Endocrinologia - PDF
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This document provides a detailed look at endocrinology, focusing on how the autonomic nervous system maintains homeostasis via hormonal responses. It specifically discusses catecholamines and their impact on various bodily functions, including cardiovascular effects, glucose regulation, and the effects of stress. The text explains chemical mechanisms and emphasizes the body's responses during physical activity, and how hormones manage metabolic adjustments.
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ENDOCRINOLOGIA PATOLOGIE SENSIBILI ALL’ATTIVITÀ MOTORIA OMEOSTASI Se si subisce una spinta da una parte il sistema mette in atto delle risposte affinché il sistema ritorni in equilibrio, infatti secondo il III principio della dinamica: “Ad ogni azione segue una reazione ugua...
ENDOCRINOLOGIA PATOLOGIE SENSIBILI ALL’ATTIVITÀ MOTORIA OMEOSTASI Se si subisce una spinta da una parte il sistema mette in atto delle risposte affinché il sistema ritorni in equilibrio, infatti secondo il III principio della dinamica: “Ad ogni azione segue una reazione uguale e contraria che tende a riportare il sistema in equilibrio”. Questo è un riflesso e come i riflessi di tipo nervoso, così sono le risposte di tipo endocrino, cioè sono tutte quelle risposte che l’organismo mette in atto per contrappore una forza che disturba sull’equilibrio. Secondo l’enciclopedia l’omeostasi è: “Facoltà di mantenere, per autoregolazione, il primario stato di equilibrio interno (e spesso anche esterno) malgrado i cambiamenti che intervengono nell’ambiente esterno”. L’omeostasi è mantenuta grazie ai meccanismi regolatori che sono di natura: chimica, fisica, enzimatica, nervosa e ormonale. Gli ormoni sono dei messaggeri prodotti dalle ghiandole endocrine e rilasciati nel circolo ematico, scorrono nel sangue e trasportano il messaggio fin dove questo deve arrivare. Ci deve essere un messaggio rappresentato dall’ormone e un recettore specifico che permette al messaggio di essere trasportato fin dove deve arrivare e può essere compreso dalle cellule che possiedono quello specifico recettore. Il movimento o esercizio fisico di qualsiasi natura esso sia, è un’azione, poiché spostandosi viene consumata energia e affinché venga mantenuta l’omeostasi, l’organismo mette in moto una reazione o risposta muscolare, osteo-articolare, nervosa ed endocrina affinché l’equilibrio venga mantenuto e si possa continuare a respirare, pensare, parlare, muoversi nello stesso momento senza cadere a terra. Durante l’attività fisica, ma anche nella semplice corsa, i muscoli richiamano energia e consumano dei substrati energetici. Il primo substrato che viene consumato è quello glucidico localizzato nel muscolo sottoforma di glicogeno. Oltre al glicogeno e dunque ai glucidi, abbiamo anche altri substrati energetici come: lipidi (tessuto adiposo) e protidi (proteine) presenti nel muscolo e utilizzati in particolari condizioni estreme (es. digiuno, periodo post-operatorio, terapia intensiva prolungata, immobilizzazione…). L’organismo mobilita tutte queste riserve bruciando primariamente il glicogeno muscolare e poi a cascata, tutto il resto. Tale movimentazione energetica sottende una serie di meccanismi, tra i quali anche quelli endocrini che sono molto importanti. il sistema simpato adrenergico fa parte del sistema nervoso periferico La prima risposta che dà l’organismo per rimettere in sesto l’equilibrio è detta fase autonomica che determina l’attivazione del sistema simpato-adrenergico correlata all’intensità dello stimolo. La fase autonomica è seguita da una fase metaboliche che determina l’attivazione del sistema endocrino spesso correlata all’intensità dello stimolo poiché le catecolammine sono dei potenti neurotrasmettitori, ma sono anche degli ormoni. Quando si attiva il sistema simpato-adrenergico, le catecolammine si attivano e vengono liberate dal SNA (Sistema Nervoso Autonomo), il quale è responsabile dell’omeostasi di molte funzioni vitali la prima reazione del nostro organismo a una situazione di stress è una scarica adrenergica. prima si attiva la parte nervosa (scarica adrenalina) e poi quella metabolica. (es. FC → Frequenza Cardiaca). Le catecolammine rispondono molto rapidamente agli “stressor” (es. si prende una botta, si ha paura di perdere l’autobus o il professore che ci interroga…). Il sistema simpato-adrenergico è integrato con il sistema endocrino e agisce liberando le catecolammine da terminazioni nervose (SNA) oppure le catecolammine possono essere liberate dalla midollare del surrene. il rilascio dell’adrenalina è dovuta sopratutto dal rilascio di catecolamine da parte del surrrene SISTEMA SIMPATO-ADRENERGICO Il SNC coordina i segnali che provengono dalle afferenze periferiche (barocettori, termocettori, chemocettori e algocettori) con i centri superiori (ipotalamo e corteccia cerebrale) elaborando un segnale che viene convogliato nel bulbo spinale e dal il surrene è una quale parte la fibra pre-gangliare che innerva il nervo ghuiandola che si trova pre-gangliare a livello del midollo spinale. sopra il rene (x entrambi i reni). Da qui partono delle fibre colinergiche che vanno ad innervare il nervo post-gangliare che tramite il suo assone libera la noradrenalina, con un meccanismo di tipo nervoso, direttamente sui tessuti. Altrimenti il neurone pre-gangliare può andare a stimolare, tramite la sua fibra colinergica, direttamente la midollare del surrene, la porzione più interna della ghiandola surrenalica. La midollare del surrene a sua volta libera direttamente nel circolo periferico: dopamina (DA), noradrenalina (NA) e adrenalina (A). Io reni sono organi retroperitoneali e i surreni sono delle piccole ghiandole che si appoggiano sopra i reni e sono costituiti da una porzione corticale che produce gli ormoni steroidei (es. cortisolo, aldosterone, ormoni sessuali steroidei di tipo androgeno) e una porzione midollare che è un ganglio, ossia è una parte del SNC dislocata in una ghiandola endocrina e il SNA stimola la midollare del surrene a rilasciare gran quantità di catecolammine. Attivazione adrenergica Le catecolammine sono 3 ormoni e sono chiamati: adrenalina (A), noradrenalina (NA) e dopamina. A e NA sono i più importanti poiché mediano la risposta “fight & flight” (combatti e fuggi) e hanno degli effetti diretti sul muscolo cardiaco. A e NA possono essere rilasciati in gran quantità dalla midollare del surrene oppure in modo molto puntuale e preciso dalle terminazioni nervose del SNA, il quale controlla la gittata e la frequenza cardiaca, cioè la capacità del cuore di contrarsi e quanto riesce a riempirsi spremendosi in modo da buttar fuori il sangue che deve raggiungere il corpo. Le resistenze periferiche sono la forza che le arterie periferiche offrono al flusso del sangue che fuoriesce dal cuore e rappresentano l’elemento che condiziona i livelli di pressione arteriosa sistolica che corrisponde alla sistole cardiaca. La NA ha influenza sia sulla gittata cardiaca sia sulle resistenze periferiche totali determinando l’aumento della pressione arteriosa e del flusso coronarico. L’A ha un’influenza sulla gittata cardiaca e sulla pressione arteriosa sistolica che determina la diminuzione della pressione arteriosa diastolica e l’aumento dei flussi: muscolare, ematico, renale e cutaneo. Dunque l’A crea una grande divario tra pressione arteriosa sistolica e diastolica. Con il suo effetto vasodilatatorio nella diastole, l’A fa in modo che il sangue spinto dal cuore arriva velocemente nelle zone più periferiche, dunque anche nel muscolo. Anche a livello di reni e cute è facile scambiare il calore prodotto durante l’attività fisica eliminando tutti i cataboliti prodotti dalla combustione dei substrati energetici. il glucosio che entra nel muscolo non può uscire, può essere bruciato solo dal muscolo stesso. quando quello muscolare è finito viene utilizzato quello epatico. La reazione vasovagale avviene quando l’organismo richiede di stendersi poiché non ha più energia determinando un improvviso calo della pressione arteriosa e aumento della frequenza cardiaca per ripristinare il circolo. Le catecolammine determinano la broncodilatazione. Il salbutamolo è un farmaco che assomiglia all’adrenalina poiché è un farmaco β2-agonista e serve per dilatare i bronchi durante il broncospasmo attraverso una risposta quasi immediata poiché le catecolammine aprono dei canali nelle membrane cellulari. La broncodilatazione, cioè l’aumento del diametro dei bronchi, e la tachipnea, ossia l’aumento della frequenza respiratoria, permettono di migliorare l’attività fisica e la corsa. Le catecolammine hanno anche effetti metabolici, ossia vanno in altri organi perché hanno il compito di recuperare rapidamente i substrati energetici stimolando l’aumento di glicogenolisi (scissione del glicogeno), gluconeogenesi (fabbricazione di glucosio ex novo), lipolisi (scissione dei lipidi), glucagone e glicolisi (scissione del glucosio) e la diminuzione di glicogenosintesi (sintesi del glicogeno) e insulina. A riposo uno dei substrati che l’organismo usa preferenzialmente sono i lipidi. Le catecolammine servono per rendere disponibili i substrati energetici e l’attivazione adrenergica, perciò: Facilita l’utilizzo dei substrati energetici muscolari Permette l’utilizzo dei substrati energetici Rimuove i catabolismi Mantiene l’apporto energetico agli organi vitali Facilita la ricostituzione delle riserve energetiche L’attivazione adrenergica è proporzionale all’intensità di esercizio fisico svolta fino al 70-75% del VO2max, dopodiché assistiamo ad una liberazione massiva di catecolammine. Ecco perché negli sport in cui viene richiesta una quantità di lavoro eccessiva, possono determinare conseguenze gravi perché si può incorrere nell’esplosione del cuore. Il VO2max è definito come il massimo consumo di O2 durante un esercizio incrementale di entrambi gli arti inferiori (limitato dai sintomi). In un soggetto normale il VO2max è ≥ 20 ml/kg/min, mentre in un giovane atleta che effettua esercizio fisico di resistenza il VO2max è ≥ 80 ml/kg/min. La soglia del VO2max è molto variabile da soggetto a soggetto a seconda di: composizione della massa magra, sesso, età, altezza e grado di allenamento. L’attivazione adrenergica è proporzionale all’intensità di esercizio fisico svolta fino al 60% del VO2max soprattutto per l’esercizio muscolare dinamico. L’esercizio muscolare statico attiva maggiormente l’A determinando un aumento importante della PA (pressione arteriosa) e della FC determinando, in un soggetto malato, un eccesso ipertensivo. L’attivazione simpato-adrenergica è influenzata da: 1. Durata dell’esercizio: produce effetti metabolici 2. Allenamento: adatta il sistema a carichi progressivamente maggiori migliorando le prestazioni e aumentando l’up-take muscolare di FFA e la VO2max, diminuendo PA e FC durante lo sforzo con minor liberazione di NA la glicemia 3. Digiuno: l’ipoglicemia, ossia un basso livello di glucosio nel sangue, è uno stimolo molto aumenta in risposta allo potente alla liberazione di catecolammine e in caso di un soggetto iperteso o con stimolo compromissione cardiovascolare, il digiuno prima dell’attività fisica è rischioso adrenergico. 