i pregiudizi che rinforzano i sistemi di dominio nei programmi di studio, fornendo contemporaneamente nuovi modi di insegnare a gruppi di studenti differenti. Questi saggi sottolineano che il piacere dell’insegnamento è un atto di resistenza che contrasta la noia opprimente, il disinteresse e l’apatia che così spesso caratterizzano il modo in cui docenti e studenti considerano l’insegnamento, l’apprendimento e l’esperienza in classe. L’insegnamento è un atto performativo. Ed è l’aspetto del nostro lavoro che dà spazio al cambiamento, all’invenzione, ai mutamenti spontanei, e può fungere da catalizzatore per far emergere gli elementi unici di ogni classe. Siamo costretti a considerare la questione della reciprocità. Chi insegna non è un interprete, in quanto il nostro lavoro non vuole essere uno spettacolo. Per poter insegnare nelle nostre comunità non devono cambiare solo i nostri paradigmi, ma anche il modo in cui pensiamo, scriviamo, parliamo. La voce impegnata non deve mai essere fissa e assoluta: deve cambiare costantemente, evolversi nel dialogo con un mondo al di là da sé. L’istruzione è gravemente in crisi. Gli studenti spesso non vogliono imparare e gli insegnanti non vogliono insegnare. L’aula rimane lo spazio di possibilità più radicale dell’accademia. Per anni è stato luogo in cui l’educazione è stata compromessa da insegnanti e studenti, che l’hanno usata come palcoscenico, piuttosto che come luogo di apprendimento. Celebro l’insegnamento che rende possibili trasgressioni per poter pensare, ripensare e creare nuove visioni. E’ quel movimento che rende l’educazione la pratica della libertà. 1 capitolo: PEDAGOGIA IMPEGNATA L’educazione come pratica della libertà è un modo di insegnare che chiunque può imparare. E’ un processo di apprendimento che risulta più facile a chi insegna e a chi ritiene che questo lavoro non sia semplicemente la condivisione di informazioni, ma la condivisione della crescita intellettuale e spirituale degli studenti. Tali insegnanti si avvicinano agli studenti con la volontà e il desiderio di rispondere all’unicità di ognuno, anche quando la situazione non consente il manifestarsi di una relazione basata sul reciproco riconoscimento. Tuttavia, la possibilità di un riconoscimento è sempre presente. Paulo Freire e il monaco buddista vietnamita Thìch Nhàt Hanh sono due degli insegnanti che mi hanno influenzato profondamente con il loro lavoro. All’inizio dell’università, il pensiero di Freire mi ha aiutato a sfidare l’educazione depositaria. All’inizio è stata la pratica della libertà che mi ha incoraggiato a creare strategie per quella che lui chiama coscientizzazione della classe. Traducendo quel termine in consapevolezza critica e impegno, entravo nelle aule con la convinzione che fosse fondamentale per me e per ogni altro studente partecipare attivamente, non consumare passivamente. Il lavoro di Freire afferma che l’educazione può essere libertaria solo quando tutti rivendicano la conoscenza come un campo in cui ognuno ha il proprio ruolo. Questa idea di impegno reciproco è presente anche nella filosofia del buddismo impegnato di Thìch Nhàt Hanh, che si focalizza sulla pratica unita alla contemplazione. Nel suo lavoro, Thich Nhàt Hanh parla sempre dell’insegnante come guaritore. Come Freire, il suo approccio alla conoscenza invita gli studenti a essere partecipanti attivi, a mettere in relazione la consapevolezza con la pratica. Ma mentre Freire si occupa principalmente della mente, Thìch Nhàt Hanh offre un modo di pensare alla pedagogia che enfatizza l'integrità e l’unione di mente, corpo e spirito. Quando ero laurenda, i Women’s Studies cominciavano appena a ritagliarsi uno spazio nell’accademia. Quelle aule erano l’unico spazio in cui le docenti fossero disposte a riconoscere una connessione tra le idee apprese nei contesti universitari e quelle acquisite nella vita pratica. L’educazione progressusta e olistica, la pedagogia impegnata, è più faticosa della pedagogia critica o femministra convenzionale. A differenza di queste due pratiche di insegnamento, promuove benessere. Ciò significa che chi insegna deve impegnarsi attivamente in un processi di autorealizzazione capace di promuovere il proprio benessere personale, per poi essere in grado di fornire strumenti di autodeterminazione agli studenti. Thìch Nhat Hanh sottolinea che la pratica di un guaritore, che aiuta le altre persone, dovrebbe essere diretta prima di tutto verso di sé, perché se chi aiuta è infelice, non può aiutare gli altri. Ho imparato che, lungi dall’essere un luogo di autorealizzazione, l’università era considerata il paradiso di chi era bravo a imparare dai libri, ma poco adatto all’interazione sociale. Fortunatamente, durante i miei anni di studio, ho tracciato una distinzione tra l’essere un intellettuale e una docente, e far parte dell’ambito accademico. L’idea della ricerca intellettuale di un’unione tra mente, corpo e spirito viene sostituita dall’idea che essere intelligenti significhi essere intrinsecamente instabili dal punto di vista emotivo, e che il meglio di sé, emerga nel lavoro accademico. Nel momento in cui si varca la soglia dell’aula il sé viene apparentemente svuotato, lasciando posto esclusivamente alla mente obiettiva perché si teme che le condizioni di quel sé interferiscano con il processo di insegnamento. Oggi, parte del lusso e del privilegio del ruolo di insegnante e docente, è l’assenza di qualsiasi requisito relativo all’autorealizzazione. Scoprire Freire è stato cruciale, mi ha permesso di sopravvivere in quanto studente. Il suo lavoro mi ha offerto un modo per comprendere i limiti del tipo di istruzione che stavo ricevendo e la possibilità di scoprire una strategia alternative per l’apprendimento e l’insegnamento. Nel corso del breve periodo in cui ho studiato con lui, mi sono sentita profondamente commossa dalla sua presenza, dal modo in cui il suo stile di insegnamento esemplificasse la sua teoria pedagogica. Tale esperienza ha ripristinato la mia fede nell’educazione libertaria. Avevo bisogno di sapere che i docenti non devono essere per forza dittatori in classe. Anche se desideravo che l’insegnamento diventasse la mia professione, credevo che il successo personale fosse intimamente collegato all’autorealizzazione. Gli studenti spesso hanno paura, come me, che nell'accademia non esistano spazi in cui sia possibile affermare la propria volontà di autorealizzarsi. Questo timore deriva dal fatto che molto docenti rispondono con estrema ostilità alle idee dell’educazione libertaria, che collega la volontà di sapere alla volontà di diventare. Oggi gli studenti appaiono molto più incerti rispetto al proprio progetto di autorealizzazione di quanto fossimo i miei coetanei e io venti anni fa. Sono consapevoli che l’agire non è plasmato da chiare linee guida etiche. Tuttavia, pur nello sconforto, sono fermamente convinti che l’educazione debba essere libertaria. Vogliono un’educazione che guarisca il loro spirito poco informato e consapevole. Questa richiesta da parte degli studenti non significa che accettino sempre la nostra guida. Questa è una delle gioie dell’educazione come pratica della libertà, poiché consente agli studenti di assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Viene descritto l'esempio di uno studente Gary, il quale attraverso uno scambio con Bell Hooks ha attuato pedagogia impegnata. (lui voleva entrare a far parte di una confraternita ma Bell gli disse che questa idea non era costruttiva) a tal proposito dopo la loro discussione e attraverso il pensiero critico- processo che ha imparato studiando la teoria e analizzando i testi in maniera attiva- Gary ha vissuto l’educazione come pratica della libertà. La pedagogia impegnata valorizza necessariamente l’espressione dello studente.Quando l'educazione è la pratica della libertà, gli studenti non sono i soli a cui viene chiesto di condividere, di confessare. La pedagogia impegnata non cerca soltanto di fornire strumenti di crescita personale agli studenti, poiché l'aula in cui si impiega un modello olistico di apprendimento diventa anche un luogo in cui chi insegna cresce e acquisisce competenze nel