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Facoltà di Medicina e Chirurgia

2021

Elisa Giannoni, Alice Ceccatelli, Filippo Bergamaschi

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carbohydrate biochemistry monosaccharides biology

Summary

This document is a biochemistry lecture on carbohydrates, covering monosaccharides, their classification, and stereoisomers. It details the different types of sugars and their roles in living organisms.

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Materia e lezione Biochimica - Lezione 1 Data 17/11/2021 Professore Elisa Giannoni Coppia Alice Ceccatelli - Filippo Bergamaschi GLICIDI La prima classe di...

Materia e lezione Biochimica - Lezione 1 Data 17/11/2021 Professore Elisa Giannoni Coppia Alice Ceccatelli - Filippo Bergamaschi GLICIDI La prima classe di biomolecole da analizzare sono i glicidi, possono essere definiti anche come o carboidrati o saccaridi e sono delle molecole molto abbondanti che svolgono tantissime funzioni: - Funzione energetica:è quella più nota (quando si pensa ai carboidrati, si pensa al ruolo energetico dei carboidrati, alla possibilità di avere energia attraverso la degradazione ossidativa o non ossidativa dei carboidrati). Non è l'unica funzione, però sicuramente è la funzione prioritaria di monosaccaridi come il glucosio; di polisaccaridi di riserva come possono essere il glicogeno nelle cellule animali o l’amido nelle piante, che sono dei polisaccaridi di riserva che contengono tante unità di glucosio ed il glucosio viene utilizzato per produrre energia. - Funzione strutturale: basta pensare alla cellulosa che nell’ambiente vegetale costituisce la struttura dei tessuti della pianta, il cotone è cellulosa allo stato puro; quindi nella pianta la cellulosa ha un ruolo strutturale. Anche nella matrice extracellulare, in quella sostanza gelatinosa che avvolge le cellule a livello dei tessuti connettivi o a livello della lamina basale che separa i tessuti epiteliali dai tessuti connettivi, non c’è solo una componente proteica ma anche una componente saccaridica, che svolge (in parte) un ruolo strutturale. In questo caso, all’interno della matrice extracellulare o sulla membrana delle cellule, ci saranno anche dei componenti saccaridici che svolgeranno un ruolo informazionale. - Ruolo di segnalazione: forse è il ruolo meno noto dei carboidrati, possono trasportare e dare delle informazioni e alcuni carboidrati possono essere riconosciuti da dei recettori, che riconoscono una porzione saccaridica in particolare in seguito a questa interazione si può attivare una via di segnalazione. Ci sono dei recettori specifici dei carboidrati che si chiamano lectine e sono dei recettori esposti sulla membrana di alcune cellule che si legano in maniera specifica ad una molecola che ha composizione saccaridica, quindi i carboidrati hanno anche un ruolo informazionale e possono mediare una segnalazione. I carboidrati o glicidi inizialmente si classificano in base alla loro complessità strutturale e quindi vengono suddivisi in: ▪ Monosaccaridi (o zuccheri semplici): sono le unità più semplici che costituiscono i carboidrati più complessi che sono gli oligosaccaridi ed i polisaccaridi. Questi monosaccaridi possono interagire e legarsi tra loro e formare delle catene oligosaccaridiche ▪ Oligosaccaridi: sono brevi catene costituite da non più di 20 monosaccaridi. ▪ Polisaccaridi: se sono costituiti da più di venti monosaccaridi, fino a migliaia di monosaccaridi. Sono catene saccaridiche complesse. Spesso i saccaridi vengono utilizzati per andare a formare un complesso con molecole di altra natura: con molecole lipidiche o con molecole proteiche. Nel momento in cui i carboidrati non esistono come entità a sé stanti ma diventano una porzione di una molecola complessa si parla di glicoconiugati. Questi glicoconiugati possono essere: - Glicoproteine e proteoglicani: coniugati tra una porzione saccaridica ed una porzione proteica. Entrambi contengono una parte proteica ed una parte saccaridica, la differenza tra loro è che nelle glicoproteine è prevalente la parte proteica rispetto alla saccaridica, nei proteoglicani è l’inverso, è prevalente la parte saccaridica rispetto alla parte proteica - Glicolipidi: glicoconiugati in cui c’è un’associazione tra una porzione saccaridica ed una porzione lipidica. Zuccheri semplici o monosaccaridi 1 Sono le unità di base per la costituzione degli oligosaccaridi e dei polisaccaridi. I monosaccaridi vengono definiti poli-idrossialcol. Quando si parla di alcol vuol dire che la molecola contiene delle funzioni alcoliche; la funzione alcolica è la funzione OH, detta anche funzione ossidrilica o idrossilica. I carboidrati contengono tante funzioni OH e per questo vengono detti poli-idrossialcol, perchè la funzione ossidrilica è tipica degli alcoli. Hanno formula generale (CH2O)n, ovvero CH2O ripetuto per “n” volte, dipende da quanti atomi di carbonio è composto il monosaccaride; per ogni atomo di carbonio ci sarà un ossigeno e due idrogeni. I monosaccaridi sono dei poli-idrossialcol che hanno ogni atomo di carbonio legato ad una funzione ossidrilica, in realtà c’è anche un atomo di carbonio che è ad uno stato più ossidato, ce n’è 1 solo in ogni monosaccaride e questo carbonio più ossidato è un carbonio carbonilico (C=O). Però questo carbonio carbonilico può far parte di due funzioni diverse: se il carbonio carbonilico è all’estremità della molecola allora si dice che fa parte di una funzione aldeidica. Se invece è interno alla molecola allora si dice che fa parte di una funzione chetonica. Tra i monosaccaridi i saranno alcuni che hanno la funzione aldeidica, altri che hanno la funzione chetonica e questo ci consente di distinguere i monosaccaridi in: - Aldosi: hanno la funzione aldeidica - Chetosi: hanno la funzione chetonica STEREOISOMERI Un’altra caratteristica di tutti i monosaccaridi, sia aldosi che chetosi, è il fatto di avere un numero uguale ad n di centri chirali o carboni asimmetrici. Il carbonio asimmetrico è il carbonio che lega quattro sostituenti diversi; quando un carbonio lega 4 