Cenni di Ecotossicologia PDF
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Università del Piemonte Orientale
Antonio Calisi
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These lecture notes cover the topic of ecotoxicology. They discuss the effects of chemical and physical agents on living organisms, particularly populations and communities within defined ecosystems. The notes explore the processes of substance distribution and interaction with the environment. The material integrates principles of toxicology, environmental chemistry, and ecology.
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Corso di Laurea in Scienze Biologiche Dipar mento di Scienze e Innovazione Tecnologica Università del Piemonte Orientale Corso di Ecologia, sede di Vercelli Cenni di ecotossicologia...
Corso di Laurea in Scienze Biologiche Dipar mento di Scienze e Innovazione Tecnologica Università del Piemonte Orientale Corso di Ecologia, sede di Vercelli Cenni di ecotossicologia Prof. Antonio Calisi L’ecotossicologia: L’ecotossicologia è la “scienza che studia gli effetti degli agenti fisici e chimici sugli organismi viventi, in particolare sulle popolazioni e comunità all’interno di definiti ecosistemi; essa comprende anche lo studio delle modalità di diffusione di questi agenti e le loro interazioni con l’ambiente”. L’ecotossicologia quindi, utilizzando metodi e concetti propri della tossicologia applica i principi dell’ecologia e della chimica ambientale allo studio degli effetti delle sostanze tossiche sugli ecosistemi. L’ecotossicologia si configura quindi come una scienza multidisciplinare, che si basa sui concetti della Tossicologia classica (valutazione degli effetti sull’uomo) della Chimica ambientale, (destino delle sostanze nell’ambiente) e dell’Ecologia (che fornisce indicazioni sui processi che regolano la struttura e funzione degli ecosistemi e le interazioni tra la componente biotica e abiotica) per produrre informazioni adeguate per gestire sostanze potenzialmente pericolose. L’Ecotossicologia è da non confondere con Tossicologia Ambientale In Tossicologia Ambientale non solo le sostanze propriamente tossiche vengono considerate, ma anche tutte quelle che possono provocare squilibri trofici o alterare la composizione di un ecosistema, come i nutrienti o la materia organica; pertanto, importanti sono i processi di interrelazione tra le componenti di un sistema, come gli scambi di materia ed energia Quindi la Tossicologia Ambientale è una branca della Tossicologia che studia effetti dei contaminanti sui sistemi naturali. L’Ecotossicologia è lo studio del destino e degli effetti dei contaminanti nell’ambiente con metodo scientifico, ovvero non limitandosi all’osservazione ed alla descrizione dei fenomeni, ma elaborando anche previsioni. Infatti, nelle procedure di valutazione del rischio di Sostanze chimiche si distinguono gli studi ecotossicologici da quelli tossicologici. L’ecotossicologia è la scienza che, utilizzando metodi e concetti propri della tossicologia, applica i principi dell’ecologia e della chimica ambientale allo studio degli effetti delle sostanze tossiche sugli organismi viventi, sulle popolazioni e comunità all’interno di definiti ecosistemi. L’ecotossicologia si può pertanto definire come quella scienza il cui fine è la stima del rischio tossicologico per l’ambiente attraverso lo studio degli effetti esercitati da contaminanti chimici sui sistemi biologici esposti. Lo scopo dell’ecotossicologia è quindi quello di: Identificazione e catalogazione delle sostanze inquinanti Monitoraggio e previsione della distribuzione degli inquinanti nell’ ambiente Valutazione degli effetti (impatto) degli inquinanti sulla componente biotica Individuazione delle procedure di risanamento e gestione dell’ambiente Generare informazioni che possano essere utilizzate a supporto decisionale nell’ambito della stima del rischio e del management ambientale Fornire supporto al mondo legale e giurisdizionale che regola lo sviluppo la produzione e il commercio di sostanze chimiche Sviluppare principi empirici e teorici per la comprensione del comportamento e degli effetti delle sostanze chimiche negli ambienti naturali Concetto di tossicità Il termine tossicità può essere definito come la compromissione di una o più funzioni di un dato sistema biologico (sopravvivenza, crescita, motilità, riproduzione, fotosintesi, ecc.) esposto ad una determinata sostanza. Affinché l’effetto tossico si manifesti, la sostanza, o un suo metabolita, deve raggiungere il sito di azione, ossia quella parte del sistema biologico dove esercita la sua azione tossica, ad una concentrazione e per un tempo ben determinati. Tali fattori dipendono da una complessa serie di processi interagenti quali: -ingresso -distribuzione -accumulo -metabolismo -escrezione Destino di un composto chimico in un sistema biologico I contaminanti vengono assorbiti, sostanzialmente attraverso tre apparati: Apparato respiratorio Tegumento Apparato gastrointestinale Le proprietà chimiche che facilitano il passaggio di un inquinante attraverso le membrane cellulari sono: Lipofilicità: facilita il passaggio attraverso la barriera lipidica Piccole dimensioni: consentono al composto contaminante d’insinuarsi tra le molecole che costituiscono le membrane Neutralità di carica consente alla sostanza tossica di evitare le interazioni con gruppi dotati di carica elettrica presenti in alcune molecole che compongono la membrana Dopo l’assorbimento una sostanza tossica è disponibile per essere traslocata attraverso l’organismo. La via di trasferimento è rappresentata dal sangue o dall’emolinfa. Composti dotati di sufficiente idrosolubilità vengono trasportati quali soluti nella porzione acquosa del sangue o dell’emolinfa, mentre sostanze lipofile possono associarsi alle lipoproteine e alle membrane delle componenti cellulari presenti nel sangue. L’ampiezza e la velocità di distribuzione dipendono dalla via di trasporto considerata e dai relativi flussi: in un sistema circolatorio chiuso il trasporto di una sostanza tossica a tutti i tessuti dell’organismo è più veloce rispetto ad un sistema circolatorio aperto Alcuni contaminanti a seconda delle loro caratteristiche fisico-chimiche possono accumularsi in specifici comparti dell’organismo, diversi dal sito d’azione. Tale processo è nella maggior parte dei casi reversibile. Le principali strutture dove avviene l’accumulo sono: Tessuto adiposo Scheletro o strutture calcaree come la valva dei molluschi Gli organismi possono reagire all’attacco dei contaminanti chimici attraverso una serie di processi biochimici capaci di modificare la natura chimica della molecola al fine di ridurne le proprietà tossiche. Tale processo è definito biotrasformazione e interessa contaminanti chimici organici lipofili. L’escrezione rappresenta il meccanismo attraverso cui un contaminante viene eliminato dall’organismo. Nei vertebrati le principali vie di escrezione sono rappresentate da: Bile Urina Arricchimento di contaminanti Gli organismi, durante i processi di scambio di materia con l’ambiente circostante possono dare luogo a fenomeni di arricchimento di contaminanti chimici. Tali fenomeni dipendono da vari fattori quali: - caratteristiche fisico-chimiche della sostanza - capacità degli organismi di accumulare nei loro tessuti la sostanza in questione - livello di esposizione - tempo di esposizione (organismi a vita breve come le alghe monocellulari e i batteri sono meno soggetti ai fenomeni di arricchimento rispetto ad organismi superiori a vita lunga). I fenomeni di arricchimento possono essere distinti in: Bioconetrazione Bioaccumulo Biomagnificazione Con il termine di bioconcentrazione si intendono i fenomeni di arricchimento attraverso le superfici respiratorie. Questo fenomeno interessa in particolar modo gli organismi acquatici per i quali prevalgono i fenomeni partitivi nell’arricchimento di sostanze inquinati da mezzo ambientale. Infatti, per gli organismi acquatici nel caso di molecole xenobiotiche, la bioconcentrazione può essere assimilata ad un processo di ripartizione tra il mezzo ambientale acquatico e le riserve lipidiche dell’organismo, quindi strettamente dipendente dalla lipofilicità della sostanza. Con il termine di bioaccumulo si intende l’arricchimento di una sostanza negli organismi viventi per qualunque via (respirazione, ingestione di cibo, contatto). Nel caso, infatti, degli organismi terrestri l’arricchimento all’interno