corso del processo. Tale crescita personale non può aver luogo se ci rifiutiamo di essere vulnerabili, mentre allo stesso tempo incoraggiamo gli studenti ad assumersi dei rischi. Se ci si aspetta che gli studenti condividano narrazioni confessionali senza voler condividere le proprie, si esercita il potere in modo potenzialmente coercitivo. Spesso è utile che i docenti corrano per primi tale rischio, unendo le narrazioni confessionali alle spiegazioni accademiche, in modo da mostrare come l'esperienza possa illuminare e migliorare la nostra comprensione del materiale accademico. Docenti progressisti che si impegnano a trasformare il percorso formativo in modo che non rifletta pregiudizi o rinforzi sistemi di dominio, sono spesso individui disposti a correre i rischi richiesti dalla pedagogia impegnata e a rendere le proprie pratiche di insegnamento luogo di resistenza ( la resistenza sta nella decostruzione consapevole dei discorsi e delle rappresentazioni normative dominanti, e nella creazione attiva di spazi analitici e culturali di resistenza). Il docente che accetta la sfida dell'autorealizzazione sarà maggiormente in grado di dare vita a pratiche pedagogiche capaci di coinvolgere gli studenti, fornendo loro le modalità di conoscenza che ne miglioreranno la capacità di vivere. 2 capitolo: UNA RIVOLUZIONE DI VALORI Bell parla della desegregazione razziale come un periodo confusionario, ostile e conflittuale, poiché per la prima volta bianchi e neri dovevano interfacciarsi gli uni con gli altri insieme. Spiega il tutto facendo riferimento al suo periodo adolescenziale, dove iniziò il fenomeno della desegregazione, nel quale i ragazzi neri sono stati costretti ad abbandonare il loro “mondo” e la loro scuola per neri, dove si sentivano apprezzati e al centro di tutto per andare nelle scuole per bianchi. Dovevano spostarsi loro ed entrare in una scuola per loro “fredda e aliena”, dove si sentivano ai margini e non più al centro. Il contatto fra i neri e bianchi era molto limitato, i ragazzi di colore dovevano andare un’ora prima a scuola e aspettare in palestra cosicché quando arrivavano gli altri ragazzi bianchi erano già all’interno della scuola, dopo aver fatto un lungo viaggio per raggiungerla ( es, eravamo noi a spostarci e quindi a rendere reale la desegregazione). Era presente una “finta” aria di uguaglianza poichè chi volesse renderla reale era visto come una minaccia sociale.--> mettere in discussione lo status quo! (storia di amicizia con ken, ragazzo bianco che credeva fortemente nell’uguaglianza e che si batteva con lei) Le loro idee di cambiamento non erano fantasia ma semplicemente avevano in comune l’impegno appassionato verso un ideale di trasformazione sociale fondato su una concezione radicalmente democratica di libertà e giustizia universale. -> riflessione sulla cultura di dominio e su quali sono i valori per promuovere libertà per impegnarsi a porre fine all'oppressione sessista e classista Secondo Martin Luther King jr. non siamo in grado di progredire senza mettere in atto una vera “rivoluzione di valori”, poiché è necessario passare da una società orientata verso le “cose” a una società orientata alle “persone”. Poichè una civiltà può crollare rapidamente a causa del fallimento morale e spirituale, tanto quanto quello finanziario.Bisogna riflettere sulle forze che impediscono di progredire, di sperimentare quella rivoluzione di valori. Ci troviamo di fronte a un voler ritornare al passato (idealizzato ormai) come una soluzione e rimedio al caos del progresso globale, ma cio evoca sessismo, patriarcato, razzismo e xenofobia. Ad esempio l’idea di famiglia del passato presenta ruoli di genere sessisti, patriarcato e forme di violenza di genere, viene vista come uno spazio sicuro che in realtà non lo è. E’ evidente che uno dei motivi per il quale non abbiamo ancora sperimentato una rivoluzione di valori è che la cultura di dominio promuove necessariamente la dipendenza dalla menzogna e dalla negazione.Questa menzogna si manifesta molto nei mass media che creano il mito secondo cui il razzismo non esiste piu, il movimento femminista ha trasformato la società dove adesso glio uomini bianchi sono le vittime. La crisi contemporanea che viviamo adesso deriva in parte dall’impossibilità di un accesso alla verità. Quando il consumo culturale collettivo e l'attaccamento a tale disinformazione vanno di pari passo con le menzogne personali vissute dagli individui, la nostra capacità di affrontare la realtà gravemente intaccata così come la nostra volontà di intervenire per cambiare circostanze ingiuste. Come l’università ad esempio, che da dispensatrice corrotta e morente di supremazia bianca, imperialismo, razzismo ecc… ha attuato una rivoluzione necessaria. Trasformandola in un luogo in cui fosse possibile valorizzare la differenza e superare la negazione collettiva accademica, nella speranza di realizzazione dell’educazione come pratica della libertà. Ciò inizialmente portò scompenso e caos, dagli stessi insegnanti che dovevano affrontare i propri limiti sentendosi meno “autoritari” nel far rispettare le differenze culturali e dagli stessi studenti nell’accogliere il diverso. A molti docenti mancavano le strategie per affrontare gli antagonismi in classe, e molti docenti che inizialmente avevano preso sul serio la questione di cambiamento culturale fecero passi indietro. E’ presente una paura che qualsiasi decentramento delle civiltà occidentali e del canone maschile bianco, rappresenti un atto di genocidio culturale. Molti sostengono che la diversità culturale voglia sostituire la dittatura del sapere con un’altra, questa è la falsa credenza piu sbagliata della diversità culturale. Impegnarci nel lavoro di trasformazione dell'accademia, per farla diventare un luogo in cui la diversità culturale informa ogni aspetto del nostro apprendimento, significa abbracciare la lotta e il sacrificio. Dobbiamo affermare la nostra solidarietà attraverso l'adesione collettiva a uno spirito di apertura intellettuale che celebri la verità, accolga il dissenso e si rallegri della dedizione alla verità.Tutti noi che facciamo parte dell'accademia e del mondo della cultura in generale, siamo chiamati a rinnovarci interiormente se vogliamo trasformare le istituzioni educative e la società cosicché il modo in cui viviamo, insegniamo e lavoriamo possa riflettere la nostra gioia per la diversità culturale, la nostra passione per la giustizia e il nostro amore per la libertà. 3 capitolo: PROMUOVERE IL CAMBIAMENTO Nonostante l’attenzione, anche a livello istituzionale, al multiculturalismo, la discussione pratica su come trasformare l'esperienza inclusiva ancora non viene fatta.Per avvenire ciò deve cambiare l'approccio educativo e gli stili d'insegnamento. Maggior parte di noi è stata educata in contesti in cui gli stili di insegnamenti riflettevano la nozione di una singola norma di pensiero e di esperienza, che ci hanno incoraggiato a ritenere universale. Di conseguenza molti docenti sono infastiditi dalle implicazioni politiche dell'educazione multiculturale, perché temono di perdere il controllo se non esiste un modo univoco di affrontare una materia in aula, ma solo modalità e riferimenti multipli.Devono essere istituiti dei centri do formazione per i docenti per accogliere le loro paure e creare nuove modalità di affrontare i cambiamenti multiculturali. (storia dei seminari sulla pedagogia trasformativa per i docenti del campus Oberlin pag 68-70) Troppo spesso abbiamo invece testimoniato la volontà di includere persone considerate marginali senza però la concomitante disponibilità ad accordare al loro lavoro lo stesso rispetto e considerazione dato ad altri. Una simile pedagogia non mette in discussione i pregiudizi stabiliti dai canoni convenzionali ed è ancora una volta una forma di tokenismo. In gran parte degli scritti di Bell Hooks sulla pedagogia, in contesti di classi multiculturali, ha parlato della necessità di esaminare criticamente il modo in cui gli insegnanti concepiscono lo spazio dell'apprendimento. L'aula dovrebbe essere un luogo “sicuro”, con un professore che spiega ad un'aula tranquilla e silenziosa