sostituenti diversi si parla di centro chirale o carbonio asimmetrico. I monosaccaridi hanno almeno 1 centro chirale o anche di più, dipende da quanti atomi di carbonio sono composti. Se una molecola ha un centro chirale, vuol dire che intorno a questo centro chirale si può avere una diversa disposizione dei gruppi funzionali, e per ogni centro chirale esistono 2 stereoisomeri che sono configurazioni diverse di una stessa molecola. La formula di struttura tra due stereoisomeri è la stessa, cambia il modo con cui i gruppi funzionali si legano a questo carbonio chirale. La gliceraldeide è il più semplice esempio di monosaccaride che contiene un solo centro chirale, è un monosaccaride appartenente alla classe degli aldosi perchè il carbonio carbonilico fa parte di una funzione aldeidica, quindi è all'estremità di una molecola, è possibile raffigurare questa molecola con 3 diverse rappresentazioni: modello a palle e bastoncini, formula proiettiva di Fischer e formula prospettica. Di solito per identificare gli stereoisomeri di un monosaccaride consideriamo la formula proiettiva di Fischer, si scrive la formula di struttura e si definisce l’appartenenza alla stereoisomeria D o alla stereoisomeria L in base alla disposizione del gruppo OH legato al centro chirale. Mettiamo la funzione più ossidata in alto, quindi la funzione aldeidica in alto ed andiamo a vedere se il gruppo idrossilico è legato sulla destra o sulla sinistra del carbonio chirale. Adesso stiamo facendo una semplificazione, questi studi vengono fatti ad un livello tridimensionale. Gli stereoisomeri non sono conformazioni diverse si una stessa molecola, non è cambiando l'orientamento nello spazio che si passa da un isomero D ad un isomero L, per passare da un isomero D ad un isomero L bisogna rompere dei legami covalenti e riformarli in configurazione opposta, quindi esisteranno degli enzimi, chiamati stereoisomerasi, che permetteranno questo. Nello stereoisomero D della gliceraldeide il gruppo OH è sulla destra, nello stereoisomero L il gruppo OH legato al carbonio chirale sta sulla sinistra. 2 Se una molecola ha n centri chirali avrà 2 n stereoisomeri. Se una suddivisione dei monosaccaridi è sulla base della natura del gruppo carbonilico cioè se fa parte di una funzione aldeidica o chetonica, e quindi consente di suddividere i monosaccaridi in aldosi e chetosi. Negli organismi viventi sono presenti quasi esclusivamente gli isomeri con configurazione D, almeno per quanto riguarda i monosaccaridi Si può fare un’altra suddivisione in base al numero di atomi di carbonio che compongono il monosaccaride: - triosi: se il monosaccaride è composto da 3 atomi di carbonio, indipendentemente che sia un aldoso o un chetoso - tetrosi: se il monosaccaride è composto da 4 atomi di carbonio - pentosi: monosaccaride è composto da 5 atomi di carbonio - esosi: monosaccaride è composto da 6 atomi di carbonio. MONOSACCARIDI: GLI ALDOSI Gli aldosi sono quei monosaccaridi che contengono il gruppo carbonilico all’interno di una funzione aldeidica, quindi il gruppo carbonilico è presente all’estremità del monosaccaride. La gliceraldeide è il più piccolo degli aldosi perchè è un trioso, 3 atomi C, ed ha un solo centro chirale quindi due stereoisomeri, isomero D ed L. Ma già passare ai tetrosi vuol dire avere 2 centri chirali perchè ognuno di questi ha 4 sostituenti diversi, quindi come si fa a definire a che tipo di serie stereoisomerica appartiene un tetroso? L’appartenenza alla serie D o L la definisce sempre il carbonio più lontano dal carbonio aldeidico o chetonico. Quindi nel caso di un chetoso il carbonio più lontano. Nelle immagini riportate, le molecole di carbonio colorate in rosa sono i centri chirali. Nell’immagine riportata, il centro chirale più lontano ha il gruppo OH a destra quindi appartengono tutti alla configurazione D. I tetrosi hanno 2 centri chirali quindi (2n= 22= 4) 4 stereoisomeri. Di questi ce ne saranno due appartenenti alla serie D (in figura) e due appartenenti alla serie L (non riportati). L’appartenenza alla serie D è dettata dalla configurazione del centro chirale più lontano dalla funzione aldeidica ma esisterà un tetroso in cui il carbonio più vicino alla funzione aldeidica è sempre in configurazione D mentre l’altro tetroso avrà il carbonio più vicino alla funzione aldeidica in posizione L, ma l’appartenenza alla serie è comunque data dal carbonio più lontano dalla funzione aldeidica. I pentosi hanno 3 centri chirali quindi avremo 23 stereoisomeri e quindi gli stereoisomeri dei pentosi saranno 8, di cui quattro appartenenti alla serie D (ribosio) e quattro alla serie L. Gli esosi hanno 4 centri chirali, quindi 16 stereoisomeri (24), di cui otto appartenenti alla serie D (glucosio, mannosio, galattosio, etc.) e otto alla serie L. 3 MONOSACCARIDI: I CHETOSI Tutto il discorso che abbiamo fatto finora si può applicare ai chetosi nello stesso modo, cambia solo che nei chetosi il più piccolo monosaccaride costituito da 3 atomi di carbonio non ha centri chirali, perchè in questo caso non c’è nessun carbonio che ha 4 sostituenti diversi. Per avere il primo centro chirale bisogna andare sul tetroso che avrà un unico centro chirale; avendo un solo centro chirale, gli stereoisomeri saranno due, uno appartenente alla serie L e una alla serie D. I pentosi non avranno, come negli aldosi, 8 stereoisomeri diversi ma ne avranno solo 4 perchè il pentoso che appartiene alla classe dei chetosi ha solo 2 centri chirali e quindi 4 stereoisomeri: 2 in serie D e 2 in serie L. Negli esosi i centri chirali sono tre, quindi gli stereoisomeri sono otto, di cui quattro della serie L e quattro della serie D. L’appartenenza alla serie D o L è definita dalla configurazione del carbonio più lontano dal gruppo chetonico. EPIMERI Gli epimeri sono stereoisomeri che differiscono tra loro solo per la configurazione di un centro chirale, se confrontiamo il mannosio ed il glucosio sono due aldosi esosi che differiscono soltanto per la posizione di un gruppo OH sul C2, per il resto sono identici. Quindi si dice che mannosio e glucosio sono epimeri sul C2. Glucosio e