dell’organismo di contaminanti chimici non è riconducibile a fenomeni partitivi come per gli organismi acquatici, ma avviene prevalentemente attraverso la via alimentare. I mammiferi e gli uccelli che si nutrono di pesci manifestano comunemente livelli di contaminazione di gran lunga superiori a quelli delle loro prede. Per biomagnificazione si intende il processo di trasferimento degli inquinanti attraverso le reti trofiche, con incremento della concentrazione di inquinanti all’interno dell’organismi passando da un livello trofico a quello successivo. Il concetto di biomagnificazione nei sistemi acquatici è stato introdotto per la prima volta nel 1967 in uno studio in cui si rilevava che la concentrazione di un insetticida della famiglia del DDT aumentasse nel passaggio dall’acqua agli organismi acquatici e in questi crescesse da preda a predatore per raggiungere concentrazioni molto elevate nel top predator di quella rete alimentare (uccello pescivoro). La biomagnificazione avviene sostanzialmente a causa di: Alta efficienza di trasferimento dei contaminanti dal cibo al consumatore Assenza di perdite significative dall’organismo Poiché ad ogni passaggio della catena alimentare la biomassa complessiva del livello trofico considerato diminuisce, le sostanze si concentrano progressivamente passando da un livello trofico al livello trofico successivo. Effetto degli inquinanti chimici sulle funzioni dell’organismo L’entità degli effetti di una sostanza tossica sugli organismi (ossia l’ampiezza delle conseguenze negative della presenza del tossico sulle funzioni vitali di un organismo) dipende: dalla natura della sostanza tossica dall’efficienza dei meccanismi di detossificazione e di riparazione dell’organismo dall’intensità dello stress chimico, ossia dal rapporto concentrazione / tempo di esposizione Perché l’azione della sostanza tossica comprometta importanti aspetti della fisiologia dell’organismo è necessario che l’intensità dell’insulto chimico prevarichi le strategie di difesa e i meccanismi di riparazione del danno che si attivano a livello cellulare. In tal modo il danno molecolare, non compensato, si traduce in alterazioni del funzionamento di organi e apparati. Un contaminante chimico diventa nocivo per l’organismo nel momento in cui compromette i processi fisiologici che consentono di mantenere costanti le caratteristiche chimico-fisiche dell’organismo, cioè l’omeostasi dell’organismo stesso. La progressione lungo il continuum dallo stato di omeostasi allo stato di patologia è determinata dal definitivo sbilanciamento tra i meccanismi di protezione e l’azione dell’inquinante. Gli effetti nocivi che un contaminante chimico può esercitare su di un organismo dipendono dalla natura della sostanza in esame, dal rapporto tra concentrazione e tempo di esposizione e dalle condizioni dell’organismo stesso. Quando un organismo in condizioni d’equilibrio omeostatico è esposto ad un contaminante chimico con un’intensità (determinata dal tempo e/o della dose d’esposizione) che supera una certa soglia, allora l’omeostasi viene alterata e il contaminante diviene uno stressor. Parallelamente all’impatto negativo del tossico, si sviluppano delle risposte adattative e compensatorie specifiche ed aspecifiche, in risposta allo stress chimico che tendono a riportare il sistema ad uno stato d’omeostasi, collettivamente chiamate risposta integrata allo stress. Nel momento in cui però le risposte adattative e compensatorie che riportano l’omeostasi, ad un determinato livello funzionale, non sono sufficienti a bilanciare l’azione del tossico, tali risposte vengono soverchiate. Se l’esposizione persiste, sempre maggiore energia viene impiegata per le risposte compensatorie e riparatorie e sempre minore risulta quella disponibile per le altre funzioni dell’organismo. Il potenziale di sopravvivenza comincia a diminuire poiché la capacità di fronteggiare ulteriori cambiamenti ambientali è compromessa. La tossicità primaria di un contaminante si esercita, in linea generale, a livello biochimico e molecolare (modificazioni di attività enzimatiche, alterazioni a livello del DNA, alterazioni dei prodotti metabolici, ecc.), e solo successivamente gli effetti si possono riscontrare, con un meccanismo a cascata, ai livelli successivi dellorganizzazione gerarchica. Quando i meccanismi compensatori e riparatori di un determinato livello funzionale non riescono più a fronteggiare l’azione dell’inquinante, l’effetto negativo si manifesta nei livelli biologici strutturali e funzionali superiori. Pertanto, l’effetto negativo si manifesta con danni ai livelli d’organizzazione biologica strutturalmente e funzionalmente superiori a quello cellulare. L’effetto nocivo pertanto, si esplica innanzitutto a livello cellulare per poi interessare unità funzionali sempre più complesse quali organo e organismo con la comparsa di alterazioni geniche, cellulari e tissutali, inibizione del metabolismo, della crescita e dello sviluppo, dell’attività riproduttiva, della resistenza ai patogeni, che portano all’insorgenza di deformità e neoplasie, per estendersi, infine, a livello di popolazione con effetti che si riflettono sui rapporti tra individui della stessa popolazione. E’in questa fase che si possono sviluppare risposte di tipo comportamentale che si riflettono sui rapporti tra gli individui. Le interferenze successivamente si possono ripercuotere a livello di popolazione con alterazione tanto della sua struttura quanto della sua dinamica. Infine, le alterazioni delle popolazioni si possono riflettere, in tempi più lunghi, a livello di comunità con modifiche nella produttività, nella distribuzione spaziale, ecc. Riassumendo, si può dire che, in linea generale, la tossicità primaria di un inquinante si esercita, in tempi relativamente brevi (ore o giorni), a livello biochimico e molecolare. E ‘chiaro che più aumenta la complessità del “sistema” che si considera, maggiore sarà il tempo impiegato affinché l’effetto degli inquinanti si manifesti. Gli effetti negativi esercitati a bassi livelli di organizzazione biologica si esercitano su scale temporali ristrette e vengono definiti “early adverse effects” (effetti negativi precoci). Tali effetti possono rappresentare un primo campanello dallarme di situazioni che nel tempo potrebbero diventare a rischio ambientale. Secondo tale approccio, vengono impiegati criteri fisiologici e biochimici nella valutazione del rischio tossicologico al quale sono sottoposte le comunità degli ambienti sotto stress chimico. Intercorrelabilità degli effetti La tossicità primaria di un contaminante si esercita, in linea generale, a livello biochimico e molecolare (es. alterazione delle caratteristiche strutturali e funzionali delle molecole biologiche quali proteine, lipidi e acidi nucleici). Se tali alterazioni non sono sufficientemente compensate dalle risposte difensive e riparatorie dell’organismo confluiscono in alterazioni integrate che finiscono per compromettere il funzionamento di organi e sistemi. Alterazioni fisiologiche a carico, ad esempio, del sistema nervoso possono provocare alterazioni dell’attività locomotoria, dell’orientamento dell’equilibrio e così via, funzioni che sono di rilevante importanza per l’integrità dell’organismo, e che si traducono in alterazioni del comportamento. Alterazioni biochimiche, fisiologiche e comportamentali, se non compensate, possono tradursi in tempi più lunghi in profonde alterazioni del funzionamento dei meccanismi che consentono lo sviluppo e la crescita degli individui, il loro successo riproduttivo, il reclutamento di nuove classi d’età, ecc. La riduzione della velocità di crescita è una risposta generalizzata all’esposizione cronica a idrocarburi e metalli pesanti, osservabile sia nei vertebrati che negli invertebrati La riproduzione è un altro processo vulnerabile all’azione dei contaminanti chimici ambientali che possono agire a livello dei gameti, con danni istopatologici delle gonadi e alterazione dei gameti, alterazioni delle modalità d’azione degli ormoni sessuali, malformazioni degli embrioni. Alterazioni nello sviluppo e nella riproduzione si riflettono a livello di popolazione che può essere alterata tanto nella struttura, per riduzione della densità, della distribuzione spaziale, del rapporto tra le classi d’età e tra i sessi, che nella sua dinamica, intesa come crescita nel tempo. e alterazioni a livello di popolazione si riflettono in tempi ancora più