ma ciò non implica la discussione e il coinvolgimento degli studenti. Uno degli obiettivi centrali della pedagogia trasformativa è quello di rendere l'aula un ambiente democratico in cui tutti si sentono la responsabilità di contribuire. I professori devono stare attenti a non riprodurre le politiche di dominio anche in ambito educativo, ad esempio molto spesso sono gli studenti maschi bianchi che prendono maggiormente la parola durante le lezioni mentre le studentesse bianche e gli studenti di colore hanno paura di essere giudicati intellettualmente inadeguati dai propri coetanei. Accettare il decentramento dell'occidente a livello globale e abbracciare multiculturalismo obbliga l'educatore a focalizzare l'attenzione sulla questione della voce. Preoccuparsi che tutti gli studenti adempiono la propria responsabilità di contribuire all'apprendimento in classe non è un approccio comune in quella che Freire ha definito educazione depositaria, in cui gli studenti sono considerati semplicemente come consumatori passivi. Utilizzando una pedagogia critica basata sulla mia comprensione dell'insegnamento di freire entro in classe partendo dal presupposto che dobbiamo costruire un'unità per fare un clima di apertura e rigore intellettuale. Invece di concentrarmi sul senso di sicurezza, sono convinta che il sentimento di comunità stimoli la sensazione di un impegno condiviso e di un bene comune che ci lega. Un buon modo di costruire la comunità in classe e di riconoscere il valore di ogni singola voce. Ascoltare il suono di voci diverse ascoltarsi l'un l'altro è un esercizio di riconoscimento e assicura che nessuno studente rimanga invisibile in classe. Gli educatori sono scarsamente preparati ad affrontare realmente la diversità ed è il motivo per cui si aggrappano ostinatamente ai vecchi schemi.Nel contesto multiculturale professori e studenti devono imparare ad accettare modi di conoscere differenti e nuove epistemologie. La classe eterogenea in cui la filosofia dell'insegnamento è radicata nella pedagogia critica e nella pedagogia critica femminista, sperimenta una tensione maggiore poiché come docente bisogna rinunciare al bisogno della conferma istantanea del successo del proprio insegnamento e accettare la possibile incapacità degli studenti di apprezzare immediatamente il valore di un certo punto di vista o percorso. L'aspetto eccitante della creazione di una comunità di studenti che rispetta le singoli voci è il fatto che gli studenti sentano liberi di parlare e di rispondere. In alcuni casi gli studenti mi hanno insegnato che in questi nuovi contesti di apprendimento è necessario praticare la compassione, la quale può apportare sofferenza poiché il cambiare paradigmi può portare un certo disagio. Il multiculturalismo è una prospettiva inclusiva imparziale, la quale deve essere presente indipendentemente dalla presenza di persone di colore. In multiculturalismo costringe l'educatore a riconoscere gli stretti confini che hanno modellato il modo in cui la conoscenza viene condivisa in classe e ci obbliga tutti a riconoscere la nostra complicità nell'accettare e perpetuare e pregiudizi di ogni tipo. Possiamo insegnare in modi che trasformano le coscienze, realizzando un clima di libera espressione che è l'essenza di un'educazione alle scienze umanistiche veramente libertaria. 4 capitolo : PAULO FREIRE (intervista fra bell hooks e gloria watkins per parlare di paulo freire in intimità riporto quindi i punti principali) - la sua crescita come pensatrice critica è stata fortemente influenzata dai nuovi modi di pensare alla realtà sociale di Freire. Bell si è fortemente identificata con i personaggi emarginati di cui parla Freire, molto spesso gli studiosi leggevano suoi testi sentendosi esterni e ontani mentre bell si sentiva chiamata in causa in quanto discriminata e emarginata a causa del colore della sua pelle e perchè donna.Il lavoro intellettuale di Freire le ha dato voce poiché si sentiva in lotta ma non aveva un linguaggio politico in grado di articolare il suo processo. Gli è servito per riflettere sul processo di costruzione identitaria resistente: questa frate è stata per lei una matrice rivoluzionaria “ non possiamo iniziare la lotta come oggetti e diventare soggetti in un secondo tempo”, questa frase è stata per lei l’apertura a un pensiero critico trasformativo. Freire come insegnante stimolante che ha facilitato la sua lotta contro il processo di colonizzazione e mentalità colonizzante. - legame fra la decolonizzazione e l’attenzione di Freire alla “coscientizzazione”, prima fase fondamentale per la trasformazione, il momento critico in cui si inizia a pensare in modo critico al sè e all’identità in relazione al proprio posizionamento politico.Cambiare atteggiamento e modo di pensare puo essere significativo per le persone oppresse e colonizzate come processo collegato a prassi significative che attua un cambiamento ( non è il fine in sè). Le pratiche non sono azioni fini a se stesse, senza intenzione o finalità, ma azioni e riflessioni. Gli umani sono storicamente costruiti dalle proprie pratiche e nell’ambito di tale processo hanno imparato a trasformare il mondo, a dargli un significato. - il linguaggio sessista di freire viene definito un paradigma fallocentrico di liberazione, in cui la libertà e l’esperienza della virilità patriarcale sono collegate, come se fossero la stessa cosa.Ma il modello di pedagogia critica di freire stimola la messa in questione critica di questo difetto del suo lavoro, attraverso il pensiero femminista.--> ma bell hook assestata delle sue opere, in grado di facilitare la liberazione di sè che lo vede come un dono inestimabile anche se imperfetto - rapporto fra la sua esperienza da afroamericana e i lavori di freire:l'educazione come pratica della libertà poichè si è sentita inclusa nella pedagogia degli oppressi (primo libro di freire) - influenza di freire e lo sviluppo come teorica femminista e critica sociale: l'intersezione tra il pensiero di Paulo e la pedagogia vissuta dei molti insegnanti neri della mia fanciullezza è stata parte della missione educativa liberatoria per prepararci a resistere efficacemente al razzismo e alla supremazia bianca, ed ha avuto un profondo impatto sulla mia riflessione sull'arte e sulla pratica dell'insegnamento. Sebbene le docenti donne nere non rivendicavano apertamente il femminismo, il fatto stesso che insistessero l'eccellenza accademica e insegnassero il pensiero critico alle giovani donne nere era una pratica antisessista. Il lavoro di freire ha affermato il suo diritto a definire la realtà in quanto soggetto resistente ( ain’t i a woman? testo che ha portato ad una lotta interiore bell hooks nel sentirsi da oggetto a soggetto) Paulo e il sessismo: i suoi testi sono stati criticati come sessisti nel linguaggio ma lui ha accolto queste critiche e contraddizioni come processo di apprendimento, dalle quali ha svolto un cambiamento. - paulo come insegnante che porta con sé un'atmosfera unica e particolare (detto dal monaco buddista thich bhat hanh), una persona saggia con la quale sentirsi liberi e in pace. dopo averlo incontrato di persona la sua ammirazione si è concretizzata ancor di piu poichè non solo gli promuove libertà nei suoi testi ma incarna le pratiche educative di cui scrive. Capitolo quinto. La teoria come pratica liberatoria Sono arrivata alla teoria attraverso la sofferenza e il dolore. La teoria per me ha rappresentato un luogo di guarigione e l’ho scoperta quando era ancora una bambina. In The Significance of Theory Terry Eagleton afferma che i bambini sono i migliori teorici, insistono nell’interrogare le pratiche attraverso domande imbarazzanti. Ogni volta che, durante l’infanzia, ho tentato di convincere le persone intorno a me a cambiare il modo di comportarsi sono stata punita. Da giovane avevo cercato di spiegare a mia madre che era sbagliato il comportamento di mio padre che per insegnarmi la disciplina mi frustava e di risposta mia madre mi disse che avevo perso la testa e necessitavo di punizioni più severe. Io capisco come doveva essere per i miei genitori con una famiglia di sette figli, trovarsi di fronte