galattosio sono due aldosi esosi, hanno la stessa formula di struttura e differiscono soltanto per la posizione di un OH intorno al C4, quindi il galattosio è un epimero in C4 del glucosio. La differenza è solo sulla configurazione di un centro chirale. MONOSACCARIDI I monosaccaridi sono molecole fortemente reattive. In soluzione hanno una grossa reattività nei confronti di molecole alcoliche, che quindi hanno funzioni OH. Se mettiamo un monosaccaride aldoso o chetoso in un solvente acquoso e c’è la presenza di un alcol, cioè di una molecola che espone un gruppo OH, la loro funzione aldeidica o chetonica sono estremamente reattive nei confronti di questa funzione alcolica Quindi c’è un legame tra funzione aldeidica e gruppo idrossilico che consente la formazione di un emiacetale, oppure nel caso in cui il legame sia tra funzione chetonica e gruppo ossidrilico si ha la formazione di un emichetale. L’emichetale mantiene un gruppo OH libero che ha ancora un’estrema reattività nei confronti di molecole alcoliche, quindi questa cosa può ulteriormente evolvere ed i gruppi idrossilici di un emiacetale o emichetale possono ancora reagire con un’altra funzione idrossilica di un'altra molecola e formare gli acetali o i chetali. L’emiacetale deriva dalla condensazione di un gruppo aldeidico con una funzione alcolica. L’emiacetale, mantenendo la sua reattività, può ancora reagire con una seconda molecola alcolica, formando l’acetale. 4 L’emichetale deriva dalla condensazione di un gruppo chetonico con una funzione alcolica. L’emichetale può ancora reagire con una seconda molecola alcolica, formando un chetale. I monosaccaridi sono dei poli-idrossialcol e tutti hanno una funzione aldeidica o una funzione chetonica, ma gli altri atomi di carbonio mantengono legati gruppi idrossilici; quindi se è vero che la funzione aldeidica e la funzione chetonica hanno una grossa reattività nei confronti di gruppi ossidrilici, questa reattività c’è anche a livello intramolecolare e si comincia a manifestare a partire da pentosi ed esosi. Quindi nei monosaccaridi esosi e pentosi è possibile che la funzione carbonilica (aldeidica o chetonica) vada a reagire con un gruppo ossidrilico interno alla molecola. L’analisi parte dal D-glucosio. Il D- glucosio è un aldoso ed ha una funzione aldeidica terminale (che è il C1) che è molto reattiva nei confronti delle funzioni ossidriliche e riesce a reagire con una funzione ossidrilica interna alla molecola che è quella presente sul C5, quindi si forma un emiacetale ciclico intramolecolare. Questa reazione di ciclizzazione (perchè quello che si forma è una molecola ciclica) è estremamente favorita in soluzione acquosa, infatti il glucosio all’interno delle soluzioni acquose non si ritrova mai in forma lineare ma in forma di emiacetale ciclico cioè di anello emiacetalico. Questo anello emiacetalico di glucosio, solo per analogia strutturale con una molecola organica chiamata pirano, viene detto anello piranosico. Quindi, il glucosio, in soluzione acquosa, acquista una forma ciclica e per questo viene definito gluco-piranosio (non useremo mai questo termine, parleremo sempre di glucosio, ma si usa questo termine per sottolineare la struttura ciclica simile al pirano). Nella forma lineare del glucosio, C1 faceva parte della funzione aldeidica, quindi non aveva quattro sostituenti diversi, non era un centro chirale; ma se si guarda il C1 nella forma ciclica, si vede che lega quattro sostituenti diversi. Quindi anche il C1 diventa un centro chirale, ma solo in seguito alla formazione dell’anello emiacetalico. Nel momento in cui C1 diventa centro chirale (questo solo in seguito alla formazione dell’anello emiacetalico che funziona solo in soluzione acquosa) si possono identificare due stereoisomeri, che in questo caso vengono chiamati anomeri: ▪ Se il gruppo OH è al di sotto del piano dell’anello, si identifica l’anomero α ▪ Se il gruppo OH è al di sopra del piano dell’anello, si identifica l’anomero β Quindi il nome completo di queste due forme anomeriche sarebbe α- D- Glucopiranosio, che ha il gruppo OH legato sul C1 anomerico in basso, e β-D- Glucopiranosio che ha l’ OH legato al C1 anomerico sul versante superiore dell’anello (saranno chiamati semplicemente alfa-Glucosio e beta- Glucosio). Anche in questo caso, cambiare la serie anomerica prevede la rottura di un legame e la formazione di un nuovo legame covalente. Questo evento si chiama muta-rotazione. Quello che è stato detto per gli aldosi vale anche per i chetosi. Anche in questo caso, si può formare un emichetale interno, quando la funzione chetonica reagisce con un gruppo OH interno alla molecola. Come esempio viene preso il fruttosio. In questo caso, il C2 chetonico reagisce con il C5 ossidrilico 5 e si forma un anello emichetalico. Questo anello emichetalico assomiglia alla struttura del furano e quindi si parla di anello furanosico. Quando il carbonio chetonico forma l’emichetale diventa un centro chirale. Anche per gli anelli emichetalici, si possono identificare due anomeri: ▪ Anomero α: ha l’OH è rivolto sul versante inferiore del piano dell'anello e sarà α-D-fruttofuranosio (più comunemente α-fruttosio). ▪ Anomero β: l’OH è rivolto sul versante superiore del piano dell’anello e sarà β-D-fruttofuranosio (più comunemente β-fruttosio). Quelli che vengono rappresentati come anelli planari, sia emiacetalici sia emichetali, in realtà nello spazio non restano planari ma si organizzano con delle simmetrie particolari. Quindi si identificano una conformazione a sedia o una conformazione a barca a seconda di come si dispongono i vari carboni legati all’interno degli anelli. Queste sono conformazioni nello spazio e non configurazioni che definiscono una serie stereoisomerica, quindi il passaggio da una conformazione all’altra è solo il cambio di posizione nello spazio. Non determina, come nel caso della stereoisomeria, una rottura dei legami e riformazione degli stessi. DERIVATI DI MONOSACCARIDI DI INTERESSE BIOLOGICO Quando un monosaccaride viene sintetizzato, non è detto che questa resti la sua struttura definitiva. Molti