4. Temperatura: più fa freddo più il sistema diventa sensibile perché le membrane cellulari del tessuto nervoso che liberano le catecolammine, con il freddo, s’irrigidiscono e basta toccarle perché queste reagiscano Più sono allenato più tardi attiverò il sistema il fegato è in grado di simpato-adrenergico, perchè il nostro compiere Gliconeogenesi ossia orgnanismo si adatta. formare nuovo glucosio. l’insulina è un ormone potentissimo, è l’ormone ipoglicemizzante più potente che abbiamo e l’unico che va in circolo. ne abbiamo altri che però agiscono solo sul pancreas, a livello intestinale. Se noi perdiamo l’insulina non abbiamo più ormoni ipoglicemizzanti in circolo e arriva il diabete. Maggiore è il tempo impiegato nell’esercizio più graduale è la liberazione delle catecolammine. Gli effetti metabolici delle catecolammine determinano la liberazione del glucosio attraverso gli acidi grassi liberi (FFA) Quelli qui sopra sono i prodotti dalla lipolisi. range di glicemia. Nel nostro organismo i lipidi possono essere stoccati sotto varie forme e nel tessuto adiposo la forma più frequente sono i trigliceridi, ossia una molecola di glicerolo (a 3 atomi di C) con appesi gli acidi grassi. Quando la lipasi scinde i trigliceridi, si liberano gli acidi grassi che diventano “free” e resta il glicerolo. un’iperglicemia protratta a lungo causa Omeostasi glucidica gravi danni. L’omeostasi glucidica deve funzionare bene e affinché il glucosio stia nei range (60-75 mg/dl a digiuno e 130-150 mg/dl nella fase post-prandiale) ci sono vari meccanismi regolati da ormoni. La glicemia è sempre variabile nell’arco della giornata. Secondo l’OMS la glicemia a digiuno deve essere al di sotto di 100 mg/dl e nella fase post- prandiale non deve superare i 130-150 mg/dl. Dalla rivoluzione industriale in poi abbiamo una sovrabbondanza di substrati energetici e ne consumiamo sempre meno ed ecco il motivo per i quale sono sempre in aumento i disturbi metabolici. Un tempo però non era così e non servivano ormoni ipoglicemizzanti poiché c’era poco da mangiare, bensì servivano ormoni iperglicemizzanti per riuscire a vivere senza mangiare. L’uomo si è selezionato in questo modo, per cui adesso che le abitudini sono capovolte abbiamo dei problemi nel gestire la glicemia perché la quantità di substrato energetico è sovrabbondante e la capacità dell’organismo di stoccare adeguatamente tale riserva energetica non si è adattata altrettanto rapidamente, ma per il momento è contro natura. Nella fase di post-assorbimento il glucosio in circolo viene utilizzato soprattutto dal SNC, dall’intestino tenue e dagli eritrociti o globuli rossi. Il glucosio in circolo in questa fase, viene messo a disposizione in gran parte dal fegato, dove sono presenti le riserve di glicogeno, il quale può essere scisso e mandato in circolo grazie alla glicogenolisi e alla gluconeogenesi. Il glicerolo viene liberato dall’idrolisi dei trigliceridi. L’alanina (3 atomi di C) è l’aa più semplice nel quale vengono trasformati tutti gli aa quando vengono catabolizzati. Il lattato o acido lattico (3 atomi di C) è il prodotto di scarto della glicolisi anaerobica. Il fegato è in grado di recuperare lattato e alanina e assemblarli in una molecola di glucosio. Dunque il fegato è in grado di recuperare i prodotti di scarto del metabolismo e trasformarli, producendo energia. Il glucosio che assorbe l’intestino viene trasportato prevalentemente a livello del fegato, infatti il glucosio raggiunge l’intestino tramite la vena porta. Il fegato è un organo molto generoso perché trattiene una piccola parte di glucosio che riceve (10-15% per un massimo di 25% di glucosio) per stoccarlo sottoforma di glicogeno. La capacità del fegato di fare scorta di glicogeno dipende dal grado di allenamento. Fegato e muscolo sono organi glicogeno-genetici, ossia sono in grado di creare il glicogeno. Anche il rene può creare il glicogeno, anche se in piccola parte. La maggior parte del glucosio che entra nel fegato dopo il pasto, viene rimandato in circolo. Il glucosio perciò arriva nel circolo periferico sistemico tramite la vena cava e raggiunge il cuore, il quale lo pompa nel circolo polmonare per ossigenarlo e poi viene rimandato in circolo. L’aumento della glicemia fa in modo che venga stimolata la secrezione d’insulina (unico ormone ipoglicemizzante), la quale permette alle cellule di captare il glucosio grazie al trasportatore GLUT. Se manca l’insulina la quantità di trasporto, attraverso le membrane, del glucosio, è minima. Il tessuto adiposo, il tessuto muscolare e in parte il fegato sono tessuti insulino-dipendenti per la Abbiamo tre elementi che ci permettono di formulare nuovo glicogeno: il lattato, l’alanina (amminoacido più semplice di tutti, è l’amminoacido di scarto dopo aver scisso le proteine) e il glicerolo (è un alcol che deriva dalla lisi dei lipidi) tutti e tre hanno 3 atomi di glicogeno. captazione del glucosio. Se manca l’insulina il glucosio non viene captato e resta nel sangue determinando iperglicemia. Il tessuto muscolare è molto sensibile all’insulina, mentre un eccesso di tessuto adiposo va incontro all’insulino-resistenza. il fegato trattiene dal 10/25 % del glucosio che entra e lo cervello, intestino trasforma in e globuli rossi glicogeno hanno bisogno di diventando glucosio. riserva, il l’iperglicemia è resto lo manda uno stimolo alla in circolo. produzione di organi insulina. ins. dip. Se l’insulina entra in circolo i tessuti insulino-dipendenti captano il glucosio e allo stesso tempo l’insulina raggiunge il fegato e inibisce la produzione epatica del glucosio, bloccando glicogenolisi e glicogenosintesi perché c’è già abbastanza glucosio in circolo. Se una persona non ha l’insulina o se questa non funziona, la glicemia sarà sempre alta poiché mancando l’azione dell’insulina, il fegato continuerà a produrre glucosio. Se l’insulina ha fatto il suo lavoro, dopo un po’ di tempo senza mangiare la glicemia comincia a scendere rimanendo sempre nei range. Se la glicemia scende troppo si va incontro a ipoglicemia e non viene più stimolata la secrezione d’insulina che si riduce drasticamente determinando un aumento di produzione del glucosio a livello del fegato. Il glucagone è un ormone prodotto in risposta all’ipoglicemia e lavora al contrario rispetto all’insulina, cioè stimola il fegato a produrre glucosio. Il pancreas è un organo retroperitoneale che sta dietro lo stomaco e in primis è deputato alla produzione degli enzimi digestivi, ma in esso esistono anche le cosiddette isole di Langerhans deputate alla produzione di alcuni ormoni. Le cellule β delle isole di Langerhans del pancreas producono l’insulina, mentre le cellule α producono il glucagone e le cellule δ producono la somatostatina. Insulina e glucagone rispondono in maniera differente e coordinata alle variazioni della glicemia, in modo che questa sia in grado di rimanere nei range. Un sistema così complicato, però, può essere danneggiato anche perché il nostro organismo non è infinito e la funzione di alcuni organi potrebbe essere messa a dura prova da abitudini sbagliate, malattie e invecchiamento esaurendo così la funzione di tali cellule. Il muscolo in fase di esercizio, inizialmente, consuma soprattutto glucosio attraverso l’utilizzo del metabolismo anaerobico che determina la produzione di lattato, anche detto acido lattico che comporta un’acidificazione dell’ambiente e una vasodilatazione muscolare. Man mano che passa il tempo di esercizio si attiva il metabolismo aerobico che permette l’ossidazione completa del glucosio in CO2 e H2O producendo calore e dissipando energia. Metabolismo del glucosio e del glicogeno La contrazione e il rilassamento del muscolo scheletrico dipendono essenzialmente dall’energia derivante dall’idrolisi dell’ATP. Il metabolismo anaerobico è utilizzato soprattutto durante l’attività muscolare isometrica, di elevata intensità e sostenuta. Si ha dapprima la scissione del glicogeno a G1P, che viene poi convertito fino a formare piruvato, la tappa finale è la conversione del piruvato a lattato. Lo sviluppo di fatica è dovuto all’aumento della concentrazione del lattato nelle fibre muscolari risultanti in acidificazione delle cellule. Un esercizio acuto massimale esaustivo può associarsi anche a riduzione del pH sistemico (< 6.8) ed aumento della concentrazione di lattato in circolo (20-25 mEq/L). Il metabolismo aerobico è la principale fonte di energia durante l’esercizio fisico aerobico. Con tale processo il piruvato formatosi nella glicolisi anaerobica viene decarbossilato ad acetil- CoA che entra nel ciclo degli acidi tricarbossilici (o ciclo di Krebs) dove in presenza di O2 viene convertito dagli enzimi della catena respiratoria a livello mitocondriale a CO2 ed H2O, liberando ATP. La quantità di ATP prodotta a partire dalla stessa quantità di glucosio è 18 volte maggiore rispetto a quella ottenuta con la glicolisi anaerobica. Metabolismo lipidico Riusciamo ad utilizzare i lipidi in un primo processo definito β-ossidazione che determina la produzione di energia e la formazione di FFA. Gli acidi grassi a lunga catena possono essere smontanti in acetil-CoA (2 atomi di C) che entra nel ciclo di Krebs dove viene ossidato completamente a CO2 e H2O. La CO2 viene espulsa dall’organismo attraverso la respirazione, mentre l’H2O può raggiungere i reni ed essere espulsa attraverso le urine, oppure può essere riutilizzata dai processi metabolici. I trigliceridi possono essere attivati solamente se durante l’esercizio viene attivato il metabolismo aerobico, non facendo sollevamento pesi. Gli acidi grassi (FFA) costituiscono la principale fonte di energia del muscolo a riposo. Gli acidi grassi a catena corta e media entrano nei mitocondri dove vengono attivati ad acil-CoA ed entrano nella β-ossidazione dove sono convertiti ad acetil-CoA. Gli acidi grassi a catena lunga sono dapprima acilati e poi, tramite un legame con la carnitina, trasportati nel mitocondrio dove entrano nella β-ossidazione. L’acetil-CoA che ne risulta entra nel ciclo degli acidi tricarbossilici dando luogo alla produzione di energia sotto forma di ATP. Buona parte dell’acetil-CoA nel fegato è convertito a corpi chetonici che sono un importante forma di energia per tutti i tessuti, soprattutto per il cervello. In particolare durante il digiuno prolungato i corpi chetonici sono importanti per il cervello che non può utilizzare gli FFA come fonte di energia. Via della fosfocreatina La via della fosfocreatina determina la rapida formazione di ATP tramite la reazione dell’ADP con la fosfocreatina catalizzata dall’enzima creatina chinasi. Si attiva durante l’esercizio di elevata intensità. È una reazione di breve durata dato che la riserva di fosfocreatina muscolare è molto piccola. Quando l’ossigenazione del muscolo diviene adeguata, la riserva di fosfocreatina viene ricostituita. Ciclo dei nucleotidi purinici Durante l’esercizio intenso il muscolo può generare energia da 2 molecole di ADP formando 1 ATP ad 1 AMP. Nelle fibre di tipo II, l’AMP può essere deamminato ad IMP generando ammoniaca. L’allenamento si associa con ridotta concentrazione muscolare ed ematica di lattato e di ammonio. Allenamento muscolare Durante l’esercizio il muscolo brucia una miscela energetica di glucosio, poi man mano che si continua nell’esercizio (oltre i 40 min) la miscela energetica di glucosio si arricchisce di trigliceridi. Più si prolunga l’esercizio e più la miscela verrà composta da acidi grassi liberi. Il glicogeno muscolare, man mano che l’esercizio prosegue, si esaurisce e bisogna andare a recuperare il glicogeno epatico. Il fegato dona il suo glicogeno stoccato al metabolismo che lo richiede. Più si è allenati e ci si allena, più il soggetto è in grado di ripristinare tali risorse perché quando è passato il momento della richiesta si attivano tutti i meccanismi per cui la sensibilità dell’insulina ai tessuti è così grande che riesce a captare il glucosio riportandolo nel fegato per lo stoccaggio a nuovo glicogeno pronto per essere consumato la volta successiva. Si parla perciò di un meccanismo virtuoso che riesce a mantenere l’omeostasi glucidica a lungo termine. Ecco perché se una persona effettua attività fisica regolarmente (1 giorno sì e 1 giorno no) i benefici li ha sempre (anche nei giorni di non allenamento) poiché si ottiene un recepting del metabolismo che facilita la miglior gestione del glucosio. Man mano che una persona aumenta la sua capacità aerobica, cioè la sua