lunghi a livello superiore di organizzazione biologica, sia con modificazioni nei rapporti tra le popolazioni che nella produttività, nella evoluzione temporale, nella distribuzione spaziale, ecc. Saggi tossicologici L’ecotossicologia si avvale di saggi tossicologici, prove che utilizzano sistemi biologici come bersaglio. Inizialmente l’uso di saggi biologici era rivolto unicamente alla definizione di ciò che era accaduto in passato, attualmente la prospettiva nella quale si inseriscono i saggi biologici include l’approccio predittivo, utilizzando le analisi come strumento previsionale per la valutazione del rischio ambientale. Misurare la tossicità di una sostanza significa trovare la massa minima di tale sostanza che produce un effetto dannoso a carico di un sistema biologico. a misura della tossicità di una sostanza viene effettuata allestendo specifici test di tossicità nei quali un gruppo omogeneo di organismi appartenenti alla stessa specie viene esposto a all’azione della sostanza da testare per periodi generalmente variabili a seconda che si valuti la tossicità acuta o cronica. Al termine della fase di esposizione possono essere misurati svariati “end-points” biologici (es. la mortalità, l’immobilizzazione degli organismi impiegati nei saggi, ecc.) e confrontati con quelli di organismi della spessa specie non sottoposti all’azione della sostanza tossica e utilizzati come organismi di controllo Nel corso di un test di tossicità bisogna distinguere tra “effetto” e “risposta”: - effetto, che indica il tipo di danno, ovvero la funzione biologica compromessa (come la sopravvivenza, la motilità, la velocità di crescita, ecc) - risposta, che corrisponde alla quantificazione dell’effetto, e viene generalmente espressa come % di incidenza in una certa popolazione (ad esempio un certo numero di animali da esperimento). In termini generali per incidenza si intende la proporzione di "nuovi eventi" che si verificano in una popolazione in un dato lasso di tempo dove per evento si intende la comparsa dell’effetto. Ad esempio nel caso in cui il test con una sostanza e con 20 trattati determina 5 morti, la percentuale di incidenza è del 25%. Se nel caso di un evento come la morte è facile quantificare l’evento in termini di incidenza, nel caso, invece, di risposte continue (es. variazioni di peso) bisogna effettuare una trasformazione quantale del dato (ossia di tipo “tutto o nulla”). In tal caso si individua un valore soglia (es. una variazione del 15%): al di sopra di tale variazione la risposta viene considerata come “tutto” e quindi l’evento viene conteggiato nel calcolo dell’incidenza; al di sotto di tale variazione la risposta viene considerata come “nulla”. La risposta biologica ad una sostanza tossica viene espressa come percentuale di incidenza. Le variabili indipendenti da cui dipende la risposta biologica sono: - il livello di esposizione - il tempo di esposizione Un saggio tossicologico richiede che un organismo vivente sia posto a contatto per un determinato tempo con una sostanza in esame e che si valuti la risposta mostrata dall’organismo. In particolare, i saggi tossicologici si basano sul principio di esporre per un tempo determinato un dato numero di organismi test a concentrazioni crescenti di una certa sostanza tossica, nel caso si tratti di una prova su singole sostanze, o a diverse diluizioni di un campione, se si tratta di un campione ambientale. L’obiettivo a cui si tende è lindividuazione della concentrazione (quantità biodisponibile) o della dose (quantità che penetra nellorganismo), alle quali il composto tossico è capace di pro durre uno o più effetti su organismi tenuti in condizioni controllate (concentrazione del composto tossico e durata dellesposizione). Gli individui differiscono significativamente tra loro per ciò che attiene alla suscettibilità nei confronti di una data sostanza chimica (alcuni rispondono a dosi molto basse, altri a dosi elevate). Per tale motivo sono state create delle relazioni dose-risposta per le sostanze tossiche, inclusi gli agenti ambientali. Il paradigma concettuale dose – risposta è stato formulato inizialmente per studi di laboratorio nei quali venivano misurate le risposte di un organismo esposto a dosi crescenti di un singolo inquinante chimico. Con questo criterio si può ricavare la LC50, (concentrazione letale mediana) che corrisponde alla concentrazione che provoca la morte del 50% degli organismi utilizzati in prova dopo periodi di tempo specifici (es.,48, 96 ore). Può anche essere valutata l’EC50 (50% di concentrazione efficace), diversa dall’ LC50 in quanto l’effetto misurato potrebbe non essere la morte. Altri indici che si possono calcolare sono: LD50 (Lethal Dose 50; dose letale mediana): rappresenta la dose di una sostanza chimica che determina la morte del 50% degli individui in saggi di tossicità acuta per somministrazione diretta, ad esempio, orale o intraperitoneale). Viene normalmente espressa in termini ponderali per unità di peso corporeo; LT50 (Lethal Time 50; tempo letale mediano): rappresenta il tempo necessario a determinare la morte del 50%degli individui esposti ad una concentrazione determinata di una sostanza (curva di tossicità: % di incidenza in funzione del tempo). NOEL (No Observed Effect Level): rappresenta il più alto livello (concentrazione o dose) al quale non si è osservato alcun effetto, deve sempre essere riferito alle specifiche condizioni sperimentali e non rappresenta un effettivo livello di sicurezza; LOEL (Lowest Observed Effect Level): rappresenta il più basso livello (concentrazione o dose) al quale si è osservato un effetto, come il NOEL, deve sempre essere riferito alle specifiche condizioni sperimentali. Per quanto riguarda gli studi in campo, l’utilizzo della relazione dose – risposta che si ottiene in laboratorio su organismi viventi negli ambienti naturali, può essere applicato solo con una certa cautela per svariati motivi: le popolazioni naturali di solito non sono esposte ad un singolo contaminante chimico, ma piuttosto ad un cocktail di essi; le popolazioni naturali sono soggette ad un insieme di fattori di stress che normalmente non possono essere riprodotti in laboratorio nelle stesse condizioni in cui si possono ritrovare in campo; le popolazioni in condizioni naturali possono rispondere in maniera differente ad una esposizione a contaminanti a seconda dello stato fisiologico (nutrizione, riproduzione, genetico) in cui si trovano i propri individui. L’interazione di tutti questi fattori può influenzare la relazione dose – risposta. Un altro paradigma concettuale è quello della risposta multipla. In un ambiente naturale un organismo in condizioni fisiologiche mantiene l’omeostasi. Se l’organismo è esposto ad una contaminazione esso attiva delle risposte compensatorie in cui si può verificare un incremento o un decremento di uno o più processi o funzioni fisiologiche e / o cambiamenti strutturali. Se l’esposizione perdura per periodi lunghi o incrementano i livelli di stressor, i meccanismi compensatori risultano insufficienti per cui si verifica un danneggiamento a livello cellulare che mette in moto meccanismi fisiologici riparatori. Con l’aumentare dell’esposizione si possono verificare delle risposte disfunzionali quali riduzione del peso corporeo, alterazione del comportamento, che aumentano la probabilità dell’organismo di incorrere in patologie e / o a morte. Infatti in tali condizioni l’organismo impiega sempre più energia per tentare di ristabilire l’omeostasi, energia che viene sottratta alle normali funzioni dell’organismo. Saggi ecotossicologici: I saggi ecotossicologici sono numerosi e standardizzati già da parecchi anni su organismi appartenenti a tutti i livelli della rete trofica. Le metodiche tossicologiche sono utilizzate per la determinazione e la valutazione degli effetti tossici acuti e cronici esercitati da matrici ambientali contaminate, su organismi o gruppi ad esse esposte. L’effetto tossico acuto si evidenzia in un lasso di tempo breve e, comunque, inferiore al tempo di generazione dell’organismo in esame, e prevede la valutazione di endpoints facilmente evidenziabili quali, ad esempio, l’immobilizzazione o la morte degli organismi impiegati nei saggi. L’effetto tossico cronico si sviluppa, viceversa, in un periodo di tempo più elevato, può coinvolgere più generazioni di individui esposti e produce risposte che non compromettono la sopravvivenza degli organismi. Il principale