monosaccaridi, sia aldosi sia chetosi, possono subire delle modifiche di vario tipo che portano a dei derivati di questi monosaccaridi. Alcune molecole derivano dalla sostituzione di un gruppo idrossilico (OH) con un gruppo amminico (NH2). Nei monosaccaridi, dove una delle funzioni idrossiliche viene sostituita da una funzione amminica, si forma un amminozucchero. Esempi di amminozuccheri sono la β-galattosammina e la β-mannosammina. Questo gruppo amminico può subire un’ulteriore modifica e subire l’aggiunta di un gruppo acetilico (CH3CO), quindi prima viene sostituito un gruppo ossidrilico con un gruppo amminico, poi questo gruppo amminico a sua volta diventa un punto di attacco per un’unità acetilica. I derivati di questa modifica sono, per esempio, la N-acetil-β- glucosammina. Quindi, questi sono derivati di monosaccaridi che, non solo sono amminozuccheri, ma sono amminozuccheri acetilati. Questo concetto si ritrova poi in un particolare tipo di polisaccaridi ovvero i glicosamminoglicani. 6 Ci sono poi i deossizuccheri, in cui un gruppo idrossilico viene sostituito da un idrogeno (H) e quindi qui il gruppo CH2OH sarà sostituito da un gruppo metilico (CH3). Un esempio sono il fucosio e il ramnosio. La sostituzione di un gruppo ossidrilico con l’idrogeno sul C6 forma un gruppo metilico (CH3). Un altro tipo di modifica è la fosforilazione dei monosaccaridi, cioè l’aggiunta di un gruppo fosfato ad una funzione idrossilica dei monosaccaridi. Questo è un modo per intrappolare i monosaccaridi all’interno della cellula (soprattutto gli esosi come il glucosio). Il glucosio può entrare e uscire dalla cellula solo attraverso dei trasportatori (trasportatori GLUT). Questi trasportatori riconoscono solo il glucosio e non il glucosio fosfato. Nel momento in cui il glucosio entra nella cellula, questa spende energia per fosforilare il glucosio di modo che questo venga intrappolato. Questo è un modo anche per far riconoscere il glucosio modificato agli enzimi di degradazione, quindi la fosforilazione è anche un etichetta che renderà questi monosaccaridi riconoscibili per gli enzimi che andranno a modificarli. Altre modifiche che possono accadere ai monosaccaridi sono le ossidazioni. Se l’ossidazione avviene su C6 (e quindi si parla di esosi), i derivati che si formano sono gli acidi uronici. Ad esempio l’acido glucuronico vede l’ossidazione del CH2OH in posizione sei a COOH (gruppo carbossilico, derivante dall’ossidazione della funzione ossidrilica). Un monosaccaride che presenta un’ossidazione sul C6 viene definito acido uronico. Un monosaccaride che invece presenta un’ossidazione sul C1 si chiama acido aldonico. OLIGOSACCARIDI Dopo la ciclizzazione, sia l’emiacetale sia l’emichetale mantengono ancora la loro reattività. Attraverso una delle loro funzioni ossidriliche possono ancora andare a reagire con un’altra funzione ossidrilica. Questo è importante per cominciare a legare tra loro monosaccaridi e formare delle catene saccaridiche. Quindi si comincia a parlare di oligosaccaridi, si uniscono tra loro vari monosaccaridi e si formano delle catene che hanno un numero di componenti inferiore a venti, gli oligosaccaridi. Gli oligosaccaridi sono piccole catene costituite da un numero di monosaccaridi inferiori a 20. L’oligosaccaride più piccolo è il disaccaride, formato solo da due monosaccaridi. Nell’immagine vengono presentati un α-glucosio e un β-glucosio. L’α-glucosio è un emiacetale che presenta una funzione ossidrilica che ha ancora reattività e può reagire con un'altra funzione ossidrilica di un’altra molecola. Quando questi due monosaccaridi di glucosio si trovano vicine fra di loro, possono reagire tra loro e la funzione ossidrilica del carbonio anomerico può reagire con la funzione ossidrilica (sul C4 in questo caso) di un altro monosaccaride. Si forma quindi, in questo caso, l’acetale che deriva da una reazione di condensazione (perdita 7 di una molecola di acqua) che è ciò a cui si va incontro quando l’OH sul C1 reagisce con l’OH sul C4 di un’altra molecola. Il C1 perde il gruppo ossidrilico, il C4 perde un idrogeno e si forma la molecola H2O uscente (in rosa). Quindi, per reazione di un emiacetale con un’altra funzione ossidrilica di un’altra molecola, si forma un acetale. Il legame che si forma tra i due monosaccaridi a formare l’acetale prende il nome di legame glicosidico. Il legame glicosidico è il legame covalente che si forma tra due monosaccaridi quando il carbonio anomerico di un monosaccaride (forma emiacetalica) va a reagire con la funzione ossidrilica di un altro monosaccaride. Si elimina una molecola di acqua (reazione di condensazione) e si forma il legame glicosidico. Come viene definito questo legame glicosidico? Questo che abbiamo visto si chiama α-1,4-glicosidico e significa che il monosaccaride in forma acetalica, che ha messo in compartecipazione il proprio carbonio anomerico, è in forma anomerica α; il C1 in forma anomerica α lega l’ossidrile sul C4 dell’altro monosaccaride. Il disaccaride che si è formato dall’ α-Glucosio ed il β-Glucosio legati con un legame α-1,4-glicosidico è il maltosio, che è prodotto ad esempio per digestione dell'amido. Quando nella formazione del disaccaride resta libera un’estremità anomerica, rimane un carbonio anomerico libero (in figura C1 con la freccia rossa), questa viene definita estremità riducente ovvero potrebbe ossidarsi (e quindi ridurre qualcos’altro), è un’estremità riducente perchè il carbonio è sottoposto a ossidazione e formazione degli acidi aldonici. Quindi quando resta un’estremità anomerica libera, si dice che è un’estremità riducente che è ossidabile ad acido aldonico. Quando un disaccaride ha un’estremità riducente è sicuramente meno stabile perchè sottoposto ad ossidazione. Altri esempi di disaccaridi sono: ▪ Lattosio, costituito da β-galattosio e β-glucosio legati fra loro da un legame β-1,4-glicosidico. Resta libero l’anomero β del β-glucosio, quindi anche questo è uno zucchero riducente e ossidabile. Questo non si può dire degli altri due esempi: ▪ Saccarosio, costituito da α-glucosio e β-fruttosio legati fra loro da un legame