soglia di massimo consumo dell’O2, maggiore è la capacità di utilizzare acidi grassi liberi come sostituti del glucosio e soprattutto del glicogeno (tecnica adottata dai maratoneti). Questo genere di allenamento determina una maggiore resistenza. Facendo esercizio si aumenta il consumo e la richiesta dei substrati energetici, si attiva il sistema simpato-adrenergico che determina vasodilatazione e comporta un aumento della disponibilità del glucosio, quindi ci sarà una maggior captazione del glucosio. A seconda del tipo di attività fisica che un atleta o un soggetto pratica, bisogna adeguare la sua dieta. Un dieta ricca di carboidrati si associa ad un aumento della loro ossidazione durante l’attività fisica ed un conseguente aumento della capacità di resistenza. La resistenza allo sforzo durante un attività fisica intensa (75% di VO2max) si correla alla riserva di glicogeno muscolare. A seconda del tipo di esercizio effettuato e del momento in cui ci troviamo, utilizziamo dei substrati energetici differenti. All’inizio usiamo soprattutto il glicogeno muscolare perché è già pronto all’uso, ma questo si esaurisce molto velocemente e al suo posto si utilizza poi il glucosio circolante e dal 45° min in poi di attività fisica si utilizzano gli FFA. Se l’obiettivo è quello di ridurre la massa adiposa bisogna scegliere una tipologia di esercizio orientata più sulla durata che sull’intensità, mentre se si vuole aumentare la massa muscolare bisogna scegliere un esercizio orientato all’intensità attraverso una strategia atta a ripristinare le scorte di glicogeno non appena queste vengono consumate, piuttosto che alla durata. L’efficienza del trasportatore GLUT4 (trasportatore specifico del glucosio) dipende da quanta insulina è presente nel sangue. Più attività fisica di tipo aerobico e prolungata viene svolta, maggiore è la quantità fisica di trasportatori del glucosio che l’insulina è in grado di esporre sulle cellule del fegato e dei tessuti adiposo e muscolare. Quando c’è tanto glucosio i tessuti che non ne hanno bisogno diventano vittime della glicemia e vengono incrostate dallo zucchero in eccesso. L’efficienza dell’insulina nel mostrare il trasportatore GLUT4 sulle cellule insulino-dipendenti può essere migliorata dall’attività fisica, ecco che nei soggetti allenati migliorando il trasporto del glucosio, si prevengono le malattie del metabolismo glucidico. La prima prescrizione che un medico dovrebbe fare ad un soggetto in sovrappeso, obeso o con delle malattie del metabolismo glucidico, dovrebbe essere l’attività aerobica (60-70% del VO2max). Adattamento all’esercizio fisico a lungo termine Nell’adattamento all’esercizio fisico a lungo termine assistiamo alle seguenti modificazioni: ❖ Nel muscolo scheletrico: aumento delle fibre di tipo I secondario ad esercizio aerobico lieve o moderato, aumento del numero dei capillari e del flusso ematico al muscolo attivo, aumento della taglia ed il reclutamento di fibre muscolari che portano ad una maggior abilità, incremento della forza muscolare e dell’area sezionale di tendini e legamenti ❖ Nel sistema metabolico: aumento del numero e delle dimensioni dei mitocondri e delle cellule muscolari, aumento della capacità del muscolo di essere una riserva di glicogeno, maggior utilizzo del grasso come fonte di energia e risparmio del glicogeno, maggior capacità di mobilizzare gli acidi grassi liberi e di ossidare i grassi ❖ Nella performance cardiovascolare e respiratoria: il miglioramento delle funzioni muscolari, cardiovascolari e respiratorie risulta in un incremento della capacità di consumo di O2 durante un esercizio massimale DIABETE MELLITO Il diabete mellito significa “dolce” e la parola “diabete” in greco significa “passare attraverso” perché coloro che sono affetti dal diabete bevono tanta acqua e la eliminano con le urine, infatti uno dei sintomi del diabete di tipo I è la polidipsia e poliuria. Si chiama diabete mellito poiché le urine sono dolci, infatti una volta la diagnosi si effettuava facendo fare al paziente la pipì in uno scodellino che veniva messo per terra e se arrivavano le formiche significava che erano dolci, oppure nei tempi antichi i medici assaggiavano l’urina per capire se fosse dolciastra. Inoltre l’urina durante la Prima Guerra Mondiale veniva utilizzata per disinfettare le ferite poiché la concertazione di urea, all’interno delle stesse, ha un potere antibatterico importantissimo. Il diabete mellito è una sindrome che comprende un gruppo di malattie metaboliche dovute ad un difetto di secrezione e/o di azione dell’insulina, caratterizzate dalla presenza di iperglicemia (i tessuti non sono capaci di eseguire gli ordini dell’insulina) e dalla comparsa a lungo termine di complicanze croniche a carico di vari organi, in particolare: occhi, nervi, cuore e vasi sanguigni. Se manca l’insulina, manca anche la captazione tissutale del glucosio e non c’è la riduzione nella produzione epatica di glucosio, quindi il fegato continua a produrre glucosio ininterrottamente. Non è l’iperglicemia temporanea alla quale ognuno di noi è esposto dopo aver consumato un pasto ad essere pericolosa, ma è l’iperglicemia costante perché il glucosio sale e non scende mai entro il range di valori all’interno del quale dovrebbe trovarsi, La sovraesposizione agli alti livelli di glucosio determina la comparsa di complicanze, cioè di altre malattie che non s’instaurano immediatamente, ma c’è bisogno di tempo. Ecco perché l’esordio del diabete, soprattutto quello di tipo II può impiegare degli anni, perché molto spesso si manista con le complicanze. CLASSIFICAZIONE EZIOLOGICA Il diabete di tipo I solitamente si manifesta in bambini e ragazzi giovani, ossia il suo esordio avviene durante l’infanzia nel periodo di grande accrescimento, perché l’insulina che fa entrare il glucosio nei tessuti è un potente ormone anabolizzante e i bambini affetti da questa patologia non crescono. La prima causa di deficit dell’accrescimento in un bambino è la celiachia, a seguire troviamo l’ipotiroidismo, il diabete mellito e per ultimo il deficit dell’ormone della crescita (malattia rara). Il diabete di tipo I determina la distruzione delle cellule β-pancreatiche. È una sindrome molto rara nella nostra civiltà, è autoimmune per il 90% ed è idiopatica. Il diabete di tipo II è la forma più frequente ed è dovuta al fatto che le cellule β-pancreatiche producono correttamente l’insulina, ma i tessuti non sono in grado di recepire il messaggio inviato dall’insulina. Assistiamo perciò, ad un difetto di secrezione insulinica associato ad insulino-resistenza, la quale è associata ad un difetto relativo idiopatico di secrezione insulinica. Il diabete gestazionale rappresenta una qualsiasi forma di alterata tolleranza glucidica che insorge durante la gravidanza, oppure può comparire quando una ragazza diabetica resta incinta. Questa situazione è molto delicata e va gestita adeguatamente, infatti solitamente a queste persone viene prescritta l’esecuzione della ginnastica dolce. Qualsiasi forma di diabete può richiedere la terapia insulinica in qualsiasi stadio della malattia. L’uso d’insulina, di per sé, non classifica il paziente. I valori glicemici a digiuno dovrebbero essere tra 70 mg/dl e 85 mg/dl e non dovrebbero superare i 130-150 mg/dl nella fase post-prandiale. Infatti una “glicemia normale” a digiuno, secondo l’OMS, deve essere < 100 mg/dl. Si parla di “glicemia alterata” quando a digiuno i valori sono compresi tra 101 mg/dl e 125 mg/dl. Infine si definisce “diabete” quando a digiuno i livelli glicemici > 126 mg/dl. Per comprendere se una persona con la glicemia normale potrebbe avere una predisposizione al diabete bisogna effettuare un test da sforzo che prende il nome di tolleranza glucidica (Oral Glucose Tolerance Test → OGTT). Per effettuare questo test è necessario assumere 75 gr di glucosio sotto forma liquida che il paziente deve bere e poi si misura la glicemia prima dell’assunzione, dopo 1 ora e dopo 2 ore dall’assunzione della bevanda. Se dopo 2 ore la glicemia è al di sotto dei 140 mg/dl, allora significa che il paziente possiede una tolleranza glucidica normale. Se invece, dopo 2 ore la glicemia è al di sopra dei 150 mg/dl il paziente è a rischio comparsa del diabete perché la curva glicemica è alterata, ma non è diabetico. Affinché si possa decretare il diabete attraverso la tolleranza glucidica, è necessario che dopo 2 ore dall’assunzione della bevanda, il paziente abbia una glicemia superiore ai 200 mg/dl. Quando si mangia e la glicemia si alza molto, il pancreas viene stimolato a produrre grandi quantità d’insulina che sono in grado di gestire la glicemia facendo entrare il glucosio all’interno dei tessuti insulino-dipendenti, ma quando il pancreas comincia ad invecchiare, si esaurisce e l’iperglicemia prolungata è tossica per le cellule β-pancreatiche, quindi la comparsa del diabete è inevitabile. DIABETE DI TIPO I Il diabete di tipo I distrugge le cellule β-pancreatiche e rappresenta il 5-10% di tutte le forme di diabete. Questo tipo di diabete ha un’incidenza (n° di casi per anno nella popolazione) in Italia di 8/100.000 abitanti/anno nei bambini < 15 anni e una prevalenza (n° di casi in un determinato momento e luogo) dello 0.3% della popolazione. Tutto ciò accade poiché sono presenti dei fattori immunologici per i quali molto spesso i soggetti hanno una predisposizione genetica famigliare; oppure sono presenti dei fattori ambientali, ossia molto spesso l’esordio del diabete di tipo I avviene durante l’infanzia o l’adolescenza e durante un episodio febbrile (es. parotite, influenza…) perché in quel momento le cellule β-pancreatiche vengono molto stimolate degli stressor (è come un ulteriore test da sforzo). La distruzione delle cellule β-pancreatiche è graduale e finché il 50% delle cellule β-pancreatiche sono funzionati, viene mantenuta una glicemia normale. Inoltre il tempo di distruzione delle cellule β-pancreatiche è variabile. Se si distruggono le cellule β-pancreatiche non si produce l’insulina e si va in iperglicemia e in chetosi perché il glucosio non entra più nei tessuti e non è in grado di entrare e far funzionare il ciclo di Krebs, perciò l’acetil-CoA prodotto dalla β-ossidazione si trasforma in corpi chetonici. Nel diabete di tipo I, vista l’assenza d’insulina è necessaria la costante terapia insulinica. DIABETE DI TIPO II Il diabete di tipo II riguarda un difetto di secrezione insulinica e la comparsa dell’insulino-resistenza. Il diabete di tipo II rappresenta la forma di diabete più frequente in Italia in persone con > 40 anni. Questo tipo di diabete ha un’incidenza (n° di casi per anno nella popolazione) nei Paesi Occidentali di 1/1000 abitanti/anno e una prevalenza (n° di casi in un determinato momento e luogo) nei Paesi Occidentali del 3-10% della popolazione e nei Paesi Poveri < 1% della popolazione. L’alimentazione è un fattore di rischio molto importante da tenere in considerazione anche perché si porta dietro: sovrappeso, obesità e soprattutto obesità viscerale. I fattori ambientali, in questo caso sono modificabili poiché riguardano: obesità, ridotto esercizio fisico e dieta ricca di grassi. Il laureato in SM, se esegue in modo corretto il suo mestiere, riesce a revertire l’obesità, riesce a far effettuare esercizio fisico (l’allenamento è un potentissimo nel sistemare il metabolismo glucidico) e orientare meglio le scelte alimentari dei soggetti. I fattori genetici non sono modificabili e riguardano: per il 70-90% concordanza fra gemelli omozigoti ed elevato rischio in parenti di primo grado. Il pancreas dei soggetti affetti da diabete di tipo II, quando nascono e crescono è perfettamente funzionante e non è presente una reazione autoimmune, però man mano che aumentano il peso e il cibo ingerito, le cellule β-pancreatiche subiscono uno stress poiché gli viene richiesto di lavorare il