una bambina vispa che li interrogava incessantemente, sfidando l’autorità maschile. Ero una piccola figura demoniaca che minacciava di sovvertire e minare tutto ciò che stavano cercando di costruire. Non stupisce che abbiano cercato di reprimermi con punizioni. Ovviamente il mio dolore era tanto, non mi sentivo connessa alla mia famiglia che non solo non comprendeva la mia visione del mondo, ma non voleva neanche ascoltarla. Invidiavo molto Dorothy de Il Mago di Oz, che attraversava le sue peggiori paure e incubi solo per coprire che alla fine “nessun posto era bello come casa mia”. Però la mia infanzia l’ho vissuta senza questo senso di casa e ho trovato un porto franco nella “teoria”. La teoria è diventata il punto di partenza dal quale poter immaginare futuri possibili e vivere in modo diverso. Questa esperienza “vissuta” del pensiero critico è il luogo in cui mi sono sforzata di comprendere il dolore e farlo sparire. La teoria può essere un luogo di guarigione. La psicoanalista Alice Miller racconta, nell’introduzione al libro Prisoners of Childhood, che la sua lotta personale per riprendersi dalle ferite d’infanzia l’ha portata a formulare in modo nuovo il pensiero sociale e critico. Quando la nostra esperienza vissuta della teoria critica è legata a processi di autoguarigione e di liberazione collettiva, non esiste alcun divario tra teoria e pratica. Quando ero bambina non descrivevo i miei processi di pensiero e critica come “teorizzazione”, eppure, come suggerito in Feminist Theory, conoscere un termine non dà vita a un processo o una pratica; ci si può dedicare alla teoria senza conoscere e possedere un termine. Si può agire la resistenza femminista senza mai utilizzare la parola “femminismo”. Spesso chi usa grandi termini come “teoria” o “femminismo” non sono necessariamente attivisti, l’atto di nominare spesso offre a coloro che detengono il potere l’accesso a determinate modalità di comunicazione. Il saggio di Katie King Producing Sex, Theory, and Culture: Gay/Straight ReMapping in Contemporary Feminism offre un esempio molto utile di come la produzione accademica di teoria femminista spesso consente ad alcune donne di attingere da opere di studiose femministe meno note. King riflette sull’appropriazione di queste opere, e dal modo in cui chi legge attribuisce tali idee a qualche grande studiosa o pensatrice femminista (esempio di Sandoval, p.96. King nomina Sandoval e scrive ciò che pensa lei appropriandosene e Sandoval rimarrà nell’oscurità). Facendo eco alle teorie femministe, in particolare alla donne di colore, King ci incoraggia ad avere una prospettiva espansiva sul processo di teorizzazione. La riflessione critica sulla produzione contemporanea della teoria femminista rende evidente che il mutamento in atto rispetto alle prima concettualizzazioni della teoria femminista inizia a verificarsi. Allo stesso tempo, gli sforzi delle donne nere e delle donne di colore a sfidare e decostruire la categoria “donna” ha costituito un fattore critico che ha portato a una rivoluzione profonda nel pensiero femminista. Sulla scia di questa rottura, l’attacco alla supremazia bianca sembra essersi originato e alimentato attorno agli sforzi comuni di formulare e imporre standard di valutazione critica per definire ciò che è teoria e ciò che non lo è. Il lavoro delle donne di colore, dei gruppi emarginati e di alcune donne bianche, specialmente quando è scritto in un modo che lo rende accessibile a un vasto pubblico di lettrici e lettori è spesso delegittimato. Sebbene venga spesso approvato dalle stesse persone che stabiliscono standard critici restrittivi, è proprio il tipo di lavoro che secondo loro non rappresenta la teoria. King sottolinea che “la teoria trova usi diversi in luoghi diversi” ed è evidente che uno dei molti usi della teoria in ambito accademico consiste nella produzione di una gerarchia di classi intellettuali in cui l’unica opera ritenuta veramente teorica è altamente astratta. In A Conversation about Race and Class la critica letteraria Mary Childers afferma che è ironico che un certo tipo di produzione teorica, comprensibile da un gruppo ristretto di persone, sia diventata rappresentativa di qualsiasi produzione di pensiero critico. Il che è particolarmente ironico nel caso della teoria femminista, la quale in alcuni luoghi è vista come inutile. Sono tanti i luoghi in cui la parola scritta ha soltanto un leggero significato visivo, in cui i soggetti che non sanno né leggere né scrivere non possono trovare nulla di utile in essa. Pertanto qualsiasi teoria che non può essere condivisa in una conversazione quotidiana non può essere utilizzata per educare un pubblico. All’interno dei movimenti femministi si è verificato un enorme cambiamento perché le studenti che oggi frequentano lezioni di Women’s Studies e studiano la teoria sostengono che quello che leggono è incomprensibile e non si lega alla realtà “vissuta”. Come attiviste femministe dovremmo chiederci: a cosa serve una teoria così? Aiuta a combattere il patriarcato? Una teoria femminista che è in grado di fare questo può andare bene per legittimare i Women’s Studies e le borse di studio femministe agli occhi del patriarcato, ma mina i movimenti femministi. Forse è proprio questo che ci fa parlare del divario tra teoria e prassi. Perché questa teoria non unisce, separa e si utilizza per mettere a tacere voci teoriche femministe. All’interno degli ambiti femministi, molte donne hanno reagito rifiutando la teoria egemonica femminista che non parla chiaramente alle donne promuovendo la falsa dicotomia tra teoria e pratica. Interiorizzando il falso presupposto che la teoria non sia una pratica sociale, promuovono la creazione di una gerarchia potenzialmente oppressiva all’interno degli ambienti femministi. (Esempio del raduno di donne nere che parlano di leader maschi come Martin Luther King che devono essere sottoposti a critica femminista e della donna nera che non parlava e esordisce che non gli interessa quella teoria retorica. Pag 99-100) bell hooks rimane infastidita dalla risposta della donna perché è una reazione tipica. bell hooks dice: le possibilità per le donne nere di chiacchierare di genere, razza, classe sono poche perciò non capisco l’origine dell’insinuazione della donna. Sentivo che eravamo impegnati in un processo dialogico critico e interiorizzazione a lungo considerato tabù, quindi stavamo tracciando nuovi percorsi. In molti contesti neri, ho assistito al silenziamento degli intellettuali e alla svalutazione del contributo della teoria e sono rimasta in silenzio. Sono arrivata a considerare il silenzio come un atto di complicità. Come molti intellettuali neri ribelli, il cui lavoro intellettuale e insegnamento si svolgono spesso in contesti prevalentemente bianchi, sono così felice di essere coinvolta nei collettivi di gente nera. Avevo paura che se avessi insistito sull'importanza del lavoro intellettuale, in particolare sulla teoria, o se avessi semplicemente affermato che pensavo fosse importante prepararsi accuratamente, avrei rischiato di essere considerata arrogante. Queste minacce al proprio senso di sé ora sembrano banali, se si prende in considerazione a partire dalla crisi che stiamo affrontando come afroamericani, al nostro disperato bisogno di riaccendere e tenere viva la fiamma della lotta di liberazione nera. Molte delle questioni che continuiamo ad affrontare in quanto persone nere non possono essere affrontate a partire dalle strategie di sopravvivenza che hanno funzionato in passato. Ho insistito sul bisogno comune di nuove teorie che si sviluppano a partire dal tentativo di comprendere sia la natura della nostra situazione contemporanea, sia i mezzi attraverso i quali possiamo impegnarci collettivamente in una forma di resistenza. Nei miei sforzi di enfatizzare l'importanza del lavoro intellettuale e la produzione della teoria come pratica sociale dal valore liberatorio non sono stata rigorosa e implacabile. Anche se non avevo paura di parlare, non volevo essere vista come colei che “rovina” un bel momento. Questa paura mi aveva ricordato come mi ero sentita più di dieci anni prima in contesti