α-1,2-glicosidico. In questo caso, entrambi i carboni anomerici (C1 dell’α-glucosio e il C2 del β-fruttosio) sono implicati nel legame glicosidico, quindi non restano estremità anomeriche libere. Questo zucchero è non riducente, non ossidabile e quindi molto stabile. ▪ Trealosio (presente in funghi, lieviti, e nell’emolinfa degli insetti; utilizzato spesso come dolcificante) costituito da due monomeri di α-glucosio legati fra loro da un legame α-1,1-glicosidico. Entrambi i carboni anomerici α sono implicati nel legame quindi è uno zucchero non riducente e non ossidabile. Ai disaccaridi si possono aggiungere altre unità monosaccaridiche e quindi si possono formare i trisaccaridi, tetrasaccaridi, pentasaccaridi ecc ed allungare via via la catena. Ci saranno degli enzimi deputati a fare questo, il legame glicosidico è un legame covalente che si forma in seguito ad un’azione catalizzata da enzimi. Quando si raggiunge una lunghezza superiore alle 20 unità si comincia a parlare di polisaccaridi. POLISACCARIDI Se ad un oligosaccaride si aggiungono altri monosaccaridi superando le venti unità si vanno a formare dei carboidrati più complessi detti polisaccaridi. I polisaccaridi si suddividono in: ▪ Omopolisaccaridi, costituiti da un solo tipo di monomero. ▪ Eteropolisaccaridi, costituiti da due o più unità monosaccaridiche diverse. 8 Sia gli omopolisaccaridi che gli eteropolisaccaridi possono essere catene lineari o ramificate, perché alla catena lineare si aggiungono delle ramificazioni. I polisaccaridi possono avere diversi ruoli in base al parametro che si prende in considerazione: ▪ Ruolo energetico, come l’amido nelle piante e il glicogeno negli animali. Sono entrambi costituiti entrambi costituiti da unità α-glucosio e quindi sono dei depositi che all’occorrenza possono rilasciare questi monomeri che vengono utilizzati prevalentemente a scopo energetico. ▪ Ruolo strutturale, come la cellulosa nelle piante, che costituisce proprio la struttura delle piante, e la chitina che è un componente dell’esoscheletro degli insetti e degli artropodi., ▪ Possono avere un ruolo strutturale e di sostegno anche all’interno della matrice extracellulare che avvolge le cellule nei tessuti connettivi, come nel caso di alcuni eteropolisaccaridi che sono i glicosaminoglicani ed i mucopolisaccaridi acidi, che sono i costituenti fondamentali della matrice extracellulare. Possono avere anche un ruolo di segnalazione. OMOPOLISACCARIDI: AMIDO E GLICOGENO Gli omopolisaccaridi sono polisaccaridi costituiti solo da un tipo di unità saccaridica. Due esempi sono l’amido e il glicogeno, che si trattano insieme perchè hanno la stessa struttura. L’amido si trova nelle piante e il glicogeno si trova negli animali, ma differiscono per pochissime caratteristiche e da un punto di vista strutturale è possibile trattarle insieme. L’amido è prevalentemente contenuto a livello dei tuberi, mentre il glicogeno è contenuto maggiormente a livello del fegato e del muscolo. Per quanto riguarda il fegato, il 7% del peso umido del fegato è costituito da glicogeno. Nell’immagine (micrografia al microscopio elettronico) si vedono delle “rosette nere” che sono i granuli di glicogeno. Il glicogeno a livello epatico è importante ai fini di mantenere la normo-glicemia: quando, in condizioni di digiuno, si ha una riduzione della glicemia ematica, per rispondere immediatamente a questo deficit e per ristabilire la normo-glicemia si attinge alle riserve di glucosio già pronte; al fegato viene segnalata la condizione ipoglicemica da un ormone iperglicemizzante che è il glucagone; in questo modo viene attivata la glicogenolisi che porta alla degradazione del glicogeno ed ad una rapida immissione, nel circolo sanguigno di glucosio. Questo è il ruolo primario del glicogeno nel fegato. Nel muscolo, il glicogeno non contribuisce mai a tamponare i fenomeni di ipo-glicemia perché nel muscolo manca dell’enzima fondamentale che rimuove il fosfato dal glucosio. Quando il glicogeno viene mobilizzato viene mobilizzato come glucosio fosfato, quindi finché non viene rimosso il gruppo fosfato, quella molecola non può uscire dalla cellula. Il fegato presenta la glucosio-fosfatasi, che rimuove il fosfato dal glucosio e fa sì che questo venga immesso nel circolo; il muscolo non ha la glucosio-fosfatasi e quindi tutto quello che deriva dalla degradazione del glicogeno, resta all’interno del muscolo e viene utilizzato a scopo energetico. La glicogenolisi muscolare viene stimolata quando il muscolo lavora di più. In seguito di un’attività fisica intensa, l’ormone adrenalina (ormone fight or flight) stimola il muscolo di operare la glicogenolisi. Quindi si può dire che il muscolo è un organo egoista mentre il fegato è un organo altruista, dato che il fegato utilizza il glucosio che viene mobilizzato dalle scorte di glicogeno per ristabilire la normoglicemia e per fare in modo che il glucosio diventi disponibile per gli altri tessuti, il muscolo lo usa a scopi energetici propri. Da un punto di vista strutturale, amido e glicogeno sono formati da una catena di monomeri di α-glucosio, legati fra loro da legami α-1,4-glicosidici. Si formano delle lunghe catene lineari, da cui possono emergere delle ramificazioni. C’è un enzima che forma i legami α-1,4-glicosidici nella catena lineare e c’è un altro enzima che forma le ramificazioni. Le catene lineari si chiamano catene di amilosio; le catene che invece presentano n- ramificazioni si chiamano amilopectina. L’amilopectina è una struttura più complessa, in cui da una iniziale catena lineare partono tante ramificazioni. 