doppio, dunque aumenta il tessuto adiposo. Il tessuto adiposo rappresenta un fattore di rischio tremendo per il diabete di tipo II perché si verifica il fenomeno dell’insulino-resistenza che comporta l’azione tossica del glucosio sulla cellula β- pancreatica, per cui l’insulina viene prodotta sempre meno e bisogna cominciare a somministrarla dall'esterno. Fattori ambientali e fattori genetici insieme, determinano l’insulino-resistenza e la ridotta secrezione d’insulina da parte del pancreas, generando così l’iperglicemia. L’insulino-resistenza determina una diminuzione della risposta biologica dei tessuti insulino- dipendenti all’azione dell’insulina (endogena o esogena) per: Difetto recettoriale: ridotto numero o funzione del recettore insulinico Difetto post-recettoriale: alterazione di enzimi o substrati coinvolti nei meccanismi di traduzione del segnale ed i trasportatori del glucosio La conseguenza dell’insulino-resistenza determina una resistenza all’azione anti-lipolitica dell’insulina a livello del tessuto adiposo che comporta la scissione di una maggior quantità di lipidi con liberazione di FFA in circolo. Se l’insulina è in circolo, ma il fegato è sordo all’azione dell’insulina, accade che dopo un pasto l’insulina prodotta dal pancreas cresce, però il fegato continua a produrre glucosio. Un aumento della produzione epatica di glucosio, una riduzione dell’utilizzazione del glucosio da parte del muscolo e una resistenza all’azione anti-lipolitica dell’insulina a livello del tessuto adiposo con conseguente aumento degli FFA in circolo, determinano l’insorgenza dell’iperglicemia. Accade infatti che spesso, coloro che sofforno d‘insulino-resistenza tendano a soffrire anche di iperglicemia. Finché il pancreas riesce a produrre una quantità adeguata d’insulina è tale da superare l’insulino- resistenza, questi soggetti non diventano diabetici, ma basterà una spintarella affinché lo diventino. Le persone affette da insulino-resistenza possono inoltre intercorrere nel fenomeno dello sfondamento, ossia la glicemia s’innalza così tanto che è necessaria una valanga d’insulina affinché il glucosio riesca ad entrare nei tessuti insulino-dipendenti e una volta entratato non esce più, per cui alla fine del pasto, quando l’insulina non dovrebbe più essere prodotta, questa continua ad essere prodotta, viene sfondata la porta del trasportatore e tutto il glucosio presente nel tessuto adiposo viene trasformato e stoccato sottoforma di goccioline lipidiche che non fanno altro che aumentare il volume di tessuto adiposo già esistente. Queste persone alla fine del pasto vanno dunque in ipoglicemia e vorranno mangiare altri zuccheri (meccanismo del Mc Donald) instaurando così un circolo vizioso che va assolutamente interrotto attraverso l’esecuzione dell’attività fisica aerobica d’intensità moderata o intensa per almeno 40 minuti. Il background genetico è importantissimo e non si può cambiare, ma il laureato in SM possiede gli strumenti per poter modificare l’atteggiamento, nonostante non sia possibile revertire la genetica con l’attività fisica, però è possibile aiutare le persone ad accelerare il metabolismo energetico (senza usare farmaci) per migliorare la qualità della vita e ridurre l’esposizione al rischio di sviluppare il diabete e le sue complicanze annesse. Nel diabete infatti, il glucosio s’incrosta sui vasi sanguigni e il sangue non passa più attraverso questi ultimi; è per questo che una persona che sviluppa il diabete non sempre se ne accorge. SINTOMI Spesso l’esordio del diabete di tipo II è asintomatico (scoperto occasionalmente in corso di esami ematochimici), mentre l’esordio del diabete di tipo I è molto eterogeneo e ha un inizio brusco con chetoacidosi che può portare anche al coma. I corpi chetonici sono acidi e in circolo abbassano il pH acidificando il sangue. I sintomi del diabete di tipo I sono: ✓ Poliuria e nicturia: se c’è superamento della soglia renale del glucosio (160-180 mg/dl) si accompagnano a glicosuria. Il glucosio circolante viene filtrato dai reni, ma i tubuli renali sono in grado di prendere il glucosio dal lume tubulare e riportarlo all’interno del sangue. Se la soglia renale del glucosio viene superata per molto tempo, il glucosio comincia ad essere perso tramite il filtro glomerulare del rene. Il glucosio però è una molecola polare, dunque osmoticamente attiva (si porta dietro molta H2O), perciò se il glucosio rimane nel tubulo renale e poi finisce nell’uretere affinché possa essere espulso attraverso le urine, si porta con sé molta H2O zuccherata. ✓ Polidipsia: compensatoria alla poliuria ✓ Dimagrimento e polifagia: perdita di glucosio e mancata utilizzazione degli elementi nutritivi dovuti al difetto d’insulina ✓ Riduzione della crescita nel bambino ✓ Astenia: proteolisi ✓ Disidratazione: dovuta alla poliuria I sintomi del diabete di tipo II presentano una fase di compenso che dura molti anni prima che si evidenzi l’insulino-resistenza e l’iperinsulinemia con normale tolleranza glucidica. Nella fase di scompenso si può verificare: → Ridotta tolleranza glucidica (IGT): iperinsulinemia con ridotta tolleranza glucidica. L’iperinsulinemia post-prandiale è dovuta al difetto di captazione insulina-mediata di glucosio da parte di fegato e muscolo. → Alterata glicemia a digiuno (IFG): aumentata richiesta d’insulina associata ad un progressivo declino funzionale delle cellule β-pancreatiche e ad aumento della glicemia a digiuno. L’iperglicemia a digiuno è legata ad un’aumentata produzione epatica di glucosio e questo è indice soprattutto di ridotta produzione d’insulina. → Diabete: iperglicemia a digiuno. L’insulino-resistenza e la ridotta funzione pancreatica determinano un aumento della produzione epatica di glucosio e un’ulteriore riduzione della captazione insulino-mediata di glucosio con conseguente iperglicemia a digiuno o malattia conclamata. Spesso questa situazione diventa irreversibile. Se queste persone non bevono molto e l’urina è ricca di glucosio, può accadere che i batteri saprofiti presenti all’interno dell’organismo cominciano a moltiplicarsi molto di più ed è facile incorrere in un’infezione delle vie urinarie. Inoltre le complicanze effettive nei tagli sui diabetici, sono le più pericolose. Il soggetto a rischio per diabete di tipo II possiede le seguenti caratteristiche: o Storia famigliare di diabete: genitori o fratelli o Obesità: BMI superiore a 27 kg/m2 o Inattività fisica o Razza o etnia o Ipertensione arteriosa: PA > 140/90 mmHg o Dislipidemia: HDL colesterolo < 35 mg/dl e/o trigliceridi > 50 mg/dl o Precedente riscontro di IGT o IFG o Pregresso diabete gestazionale o Donna con figlio macrosomico alla nascita: > 4 kg COMPLICANZE ACUTE Le complicanze acute del diabete mellito si manifestano subito e durano un periodo limitato di tempo. Le complicanze acute sono dovute a squilibri metabolici che riguardano 4 fenomeni: a) Chetoacidosi b) Iperosmolarità c) Acidosi lattica d) Ipoglicemia Le complicanze croniche del diabete mellito si manifestano gradualmente e persistono nel tempo. Le complicanze corniche sono dovute al fatto che un’iperglicemia prolungata danneggia organi e tessuti nel tempo. Tali complicanze interessano soprattutto i vasi e possono essere suddivise in: ▪ Microvascolari (capillari e arteriole → piccoli vasi): oculari (retinopatia), renali (nefropatia diabetica) e neurologiche (polineuropatia, neuropatia autonomica e mononeuropatia). Queste patologie sono fortemente invalidanti e pongono dei limiti alla nostra capacità di far eseguire attività fisica ai soggetti affetti da tali malattie. ▪ Macrovascolari (aorta, coronarie, arteria femorale → grandi vasi): vasculopatia coronarica, vasculopatia cerebrale e vasculopatia periferica ▪ Altre: cataratta, complicanze cutanee, infezioni ricorrenti e dislipidemia La complicanza della cataratta è dovuta ad un difetto visivo determinato dall’alterazione della rifrazione oculare comporta delle alterazioni osmotiche a livello del cristallino per accumulo di sorbitolo. Le complicanze infettive costituiscono la frequente presenza d’infezioni cutanee e orali (es. gengivite, parodontite…) con infezioni ricorrenti all’apparato genito-urinario. Chetoacidosi La chetonuria (rara nel diabete di tipo II) riguarda la presenza di corpi chetonici nelle urine per diversi motivi, tra cui: − Mancata utilizzazione del glucosio da insufficienza insulinica marcata (assoluta o relativa dovuta ad eccesso di ormoni controinsulari) che determina la combustione di una quota eccessiva di grassi, attraverso la reazione di β-ossidazione che produce acetil-CoA, il quale non potendo entrare a far parte del ciclo di Krebs vista la mancanza del glucosio, viene trasformato in corpi chetonici determinando un aumento dei corpi chetonici stessi nel sangue e poi nelle urine − Digiuno protratto o dieta troppo povera di carboidrati (es. nella dieta chetogenica si bruciano grassi e proteine determinando chetonuria e iperchetonemia) I sintomi di iperchetonemia sono: anoressia, nausea, vomito, alitosi (alito dolciastro simile a frutta matura) perché i corpi chetonici sono volatili e si possono espellere con l’alito, dolori addominali, astenia marcata, aggravamento della poliuria (disidratazione), respiro profondo e rapido, fino al coma chetoacidosico. La chetoacidosi diabetica è un’acidosi metabolica che comporta un aumento dei corpi chetonici, indotto dalla carenza assoluta d’insulina e dall’aumento del glucagone che progredisce fino al coma. Con il difetto d’insulina aumentano: glicogenolisi, gluconeogenesi, lipolisi, FFA, β-ossidazione e l’acetil- CoA che portano alla formazione dei corpi chetonici (aceto-acetato, β-idrossibutirrato e acetone). La chetoacidosi è la manifestazione più frequente di esordio del diabete di tipo I. Iperosmolarità Un soggetto consapevole di essere diabetico dovrebbe sempre idratarsi molto bevendo H2O perché così la glicemia resta all’interno di un range umano senza crescere troppo. L’iperosmolarità o sindrome iperglicemica iperosmolare è tipica del diabete di tipo II e avviene nel caso in cui le persone diabetiche non bevono a sufficienza oppure sono affette da un’influenza gastro-intestinale o febbre molto alta da determinare: Grave aumento della glicemia e dell’osmolarità plasmatica senza chetosi Può essere indotta da eventi scatenanti che aggiungono una disidratazione ad una situazione di scadente controllo metabolico Progredisce fino al coma se la prognosi è infausta in un’elevata percentuale di soggetti Inoltre il primo organo a soffrire di iperosmolarità è il SNC. Acidosi lattica L’acidosi lattica è una rara complicanza, nel diabete, indotta da stati di ipossia o farmaci (es. metformina). La terapia che si attua per arginare l’acidosi lattica riguarda la somministrazione di alcalini e la rimozione delle cause precipitanti. Ipoglicemia Un soggetto diabetico può andare in ipoglicemia poiché sapendo di avere il diabete, sta facendo una terapia farmacologica che prevede l’assunzione di insulina iniettiva. L’ipoglicemia è frequente nel diabete di tipo I trattato con insulina iniettiva poiché una volta che l’insulina viene iniettata nel corpo entra in circolo e agisce, perciò questa complicanza è dovuta a: Errore di somministrazione (involontario o accidentale) Dose eccessiva rispetto al fabbisogno Variabili → dieta, esercizio fisico, assunzione di alcool o sostanze ipoglicemizzanti, situazioni stressanti, epatopatie o nefropatie Anche gli ipoglicemizzanti orali (specie le sulfaniluree a lunga durata d’azione possono dare ipoglicemie) I sintomi che caratterizzano l’ipoglicemia sono: 1) I fase → glicemia < 70 mg/dl Se la glicemia continua a scendere, l’organismo si stressa poiché è un evento al quale ci si deve opporre, quindi entra in gioco la reazione adrenergica che comporta la dismissione di una grande quantità di catecolammine (A, NA e dopamina) e glucagone che determinano un aumento della frequenza cardiaca, una sudorazione e un pallore improvvisi per ripristinare la glicemia. 