femministi, quando ponevo domande sulla teoria e sulla prassi. Sembrava ironico che in una riunione convocata per onorare Martin Luther King Jr., che non aveva paura di parlare e agire, le donne nere stessero negando ancora una volta il diritto a impegnarci in un dialogo politico. Perché le donne nere sentivano il bisogno di sovrastarsi l’un l’altra? Le donne nere vedono continuamente negati i propri sforzi di parlare, di rompere il silenzio e impegnarsi in dibattiti politici progressisti e radicali. Esiste un legame tra la censura, l'anti-intellettualismo e il silenzio che ci viene imposto nei contesti prevalentemente neri che presumibilmente dovrebbero essere solidali. In Travelling Theory: Cultural Politics of Race and Rapresentation, La critica culturale di Kobena Mercer ci ricorda che la nerezza è una questione complessa sfaccettata punto proprio come alcuni accademici prestigiosi che costruiscono teorie della “ nerezza” In modo tale da renderle un terreno critico in cui solo pochi eletti possono entrare e così facendo, minano la lotta collettiva per la liberazione dei neri. recentemente, mi sono ricordata di quanto sia pericoloso questo antiintellettualismo quando ho accettato di apparire in un programma radiofonico con un gruppo di donne e uomini neri per discutere del libro di Shahrazad Ali The Blackman’s Guide to Understanding the Black Woman. Ho ascoltato un oratore dopo l'altro manifestare disprezzo per il lavoro intellettuale. Una donna nera insisteva con veemenza sul fatto che “ non abbiamo bisogno di nessuna teoria”. Il libro di Ali Sì si esprime attraverso un linguaggio semplice e uno stile che si avvale della parlata gergale nera, ma ha una solida base teorica radicata nelle Teorie del patriarcato. la discussione sul libro di Ali è uno dei tanti esempi possibili che illustrano il modo in cui il disprezzo e l'indifferenza per la teoria mirano la lotta collettiva per resistere all'oppressione e allo sfruttamento. Come movimento femminista dobbiamo continuare a rivendicare la teoria come pratica necessaria all'interno di un quadro olistico di attivismo liberatorio. Dobbiamo fare di più che richiamare l'attenzione sul modo in cui la teoria viene utilizzata in modo improprio. Dobbiamo fare molto di più che criticare gli usi tradizionali. Dobbiamo impegnarci attivamente per richiamare l'attenzione sull'importanza di creare una teoria in grado di far progredire movimenti femministi rinnovati. In questo modo, celebriamo e valorizziamo la teoria che può essere condivisa nella narrativa orale scritta. Riflettendo sul mio lavoro teorico femminista, trovo che la scrittura sia più significativa quando invita lettrice e lettori a impegnarsi nelle riflessioni critiche e nella pratica del femminismo. Questo è per me ciò che rende possibile la trasformazione femminista. La testimonianza personale, all'esperienza personale, sono un terreno eccezionalmente fertile per la popolazione della teoria femminista. Mentre ci diamo da fare per risolvere i problemi più urgenti nella vita quotidiana, ci impegniamo in un processo critico di teorizzazione che ci fornisce nuovi strumenti e ci investe di potere. mi stupisco della mole di testi femministi esistenti e della poca teoria femminista che parla a donne, uomini e bambini di come potremmo trasformare la nostra vita attraverso la conversione della pratica femminista. Sappiamo che molte persone, negli Stati Uniti, hanno usato il pensiero femminista per educare se stessi al fine di trasformare la propria vita. Spesso sono critica nei confronti del femminismo basato sullo stile di vita. Nell'ambito del patriarcato capitalista è suprematista bianco, abbiamo già assistito alla mercificazione del pensiero femminista che illude le persone di poter prendere parte al “ bene”. Nella cultura capitalista, il femminismo e la teoria femminista sono rapidamente diventato una merce che solo I privilegiati possono permettersi. Da un simile punto di partenza, ci chiediamo Come creare una teoria che parla più vasto pubblico. Ho spesso ricordato nei miei scritti, in numerosi discorsi e conversazioni pubbliche, che le mie scelte stilistiche e la mia decisione di non utilizzare le formule accademiche rappresentano una decisione politica o motivata dal desiderio di essere inclusiva. Questa decisione ha avuto conseguenze sia positive che negative. Studenti di varie istituzioni accademiche spesso si lamentano di non poter includere il mio lavoro nelle bibliografie perché i professori non li reputano abbastanza accademici. Queste reazioni negative appaiono insignificanti rispetto alle reazioni straordinariamente positive al mio lavoro sia all'interno che all'esterno dell'Accademia. Di recente ho ricevuto una serie di lettere da carcerati neri e c'è chi si vanta affettuosamente di aver fatto del mio nome una parola familiare in prigione. Dopo aver ricevuto una risposta a rete potente da uno di questi uomini neri al mio libro Yearning: Race, Gender and Cultural Politics, ho chiuso gli occhi e immaginato quel lavoro che veniva letto, studiato e discusso in contesti carcerari. Poiché il mio lavoro è stato ritirato in contesto accademico reputo fondamentale queste esperienze carcerarie perché la teoria femminista vuole davvero rivolgersi a un pubblico variegato. Nell'ambito di discussioni più recenti, ho raccontato di come reputo una “benedizione” vedere il mio lavoro validato in questo modo. Spesso, l'indifferenza e la svalutazione con cui il mio lavoro è stato accolto mi hanno gettato nella mia più cupa disperazione. Michele Wallace, nella sua introduzione alla ristampa di Black Macho and the Superwoman ha espresso con intensità la sensazione di devastazione provata di fronte alle reazioni critiche negative dei suoi lavori. Sono grata di poter essere qui a testimoniare che il pensiero femminista debba essere condiviso con chiunque, sia attraverso le discussioni che la scrittura. Condivido il pensiero e la pratica femminista ovunque io sia. Quando mi viene chiesto di parlare in contesto universitario, cerco allo stesso tempo altri contesti o rispondo a coloro che mi cercano, in modo da poter dare la ricchezza del pensiero femminista a chiunque (esempio del ristorante del Sud in cui ha discusso della teoria femminista e una sorella nera si è avvicinata alla fine per dirle che aveva cambiato il proprio modo di agire e pensare. Pag 107-108). Non è facile nominare il nostro dolore, renderlo il punto di partenza della teoria. Patricia Williams, nel suo saggio On Being the Object of Property, scrive che anche chi di noi è consapevole percepisce il dolore generato dalle svariate forme di dominio (racconta del dolore che prova Patricia Williams. Pag 108). Non è facile nominare il nostro dolore, fare teoria e partire da quel luogo. Sono grata alle molte donne e uomini che hanno il coraggio di teorizzare a partire da un luogo di dolore, che espongono le proprie ferite affinché la loro esperienza sia di insegnamento. Il loro è un impegno liberatorio, non solo ci consente di ricordare e recuperare noi stessi, ma ci dà la carica e la sfida a rinnovare il nostro impegno per una lotta femminista. Dobbiamo ancora realizzare collettivamente la rivoluzione femminile, in quanto pensatrice e teoriche femministe cercano insieme i modi per realizzare questo movimento. La nostra ricerca ci porta dove tutto ha avuto inizio: una sola donna che ha iniziato la rivoluzione femminista. Immaginiamo che questa donna soffrisse il dolore del sessismo e dell'oppressione sessista, che volesse fare sparire quel dolore. Sono grata di poter essere una testimone della teoria femminista, una pratica femminista, un movimento femminista rivoluzionario che può parlare direttamente al dolore che sentono le persone e offrire loro parole di guarigione. Mari Matsuda ha detto che “ci viene detta la bugia che in guerra non si prova dolore” perché il patriarcato rende possibile questo dolore. Catherine MacKinnon ci ricorda che “conosciamo attraverso la nostra vita e viviamo quella conoscenza, che supera tutto ciò che qualsiasi teoria abbia mai teorizzato”. Realizzare questa teoria è la sfida che ci attende. Perché nella sua realizzazione è nascosta la