vantaggio offerto dai test di tossicità consiste nella possibilità di operare in condizioni strettamente controllate, standardizzate e, quindi, ripetibili caratteristiche che hanno reso questo approccio più facilmente inseribile in numerose normative nazionali e internazionali. Inoltre, essi sono di grande utilità come metodo per studiare la vulnerabilità degli organismi a diversi principi attivi e nella valutazione della tossicità di effluenti industriali. Tuttavia, l’applicabilità dei test è meno efficace quando si debba effettuare una valutazione del rischio ambientale che sostanze tossiche possono avere sugli organismi di una determinata comunità quando siano esposti nel loro ambiente naturale. Biodisponibilità Non è vero che la concentrazione totale di una sostanza misurata dopo estrazione, sia tutta biodisponibile. La frazione di tossico biodisponibile è di solito quella disciolta nella fase acquosa, acqua della colonna o acqua interstiziale del sedimento, o quella presente allinterno dellorganismo, mentre quella legata al particolato è considerata non disponibile. Nel caso dei sedimenti, dove i contaminanti vengono sequestrati raggiungono alte concentrazioni di sempre producono effetti sugli organismi che vi abitano. Condizione necessaria affinchè si possano produrre effetti tossici sul biota è che la sostanza risulti biodisponibile, cioè presente in uno stato in cui può essere assorbita dall’organismo. La capacità di una sostanza di creare disfunzioni nel sistema dipenderà dalla sua tossicità intrinseca (o dei suoi metaboliti) dalla potenzialità di alterare gli equilibri del sistema. Le caratteristiche chimico- fisiche della matrice ricevente, acqua o sedimenti, gioca un ruolo molto importante nella speciazione di una sostanza, la sua presenza in una matrice piuttosto che in altra (si parla della frazione disciolta in acqua o adsorbita ai solidi), la sua biodisponibilità verso gli organismi. Importante è quindi il livello di concentrazione di una sostanza a cui un organismo è effettivamente esposto. Per matrici solide la biodisponibilità e la tossicità dei contaminanti ad essi associati può essere influenzata da diversi fattori fisici, chimici e biologici: Sedimentazione, risospensione e diffusione; Caratteristiche chimico-fisiche della colonna d’acqua, acqua interstiziale, particolato (T, pH, durezza, alcalinità, contenuto di carbonio organico e materia organica, composizione dei sedimenti; Presenza di solfuri acidi volatili, metalli competitori, agenti chelanti Tipo di organismo, dimensioni, comportamento alimentare; Vie di esposizione (alimentazione, respirazione, contatto) La frazione biodisponibile sarà quella: assorbita dagli organismi per ingestione di particelle solide e detriti organici, attraverso la respirazione nellacqua interstiziale, per assorbimento della superficie corporea, rilasciata dai sedimenti nella colonna dacqua disponibile per trasferimento lungo la catena alimentare per intossicazione secondaria di organismi predatori che si cibano dr prede che hanno accumulato il contaminante. Biomonitoraggio Con il termine di monitoraggio si intende una serie di rilevamenti, di determinate variabili ambientali che siano indicative dello stato di salute degli ecosistemi, effettuati con una data frequenza in stazioni prestabilite, al fine di individuarne i cambiamenti e, in prospettiva, di effettuare previsioni di condizioni alterate. Il monitoraggio ambientale nasce e si sviluppa inizialmente sulla base dell’utilizzo di metodologie fisico-chimiche di rilevamento al fine di raccogliere informazioni periodiche su alcuni parametri “di base” di un ecosistema per aggiornare continuamente la conoscenza sullo stato e la dinamica evolutiva di un dato ambiente. I primi programmi di monitoraggio dell’inquinamento chimico ambientale erano sostanzialmente basati sull’analisi dei principali contaminanti presenti nelle matrici ambientali. Nonostante tale approccio continui ad essere molto diffuso sono evidenti i limiti che esso presenta se non integrato con altri metodi di indagine: Spesso la scelta dei contaminanti da analizzare non tiene strettamente conto delle specifiche realtà territoriali. Non sono fornite indicazioni su molecole non analizzate che potrebbero comunque trovarsi nell’ambiente. L’analisi chimica non tiene conto dei processi di trasformazione a cui molte sostanze possono andare incontro per fattori sia fisici che biologici. Ad esempio, molti idrocarburi aromatici sono metabolizzati dagli organismi e trasformati in molecole chimicamente diverse dal composto originario, ma non per questo meno rilevanti da un punto di vista ambientale. Infatti, le maggiori difficoltà riscontrate nelle misurazioni dirette delle alterazioni ambientali si verificano in presenza di basse concentrazioni d’inquinanti propagati da sorgenti puntiformi o diffuse, spesso discontinue, le cui sostanze immesse nell’ambiente subiscono trasformazioni ignote. E’ ben noto, ad esempio, che la maggior parte dei metalli pesanti associati ai sedimenti si ritrovano negli strati anossici sotto forma di solfuri o residui organici insolubili che non risultano però direttamente disponibili per gli organismi. Più in generale poi, le diverse forme chimiche con cui questi contaminanti si ritrovano nell’ambiente influenzano fortemente sia le cinetiche di accumulo, che la loro potenziale pericolosità. La valutazione degli effetti della contaminazione chimica sul biota è piuttosto difficile attraverso il solo utilizzo di indagini di tipo chimico per diversi motivi: diverse possono essere le vie di assunzione dei composti inquinanti nell’organismo; i contaminanti presentano una diversa biodisponibilità a seconda dei comparti ambientali; miscele di inquinanti possono generare interazioni biochimiche e tossicologiche; un tempo di latenza in genere molto lungo può verificarsi prima che si manifestino alterazioni a livello di popolazioni e comunità. Metodologie di indagine, quali ad esempio le analisi chimiche, possono non essere sufficienti pur essendo, le misurazioni chimiche del mezzo ambientale specifiche, quantitative e sensibili. Risulta, quindi, evidente come un monitoraggio di questo tipo risulti incompleto inadeguato e non consenta, di esprimere valutazioni relative al pericolo per gli organismi viventi, se non associato ad una valutazione degli effetti biologici attraverso ulteriori sistemi di analisi necessari per la valutazione dell’impatto prodotto dai contaminanti chimici ambientali sugli organismi; risulta pertanto necessario ricorrere a strumenti biologici ed ecotossicologici per una valutazione complessiva. I vantaggi del biomonitoraggio sono: costi contenuti e tempi di ricerca brevi possibilità di realizzare reti di monitoraggio su aree vaste, basate su un elevata densita di punti di campionamento possibilità di ottenere dati distinti e/o integrati su una vasta gamma di contaminanti possibilità di evidenziare gli effetti sinergici indotti da diversi contaminanti sull’ambiente ottimizzazione delle strategie di monitoraggio di tipo strumentale (es. localizzazione di centraline) A partire dalla fine degli anni ottanta hanno cominciato a svilupparsi metodologie finalizzate ad evidenziare l’effetto biologico provocato dai contaminanti chimici ambientali sugli organismi e tali da poter costituire un valido complemento alle analisi chimiche, al fine di ottenere una valutazione più completa del grado di inquinamento chimico di un dato ambiente. Si è sviluppato, dunque, un nuovo concetto di monitoraggio che prevede l’integrazione dell’approccio chimico con quello biologico. Il biomonitoraggio, pertanto, è una valutazione dello stato di alterazione dell’ambiente tramite organismi viventi, o meglio, viene definito come: “analisi di componenti degli ecosistemi reattivi all’inquinamento, per la stima di deviazioni da situazioni normali”. Esso comprende l’insieme delle metodologie che permettono di valutare lo stato di salute dell’ambiente sulla base degli effetti esercitati dai contaminanti chimici su organismi sensibili. E’ largamente accettato che il biomonitoraggio dell’ambiente gioca un ruolo vitale nelle strategie e nelle azioni atte ad identificare, controllare e ridurre gli effetti che un incontrollato cocktail chimico produce a livello delle comunità naturali. Negli ultimi anni si sono ottenuti notevoli progressi nell’ambito dello sviluppo di procedure di biomonitoraggio ambientale ai diversi livelli d’approccio