2) II fase → glicemia < 50 mg/dl Se la glicemia continua a scendere ulteriormente, compaiono i primi sintomi di sofferenza cerebrale e queste persone manifestano offuscamento della vita, mancanza di equilibrio, svenimento… fino al coma ipoglicemico ed alla morte. Se il paziente ha perso conoscenza e non si riprende bisogna chiamare il 118 oppure una terapia di salvataggio è rappresentata dal glucagone in spray (flaconcino monodose). Spesso i soggetti diabetici si portano dietro un flaconcino monodose di glucagone così, qualora perdessero conoscenza, poi essere spruzzato nel naso e viene assorbito immediatamente provocando una risposta controinsulare importante, tanto che le persone riprendono conoscenza. Se invece il paziente è cosciente bisogna somministrargli bevande zuccherate (es. coca-cola, succo di frutta…) e zuccheri complessi (es. pane, crackers, biscotti) per creare un po’ di riserva Man mano che si abbassa la glicemia si attivano tutti gli ormoni controinsulari: catecolammine, glucagone, ormone della crescita, cortisolo… I sintomi che precedono il coma sono raffigurati nella vignetta qui a fianco che l’American Association Diabetes dona ad ogni bambino diabetico per riconoscere i sintomi dell’ipoglicemia e troviamo: tremore, tachicardia, sudorazione, ansia, vertigini, senso di fame, offuscamento della vista, affaticamento, cefalea e irritabilità. Tutti questi sintomi precedono il coma. COMPLICANZE CRONICHE Le complicanze croniche interessano i vasi sanguigni e si suddividono in complicanze microvascolari e macrovascolari. Le complicanze microvascolari interessano i vasi di piccolo calibro, come capillari e arteriole. I capillari entrano nei tessuti e per perfusione liberano le sostanze nutritizie, poi quando ritornano indietro, attraverso la pompa venosa, estraggono le sostanze di scarto dai tessuti stessi. È fondamentale che questo meccanismo funzioni bene poiché in alcune sedi del corpo il letto capillare è terminale. Le complicanze croniche o microangiopatie colpiscono i vasi di piccolo calibro e si manifestano soprattutto laddove sono presenti i capillari terminali, i quali si trovano a livello di: retina, reni e nervi. Le complicanze macrovascolari interessano le arterie di medio e grosso calibro come: le arterie femorali e iliache, le arterie coronarie, l’aorta e le arterie del circolo cerebrale. Il circolo di Willis riguarda un gruppo di arterie custodito all’interno del SNC che incrociandosi in diversi punti formano una sorta di esagono alla base del cranio e possono essere oggetto di patologie macrovascolari. I distretti maggiormente interessati da macroangiopatie riguardano: cervello, coronarie e arterie periferiche (solitamente degli arti inferiori). Le macroangiopatie sono un processo aterosclerotico molto accelerato, cioè sono placche aterosclerotiche che si formano più precocemente e cattive; mentre le microangiopatie sono specifiche del diabete. Microangiopatia diabetica All’inizio l’eccesso di glucosio si attacca alle proteine nei piccoli capillari e nella membrana basale di questi ultimi, in modo reversibile perché è occasionale, ma se l’eccesso di glucosio è costante diventa un processo irreversibile e le proteine perdono la loro funzione. L’iperglicemia cronica determina alterazioni, inizialmente reversibili, che a lungo andare diventano irreversibili della struttura dei piccoli vasi capillari (retina, reni e nervi) e nel momento in cui queste alterazioni diventano irreversibili quelle strutture restano danneggiate fino a quando non vengono ricambiate. La microangiopatia diabetica è specifica del diabete e interessa i vasi di piccolo calibro (arteriole e capillari) causando: retinopatia, nefropatia, neuropatia e alterazioni cutanee. La microangiopatia diabetica è legata all’iperglicemia cronica perché il glucosio determina un’azione tossica sui tessuti incrostando le proteine tissutali attraverso un fenomeno denominato glicazione (posizione del glucosio) non enzimatica delle proteine tissutali che comporta la formazione e l’accumulo di prodotti di glicosilazione avanzata (AGE) con l’attivazione di fattori di crescita/citochine e di sostanze vasoattive che insieme agli stress ossidativi determinano un danno alla parete vascolare, l’attivazione della via dei polioli e l’accumulo di sorbitolo (danno osmotico). Quando l’iperglicemia diventa cronica e il danno diventa irreversibile, nelle sedi dei capillari si realizzano delle reazioni infiammatorie (richiamo dei leucociti, edema, distruzione) e in alcuni casi i processi di riparazione non sono in grado di ripristinare il tessuto identico a quello presente in precedenza. La suscettibilità genetica è importante da tenere in considerazione. Se poi il soggetto è iperteso e possiede un eccessivo apporto proteico, anche la nefropatia peggiora. L’accumulo di AGE nei tessuti determina: ❖ Danno diretto mediante il legame con le proteine nucleari e della matrice extracellulare (es. collagene) ❖ Danno mediato dal legame con i recettori cellulari (RAGE) poiché il legame crociato di AGE e collagene determina delle alterazione della membrana basale che comportano un’aumentata proliferazione cellulare e un ispessimento della membrana basale con produzione di citochine e/o fattori di crescita (TNFa e IL-1) che suscitano una risposta infiammatoria dettata dalla proliferazione delle cellule muscolari lisce vasali La via dei polioli è una via di metabolizzazione del glucosio in alternativa alla glicolisi utilizzata nei tessuti non insulino-dipendenti (retina, cristallino, nervi, endotelio vasale). In condizioni di iperglicemia cronica si accumula sorbitolo all’interno delle cellule che aumenta l’osmolarità intracellulare con richiamo di acqua nelle cellule concorrendo alla degenerazione (danno osmotico). Retinopatia La retina è uno strato di fotorecettori al di sotto del quale è presente un un tessuto vascolare che fornisce substrati energetici ai fotorecettori affinché questi ultimi possano ricevere gli stimoli visivi e trasformarli in segnali elettrici, tramite le fibre, per trasportarli al nervo ottico. Se ad un certo punto i capillari della retina subiscono un danno perché i soggetti sono affetti da iperglicemia cronica, il tessuto nervoso sovrastante va in sofferenza perché i capillari non riescono più a svolgere la loro normale funzione. Questi soggetti cominciano a sviluppare una sofferenza del tessuto vascolare retinico molto presto, ma i sintomi solitamente compaiono più avanti nel tempo. La prevalenza della retinopatia aumenta progressivamente con la durata della malattia (sia nel diabete di tipo I sia nel diabete di tipo II). Nel diabete di tipo I compare 3-5 anni dopo la diagnosi ed è presente in tutti i pazienti dopo 15-20 anni, mentre nel diabete di tipo II è presente nel 50-80% dei pazienti dopo 20 anni di malattia. Alcuni pazienti (fino al 20%) presentano già retinopatia alla diagnosi, la cui presenza viene in genere stimata a 4-6 anni prima. Ciò non significa che tutti diventino ciechi, ma possono avere dei grossi disturbi della vista per cui avranno bisogno di un’oculista, di terapie specifiche e di tenere sotto controllo la loro glicemia perché continuando ad essere iperglicemici cronicamente, la retinopatia peggiorerà. La retinopatia rappresenta la causa più frequente di cecità nell’adulto (20-74 anni). Negli Stati Uniti rappresenta il 12% di tutti i nuovi casi di cecità per anno. Il grado di controllo glicemico è il maggior determinante della retinopatia. La cataratta è una patologia frequente nel diabetico che consiste nell’opacizzazione del cristallino dovuta all’accumulo di sorbitolo. Nel bulbo oculare è presente una lente chiamata cristallino, che permette di mettere a fuoco le cose e si può opacizzare. Il cristallino infatti, può accumulare delle sostanze (es. sorbitolo) che lo opacizzano, dunque nell’intervento della cataratta viene asportato il cristallino dall’interno dell’occhio e viene apposta un’altra lente artificiale limpida che permette alle persone di mettere a fuoco. Nefropatia L’unità fondamentale del rene è il nefrone costituito dal glomerulo, un groviglio di capillari con una membrana basale fenestrata che permette la fuoriuscita tutto ciò che non sono elementi corpuscolati dal sangue e le proteine più grosse. Se avviene un danno alla membrana basale del capillare glomerulare le fenestrature si allargano e non passeranno solamente le molecole a basso peso molecolare (es. glucosio), ma anche le proteine come l’albumina che rappresenta la proteina plasmatica più importante in circolo e dona il potere osmotico al plasma, ossia la capacità del sangue di richiamare i liquidi dai tessuti, perciò permette il drenaggio dei liquidi dai tessuti interstiziali. Se manca l’albumina che viene persa dal plasma, il plasma perde la capacità osmotica e le persone cominciano a gonfiarsi poiché il liquido ristagna nei tessuti e ciò determina la comparsa di edemi, soprattutto a livello degli arti inferiori. C’è dunque un danno irreversibile al nefrone e al glomerulo renale che determina la perdita della sua funzione. Man mano che passa il tempo compare una reazione infiammatoria per la quale il glomerulo diventa sclerotico, perciò le persone perderanno la funzione del rene e andranno incontro a fenomeni di insufficienza renale cronica (se la portano dietro per tutta la vita) da determinare la necessità di dialisi. La dialisi può essere intracorporea o peritoneale ed extracorporea. La finalità della dialisi è quella di depurare il sangue dagli elementi di scarto ed è un processo inventato dall’uomo. Nella dialisi intracorporea o peritoneale si utilizza il peritoneo come superficie di scambio, dunque vengono iniettati dei liquidi nella pancia affinché si scambino con i prodotti di scarto e poi tali liquidi vengono estratti dal corpo. Nella dialisi extracorporea viene confezionata una fistola arterovenosa in un braccio e i pazienti 2- 3 volte a settimana devono andare al centro dialisi ed essere attaccati ad una macchina che gli filtra il sangue. Diventano dunque schiavi di questa macchina che gli permette di restare in vita. La nefropatia rappresenta la prima causa di insufficienza renale cronica negli USA ed in Europa. Negli USA è responsabile di circa il 30% di tutti i nuovi casi di insufficienza renale terminale. Il diabete nell’immediato non fa male, ma nel tempo porta alla perdita di funzione di vari organi. La prevalenza di insufficienza renale nei pazienti con diabete di tipo I è del 12-40%, mentre nel diabete di tipo II è dello 0.5-10%. L’incidenza della nefropatia aumenta con la durata del diabete e raggiunge il massimo a 15-20 anni di malattia (2-3% per anno) e poi diminuisce. L’ipertensione arteriosa e la dieta ricca di proteine aumentano il rischio e la progressione della malattia. La nefropatia è preceduta da una fase preclinica che si può individuare con il dosaggio della microalbuminuria (< 300 mg/24 ore). Il passaggio alla fase della macroalbuminuria indica l’irreversibilità del quadro clinico (> 300 mg/24 ore). Neuropatia L’altro ambiente vascolare che viene attaccato dalla microangiopatia diabetica sono i nervi perché, soprattutto i nervi distali hanno una vascolarizzazione terminale, per cui il nervo nella neuropatia soffre poiché non viene adeguatamente nutrito e non avvengono gli scambi affinché venga apportato il nutrimento e prelevati gli elementi di scarto prodotti dal metabolismo. In Italia coinvolge circa il 30% dei diabetici, nel 2% dei quali porta all’ulcera neurotrofica. I quadri più frequenti di neuropatia sono: ▪ Polineuropatia simmetrica periferica: spesso è di tipo misto (sensitivo, motorio ed autonomico), che colpisce prevalentemente le estremità inferiori (più raramente gli arti superiori. I disturbi sono