speranza della nostra liberazione. Se saremo in grado di creare una teoria femminista e dei movimenti femministi Capaci di affrontare questo dolore, non avremo difficoltà a realizzare una lotta di resistenza. Capitolo sesto. Essenzialismo ed esperienza Molte pensatrici e donne nere impegnate nel movimento femminista hanno tentato di decostruire la categoria "donna", sostenendo che il genere Non è il solo fattore determinante dell'identità di una donna. Spesso ci si dimentica che l'obiettivo non è semplicemente che le studiose e le attiviste femministe si concentrino sulla razza e sul genere, ma che lo facciano In modo tale da non riprodurre le tradizioni gerarchiche oppressive. Uno degli aspetti considerati cruciali per dare vita a un movimento femminista di massa era che la teoria non fosse scritta in modo tale da cancellare ed escludere ulteriormente le donne nere o di colore. Molte borse di studio femministe infrangono queste speranze, soprattutto perché chi si dedica alla teoria spesso non si preoccupa di interrogare il posizionamento dal quale parla, dando per scontato, che non sia necessario chiedersi se la prospettiva di cui si scrive è informata dal pensiero razzista e sessista. Questo problema mi è balzato agli occhi in maniera potente nel corso della lettura di Essentially speaking - Feminism, Nature and Difference di Diana Fuss. Mi sentivo intrigata e stimolata intellettualmente dalla riflessione di Fuss sugli attuali dibattiti in merito all'essenzialismo. Il libro offre un'analisi brillante, che consente a chi fa teoria di consolidare gli aspetti positivi delle essenzialismo, pur sollevando critiche pertinenti rispetto ai suoi limiti. Nei miei scritti sull'argomento pur non concentrandomi in modo specifico sull'essenzialismo come la Fuss, focalizzo la mia attenzione sui modi in cui le reti e delle essenzialismo hanno finalmente decostruito l'idea di un'identità. Rifletto anche sul modo in cui la critica totalizzante delle idee di “soggettività, essenza e identità” possa apparire molto minacciosa ai gruppi emarginati. Essentially Speaking mi ha fornito anche un quadro critico che ha potenziato la mia comprensione dell’essenzialismo. Lo sgomento è iniziato con la lettura di “Race” under Erasure? Poststructuralist Afro-American Literary Theory. In questo capitolo, Fuss esprime punti di vista radicali sulla critica letteraria afroamericana, senza dare alcuna indicazione rispetto al corpus di lavori a cui attinge. Le sue affermazioni in merito alle opere delle critiche femministe nere sono particolarmente inquietanti. Fuss afferma: “A eccezione del recente lavoro di Hazel Carby e Hortense Spillers, le critiche femministe nere sono state riluttanti a rinunciare a posizioni critiche essenzialiste e a pratiche letterarie umanistiche”. Curiosa di sapere quali lavori avessero stimolato questa valutazione, sono rimasta sbalordita nel vedere che tutti i lavori che aveva utilizzato Fuss erano di donne ma non rappresentavano le pensatrici femministe nere. La semplicità con cui svaluta il lavoro della maggior parte delle pensatrici nere solleva questioni problematiche. Poiché Fuss non esamina in modo esauriente il lavoro delle critiche femministe nere, è difficile cogliere le ragioni intellettuali alla base della sua critica. Non capisco come mai Fuss abbia messo a confronto teorie di pensatrici femmine nere e bianche. Fuss suggerisce, a costringerci a “interrogare l’essenzialismo della storiografia femminista tradizionale, che presenta una nozione universalizzante ed egemonica di sorellanza globale”. È importante esprimere la propria preferenza sugli studi che si utilizza però è fondamentale non denigrare le altre studiose. Questo trattamento ricorda le forme disumanizzanti che assume il tokenismo delle donne nere. Le donne nere sono trattate come se fossero una scatola di cioccolatini offerta alle singole donne bianche. Ironia della sorte, anche se Fuss elogia lavori di donne nere, non è il loro lavoro a essere presentato in questo capitolo tramite una lettura critica e approfondita. La soggettività delle donne nere è trattata come un problema secondario. Una ricerca così è considerata in un contesto accademico in cui il pensiero nero è emarginato. Resto comunque stupita dalla totale assenza di riferimenti a lavori di donne nere nelle opere di critica contemporanea. Io e altre pensatrici nere, confrontandoci di tale mancanza, ci sentiamo spesso rispondere che semplicemente non erano a conoscenza di tale materiale. Nel leggere Essentially Speaking, ho pensato che Diana Fuss non avesse familiarità con i lavori di donne nere o che le escludesse, perché basava la sua valutazione sul lavoro di cui aveva conoscenza. Nel capitolo conclusivo del libro, Fuss critica l’uso dell’esperienza in classe come base da cui partire. Molti dei limiti che evidenzia potrebbero facilmente essere applicati al modo in cui l’esperienza informa non solo ciò di cui scriviamo, ma anche il modo in cui scriviamo. Più di ogni altro capitolo Essentially Speaking è profondamente inquietante perchè indebolisce la precedente riflessione dell’autrice. Questo perché la mia esperienza degli scritti critici di pensatrici femministe nere mi avrebbe portato a fare valutazioni diverse, più complesse rispetto a Fuss. La mia reazione al capitolo Essentialism in the Classroom è in qualche misura influenzata dalle mie diverse esperienze pedagogiche. Secondo Fuss, i problemi di “essenza, identità ed esperienza” esplodono in classe principalmente a causa del contributo critico dei gruppi marginalizzati. All’interno del capitolo, ogni volta che Fuss utilizza esempi di persone che esprimono un pensiero essenzialista per dominare la discussione li mette a tacere con la parole di “l’autorità dell’esperienza”, ma si tratta di persone che sono state o sono ancora oppresse. Fuss non affronta il modo in cui i sistemi di dominio attivi nell’accademia mettono a tacere le voci degli individui, non sostiene che le pratiche discorsive che consentono l’affermazione dell’autorità dell’esperienza sono già state determinate dalla politica di razza, sesso, ecc, e non suggerisce che sono i gruppi dominanti a perpetuare l’essenzialismo. Secondo la sua narrazione è sempre l’altro marginalizzato a essere essenzialista. La politica di esclusione essenzialista come mezzo per affermare la presenza e l’identità è una pratica culturale che non emerge solo da gruppi marginalizzati. Molti studenti bianchi hanno l’istinto di autorevolezza delle esperienze nel corso delle mie lezione, il che consente loro di credere che tutto ciò che hanno da dire valga la pena di dirlo e che le esperienze siano al centro della discussione di classe. La politica di razza e genere all’interno del patriarcato bianco concede loro questa “autorità” senza che debbano manifestare il desiderio. Perché il capitolo di Fuss ignora i modi sottili e palesi in cui l’essenzialismo viene espresso da una posizione di privilegio? in questo modo li rende colpevoli di turbare l’aula, rendendola un luogo “non sicuro”, questa è la modalità convenzionale attraverso cui il colonizzatore parla di chi è colonizzato. fuss afferma: “I problemi in classe spesso cominciano quando quelli ‘che sanno’ interagiscono solo con altri ‘che sanno’ escludendo ed emarginando quelli percepiti al di fuori del cerchio magico”. Fuss citando Said sostiene che è pericoloso basare la politica dell’identità su rigide teorie di esclusione. Mentre anche io critico l’uso dell’essenzialismo e della politica dell’identità come strategia di esclusione o dominio, divento sospettosa quando le teorie definiscono questa pratica dannosa suggerendo che si tratti di strategia impiegata solo dai gruppi marginalizzati. Il mio sospetto è fondato sulla critica all’essenzialismo che sfida esclusivamente i gruppi marginalizzati a interrogare il proprio uso della politica dell’identità, o il punto di vista essenzialista come mezzo per esercitare il potere coercitivo. Allo stesso tempo, sono preoccupata che le critiche alla politica dell’identità non diventino la nuova modalità elegante di mettere a tacere gli studenti appartenenti a gruppi marginalizzati. Fuss sottolinea che “il confine artificiale tra chi fa parte di un gruppo e chi no, spesso imbriglia la conoscenza, impedendo la disseminazione”. Anche se condivido questa percezione, mi turba il mancato riconoscimento del fatto che razzismo, sessismo e elitismo modellino la struttura delle classi. non c’è alcun bisogno che i gruppi marginalizzati portino questa opposizione binaria in classe, perchè di solito è già oppressiva. L’affermazione di un essenzialismo escludente da parte degli studenti dei gruppi marginalizzati può essere la risposta strategica al dominio e alla colonizzazione. Fuss sostiene che “la legge non scritta della classe è quella di non fidarsi di coloro che non possono portare l’esperienza come fondamento indiscutibile della loro conoscenza. Tali leggi non scritte rappresentano forse la minaccia più grave per le dinamiche di classe” eppure non propone una riflessione su chi fa queste leggi, su chi determina le dinamiche della classe. Forse afferma la propria autorità in modo tale da creare inconsapevolmente una dinamica competitiva, suggerendo che l’aula sia appannaggio più di chi insegna che degli studenti. Come insegnante so bene che gli studenti dei gruppi emarginati si trovano a far lezione all’interno di istituzioni in cui lavoro voce non è mai stata né ascoltata né accolta. Ho modellato la mia pedagogia in risposta a questa realtà. Se non desidero che questi studenti usino l’autorità dell’esperienza come mezzo per affermare la propria voce, posso eludere questo possibile abuso di potere utilizzando in classe strategie pedagogiche che affermino in modi diversi la loro presenza. Questa strategia pedagogica è radicata nel presupposto che tutti portino in classe una conoscenza esperienziale. Se l’esperienza è ammessa in classe come modalità di conoscenza che coesiste con altre in modo non gerarchico, la possibilità che possa essere usata per zittire le altre persone si riduce. Quando insegno The Bluest Eye di Toni Morrison nei corsi introduttivi sulle scrittrici nere chiedo agli studenti di raccontare un ricordo razziale. Ogni persona legge la sua esperienza e l’ascolto collettivo reciproco è la conferma del valore e dell’unicità di ogni voce. Questo esercizio mette in primo piano l’esperienza, aiuta a cercare una consapevolezza comune della diversità delle nostre esperienze. Poiché questo esercizio rende l’aula uno spazio in cui l’esperienza viene valorizzata gli studenti sembrano meno inclini a partire dall’esperienza come posizionamento dal quale lottare per far sentire la propria voce. Nelle nostre classi, gli studenti di solito non sentono il bisogno di competere, perché il concetto di voce privilegiata dell’autorità viene decostruito dalla nostra pratica critica collettiva. Nel capitolo essentialism in the Classroom Fuss focalizza la propria riflessione a partire da una voce dotata di particolare autorevolezza: la sua. quando solleva la questione di “come gestire” gli studenti, il suo uso della parola “gestire” suggerisce immagini di manipolazione e il suo uso di “noi” collettivo implica una pratica pedagogica unificata. Nelle istituzioni in cui ho insegnato, il modello pedagogico prevalente è autoritario, gerarchico in modo coercitivo e spesso dominante, e certamente tale per cui la voce del professore è il mezzo “privilegiato” della conoscenza. fuss afferma di essere diffidente nei confronti dei tentativi di censurare il racconto delle storie personali in classe in quanto non “adeguatamente ‘teorizzate’”, rivela di non credere alla condivisione dell’esperienza. Se la sua pedagogia è influenzata da questo pregiudizio non sorprende che le invocazioni dell’esperienza come modalità privilegiata siano usate in modo aggressivo. Se la pedagogia di un professore è libertaria, probabilmente gli studenti non faranno a gara per affermare in classe il proprio valore. Le esperienze di Fuss in classe riflettono come “la lotta per far ascoltare la propria voce” sia parte integrante della sua pratica pedagogica. La maggior parte dei suoi commenti e osservazioni sull’essenzialismo in classe si basano sulla sua esperienza. Sulla base di quell’esperienza, può sostenere con sicurezza di “essere convinta che gli appelli all’autorevolezza dell’esperienza raramente promuovono la discussione e spesso provocano confusione”. Fuss attinge alla sua particolare esperienza per esprimere generalizzazioni totalizzanti. Posso testimoniare il modo in cui i punti di vista essenzialisti possano venire utilizzati per mettere a tacere o affermare la propria autorità sugli avversari. Quando i racconti di un’esperienza collegano le riflessioni su questioni o concetti più astratti alla realtà concreta mi sento elettrizzata. La mia esperienza in classe è diversa da quella di Fuss perchè parto da un punto di vista “altro”. çLa maggior parte degli studenti presenti alle nostre lezioni non è mai stata istituita da docenti nere. La mia pedagogia è influenzata da questa consapevolezza, perché so per esperienza che questa mancanza di familiarità può sovradeterminare quello che accade in classe. Per questo molti dei pregiudizi imposti dai punti di vista essenzialisti o della politica identitaria, così come le prospettive che insistono sul fatto che l’esperienza non debba avere posto in classe devono essere messe alla prova dalle pratiche pedagogiche. Le strategie pedagogiche determinano in che misura gli studenti imparano a interagire più intensamente con idee e problemi che apparentemente non sono in relazione diretta con la loro esperienza. Fuss non suggerisce che gli insegnanti abbiano la possibilità di realizzare una pedagogia che intervenga in modo critico. I docenti possono a loro volta utilizzare nozioni essenzialistiche per limitare le voci di particolari studenti; per questi motivo dobbiamo vigilare costantemente sulle nostre pratiche pedagogiche. In conclusione Fuss sostiene che la condivisione di esperienze in classe può avere implicazioni positive. Tutti gli studenti, non solo quelli di gruppi marginalizzati, sembrano maggiormente desiderosi di partecipare attivamente alla discussione in classe quando la percepiscono come personale. Gli studenti possono essere in grado di parlare di una materia in modo sicuro se magari quest’esperienza si collega direttamente alla propria esperienza. Ci sono poi degli studenti che possono non sentire il bisogno di riconoscere che la propria partecipazione entusiasta è stimolata da una propria esperienza personale. Nel paragrafo introduttivo a Essentialism in the Classroom Fuss si domanda: “Esattamente, cosa può essere considerato ‘esperienza’’? Mi chiedo se dovremmo far riferimento a quest’ultima anche in situazioni pedagogiche”. Formulare la domanda implica che gli interventi basati sull’esperienza abbiano un potenziale perturbante che costringe chi insegna e chi impara a uno scontro di autorevolezza. La stessa questione potrebbe essere posta in modo da non implicare la svalutazione paternalistica dell'esperienza. Possiamo riflettere su questo problema domandandoci si i professori e gli studenti che vogliono condividere l’esperienza personale in classe possono farlo. Spesso quando i professori affermano l’importanza dell’esperienza, gli studenti sentono con minor urgenza il bisogno di insistere sul suo essere. Henry Giroux, nei propri scritti, suggerisce che “la nozione di esperienza deve farsi spazio all’interno della teoria dell’apprendimento”. Giroux intende dire che i professori devono imparare a rispettare il modo in cui gli studenti vivono. “Non si può negare che gli studenti abbiano esperienze e non si può negare che tali esperienze siano rilevanti per il processo di apprendimento…Gli studenti hanno ricordi, famiglie, religioni, sentimenti, lingue e culture che forniscono loro una voce unica. Possiamo interagire criticamente con quell’esperienza o possiamo ignorarla, ma non possiamo negarla”. A differenza di Fuss, non mi sono mai trovata in aule in cui gli studenti considerassero i “modi empirici della conoscenza analiticamente sospetti”. Ho insegnato teoria femminista a studenti che si arrabbiavano. La frustrazione degli studenti è diretta contro l’incapacità della metodologia, dell’analisi e