strategico, dall’approccio su scala ecosistemica (studio delle risposte allo stress di popolazioni o comunità) al cosiddetto approccio dei test su micro-scala (Microscale Testing Approches). Gli effetti biologici degli inquinanti possono essere misurati ai vari livelli di organizzazione biologica, dal livello cellulare a quello ecosistemico. Ogni alterazione osservata a ciascun livello di organizzazione biologica, dal livello cellulare, a quello di organismo, di popolazione o di comunità può diventare un potenziale indice di stress chimico ambientale. Le analisi condotte ai vari livelli di organizzazione biologica forniscono indicazioni diverse e la scelta ma soprattutto l’interpretazione dei risultati ottenuti dovrebbe tenere in considerazione i vantaggi e i limiti insiti in ciascun sistema di analisi. E’ indubbio che il significato ecologico di un’alterazione aumenta se identificata ai livelli superiori di organizzazione biologica. Questo approccio ha tuttavia delle limitazioni per quanto riguarda la possibilità di identificare effetti precoci che si verificano cioè durante la fase iniziale di una situazione di disturbo ambientale: le alterazioni agli alti livelli alti dell’organizzazione biologica sono spesso piuttosto lente ed il loro studio non fornisce indicazioni fino a quando non siano avvenute sostanziali modificazioni ambientali. Inoltre, salendo lungo la scala di organizzazione biologica, aumenta la complessità del sistema e di conseguenza il numero di fattori e variabili che possono interagire ed il cui effetto deve essere attentamente considerato. L’effetto biologico dei contaminanti è legato alla loro frazione biodisponibile che, dipende dal tipo di sostanze chimiche presenti e dalle differenti condizioni ambientali. Come già detto in precedenza un’alterazione si riflette successivamente su un intero organismo modificandone i processi fisiologici con effetti che possono ripercuotersi con un meccanismo a cascata sui livelli successivi dell’organizzazione biologica. Il significato biologico quindi di un’alterazione, aumenta se questa è identificata ai livelli superiori di organizzazione biologica. Questo approccio comporta tuttavia dei limiti in relazione alla possibilità di identificare gli effetti precoci, vale a dire, gli effetti che si verificano durante le fasi iniziali di una situazione di disturbo ambientale. Triad Approach. Il metodo Triad è composto dallo sviluppo simultaneo di tre tipi indipendenti di analisi (detti pillars o linee di evidenza): “caratterizzazione chimica”, “caratterizzazione tossicologica” e “ecologica (ecological surveys)” e si fonda sul presupposto che la valutazione data dall’integrazione di queste ricerche dia un risultato meno incerto su cui basare la decisione finale in merito ad un eventuale intervento di bonifica sul sito contaminato. La prima linea di evidenza, ossia la caratterizzazione chimica, serve per determinare quali sostanzesiano presenti nel suolo a livelli elevati e per stimare l’impatto di tali sostanze sull’ecosistema in base alle proprietà tossicologiche delle sostanze stesse. La seconda linea di evidenza consiste nella caratterizzazione tossicologica ossia nell’analisi degli effetti tossici delle sostanze effettuata attraverso l’utilizzo di test ecotossicologici (bioassays). Si consigliano test semplici e standardizzati, ma non vengono fornite prescrizioni di dettaglio. Nella terza linea di evidenza, “ecologica” si valuta direttamente in campo l’esistenza di effetti osservabili sugli ecosistemi. Si raccomanda di includere monitoraggi di piante o semplici determinazioni dell’abbondanza e composizione della comunità biologica o delle popolazioni, in relazione a un sito scelto come controllo. Le tre linee portano a risultati di tipo molto diverso. Il metodo fornisce una modalità per pesare i singoli risultati e dei criteri di convergenza per permetterne poi la gestione e l’interpretazione. Organismi Bioindicatori Nei programmi di biomonitoraggio ambientale le risposte biologiche a stress chimico vengono misurate in organismi bioindicatori. La scelta delle specie bioindicatrici deve essere ponderata attentamente in un programma di biomonitoraggio. Selezione degli organismi oggetto d’indagine, poiché la loro scelta potrebbe determinare risultati assai differenti Definiamo “organismi bioindicatori” tutti quegli organismi che attraverso una serie di reazioni biochimiche, fisiologiche, morfologiche, ecc. facilmente identificabili forniscono informazioni sulla qualità ambientale. Il termine “bioindicatore” va distinto da quello di “bioaccumulatore”, che indica, invece, un “organismo in grado di sopravvivere alla presenza di un contaminante, assimilato dalle matrici ambientali accumulandolo e permettendone una qualificazione e una quantificazione”. Van Gestel e Van Brummelen (1994) ridefiniscono i termini di “bioindicatore” e “indicatore ecologico” in relazione ai diversi livelli di organizzazione biologica considerati e introducono il termine “bioaccumulation markers” per gli organismi bioaccumulatori. Dal livello di sub-individuo al quello d’intero organismo fino ad arrivare a livelli d’integrazione superiori alla singola specie, i due autori considerano: Bioindicatore è definito quell’organismo capace di dare informazioni sulle condizioniambientali del suo habitat mediante la sua presenza o assenza o mediante rispostebiochimiche, fisiologiche o comportamentali. Indicatore ecologico è un parametro che descrive struttura, composizione efunzionamento di comunità ed ecosistemi in risposta a situazioni di stress e che, pertanto,fornisce informazioni sulla qualità dell’ambiente (o di una parte di esso). Indicatori ecologicia livello di comunità sono, ad esempio, l’aumento dell’abbondanza di specie opportuniste, lariduzione della taglia media degli individui, la diminuzione della varietà di specie –biodiversità. Indicatori a livello d’ecosistema sono, ad esempio, gli indicatori di stato troficocome il cosiddetto TRophic IndeX o TRIX (recentemente introdotto in Italia a livellolegislativo). Bioaccumulation markers, sono gli organismi bioaccumulatori, distinti dagliorganismi bioindicatori in quanto non forniscono indicazioni su deviazioni dallo stato di salutedegli organismi che vivono in un dato ambiente. Infatti, la determinazione dei livelli di residuichimici nei tessuti di un organismo consente lo screening di una vasta gamma di contaminanti, ma questo approccio non fornisce alcuna indicazione circa il loro significato biologico e circa eventuali effetti sul biota. Se non ne viene precisato l’ambito, il termine bioindicatore può essere interpretato in maniera ambigua poiché viene correntemente utilizzato con riferimento al bioaccumulo di xenobiotici, o con riferimento ad alterazioni molecolari e fisiologiche all’interno dell’organismo, o con riferimento alle specie bioindicatrici o, ancora, con riferimento ad indici descrittori di struttura delle comunità e del funzionamento degli ecosistemi. Quindi bioindicatore è un organismo vivente che, in presenza di un inquinante o miscele di inquinanti, subisce variazioni rilevabili dello stato naturale. Un organismo può quindi essere considerato un buon bioindicatore qualora manifesti reazioni identificabili a differenti concentrazioni di dati inquinanti. In linea generale una specie, per essere scelta come bioindicatrice in uno studio di biomonitoraggio ambientale, deve avere alcune caratteristiche fondamentali quali: sensibilità agli inquinanti; ampia distribuzione nell’area di indagine; scarsa mobilità; lungo ciclo vitale; uniformità genetica. facile identificazione sistematica deve essere disponibile in letteratura un’approfondita conoscenza delle loro caratteristiche fisiologiche ed ecologiche Le specie bioindicatrici devono essere sufficientemente stanziali per essere indicativi dell’area da monitorare, inoltre devono essere abbondanti e facili da campionare. In particolare, la scelta dello strumento di bioindicazione sarà consequenziale alla scala topografica del progetto di studio. Per la valutazione della presenza e degli effetti degli inquinanti derivanti da sorgenti puntiformi in un ambito locale si impone la scelta di specie a ristretta mobilità; mentre l’impatto complessivo di tutte le attività di un grande bacino deve essere monitorato attraverso l’uso di specie ad ampia mobilità, con preferenza appartenenti ad un livello trofico elevato e quindi capaci di una buona integrazione. Inoltre, per un corretto utilizzo