prevalentemente di tipo sensoriale, le alterazioni motorie sono meno comuni, ma possono coesistere disturbi neurovegetativi (incongruenti). ▪ Mononeuropatie: a carico dei nervi dell’arto inferiore, della mano (nervo mediano, tunnel carpale), o di alcuni nervi cranici (più spesso il III, più raramente il IV e il VI o il VII) Se la neuropatia interessa alcuni distretti neurovegetativi, si possono manifestare i seguenti sintomi: − Impotenza sessuale: disfunzione erettile, eiaculazione retrograda − Vescica neurogena: atonia viscerale, dilatazione ed impossibilità al completo svuotamento che comporta un aumento dell’intervallo delle minzioni, esitazione, gocciolio, incontinenza) − Riduzione dell’attività peristaltica dell’esofago durante la deglutizione (serie di contrazioni coordinate e incontrollate che accompagnano il cibo lungo tutto il tratto gastro-enterico) e ritardo dello svuotamento gastrico (gastroparesi) che causano disfagia, senso di ripienezza gastrica, vomito, diarrea… dovute alla presenza di una peristalsi inversa poiché il bolo invece di procedere dall’alto verso il basso, procede dal basso verso l’alto − Disturbi della termoregolazione − Disturbi di sudorazione − Alterazione dei riflessi pupillari Tali complicanze sono sviluppate gradualmente e spesso le persone diabetiche non se ne rendono nemmeno conto, infatti ad un certo punto si manifesta questa complicanza micro e macrovascolare insieme senza alcun tipo di sintomo prima di quel momento. Piede diabetico Il piede diabetico è una patologia complessa dovuta alle complicanze neurologiche e/o vascolari che si manifestano a carico delle strutture muscolo-cutanee e osteoarticolari del piede. Si manifesta dopo oltre 10-15 anni di malattia ed è responsabile del 50-70% delle amputazioni non traumatiche. Gli eventi causali di tale patologia sono: neuropatia, vasculopatia e suscettibilità alle infezioni. Gli eventi precipitanti invece, riguardano: danno fisico, trauma meccanico, danno termico (es. ustione) e infezione. Si possono verificare delle ulcerazioni a livello del piede che non guariscono, anzi determinano la comparsa di gangrena che nel tempo possono comportare la necessità di amputazione. Continuando a camminare sopra una lesione effettuata sotto il piede, essendo presente la neuropatia, non arriva abbastanza sangue, perciò la persona diabetica che non sente dolore e non se ne accorge, non permette alla lesione di guarire (manca O2 e sostanze nutritizie affinché sia presente il tessuto di granulazione e il ripristino del tessuto). Si forma perciò un’ulcera piena di glucosio non adeguatamente disinfettata diventa un ottimo substrato per i batteri saprofiti che, in assenza di O2, determinano lo sviluppo di batteri anaerobi difficili da sconfiggere con farmaci e antibiotici. Se il soggetto non se ne accorge, l’ulcera si espande e ciò comporta la creazione di tragitti fistolosi, cioè dei buchi che trapassano il piede (dalla pianta del piede a sopra il piede intaccando anche l’osso). Il piede diabetico rappresenta l’unione delle complicanze micro e macrovascolari (il piede è freddino, non sono presenti i polsi arteriosi, manca la sensibilità del tessuto, il movimento non è adeguato per neuropatia motoria… dunque l’arto inferiore comincia a ruotarsi, la postura è scorretta, si ruota la colonna e compaiono dei problemi di lombalgia che non c’entrano molto). Queste persone sono molto a rischio amputazione, ma prima di arrivare a quel punto bisognerebbe cercare di ottenere un compenso glicemico migliore possibile e di farci arrivare il sangue. Molti pazienti infatti, devono essere rivascolarizzati affinché l’arteriopatia obliterante ostruttiva delle arterie degli arti inferiori viene affrontata andando a scovolarle, cioè vengono tolte le placche aterosclerotiche che occludono i vasi, in modo da far giungere il sangue, per ottenere con una buona probabilità, che la lesione (piccola) guarisca; oppure se la lesione è in espansione, viene fatta una toeletta, cioè viene asportata dal tessuto necrotico e infetto. Ecco che questi soggetti perdono dei pezzi di piede (es. cute, derma, pezzo di muscolo, alluce…), ma se il soggetto ha un’infezione che non si riesce a domare né con la vascolarizzazione né con la terapia antibiotica e sistemica, né esercitando delle terapie blocco-regionali, il primo raggio del piede viene amputato. Quando succedono questi fenomeni di amputazione, per camminare vengono utilizzate delle calzature apposta per consentire l’appoggio del piede restituendo la capacità di cammino al soggetto, in modo che ritorni ad essere autonomo e possa camminare per prevenire l’occlusione di altri vasi e arteriole, ma la cosa principale è che torni ad avere un normale compenso glicemico. Arrivati a questa situazione, significa che il soggetto è diabetico da 15-20 anni, perciò tutto l’albero vascolare è ridotto in tali condizioni. La retinopatia è importantissima, per i medici, poiché attraverso l’utilizzo dell’oftalmoscopio, illuminando il fondo dell’occhio, lo si può studiare e vedere come sono ridotti i capillari e questo indica che il paziente ha una microangiopatia in uno stadio avanzato. In alcuni punti del corpo possiamo recuperare attraverso l’inserzione di bypass e la costituzione di circuiti alternativi, ma in altri punti no. Sarà più difficile che si ripeta questa situazione se il soggetto cambia atteggiamento e viene ben compensato dal punto di vista diabetico, associandoci il cammino che permette la stimolazione della rivascolarizzazione. Quando si raggiunge il piede diabetico significa che l’albero vascolare è molto compromesso. Il piede neuropatico può essere dovuto ad una neuropatia somatica con interessamento di fibre sensitive e motorie che comporta: alterazioni della sensibilità fino all’assenza, ipotrofia muscolare e deformità ossee. Il piede neuropatico può essere dovuto ad una neuropatia autonomica con interessamento di fibre sudoripare e periarteriolari che comporta: anidrosi, secchezza della cute, fissurazioni e ulcerazioni. Il piede diabetico, oltre ad essere neuropatico è anche ischemico poiché il sangue non arriva perché sono presenti delle placche ateromasiche (nelle femorali e nelle iliache, nelle pedidie…) che ostacolano il flusso sanguino. La manifestazione della riduzione del flusso ematico è rappresentata dalla claudicatio (le persone dopo 10-20 m di cammino si devono fermare poiché accusano un crampo al polpaccio). Minore è il tragitto che i soggetti sono in grado di effettuare prima che compaia il crampo al polpaccio, peggiore è l’ostruzione dell’arteria. Se si forma l’ulcera, quest’ultima si può infettare e andare in necrosi provocando la gangrena (necrosi del tessuto). Arrivati a tal punto, le chance di miglioramento sono ormai inesistenti e l’unica cosa che resta da fare è quella di togliere la porzione di piede necrotica. Macroangiopatia diabetica Ciò che differenzia la macroangiopatia diabetica dall’ateromasia classica è il fatto che maschi e femmine sono sullo stesso piano. Nell’aterosclerosi, il rischio d’infarto è maggiore negli uomini, mentre nella macroangiopatia diabetica il rischio è uguale perché la glicazione non enzimatica dei tessuti avviene allo stesso modo in ambo i sessi. La macroangiopatia è l’espressione della localizzazione dei vasi arteriosi di medio e grosso calibro dei distretti coronarico, cerebrale e degli arti inferiori di un processo aterosclerotico che si sviluppa precocemente nel diabetico: 3°-4° decade di vita nel diabete di tipo I, 5°-6° decade di vita nel diabete di tipo II e si presenta spesso già esteso alla diagnosi. La macroangiopatia è la causa più frequente di morte dei diabetici. La macroangiopatia si manifesta attraverso la malattia coronarica (cardiopatia ischemica) che rappresenta la principale causa di morbilità e mortalità nei diabetici (responsabile del decesso nel 50% dei casi). Negli uomini possiede una frequenza doppia rispetto alla popolazione generale, mentre nelle donne è aumentata di 3-4 volte rispetto alla popolazione generale; dunque implica una mortalità maggiore. La sintomatologia può essere assente (ischemia miocardica silente, infarto, dolori precordiali…) e si può incorrere in una ridotta percezione del dolore correlabile alla neuropatia autonomica. Questi soggetti, prima di cominciare a svolgere attività fisica devono essere valutati da un cardiologo che deve stabilire il grado di complicanze dei soggetti. La malattia cerebrovascolare può portare all’insorgenza di: ictus, deficit neurologico parzialmente reversibile e ischemia cerebrale transitoria. La vasculopatia periferica (claudicatio) è un’arteriopatia ostruttiva negli arti inferiori e interessa prevalentemente le arterie distali (tibiali e peroneali) con comparsa di ulcere a livello del piede (favorite dalla neuropatia). Il crampo è determinato dalla produzione di acido lattico che acidifica il sangue e stimola i nervi sensitivi che provocano dolore, ma i soggetti diabetici se hanno neuropatia non sentono dolore. La claudicatio è presente già nell’8% dei diabetici di tipo II alla diagnosi, con prevalenza simile nei 2 sessi. La claudicatio intermittens è presente solo nel 25% dei pazienti con arteriopatia documentata agli esami strumentali. ESERCIZIO FISICO E DIABETE MELLITO DI TIPO I Esercizio fisico in condizioni di carenza di insulina Nell’esercizio fisico in condizioni di carenza d’insulina (diabete scompensato), mancano le minime concentrazioni d’insulina permissive, determinando: diminuzione dell’utilizzazione del glucosio e inibizione della produzione epatica. Dunque un soggetto iperglicemico è molto disidratato e facendogli fare qualsiasi tipo di esercizio si rischia di peggiorare la condizione di disidratazione già esistente, sviluppando una complicanza iperosmolare, ecco che in tali condizioni l’esercizio fisico non può essere svolto. L’eccesso di ormoni controregolatori determina un aumento della produzione epatica di glucosio (glucagone), aumento della lipolisi e della formazione degli acidi grassi (catecolammine) e aumento della produzione di corpi chetonici (glucagone e catecolammine). Questo fattore può comportare l’avvento della chetoacidosi. A tutti i soggetti, prima di cominciare la seduta di allenamento, bisogna chiedere il livello attuale di glicemia poiché se questa risulta essere troppo alta, non bisogna fargli svolgere l’esercizio altrimenti s’incorre nella chetoacidosi. Questo soggetto va rimandato casa e dal medico per farsi cambiare la terapia per il diabete. Nel diabete di tipo I, l’esercizio fisico non deve essere praticato se la glicemia è maggiore di 250 mg/dl ed è presente chetosi. La produzione di acido lattico da parte del tessuto muscolare (glicolisi anaerobia, in caso di sforzo anaerobio) può aggravare una preesistente condizione di acidosi. La dose d’insulina da iniettare in condizioni di normalità (senza esercizio fisico) è maggiore della dosa da somministrare durante l’esercizio fisico perché l’attività fisica aerobica aumenta la sensibilità dei tessuti all’azione dell’insulina. Va da sé che l’esercizio, aumentando la possibilità di captare il glucosio, far ridurre ancor di più la glicemia. Oltre a chiedere al soggetto se è diabetico e fa la terapia con insulina iniettiva, bisogna chiedere a quest’ultimo quando si sia somministrato l’insulina l’ultima volta e se si è misurato la glicemia. Esercizio fisico in condizioni di eccesso di insulina Durante l’esercizio fisico in condizioni fisiologiche si ha una caduta dei livelli d’insulina, per cui la dose d’insulina necessaria a riposo può essere eccessiva durante l’esercizio determinando una ridotta produzione epatica di glucosio e un’aumentata utilizzazione di glucosio andando incontro a ipoglicemia. L’esercizio fisico aumenta l’azione dell’insulina anche per molte ore dopo l’esercizio (fino a 18 ore) con rischio di ipoglicemia anche ore dopo la cessazione