della scrittura astratta di collegare la teoria ai loro sforzi di esistere più pienamente, di trasformare la società, di vivere una politica femminista. La politica dell’identità emerge dalle lotte dei gruppi oppressi e sfruttati. Le pedagogie critiche libertarie accolgono questa preoccupazione e comprendono necessariamente l’esperienza, la confessione e la testimonianza come modi rilevanti di conoscere. Con un certo scetticismo, Fuss si domanda: “L’esperienza dell’oppressione conferisce per caso una giurisdizione speciale sul diritto di parlare?” È una domanda a cui non dà risposta. Se mi venisse posta dagli studenti, chiederei loro di domandarsi se l‘ascolto di persone oppresse che parlano della propria esperienza possa fornire un punto di vista “particolare”. A quel punto si potrebbero analizzare le modalità con cui gli individui fanno propria un’esperienza che non hanno vissuto. In aule estremamente diversificate, nelle quali mi sono sforzata di insegnare questioni relative a gruppi sfruttati che non son oneri, ho suggerito che se si portano in classe esclusivamente modi analitici di conoscenza e qualcun altro porta l’esperienza personale si deve accogliere. Condivido con la classe la convinzione che se la nostra conoscenza di un argomento è limitata e qualcun altro porta la propria esperienza personale, dobbiamo imparare il rispetto. Possiamo farlo senza negare l’autorevolezza di chi insegna. Anni fa, mi sentii grata nello scoprire “l’autorvolezza dell’esperienza” nella scrittura femminista, perchè dava un nome a ciò che portavo nelle lezioni fmministe. Ai miei tempi di studente, nelle aule femministe in cui l’esperienza della donna era universalizzata, ero consapevole, a partire dalla mia esperienza di donna nera, che la realtà delle donne nere era sistematicamente esclusa. Non esisteva alcun corpus teorico a cui far riferimento, che costituisse un esempio. Nessuno voleva sentir parlare della decostruzione della donna. Certamente, la necessità di comprendere la mia esperienza mi ha motivato, quando ero ancora studente, a scrivere Ain’t I a Woman: Black Women and Feminism. Ora, invece, mi sento turbata dall’“autorevolezza dell’esperienza”, profondamente consapevole del modo in cui essa venga usata per zittire. So che l’esperienza è una modalità di conoscenza e può influenzare ciò che sappiamo. Sebbene sia contraria a qualsiasi pratica essenzialista che costruisca l’identità in modo monolitico ed esclusivo, non voglio rinunciare al potere dell’esperienza come posizionamento da cui partire per basare l’analisi o formulare teorie. Se mi fosse stata data l’opportunità di studiare il pensiero critico afroamericano con un insegnante nera e progressista invece che con una donna bianca, avrei scelto la donna nera. Quel punto di vista non si può acquisire attraverso i libri o l’osservazione a distanza e lo studio di una realtà particolare. Per me questo punto di vista privilegiato non emerge dalla “autorità dell'esperienza". Spesso l’esperienza si manifesta in classe come memoria. Di solito le narrazioni dell’esperienza sono raccontate in modo retrospettivo. Nella testimonianza della contadina e attivista guatemalteca Rigoberta Menchù, percepisco la passione del ricordo (leggi approfondimento pag. 125). So che posso far mia questa conoscenza e trasmettere il messaggio insito nelle sue parole. Il loro significato può essere trasmesso facilmente. Ciò che si perde nella trasmissione è lo spirito che ordina quelle parole. Quando uno la frase “la passione dell’esperienza”, mi riferisco a molti sentimenti ma in particolare alla sofferenza, poiché esiste una conoscenza particolare che deriva dalla sofferenza. È un modo di sapere che viene spesso espresso attraverso il corpo. Questa complessità dell’esperienza raramente può essere espressa e nominata a distanza, perché è un luogo privilegiato, anche se non è l’unico e nemmeno sempre il luogo più importante. In classe, condivido il più possibile la convinzione della necessità che i pensatori critici portano da posizionamenti molteplici, affrontano diversi punti di vista, per permetterci di accogliere la conoscenza in modo completo e inclusivo (esempio del pane: serve la farina per farlo se non la ho la farina si rivela molto importante). Posso chiedere agli studenti di riflettere su ciò che vogliamo che accada in classe, di nominare ciò che speriamo di sapere. Chiedo loro quale punto di vista è un'esperienza personale. Poi ci sono momenti in cui l’esperienza personale ci impedisce di raggiungere la vetta. E, a volte, la vetta resta difficile da raggiungere pur con tutte le nostre risorse e tutto ciò che possiamo fare è lo sforzo collettivo di comprendere i limiti della conoscenza e desiderare un modo per arrivare alla vetta. Anche desiderare è un modo di conoscere. Capitolo settimo. Al fianco di mia Sorella, mano nella mano. Solidarietà femminista Le prospettive patriarcali sulle relazioni razziali hanno tradizionalmente evocato l’immagine di uomini neri che ottengono la libertà di intrattenere relazioni sessuali con le donne bianche. Il timore razzista per cui approvare a livello sociale le relazioni d’amore tra uomini neri e donne bianche avrebbe significato smantellare la struttura familiare patriarcale bianca ed ha accentuato nel tempo il tabù di questo cambiamento. Ma il sesso tra uomini neri e donne bianche, anche nel caso in cui fosse legalmente ratificato attraverso il matrimonio, non abbe le conseguenze temute, non minò le fondamenta dle patriarcato bianco, e non favorì la lotta per porre fine al razzismo. Come ogni adolescentedi una città del Sud segregata razzialmente alla fine degli anni sessanta, sapevo che gli uomini neri che desideravano l’intimità con le donne bianche, e viceversa, instauravano con loro legami affettivi. Non conoscevo invece alcuna forma di intimità, profonda vicinanza o amicizia tra donne bianche e nere. Il punto di contatto tra donne nere e bianche era la schiavitù, una relazione gerarchica basata sul potere e non mediata dal desiderio sessuale. Le donne nere servivano e le donne bianche venivano servite. A quei tempi, persino una donna bianca povera avrebbe comunque, in occasione dei suoi incontri con donne nere, affermato la propria presenza dominante. La relazione serva-padrona si stabiliva nello spazio domestico, all’interno della famiglia, in un contesto di informalità e comunanza. A causa dell’analogo posizionamento all’interno delle norme sessiste, il contatto personale tra i due gruppi era disciplinato con attenzione per rafforzare la differenza di status. Riconoscere la differenza di classe non era abbastanza, escogitavano ogni tipo di differenza per rafforzare la differenza razziale. Ciò era particolarmente evidente nelle famiglie in cui le donne bianche rimanevano a casa durante il giorno mentre le donne nere lavoravano. Le odnne bianche parlavano di “negri”, anche il banale gesto di mostrare ad una donna nera un vestito nuovo che lei non si sarebbe mai potuta provare, a causa delle leggi Jim Crow. Storicamente, gli sforzi delle donne bianche per mantenere il dominio razziale erano direttamente collegati alla politica eterosessista. Le norme sessiste, che consideravano le donne bianche inferiori a causa del proprio genere, venivano mediate dal legame razziale, anche se i maschi, bianchi e neri, erano maggiormente interessati a controllare e avere accesso ai corpi delle donne bianche, erano comunque attratti dalle donne nere. Nella mente delle maggior parte delle donne bianche le donne nere erano viste come concorrenti sul mercato nero e non vittime di stupri o abusi. In un contesto culturale in cui lo status di una donna bianche era per lo più determinato dalla sua relazione con gli uomini bianchi, le donne bianche preferivano mantenere la separatezza dalle donne nere. Era fondamentale che le donne nere fossero tenute a distanza, che i tabù razziali che proibivano relazioni lecite tra i due gruppi fossero rafforzati dalla legge e dall’opinione sociale. Nell’ambito del patriarcato suprematista bianco, la relazione che più minava il potere bianco era quella tra uomo bianco e

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