delle specie bioindicatrici si deve avere una buona conoscenza delle loro caratteristiche anatomiche, fisiologiche ed ecologiche e della variabilità naturale dei parametri scelti come biomarkers, per poter apprezzare correttamente le variazioni dovute alla contaminazione chimica. Tale scelta quindi, deve tenere conto di una serie di caratteristiche dell’organismo bioindicatore relative alla sua fisiologia, tipo di alimentazione, habitat, stile di vita. Questo insieme di caratteristiche va ad identificare la cosiddetta “nicchia trofica” che varia in funzione delle specie presenti nello stesso ambiente e che possono presentare diversi modi e diversi livelli di esposizione ai contaminanti chimici. L’entità delle variazioni mostrate dai vari biomarker in risposta allo stress chimico ambientale può variare molto in diverse specie a seconda della estrema sensibilità o resistenza che certi organismi esibiscono nei confronti di varie classi di contaminanti o in specifiche fasi del loro ciclo vitale. Per poter apprezzare variazioni biologiche provocate dai contaminanti chimici ambientali bisogna poter conoscere i valori base del biomarker. Un altro aspetto da considerare è la scelta tra popolazioni naturali ed il ricorso a tecniche di traslocazione. L’utilizzo di popolazioni naturali ha maggiore rilevanza da un punto di vista ecologico e permette di evidenziare l’insorgenza di condizioni di stress in organismi rappresentativi dell’area; tuttavia con questo tipo di approccio quando si vogliono confrontare popolazioni di una stessa specie ma geograficamente distanti può risultare difficoltoso operare il confronto in condizioni assolutamente simili. Inoltre, l’alterazione di alcuni processi molecolari o biochimici può rappresentare alle volte solo una risposta transitoria nella fase iniziale dell’esposizione al contaminante in quanto l’attivazione dei meccanismi compensatori o riparatori può portare questi processi a “valori normali” (anche se la causa di stress persiste); in tal caso l’alterazione indotta dai contaminanti del parametro studiato può essere osservata in organismi traslocati per un periodo breve (3-4 settimane) ma non negli organismi nativi. Esempio di bioindicatore: mitili Nell’ambito del biomonitoraggio marino costiero i molluschi bivalvi vengono riconosciuti come ottimi bioindicatori di contaminazione costiera ed estuarina e tra questii mitili (Mytilus spp) sono sicuramente le specie più ampiamente utilizzate. Grazie alla loro abitudine filtratoria e alla condizione di sessilità riescono ad accumulare i contaminanti chimici ambientali a livelli ben superiori rispetto a quelli delle matrici ambientali, e quindi, sviluppare risposte di detossificazione prima di altri organismi. Per quanto riguarda i vertebrati, nel monitoraggio marino costiero sono ampiamente utilizzate, come bioindicatori, specie di pesci come il Mullus barbatus che presentano scarsa mobilità e stretto rapporto con i sedimenti (comparto di accumulo di contaminanti chimici ambientali) La capacità di accumulare contaminanti, la facilità di raccolta, ampia distribuzione geografica, estrema tolleranza a condizioni sfavorevoli, facilità di adattamento, sono le caratteristiche che hanno permesso ai mitili di diventare la specie più studiata al fine della caratterizzazione e standardizzazione di risposte biologiche utilizzabili come biomarkers di contaminazione chimica ambientale. Una specie di mitilo ampiamente diffusa lungo le coste italiane e in generale del Mar Mediterraneo e ampiamente utilizzata nei programmi di biomonitoraggio è rappresentata dal Mytilus galloprovincialis. I mitili presentano un alimentazione microfaga costituita da batteri liberi, fitoplancton, larve, resti di organismi vegetali ed animali, particelle organiche sospese di diametro tra 2-5 μm. Grazie alle ciglia branchiali generano una corrente alimentare inalante. Tale corrente inalante sarà utilizzata per catturare il cibo mediante filtrazione. Il cibo viene trattenuto dai filamenti branchiali, invischiato in un cordone di muco nel solco alimentare che si estende per tutta la lunghezza della parte inferiore della branchia. Un mitilo di medie dimensioni può filtrare circa 4-5 litri di acqua all’ora trattenendo il 90% delle particelle contenute in essa. Il materiale trattenuto viene diretto verso palpi labiali e la bocca, agglutinato in un cordone mucoso, penetra nella bocca, e da qui viene convogliato attraverso un breve esofago ciliato nello stomaco che è avvolto da una grande massa ghiandolare (epatopancreas). Questo è formato da diverticoli digestivi consistenti in tubuli collegati con lo stomaco mediante un sistema di dotti ramificati. Due sono i tipi cellulari che si trovano nell’epitelio del tubulo ghiandolare: uno acidofilo e vacuolato responsabile della digestione (Bayne,1976) e uno piramidale e basofilo. I mitili possiedono un sistema circolatorio aperto in cui l’emolinfa si raccoglie in lacune sanguigne aperte e diffuse in tutto il corpo e, passando attraverso delle vene, facendo tappa negli organi escretori e le branchie, si dirige verso i due atri cardiaci; quindi l’emolinfa passa nei ventricoli e da qui in arterie che terminano nelle lacune sanguigne viste prime. Anche nell’emolinfa troviamo due tipi cellulari: i granulociti acidofili e gli ialinociti basofili. Noto è il ciclo biologico: i sessi sono separati tranne rari casi di ermafroditismo, la fecondazione avviene all’esterno. Tramite la colorazione delle carni si riconosce il sesso degli esemplari: rosso arancio per le femmine e bianco latteo per i maschi. Le femmine producono una sostanza che, una volta immessa nell’acqua di mare, provoca l’eiaculazione dei maschi; lo sperma a sua volta scatena nelle femmine la deposizione delle uova. Come detto tali animali sono utilissimi per studiare le risposte biologiche compensatorie e gli effetti biologici di danno che gli inquinanti chimici presenti in un dato ambiente marino costiero esercitano sugli organismi in esso presenti. La capacità di accumulare contaminanti chimici consente di sviluppare risposte biologiche compensatorie e riparatorie o manifestare effetti patologici prima di altri organismi. Da qui scaturisce la loro definizione di organismi “sentinella” Esempio di bioindicatore: lombrichi Tra i rappresentanti più importanti della catena del detrito del suolo, troviamo gli anellidi oligocheti. Essi sono abbondanti e fondamentali per la formazione del suolo e della materia organica. In molti ecosistemi sono responsabili del movimento di grosse quantità di terreno dagli orizzonti più profondi alla superficie. Inoltre, sono sensibili ai contaminanti chimici (in quanto si comportano come efficienti accumulatori di metalli pesanti, e sono fortemente sensibili allazione di numerosi tipi di pesticidi), sono facili da mantenere in condizioni controllate di laboratorio, esiste una vasta letteratura sulla loro biologia ed ecologia. Essi sono, pertanto, ampiamente utilizzati negli studi ecotossicologici sul suolo. Inoltre, possiedono molte delle caratteristiche che, in linea generale, sono richieste ad un organismo bioindicatore: Ampia distribuzione geografica (presenti in ambienti terrestri ed anche in ecosistemiacquatici, ad eccezione delle aree caratterizzate da uneccessiva e permanente disidratazioneoda temperature estremamente rigide per la maggior parte dellanno) Semplice reperibilità stagionale Semplicità di campionamento Omogeneità genetica e lungo ciclo vitale Semplicità di identificazione sistematica Approfondita conoscenza dei suoi vari aspetti fisiologici ed ecologici Dal punto di vista ecotossicologico i lombrichi sono, in genere, efficienti accumulatori di metalli pesanti, anche se presentano limiti di tolleranza diversi a seconda del tipo di elemento; per questo sono usati come organismi bioindicatori per la valutazione della presenza di metalli pesanti biodisponibili nel suolo. Tuttavia, a concentrazioni elevate i metalli pesanti sono in grado di indurre alterazioni funzionali in questi organismi a causa della loro capacità di catalizzare reazioni radicaliche (reazione di Fenton). Pertanto, nelle pratiche agricole l’utilizzo di compost non opportunamente inertizzati per ridurre il contenuto di metalli pesanti biodisponibili, oltre al rischio di bioaccumulo di metalli nei tessuti delle colture con possibile rischio per la salute umana, può provocare gravi danni ai lombrichi presenti nel suolo. I lombrichi, inoltre, sono molto sensibili al