dell’esercizio. L’assorbimento sottocutaneo dell’insulina può essere aumentato dall’esercizio se l’iniezione avviene in una zona coinvolta dall’attività muscolare. Questi soggetti se hanno assunto una quantità d’insulina troppo elevata potrebbero andare incontro a ipoglicemia anche dopo molte ore di esercizio. Se una persona diabetica va in ipoglicemia durante la notte, non se ne accorge e può andare in coma. Somministrando adeguatamente e correttamente l’esercizio fisico ad una persona diabetica, questo soggetto potrà utilizzare una quantità minore d’insulina per raggiungere un’ottimale omeostasi glucidica perché l’insulina che prende viene utilizzata in modo migliore. Se viene somministrata meno insulina esogena, anche il rischio di andare in ipoglicemia è minore. Infatti ci sono soggetti diabetici che sono arrivati a fare performance a livello olimpico, perciò l’esercizio fisico diventa una terapia perché aiuta a gestire meglio tali soggetti. L’insulina può essere iniettata con multiple iniezioni nell’arco della giornata, specialmente prima dei pasti, oppure si può possedere un microinfusore (un macchinino con un tubino e un ago infilato nella pancia che inietta costantemente delle piccole quantità d’insulina). Occorre che la dose d’insulina sia commisurata con l’esercizio fisico poiché serve iniettarsi meno insulina (rispetto al solito) se si effettuerà esercizio fisico. Le zone d’infusione vanno fatte a rotazione poiché l’insulina induce lipodistrofia (sviluppo di bugnetti di ciccia che provoca la cellulite, soprattutto nelle donne), inoltre la sede d’iniezione può modificare la velocità di assorbimento dell’insulina, dunque il rischio d’incorrere in ipoglicemia. Di solito questi soggetti, soprattutto coloro che presentano il diabete di tipo I, hanno una dieta frazionata, in modo che la glicemia abbia poche fluttuazioni, in base al tipo di attività e alla quantità d’insulina che fanno. Variabili che influenzano il rifornimento e l’utilizzazione del glucosio Le variabili che influenzano il rifornimento e l’utilizzazione del glucosio riguardano: Stato di nutrizione e controllo metabolico prima ed all’inizio dell’esercizio Ora in cui si effettua l’esercizio Durata ed intensità dell’esercizio Tipo, dose e sede d’iniezione dell’insulina Ad un soggetto diabetico che si presenta in palestra bisogna chiedere: che tipo di diabete possiede, se si è misurato il livello di glicemia, quando ha mangiato e se ha ridotto le unità d’insulina che si è iniettato (se non le ha ridotte potrebbe sviluppare un’ipoglicemia e bisognerebbe costringerlo a fare uno spuntino a base di carboidrati complessi in modo da ridurre la probabilità che il soggetto vada in ipoglicemia durante l’esercizio). Il controllo metabolico prima ed all’inizio dell’esercizio riguarda: o Evitare l’esercizio se la glicemia a digiuno è maggiore di 250 mg/dl in presenza di chetosi o Usare precauzioni se è maggiore di 300 mg/dl senza chetosi o Assumere carboidrati se la glicemia è < 100 mg/dl Bisogna monitorare la glicemia prima e dopo l’esercizio, infatti è necessario: ▪ Identificare quando sia necessario ridurre la dose d’insulina ▪ Studiare la risposta glicemica a differenti condizioni di esercizio Gli orari sono importanti poiché: → Il rischio di ipoglicemia è più alto quando l’esercizio e praticato nel periodo post-prandiale (richiede una riduzione della dose d’insulina o ingestione di carboidrati) → Il rischio di ipoglicemia è più basso quando l’esercizio è praticato lontano dai pasti (es. al mattino prima di colazione) quando i livelli di insulina sono bassi → L’attività fisica al pomeriggio o alla sera può comportare un’ipoglicemia notturna → Se possibile programmare l’attività fisica lontano dal tempo delle iniezioni d’insulina Il luogo di somministrazione dell’insulina determina di: ✓ Evitare l’esercizio fisico durante il picco di azione dell’insulina ✓ Ridurre la dose d’insulina quando l’esercizio fisico è programmato ✓ Somministrare insulina in aree non coinvolte dall’attività muscolare Per quanto riguarda l’assunzione di cibo è necessario: Consumare uno spuntino di carboidrati quando serve per evitare l’ipoglicemia Disporre di cibi contenenti carboidrati durante e dopo l’esercizio Vantaggi e rischi dell’esercizio fisico I vantaggi che riguardano l’esercizio fisico sul diabete di tipo I sono i seguenti: ❖ Riduce il fabbisogno d’insulina esogena e può migliorare il controllo glicemico a lungo termine ❖ Concorre al miglioramento del quadro lipidico, della pressione arteriosa e riduce il rischio cardiovascolare ❖ Favorisce il controllo del peso L’esercizio fisico preferibile è un esercizio prolungato e regolare (30-60 min, 3-4 volte alla settimana) ed intenso (60-75% del VO2max). Non è proibito somministrare attività anaerobica ai soggetti diabetici di tipo I, anzi ultimamente sono usciti molti studi che affermano che esercizi isometrici con pesi piccoli ed frequenti ripetizioni possono essere utili nel soggetto diabetico poiché non si incorre nella produzione di un’importante lattacidemia, ma al contempo inducendo l’ipertrofia del muscolo si aumenta la capacità del muscolo stesso di captare glucosio e ciò comporta una riduzione ulteriore della quota d’insulina di cui la persona ha bisogno e quindi si riduce anche la probabilità di ipoglicemia. I rischi riguardanti l’esercizio fisico in soggetti con diabete di tipo I sono: La risposta all’esercizio fisico acuto (attivazione adrenergica con aumento dell’inotropismo cardiaco, della frequenza, della porta e della pressione arteriosa) può aggravare le condizioni di microcircolo già compromesso A livello retinico possiamo assistere a fenomeni di stravaso capillare, microtrombi e microemorragie A livello renale si può verificare microalbuminuria I pazienti con neuropatia sono a rischio di un’alterata funzione cardiovascolare sia durante che dopo l’esercizio È necessaria un’attenta valutazione clinica del soggetto prima di iniziare un’attività fisica. Scelta dello sport da praticare Per comprendere quali sport scegliere troviamo: Sport raccomandati: Maria veloce, corsa leggera (jogging), nuoto, sci (fondo o discesa), tennis, equitazione, golf Sport autorizzati: calcio, pallacanestro, pallavolo, ciclismo, pallamano, canottaggio, canoa, atletica leggera, ginnastica artistica, danza classica Sport sconsigliati: pugilato, lotta libera o greco-romana, alpinismo, paracadutismo, sci estremo, sport subacquei, sport motoristici Possono creare problemi gli sport che richiedono sforzi fisici brevi ed intensi (es. corsa veloce su breve percorso es. 100-200 m), quelli che richiedono velocità massima con scatti finali, il sollevamento pesi. Da evitare gli sport che comportano frequenti sobbalzi o scuotimenti del capo (pugilato, sport motoristici). Al contrario se lo sport è progressivo e dura parecchie ore, il diabetico può adattare il proprio metabolismo con gli opportuni accorgimenti. Valutazione del paziente diabetico prima dell’attività fisica La valutazione del paziente diabetico prima dell’attività fisica riguarda: 1. Sistema vascolare: il rischio cardiovascolare si basa sui seguenti criteri: età > 35 anni, durata del diabete di tipo II > 10 anni, durata del diabete di tipo I > 15 anni, presenza di fattori di per malattia coronarica, presenza di complicanze microangiopatiche (retinopatia proliferativa o nefropatia inclusa la microalbuminuria), vasculopia periferica e neuropatia autonomica 2. Arteriopatia periferica: valutazione clinica ed ECO-doppler 3. Retinopatia: i pazienti con retinopatia proliferante dovrebbero evitare l’esercizio anerobico o attività fisiche intense o che comportino la manovra di Valsalva (espirazione forzata a glottide chiusa). I pazienti con retinopatia proliferante o non proliferante richiedono frequenti controlli oculari. 4. Nefropatia: non ci sono specifiche raccomandazioni per i pazienti con nefropatia incipiente (microalbuminuria). I pazienti con nefropatia manifesta, spesso hanno ridotta capacità di esercizio che li autolimita. Deve comunque essere sconsigliata un’attività ad alta intensità o strenua. 5. Neuropatia periferica: la perdita della sensibilità ai piedi determina una limitazione del carico al quale sottoporre la persona. L’esercizio ripetitivo su un piede insensibile può favorire la formazione di ulcere o fratture. 6. Neuropatia autonomica: può limitare la capacità di esercizio dell’individuo e aumentare il rischio di eventi avversi cardiovascolari durante l’esercizio. La presenza di una cardiopatia può essere indicata da: tachicardia basale > 100 b/min, ipotensione ortostatica (caduta della PA sistolica > 20 mmHg al passaggio in ortostatismo), altri disturbi indicanti neuropatia autonomica: alterazioni cutanee o degli annessi, delle pupille, del tratto gastroenterico o genito-urinario. Morte improvvisa o ischemia miocardica silente possono essere attribuite alla neuropatia autonomica nel diabete. Ipotensione od ipertensione possono seguire un esercizio vigoroso nei pazienti con neuropatia autonomica, specie nelle fasi iniziali del training. Dato che i diabetici possono presentare difficoltà nella termoregolazione va evitato l’esercizio in ambienti troppo caldi o freddi. È necessaria, inoltre, un’adeguata idratazione. Più è complicato il soggetto e minore è lo spettro di attività fisica che si può somministrare. L’attività fisica raccomandata è sempre di tipo aerobico e deve cominciare attraverso una fase di riscaldamento con 5-10 min di attività aerobica a bassa intensità che prepara il cuore, l’apparato muscolo-scheletrico e i polmoni ad un progressivo incremento dell’intensità dell’esercizio. Seguono poi altri 5-10 min di stretching muscolare dolce. L’attività fisica deve essere programmata. Infine, al termine della seduta, sono necessari 5-10 min di “raffreddamento” (attività analoga al riscaldamento) che riporti gradualmente la frequenza cardiaca ai livelli basali. Le precauzioni da tenere sono: o Uso di apposite suolette areate o di silicati gel e di calzini di poliestere o cotone-poliestere per tenere il piede asciutto e minimizzare i traumi o Bracciale d’identificazione visibile durante l’esercizio o Adeguata idratazione prima, durante e dopo l’esercizio o Esercizi ad alta resistenza con i pesi possono essere accettati in soggetti giovani, ma non in soggetti anziani o con lunga durata di diabete o Programmi di training che utilizzano pesi lievi con molte ripetizioni dell’esercizio possono essere usati per mantenere o potenziare la forza nella maggior parte dei soggetti diabetici ESERCIZIO FISICO E DIABETE MELLITO DI TIPO II Importanza dell’esercizio a lungo termine per il trattamento e la prevenzione del diabete di tipo II e delle sue complicanze Una migliore gestione del diabete determina una minor possibilità di sviluppare complicanze dovute al diabete stesso. Nel diabete di tipo II bisogna effettuare il controllo glicemico e un esercizio con intensità di 50-80% del VO2max, 3-4 volte la settimana per 30-60 min affinché si conquisti un miglioramento dei parametri di controllo metabolico. Un buon controllo metabolico è condizione indispensabile alla prevenzione delle complicanze del diabete. L’esercizio determina un aumento della sensibilità all’insulina. L’esercizio fisico, nel diabete di tipo II permette la prevenzione delle malattie cardiovascolari poiché si assiste ad un aumento della sensibilità all’insulina (effetti benefici sui fattori di rischio cardiovascolari). Nel diabete di tipo II l’insulino-resistenza è un importante fattore di rischio per l’insorgenza precoce di coronaropatia, associandosi spesso a ipertensione arteriosa ed anomalie dei lipidi serici (ipertrigliceridemia, basse HDL, presenza di LDL aterogene, aumento di FFA). L’attività fisica regolare: induce un profilo lipidico meno aterogeno, riduce i livelli di trigliceridi (VLDL), aumenta il colesterolo HDL, riduce le LDL, riduce