9 Quindi, ci saranno una o poche estremità riducenti che hanno il carbonio anomerico libero e tantissime estremità non riducenti, che espongono il C4 e che sono tante quante sono le ramificazioni. Nell’amido le ramificazioni sono meno frequenti: si presenta una ramificazione ogni 24-30 residui. Nel glicogeno, le ramificazioni sono molto frequenti: si presenta una ramificazione ogni 8-12 residui. Più rami ci sono, maggiori sono le estremità non riducenti. Più estremità non riducenti ci sono, più estremità sono disponibili per l’azione simultanea dell’enzima che andrà a staccare i monomeri di glucosio. Questo enzima si chiama glicogeno- fosforilasi e si presenta in tante copie in modo da attaccarsi a tante estremità non riducenti. Visto che, legandosi fra loro, questi monomeri di glucosio mantengono comunque delle funzioni idrossiliche libere (e queste riescono a formare legami a idrogeno con l’acqua o con altre funzioni idrossiliche), il glicogeno così come l’amido assumono delle conformazioni elicoidali perché si formano dei legami a idrogeno che vanno a impegnare i gruppi OH che non sono impegnati nel legame glicosidico. La formazione di legami a idrogeno fra funzioni idrossiliche serve per non far richiamare troppa acqua al glicogeno; perchè altrimenti questi gruppi idrossilici formerebbero legami ad idrogeno con l’acqua ed il glucosio diverrebbe troppo idratato. Anche se il glicogeno è una molecola idratata perché alcuni gruppi OH, nella giusta misura, formano legami a idrogeno con l’acqua. Ma siccome si formano anche tanti legami a idrogeno intramolecolari, questo riduce la quantità di acqua che può assorbire il glicogeno e quindi rende il granulo di glicogeno meno pieno d’acqua. OMOPOLISACCARIDI: CELLULOSA E CHITINA Questo omopolisaccaride non ha un ruolo energetico ma ha un ruolo strutturale. Si trova solo nelle piante ed è la cellulosa. Anche la cellulosa, al pari dell’amido e del glicogeno, è un omopolisaccaride formato da monomeri di β-glucosio legati tra loro da legami β-1,4-glicosidici. Visto che ogni monomero, legandosi al precedente e al successivo, subisce una rotazione di 180°, la disposizione nello spazio di questo omopolisaccaride non è una forma elicoidale, ma è una forma estesa: si formano tante fibre di cellulosa che si dispongono sia l’una vicino all’altra, formando un foglietto e questi vanno ad interagire tra loro formando legami a idrogeno. Questi legami a idrogeno, che nell’amido e nel glicogeno contribuivano alla forma elicoidale della molecola, nella cellulosa contribuiscono a dare la forma di veri e propri foglietti di cellulosa che vanno poi a stratificarsi fra loro. 10 Un altro Un altro omopolisaccaride di sostegno al pari della cellulosa, ma nel mondo animale, è la chitina. Questo è un omopolisaccaride costituito da monomeri di N-acetil-glucosammina (un monosaccaride modificato). La N-acetil- glucosammina è non solo un monosaccaride modificato ma è un amminozucchero, in cui l’OH in posizione 2 viene sostituito da un gruppo amminico. Questo gruppo amminico viene poi ulteriormente acetilato, formando la molecola. Questi monomeri si legano fra loro con legami β-1,4-glicosidici e così si formano delle catene estese, che ha un ruolo strutturale perché dà forma e resistenza all’esoscheletro degli artropodi e degli insetti. 11 Materia e lezione Biochimica lezione 2 Data 18/11/2021 Professore Giannoni Coppia Chiara Cornelio/ Giampiero Fiorillo GLI ETEROPOLISACCARIDI Gli eteropolisaccaridi sono quella classe di polisaccaridi costituiti da almeno due unità monosaccaridiche di differente tipologia. Questi eteropolisaccaridi rientrano sotto il nome di glicosamminoglicani (GAG) o anche mucopolisaccaridi acidi. I glicosamminoglicani (GAG) Sono polimeri lineari costituiti da unità disaccaridiche che si ripetono n-volte in base al tipo di GAG che viene preso in considerazione. Fondamentalmente le 4 tipologie che si conoscono sono: l’acido ialuronico (o ialuronano), il condroitinsolfato, il cheratansolfato e l’eparina o l’eparansolfato. (Attenzione eparina e eparansolfato non sono la stessa cosa, bensì due GAG che differiscono soltanto per la presenza di una modificazione). Le unità disaccaridiciche che si ripetono sono diverse a seconda del tipo di GAG che si prende in considerazione. Una caratteristica molto frequente nei GAG è proprio quella di essere costituiti da acidi uronici (con il C-6 ossidato) e aminozuccheri (modificazione a livello dell’ossidrile). Inoltre una modificazione molto ricorrente, e nei quattro GAG che trattiamo fa eccezione solo l’acido ialuronico, riguarda l’aggiunta di gruppi solfato all’aminozucchero.  Acido ialuronico: formato dall’acido glucuronico, (glucosio che ha subito un’ossidazione sul gruppo carbossilico del C-6) e da N-acetil-glucosammina (glucosio che ha subito una sostituzione di un idrossile con un gruppo amminico che poi è stato ulteriormente acetilato). È una caratteristica molto frequente dei gag di avere acidi uronici e amminozuccheri, con la sostituzione di un gruppo idrossilico con un gruppo amminico. Questo disaccaride viene ripetuto circa 50.000 volte e difatti rappresenta il GAG più esteso. Ha il ruolo di fornire idratazione e sostegno ad alcune strutture e si trova nel liquido sinoviale delle articolazioni (capacità di idratare perché GAG sono fortemente idrofilici), nell’umor vitreo, nella cartilagine e nei tendini.  Condroitinsolfato: formato da acido glucuronico e da N-acetil-galattosammina. Disaccaride che si ripete 20-60 volte e prende parte alla composizione della cartilagine, dei tendini, dei legamenti e delle pareti dell’aorta. Subisce inoltre un’altra modifica che è l’aggiunta di un gruppo solfato a livello dell’N-acetil- galattosammina. Infatti un’altra modifica importante nei GAG che è assente soltanto nell’acido ialuronico è la presenza di un gruppo solfato.  