trattamento dei suoli con pesticidi e sono sensibili, ancora, a pesanti interventi di fertilizzazione minerale del terreno che possono provocare in essi fenomeni di stress osmotico. I lombrichi sono organismi molto importanti nell’ecologia del suolo. Essi sono, infatti, tra i rappresentanti più importanti della catena del detrito nel suolo, per il fondamentale contributo che danno in termini di stimolazione dellattività microbica, di mineralizzazione ed umificazione della sostanza organica, di positivi condizionamenti fisici, ovvero, in definitiva, per il mantenimento ed il miglioramento della fertilità dei terreni. I lombrichi sono anellidi oligocheti metamerici caratterizzati da un corpo suddiviso in un determinato numero di segmenti somatici, aventi tutti le stesse componenti strutturali. Nei primi quindici metameri (area cefalica) presentano: un ganglio cefalico (cervello), due paia di gonadi (maschili e femminili), cinque paia di cuori, un prostomio, una bocca, un esofago, un ventriglio ed uno stomaco che confluisce nel tubo digerente. Il corpo è organizzato in due cavità cilindriche: lintestino (interna), e il celoma (esterna), piena di un liquido che media gli scambi tra intestino, apparato circolatorio e strati epidermici. Un asse neuronale si estende ventralmente verso larea caudale, due vasi sanguigni si sviluppano in senso antero - posteriore sia dorsalmente che ventralmente. Il clitello è collocato verso il trentesimo metamero e rappresenta un carattere sessuale secondario. Il sangue viene filtrato e le sostanze di rifiuto sono eliminate da organi escretori (nefridi), che si trovano in ciascun segmento. Nella parte ventrale la presenza di setole consente allanimale di muoversi senza scivolare nel terreno. I lombrichi respirano attraverso la pelle, che rimane sempre umida, grazie alla produzione di una sostanza vischiosa. Per tale motivo, questi animali non riescono a vivere in ambienti secchi, per cui, fuori del terreno, muoiono. Ermafroditi, depongono uova dette "cocoon ", in numero variabile. Tali organismi sono molto sensibili a variazioni brusche di umidità, temperatura, pH e forza ionica. I lombrichi sono detritivori o saprofiti, si nutrono di residui vegetali ed animali già parzialmente decomposti (limitate potenzialità enzimatiche). Specie microbiche presenti nel tubo digerente contribuiscono alla digestione delle sostanze ingerite mediante la secrezione di specifici enzimi degradativi. Secondo la classificazione di Perel (1977) la prima classe è detta "humus former " (processano i materiali grezzi, condizionandoli da un punto di vista fisico chimico in modo da predisporli a fenomeni di umificazione); la seconda viene definita "humus feeder " costituita da anellidi che si nutrono di composti organici già umificati, associati in aggregati alla frazione minerale. I lombrichi si nutrono prevalentemente di residui della lettiera, e possono essere classificati anche attraverso le loro attività escavatorie in “aneciques”, ipogei ed endogei. I primi scavano gallerie verticali permanenti con pareti cementate con muco secreto dalle cellule epidermiche, che possono arrivare fino ad alcuni metri di profondità; i secondi scavano gallerie orizzontali con alcune diramazioni verticali ed i terzi, infine, scavano gallerie verticali che terminano con delle camere cementate da muco. Gli intervalli di tolleranza di tali fattori sono specie-specifici. Condizioni più o meno ottimali, del suolo, per le attività biologiche di tali invertebrati si hanno con un contenuto idrico del terreno intorno al 25% - 30%, temperatura sui 15° C – 20°C. Per quanto riguarda la sensibilità al pH si possono distinguere almeno tre classi: "acido - tolleranti" (pH 3,7 e 4,7), "ubiquitari" (pH oscillante tra 3,7 e 7,0) e "acido - intolleranti" (pH superiore a 7). Le fibre nervose sensibili all’acidità sono presenti su tutto il corpo. Si è visto in particolare che, in L. terrestris, le fibre rispondono a pH da 4.1 a 4.3, e il verme non scava quando il pH è al di sotto di 4.1. Le registrazioni elettriche rivelano attività quando l’epidermide viene bagnata con soluzioni acide e la soglia di risposta è notevolmente netta. Significativo, inoltre, è il contributo che i lombrichi danno alla disseminazione delle componenti microbiche del suolo, come pure alla circolazione dei nutrienti immobilizzati nelle molecole organiche presenti nel terreno. I prodotti della continua ingestione (rimescolamento nel tubo digerente ed escrezione delle frazioni organo - minerali assunte dai lombrichi) sono dei conglomerati, ricchi di componenti organiche, nutrienti, microrganismi ed aventi un elevato tenore idrico, detti "casts ". Per il passaggio nel tubo digerente (10- 15 ore) e lelevato conte nuto di acqua, i cast, appena immessi nel terreno sono prevalentemente anaerobi. Dopo 24- 48 ore, a seguito di unefficiente ossigenazione, le attività di degradazione ossidativa della microflora eterotrofa raggiungono elevati livelli, stimolando così, sia i fenomeni di mineralizzazione della sostanza organica, che quelli di umificazione. Negli ecosistemi naturali i lombrichi possono raggiungere densità di biomassa pari a 300 g per metro quadro, negli agroecosistemi la densità di popolazione scende fino a 40 - 50 g per metro quadro, a causa delle pratiche meccanizzate utilizzate in agricoltura. Per tale valore di densità il contributo dato al turnover della sostanza organica risulta modesto o assente, e vengono meno, pertanto, tutti i benefici effetti che i lombrichi arrecano al terreno. Esperimenti condotti sugli effetti della lavorazione meccanizzata del terreno sulla densità di popolazione dei lombrichi nei suoli agricoli hanno dimostrato che in assenza di trattamenti meccanizzati si ha un significativo incremento della biomassa dei lombrichi rispetto al caso in cui i suoli sono lavorati; inoltre, le rese agricole risultano sostanzialmente paragonabili nei due casi, grazie all’effetto benefico che i lombrichi esercitano sulle produzioni agricole. Questo suggerisce come l’utilizzo di pratiche agricole “meno aggressive” per il suolo possano risultare soddisfacenti in termini economici, ma soprattutto estremamente efficaci per un adeguato mantenimento della funzionalità ecosistemica. I lombrichi hanno delle risposte fenologiche. Risposte fenologiche dei lombrichi a variazioni idrico - termiche sono la "diapausa" e la "quiescenza". Questi organismi presentano risposte fenologiche come la “diapausa” e la “quiescenza” in seguito a bruschi cambiamenti di variabili ambientali. La prima è una reazione dei lombrichi alla disidratazione del suolo ed in tal caso i lombrichi dopo avere svuotato il tubo digerente, si scavano nel terreno una camera circolare, e si “appallottolano” su sé stessi. In questo periodo i lombrichi perdono peso ma non si disidratano. La quiescenza, invece, si verifica quando i lombrichi si ammassano in gruppi compatti, subendo una forte riduzione del contenuto idrico corporeo. Questo avviene quando le temperature ambientali raggiungono i 2-4°C. La presenza delle gallerie scavate dai lombrichi favorisce lareazione del suolo e la permeabilità allacqua. Lo sviluppo di aggregati ricchi di sostanze umiche induce un aumento della capacità di captazione idrica del terreno. L’attivazione del metabolismo microbico nei casts innesca la decomposizione della sostanza organica accelerandone la conversione in forme minerali semplici e il rilascio di cationi con funzioni nutritive che vengono in parte assorbiti dalla microflora e in parte dalle radici delle piante, chiudendo così il ciclo della sostanza organica. Biomarker I biomarker rappresentano strumenti particolarmente utili nel biomonitoraggio ambientale. Essi non forniscono una valutazione quantitativa dei livelli di contaminanti cui l’organismo è sottoposto, piuttosto consentono di valutare il livello di salute in cui la popolazione si trova nel suo passaggio dallo stato di omeostasi alla malattia. In questo tipo di approccio è fondamentale conoscere la variabilità naturale della risposta biologica utilizzata come biomarker al fine di comprendere le alterazioni attribuibili allo stress chimico ambientale. La moderna ecotossicologia si è indirizzata all’analisi dello “stato di salute” di un ecosistema e delle sue componenti individuando, grazie allo studio dei biomarker in organismi nel loro ambiente naturale, gli early adverse effects (effetti negativi precoci) che rappresentano un primo campanello d’allarme