i livelli di pressione arteriosa in modo rilevante nei pazienti con iperinsulinemia e favorisce la perdita di peso. Aiuta a prevenire il diabete di tipo II migliorando la sensibilità all’insulina. Esercizio fisico aerobico L’esercizio fisico aerobico migliora la sensibilità insulinica e il controllo glicemico può prevenire l’insorgenza di diabete di tipo II in soggetti a rischio. Gli effetti ottenuti sono dovuti a: aumento del flusso ematico ai tessuti insulino-sensibili, aumento della proporzione di fibre muscolari di tipo I (aerobiche, a conduzione lenta) che sono più sensibili all’azione dell’insulina rispetto alle fibre di tipo II (anaerobiche), diminuzione del grasso totale ed in particolare addominale “insulino-resistente”, aumento dell’azione postrecettoriale dell’insulina (↑ contenuto di GLUT4 nel muscolo, ↑ traslocazione di GLUT4 alla superficie cellulare). Nell’esercizio fisico ad alta intensità la glicemia aumenta nei primi 30 min. Nel diabetico si ha un aumento della glicemia più precoce e maggiore in termini assoluti (ridotta utilizzazione). Inoltre le catecolammine ed il glucagone inducono un aumento della glicemia maggiore rispetto al normale. Tuttavia nel diabetico dopo 24 ore dall’esercizio l’utilizzazione del glucosio è maggiore del 30% rispetto a prima dello sforzo. Una singola seduta di attività fisica si associa ad aumento della sensibilità all’insulina che comporta un decremento acuto dei livelli di glicemia che può durare ore o giorni. Come nel diabete di tipo I, l’esercizio fisico risulta particolarmente vantaggioso nei pazienti con diabete lieve o moderato, cioè con glicemia a digiuno < 200 mg/dl. Se invece il soggetto è in cattivo compenso (glicemia > 250 mg/dl) o vi è chetosi (presenza di corpi chetonici), rara peraltro nel diabete di tipo II, non è consigliabile alcun’attività fisica fino al ripristino di un adeguato controllo metabolico. Nel diabete di tipo II è rara l’ipoglicemia, ma può presentarsi in pazienti in terapia con ipoglicemizzanti orali (monitorare la glicemia e ridurre la dose o sospenderla) o insulina (ridurre la dose). Va tenuto inoltre presente che l’azione ipoglicemizzante di tali farmaci può durare a lungo a seconda del composto in uso. Raccomandazioni per un corretto esercizio fisico Le raccomandazioni per un corretto esercizio fisico nel diabete di tipo II riguardano: ▪ Valutazione della presenza di complicanze (diabetologo) ▪ Valutazione della presenza di malattia ischemica silente (cardiologo) ▪ ECG da sforzo nei pazienti di età superiore ai 35 anni ▪ Valutazione della terapia con ipoglicemizzanti orali e/o insulina ▪ Valutazione della terapia con farmaci antiipertensivi Il programma dell’esercizio fisico deve essere il seguente: ✓ Tipo: aerobico ✓ Intensità: 50-70% del VO2max ✓ Durata: 20-60 min ✓ Frequenza: 3-5 volte a settimana I potenziali effetti indesiderati sono i seguenti: → Cardiovascolari: aritmie ed effetti avversi sulla funzione cardiaca causanti ischemia, aumento eccessivo della pressione arteriosa, ipotensione ortostatica dopo l’esercizio → Microvascolari: emorragia retinica, aumento della proteinuria, accelerazione delle lesioni microvascolari → Metabolici: peggioramento della chetosi e dell’iperglicemia, ipoglicemia in pazienti trattati con insulina o ipoglicemizzanti orali → Muscolari e traumatici: ulcere (piede, specie in presenza di neuropatia), traumi di pertinenza ortopedica (causati dalla neuropatia), accelerazione dei problemi degenerativi alle giunture, traumi oculari ed emorragia retinica È necessaria un’attenta valutazione clinica del soggetto prima di iniziare un’attività fisica. FISIOPATOLOGIA E NEUROREGOLAZIONE DELL’ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-GONADI Il sistema endocrino funziona per assi. L’ipofisi è una ghiandola presente all’interno della sella turcica. La sella turcica è una sede anatomica il cui pavimento osseo risiede nell’osso dello sfenoide, alla base del cranio, esattamente sopra alle cavità nasali, e contiene le cellule che producono gli ormoni che controllano tutte le altre ghiandole endocrine. Queste cellule contenute nell’ipofisi prendono il nome di tropine ipofisarie, così chiamate poiché regolano la funzione di tutti gli altri organi endocrini. Nell'ipofisi sono presenti le gonadotropine, cioè degli ormoni ipofisari che regolano il trofismo, cioè la salute delle gonadi maschili e femminili. Le tropine ipofisarie, prodotte a livello dell’ipofisi, vengono liberate nel circolo venoso, vengono drenate dalle vene ipofisarie e passano nel circolo periferico generale. Dopodiché le tropine ipofisarie vengono drenate dalle vene del collo, entrano nell’atrio destro, attraversano il circolo polmonare, si ossigena il sangue che torna al cuore e viene drenato in tutto il resto dell’organismo. Le tropine ipofisarie sono ormoni di grosse dimensioni perché devono sopravvivere nel circolo a lungo, e vanno a stimolare solamente le cellule che ne possiedono il recettore, ossia le gonadi maschili e femminili. Le gonadi, a loro volta rispondono allo stimolo delle tropine ipofisarie, producendo gli ormoni sessuali steroidei. Sia le gonadi maschili sia le gonadi femminili sono in grado di produrre androgeni e le gonadi femminili sono in grado di produrre anche ormoni estrogeni. L’ipofisi però non funziona da sola, ma riceve degli stimoli provenienti dall’ipotalamo, una zona del cervello localizzata al di sopra dell’ipofisi (in mezzo al cervello), dove esistono dei nuclei cellulari di neuroni che producono dei fattori di rilascio che rappresentano degli stimoli per l’ipofisi. Questi neuroni rilasciano il loro prodotto di secrezione in un sistema venoso che va dall’ipotalamo all’ipofisi e si tratta di peptidi molto piccoli con una brevissima emivita. Anche l’ipotalamo non è un organo indipendente, infatti riceve tutte le afferenze dall’ambiente esterno (es. temperatura, pressione, livelli di glicemia, stress, pressione fisica e psicologica…), integrano tutti i messaggi e rilasciano il loro prodotto di secrezione nel sistema portale ipotalamo- ipofisario e il prodotto così riesce a raggiungere l’ipofisi. Tutti questi ormoni vengono prodotti in modo pulsatile. La pulsatilità della secrezione di tali sostanze rappresenta la chiave della vita, infatti nel momento in cui smette la pulsatilità il sistema non funziona più. Ecco perché la salute di un essere umano si misura anche sulla sua capacità riproduttiva, perché se può riprodursi significa che il sistema funziona bene, quindi tutto il resto dell’organismo è in omeostasi. Gli ormoni sessuali steroidei sono un gruppo di sostanze naturali e artificiali caratterizzate da una struttura costituita da 4 anelli idrocarburici condensati che prende il nome di ciclo pentano-peridrofenantrene, e rappresenta l’ossatura del colesterolo. Attaccando allo scheletro delle altre desinenze ossia degli altri gruppi funzionali, si ottengono una serie di sostanze rappresentate dagli ormoni steroidei, cioè i glucocorticoidi e gli ormoni sessuali, ma anche una serie di sostanze come: steroli, acidi biliari, sapogenine e ormoni cortico-surrenalici. Il nostro organismo è in grado di produrre: ormoni steroidei, acidi biliari, alcuni steroidi e poche sapogenine. L’ipofisi è grande come un fagiolo borlotto ed è localizzata nella scatola cranica, all’interno della sella turcica che e costituita, in parte, dall’osso sfenoide che partecipa alla costituzione della base del cranio. Nel caso di un trauma cranico, si può avere un danno non solo all’ipofisi, ma soprattutto al peduncolo che collega l’ipofisi al SNC, laddove è presente l’ipotalamo e attraverso il quale passa il sistema venoso portale che trasporta gli stimoli ipotalamici verso l’ipofisi e passano anche alcune fibre nervose che compongono l’ipofisi posteriore. L’ipotalamo produce un fattore di rilascio chiamato GnRH (Gonadotropin Releasing Hormone → Fattore o Ormone di Rilascio delle Gonadotropine), il quale viene secreto nei sistemi portali ipotalamo-ipofisario e arrivano nell’ipofisi anteriore dove stimola solamente le cellule gonadotrope dell’ipofisi anteriore. A loro volta, queste cellule producono 2 ormoni: l’ormone luteotropo o luteinizzante (LH) e l’ormone follicolo-stimolante (FSH). Questi ormoni si chiamano nello stesso modo sia nel maschio sia nella femmina, ma prendono il loro nome da strutture tipicamente femminili, cioè il corpo luteo e il follicolo ovarico. Si chiamano così anche nell’uomo, possiedono la stessa funzione, ma hanno strutture differenti. A loro volta le gonadotropine prodotte dall’ipofisi, vengono rilasciate nel sistema venoso circolatorio generale, attraversano il circolo polmonare e vengono distribuite a tutto il corpo fino ad arrivare all'organo bersaglio che nell’apparato produttivo femminile è l’ovaio. Solitamente gli esseri umani di sesso femminile possiedono 2 ovaie e sono organi addominali localizzati nel piccolo bacino, appoggiati lateralmente rispetto alle tube ovariche e all’interno possiedono la capacità di produrre i gameti (cellule con metà corredo cromosomico di un essere umano in modo che possa ricevere l’altra metà del corredo cromosomico da un donatore di sperma) e gli ormoni sessuali steroidei rappresentati da estrogeni e progesterone, i quali sono prodotti in quantità e momenti differenti nell’arco della vita riproduttiva della donna. La menopausa esiste poiché, al contrario della gonade maschile, la gonade femminile ha una capacità limitata di produrre gameti, infatti alla nascita è presente un numero già definito di follicoli primordiali, ossia cellule che diventeranno il gamete. Finita la scorta di follicoli primordiali, l’ovaio non serve più e non si producono nemmeno più gli ormoni ed ecco che entra in gioco la menopausa. Una bambina quando nasce possiede una quantità limitata di follicoli primordiali all’interno delle ovaie e nel momento della pubertà vanno incontro ad un’attivazione in modo che i gameti possano raggiungere la maturazione, essere espulsi dall’ovaio e incontrare, nelle vie riproduttive femminili, un gamete del sesso maschile che possa fecondarlo per dar luogo ad una nuova vita. Tutto ciò è finalizzato alla riproduzione; infatti l’asse gonadale non è una priorità per la sopravvivenza del singolo individuo, ma è una priorità per la sopravvivenza della specie. Se un individuo si ritrova in una condizione di riserva energetica, la prima cosa che si spegne è l’asse riproduttivo. I fattori che interessano l’asse gonadale sono i seguenti: GnRH → Ormone di rilascio delle gonadotropine: peptide ipotalamico di 10 aa, prodotto nell’area preottico-mediale e nel nucleo arcuato in modo discontinuo. Stimola la secrezione ipofisaria di LH. LH → Ormone luteotropo o luteinizzante: glicoproteina di 28 kDa (possiede 2 subunità: α e β) 𝐭 prodotta dalle cellule gonadotrope dell’ipofisi in modo pulsatile e ha un di 30 min, con 𝟐 picchi ogni 60-90 min. Controlla la produzione di estrogeni da parte delle cellule ovariche e tramite feedback negativo il progesterone riduce la frequenza dei picchi di LH, mentre gli estrogeni ne riducono l’ampiezza. Determina la rottura del follicolo maturo, quindi l’ovulazione; inoltre induce la luteinizzazione delle cellule della granulosa ed ha un’azione trofica sul corpo luteo. FSH → Ormone follicolo-stimolante: glicoproteina di 33 kDa (possiede 2 subunità) prodotta 𝒕 dalle cellule gonadotrope dell’ipofisi in modo pulsatile e ha un di 3 ore. 𝟐 Stimola la moltiplicazione delle cellule della granulosa e la loro attività aromatasica. I follicoli ovarici rappresentano le unità funzionali ovariche, contenenti ciascuna un ovocita, cellule della granulosa e cellule tecali. Le cellule tecali circondano le cellule della granulosa in strati concentrici e producono gli androgeni ovarici (androstenedione, DEA, testosterone) ed il progesterone. Le cellule della granulosa circondano gli ovociti, produc