Cheratansolfato: formato da galattosio e N-acetil-glucosammina (che presenta una solforazione). Disaccaride che si ripete circa 25 volte e si trova prevalentemente a livello della cornea, della cartilagine, delle ossa e delle strutture cornee. (Unico GAG che manca di acido uronico, e cioè della modifica sul C-6)  Eparina: formata da acido iduronico e N-glucosammina (che subisce tre tipi di solforazioni – più gruppi solfato - su tre posizioni diverse e una solforazione la subisce anche l’acido iduronico). Disaccaride che si ripete circa 15-90 volte. Le parti solforate della molecola interagiscono con enzimi, fattori di crescita e componenti dell’ECM e altri fattori presenti nel plasma. Eparansolfato: presenta maggior numero di residui solforilati rispetto all’eparina. Queste macromolecole sono molto importanti perché la presenza di un grande numero di solforazioni permette (all’eparina e, soprattutto, all’eparansolfato) di avere un ruolo significativo nella regolazione e nell’avvio di alcuni processi cellulari. I GAG come abbiamo visto hanno locazioni che sono comuni (ex. cartilagini) e poi ci sono delle specificità in base alle loro caratteristiche (come per esempio la presenza del condroitinsolfato sulle pareti dell’aorta). I gruppi solfato, al pari di quelli carbossilici, sono gruppi funzionali che portano cariche negative e per questo i GAG vengono anche detti mucopolisaccaridi acidi. Sempre per la presenza di carica negativa questi sono molto reattivi e estremamente idrofili. Funzioni, sintesi e degradazione È importante che i mucopolisaccaridi siano sintetizzati nelle giuste quantità perché questi svolgono funzioni molto importanti quali:  Funzione strutturale (prevalentemente svolta dall’acido ialuronico, dal cheratansolfato e condroitinsolfato)  Funzioni di segnalazione e di regolazione (tipiche dell’eparansolfato) Garantirne la disponibilità e la sintesi adeguata. D’altra parte però è fondamentale che siano degradati in maniera adeguata in modo tale che non si abbia un aumento eccessivo dei livelli di GAG nella cellula. Difatti nel momento in cui si verifica un’alterazione nel processo di degradazione lisosomiale dei GAG, dovuto ad un deficit in uno degli svariati enzimi che partecipano a questo processo, si può avere un accumulo di questi eteropolisaccaridi che determina la comparsa di stati patologici (patologie da accumulo lisosomiale), chiaramente se la quantità di tali molecole supera una certa soglia. Tali malattie vanno sotto il nome di mucopolisaccaridosi normalmente portano a difetti di crescita e a ritardi psicomotori. Il livello di gravità dipende da dove si interrompe la via di degradazione, da qual è l’intermedio che si accumula e dall’effetto che si ha nei vari tessuti. Una delle patologie più gravi è la sindrome di Hurler o gargolismo, determinata dal deficit funzionale dell’ enzima α-iduronidasi che non consente una corretta eliminazione dei mucopolisaccaridi (nonostante ci sia una sintesi continua per il loro turnover). I sintomi che si osservano sono:  Nanismo disarmonico, ossia disturbo e disarmonia nell’accrescimento  Ritardo psicomotorio  Rigidità articolare, a causa di un accumulo di GAG a livello del liquido sinoviale delle articolazioni  Opacità corneale, dovuta all’accumulo anche a livello della cornea e dell’umor vitreo (acido ialuronico, condroitinsolfato)  Epatosplenomegalia, cioè un aumento del volume di fegato e milza  Malformazioni cardiache (dovuto a accumulo di condroitinsolfato nelle pareti dell’aorta)  Dismorfismi facciali per accumulo di mucopolisaccaridi nei tessuti facciali. Ha quindi difetti funzionali su vari organi. I GLICOCONIUGATI Spesso le componenti polisaccaridiche si possono associare ad altre classi di molecole per formare i cosiddetti glicoconiugati. Sono molecole costituite quindi da una porzione saccaridica e da una di altra natura. Glicoconiugati con proteine  Glicoproteine→ componente proteica prevale su quella glicidica;  Proteoglicani→ componente glicidica prevale su quella proteica in quanto rappresentata da GAG che come abbiamo visti sono molto estesi. Iconograficamente (dall’immagine di lato) non sembra ma appunto l’estensione di questi eteropolisaccaridi è molto elevata ed è per questo che la parte saccaridica da un punto di vista di percentuale di massa prevale su quella proteica Questi si possono trovare: Associati alle membrane: in particolare a quella plasmatica con la parte saccaridica rivolta verso l’esterno della cellula (proteoglicani). Come proteine che vengono secrete o nell’ambiente extracellulare (divenendo componenti della matrice extracellulare - proteoglicani) o nel plasma (solo e soltanto glicoproteine). Glicoconiugati con lipidi Nei glicolipidi la parte saccaridica si unisce a dei lipidi di membrana formando delle strutture in cui la porzione lipidica è associata alla membrana, mentre quella saccaridica è rivolta verso il versante extracellulare. Sono formati attraverso delle modifiche che subiscono alcuni lipidi di membrana la cui testa polare esposta nel versante extracellulare è una catena oligosaccaridica. Sono importanti per indurre delle segnalazioni oppure ad esempio i gangliosidi (glicolipidi contenenti acido sialico) contribuiscono alla definizione dei gruppi sanguigni (è proprio la tipologia della ramificazione saccaridica che viene unita o a delle proteine o a dei lipidi a definire l’appartenenza ad un gruppo sanguigno). Altro esempio: i lipopolisaccaridi batterici sono porzioni lipidiche che hanno una specifica ramificazione saccaridica sulla membrana esterna di questi microorganismi e che sono alla base della loro tossicità esplicata. Sono i principali bersagli sia dei farmaci sia degli anticorpi prodotti dal sistema immunitario in risposta all‘infezione batterica. LE GLICOPROTEINE Le glicoproteine sono presenti a livello delle cellule animali in percentuale molto elevata, circa il 60% delle proteine extracellulari presenta una componente saccaridica. Ci sono infatti tantissimi enzimi, transferasi, deputati all’aggiunta di una porzione saccaridica ad una proteina e mutazioni a carico di questi enzimi hanno effetti molto rilevanti. Questo ci fa pensare al ruolo fondamentale delle glicoproteine. Ma perché la glicosilazione delle proteine è un evento così ricorrente e importante? 1. Aumento della solubilità della proteina stessa (importante nel caso di proteine che normalmente sarebbero poco solubili, perché le loro zone idrofobiche sarebbero mascherate dalla presenza delle ramificazioni glicosidiche che sono invece idrofile) La maggior solubilità nei solventi acquosi è un vantaggio importante per esempio nel caso in cui la proteina glicosilata si trovi a circolare nel torrente ematico. 2. Aumento dell’emivita delle proteine perché le catene saccaridiche le rendono meno capaci di essere riconosciute dalle proteasi (Riduzione proteolisi grazie alla presenza di una porzione saccaridica→ Aumento emivita). 