di situazioni che nel tempo potrebbero diventare a rischio ambientale. In base al tipo di risposta biologica i biomarker vengono distinti in biomarker di esposizione, effetto, sensibilità: Esposizione: rivelano una situazione di esposizione a varie classi di contaminanti ma non riflettono necessariamente una compromissione dello stato di salute dell’organismo. Sono rappresentati da: livelli tissutali di metallotioneine (un aumento indica un’esposizione ad una contaminazione da metalli pesanti), heat shock protein (un aumento è indice generico di stress chimico), enzimi antiossidanti (un aumento indica fenomeni di stress ossidativi), attività del citocromo P450 (un aumento è indice di esposizione ad inquinanti xenobiotici lipofili). Effetto: evidenziano l’insorgenza di effetti negativi e tossici indotti dall’esposizione a queste sostanze ed hanno implicazioni dirette sullo stato di salute dell’organismo (Regoli, 2001). Sono rappresentati da: stabilità lisosomiale (la destabilizzazione della membrana lisosomiale è uno degli effetti nocivi provocati da contaminanti chimici), acetilcolinesterasi (un’inibizione indica esposizione a pesticidi, organofosfati e carbammati), danni al DNA (indice di esposizione a contaminanti chimici). Sensibilità: danno informazioni sulla capacità intrinseca, o acquisita dell’organismo stesso, di rispondere a variazioni dei livelli d’esposizione. La sensibilità individuale nei confronti dell’esposizione può infatti variare in funzione, ad esempio, di fattori genetici. Pertanto, i biomarker di sensibilità aiutano a chiarire la variabilità delle risposte ad agenti tossici che si può osservare tra differenti individui (Van der Oost et al., 2003). Biomarker d’esposizione sono rappresentati, ad esempio, da un aumento dei livelli tissutali di Metallotioneine o da un aumento d’attività degli enzimi del complesso multi-enzimatico Citocromo P450; tali risposte segnalano l’avvenuta esposizione da parte dell’organismo sentinella rispettivamente a metalli pesanti e ad inquinanti xenobiotici lipofili. Invece, biomarker d’effetti tossici in atto sono rappresentati, ad esempio, dalla destabilizzazione delle membrane lisosomiali, da danni al DNA, da inibizione dell’attività acetilcolinesterasica, da alterazioni del Sistema Immunitario. I biomarker possono ancora essere distinti in “specifici” o “generali” a seconda che siano in grado di dare o meno informazioni sulla specifica classe di contaminanti chimici che ha indotto l’alterazione misurata. biomarker specifici: rivelano un’esposizione ad una classe specifica di contaminanti. biomarker generici: segnalano senza fornire delle indicazione precise sul tipo di contaminante una condizione generale di stress. Uno dei concetti fondamentali nello studio della contaminazione ambientale riguarda lIntercorrelabiltà degli effetti di un contaminante ai vari livelli di organizzazione strutturale. Quando i meccanismi compensatori e riparatori di un determinato livello funzionale non riescono più a fronteggiare l’azione dell’inquinante, l’effetto negativo si manifesta nei livelli biologici strutturali e funzionali superiori. Pertanto, l’effetto negativo si manifesta con danni ai livelli d’organizzazione biologica strutturalmente e funzionalmente superiori a quello cellulare. L’effetto nocivo, pertanto, si esplica innanzitutto a livello cellulare per poi interessare unità funzionali sempre più complesse quali organo e organismo con la comparsa di alterazioni geniche, cellulari e tissutali, inibizione del metabolismo, della crescita e dello sviluppo, dell’attività riproduttiva, della resistenza ai patogeni, che portano all’insorgenza di deformità e neoplasie, per estendersi, infine, a livello di popolazione con effetti che si riflettono sui rapporti tra individui della stessa popolazione. È in questa fase che si possono sviluppare risposte di tipo comportamentale che si riflettono sui rapporti tra gli individui. Le interferenze successivamente si possono ripercuotere a livello di popolazione con alterazione tanto della sua struttura quanto della sua dinamica. Infine, le alterazioni delle popolazioni si possono riflettere, in tempi più lunghi, a livello di comunità con modifiche nella produttività, nella distribuzione spaziale, ecc. Riassumendo, si può dire che, in linea generale, la tossicità primaria di un inquinante si esercita, in tempi relativamente brevi (ore o giorni), a livello biochimico e molecolare. È chiaro che più aumenta la complessità del “sistema” che si considera, maggiore sarà il tempo impiegato affinché l’effetto degli inquinanti si manifesti. Le alterazioni ai livelli elevati avvengono in tempi piuttosto lunghi e spesso il loro studio non fornisce precise indicazioni fino a quando non siano avvenute sostanziali modifiche ambientali, le alterazioni ai livelli bassi si esercitano su scale temporali relativamente ristrette. E’ per questo che diventa importante lo studio delle alterazioni a bassi livelli, che si esercitano su scale temporali abbastanza ristrette e che possono rappresentare un “campanello d’allarme” di situazioni che potrebbero diventare a rischio ambientale con il passare del tempo. Viene definito biomarkers la “variazione indotta da un contaminante, a livello delle componenti biochimiche o cellulari di un processo, di una struttura o di una funzione, che può essere misurata in un sistema biologico”. Confrontare biomarker misurati in organismi bioindicatori in una o più aree sospette di contaminazione con organismi che provengono da un’area di controllo permette di valutare il pericolo potenziale della o delle comunità oggetto di studio. Successivamente è stato inteso come qualsiasi misurazione che riflettesse il rischio (che può essere chimico, fisico o biologico) cui un sistema biologico è sottoposto. Riferendoci solamente al rischio chimico il termine definisce quella variazione delle risposte biologiche (molecolari, cellulari, fisiologiche e comportamentali) che è determinata da “effetti tossici da” o “esposizione a” contaminanti chimici ambientali; quindi, come qualsiasi risposta omeostatica che l’organismo genera nei confronti dell’insulto chimico utilizzabile in indagini tossicologiche. In termini ecotossicologici i biomarker hanno una valenza tanto maggiore quanto più possono essere correlati ad effetti negativi sia a livello d’individuo sia a livello di popolazione (l’argomento è stato maggiormente approfondito nei paragrafi successivi). Tuttavia, sebbene non sia esplicitato in molte definizioni, “biomarker” si riferisce a variazioni molecolari, biochimiche o fisiologiche misurabili in cellule, fluidi biologici, tessuti o organi all’interno di un organismo e che siano indicative d’esposizione e/o effetto a/da contaminanti chimici ambientali. Generalmente si ritiene che le risposte a livello di sub-individuo (molecolari, biochimiche e fisiologiche) tendano a precedere quelle che si verificano a livello di organismo o ai livelli superiori dell’organizzazione biologica. Van Gestel e Van Brummelen (1994) ridefiniscono i “biomarker”, in relazione ai diversi livelli dell’organizzazione biologica considerando i biomarker come una risposta biologica alla contaminazione chimica ambientale che si verifica a livello sub-individuale segnalando una deviazione dallo stato normale; tale risposta può essere misurata all’interno di un organismo o in suoi prodotti (urine, feci, capelli, penne etc.) e non può essere rilevata nell’organismo intatto. I vantaggi offerti dall’utilizzo di biomarker in indagini di tipo ecotossicologico siano innumerevoli in quanto: forniscono una risposta integrata all’insieme delle interazioni tossicologiche nella miscela di agenti tossici cui è sottoposto l’organismo sentinella; attraverso lo studio di risposte in organismi sentinella stanziali, possono fornire informazioni riguardo precedenti esposizioni a contaminanti chimici mentre, attraverso lo studio di risposte in organismi sentinella sessili, possono rivelare l’esistenza di gradienti di distribuzione degli inquinanti; grazie alle loro immediatezza ed economicità, possono essere usati per screening preliminari ad eventuali approfondimenti d’indagine; come già detto più volte, consentendo previsioni di conseguenze negative a lungo termine, rappresentano un precoce campanello d’allarme; individuando classi specifiche di contaminanti cui gli organismi sono esposti, indirizzano e circoscrivono le indagini chimiche ottimizzandone i tempi e riducendone i costi