3. Etichettatura per eventi di localizzazione intracellulare o indirizzamento metabolico. L’aggiunta garantisce quindi una corretta localizzazione intra/extracellulare perché diventa una sorta di etichetta che guida la proteina verso la sua ubicazione definitiva (sorta di targeting). 4. Controllo della qualità: le proteine una volta sintetizzate a livello del ribosoma vanno incontro ad un processo di ripiegamento tridimensionale (folding) che consentirà alla proteina stessa di assumere la sua struttura nativa a cui conseguentemente viene associata una determinata funzione. Durante tale processo è fondamentale l’aggiunta di un residuo saccaridico perché questo sarà un modo per controllare il raggiungimento di un corretto folding proteico: se il folding avviene, l’unità saccaridica viene eliminata e la proteina è libera di uscire all’esterno, viceversa, se questo non avviene, ‘l’etichetta’ saccaridica permane e quindi la proteina, che non ha raggiunto la sua struttura, verrà degradata in quanto non capace di svolgere la sua funzione. Inoltre la porzione saccaridica aiuta e facilita il raggiungimento del corretto folding proteico. 5. Regolazione dell’attività: ci sono solo due residui amminoacidici nelle proteine che possono accogliere la porzione saccaridica, la serina e l’asparagina*. Ad esempio la serina diventa un target fondamentale per una modifica post traduzionale (anche tirosina e treonina ma in maniera differente) importante per regolare l’attività enzimatica. Spesso infatti per regolare rapidamente l’attività di una proteina si usa come interruttore (per spegnere o per accendere) l’aggiunta o rimozione di un gruppo fosfato. Se alla serina viene associata una ramificazione saccaridica questa non potrà più essere fosforilata, e quindi l’aggiunta di tale residuo impedisce la fosforilazione (che può essere sia attivatoria-enzima spento che inibitoria-enzima attivo) divenendo un meccanismo di regolazione mutuamente esclusivo. Gli enzimi per stimolare una risposta rapida non possono procedere a variare il livello di espressione delle proteine, si dovrebbe passare da una trascrizione, da una traduzione: processi troppo lunghi. Serve una risposta molto veloce. * Serina e Asparagina  Serina: amminoacido che ha gruppo idrossilico nella sua catena laterale. Nell’unione tra ossidrile e residuo saccaridico si forma un ponte costituito da ossigeno (-O-) e quindi si parla di O- glicosilazione e di legame O-glicosidico. Aggiunta di pochi monosaccaridi o raramente di piccole catene oligosaccaridiche. Glicosilazione minima della proteina.  Asparagina: amminoacido che ha gruppo ammidico nella sua catena laterale. Tale gruppo si lega alla ramificazione saccaridica tramite un ponte di azoto (-N-) e quindi si parla di N-glicosilazione e di legame N-glicosidico. Lega catene oligosaccaridiche più lunghe rispetto alla serina. Spesso hanno un nucleo pentasaccaridico comune (2 residui N-acetil-glucosammina+3 residui di mannosio) e poi la ramificazione evolve in maniera diversa a seconda del tipo di glicoproteina che si va a considerare. Ex. ramificazione ad alto mannosio quando al nucleo saccaridico tutte le altre ramificazioni vedono soltanto monomeri di mannosio. Saranno sottoposte all’aggiunta di ramificazione saccaridica soltanto le Asn e le Ser che sono inserite in un certo intorno aminoacidico che si chiama sequenza consenso, non a caso ma in un preciso intorno amminoacidico. Per l’asparagina abbiamo Asn-X-Ser/Thr. Alcuni esempi di glicoproteine: Eritropoietina (EPO)  Prodotta dalle cellule renali ma va ad agire a livello del midollo dove induce il differenziamento dei precursori eritroidi in eritrociti, determinando quindi l’eritropoiesi.  Presenta poche O-glicosilazione e molte N-glicosilazioni.  Il 40% del peso è determinato dalla porzione saccaridica perché questa gli consente di essere più stabile a livello del torrente ematico, quindi di non andare incontro a proteolisi, di essere estremamente solubile e ancora di avere una maggiore attività rispetto alla forma che non viene glicosilata.  Viene prodotta dal rene ad esempio quando ci esponiamo a quote elevate dove l’aria è rarefatta, e quindi la pressione parziale dell’ossigeno si abbassa, e si devono mettere in moto tantissimi adattamenti fisiologici (a breve e lungo termine) per cercare di far arrivare il più possibile l’ossigeno ai tessuti. Uno di questi adattamenti è aumentare l’ematocrito, quindi aumentare il numero di globuli rossi legato appunto all’eritropoietina. Questo perché i globuli rossi contengono l’emoglobina, e l’emoglobina è il trasportatore di ossigeno. (Altri adattamenti fisiologici ad esempio sono l’aumento del battito cardiaco – attività di pompa per spingere il sangue nei tessuti periferici - e della frequenza respiratoria). Virus dell’influenza  Funziona sfruttando delle glicoproteine perché contiene un recettore (emoagglutinina), che è una lectina che può legarsi alle porzioni saccaridiche delle glicoproteine esposte sulla membrana della cellula ospite. Contiene anche un enzima, la neuroamminidasi, che è una sialidasi che va a rompere alcune catene saccaridiche presenti sempre a livello dell’ospite. La lectina serve per una prima fase di attracco ma poi durante il rilascio dei nuovi virioni formatesi, questi rimangono attaccati al complesso lectina-glicoproteine e quindi per il loro rilascio è importante l’attività dell’enzima che va a staccare queste porzioni saccardiche e consente al virione di essere rilasciato dalla cellula ospite. Infatti i farmaci antivirali, oltre a quelli che bloccano la duplicazione degli acidi nucleici virali, o agiscono come inibitori dell’emoagglutinina (impediscono ai virioni l’attracco) o come inibitori della neuroamminidasi (impediscono ai virioni di lasciare la cellula). Possiamo quindi considerarli due antigeni target delle strategie farmacologiche. Attracco dei leucociti, in particolare dei neutrofili, a livello dei siti di infezione  I legami con le glicoproteine sono molto importanti durante il reclutamento dei neutrofili nei siti di infezione o infiammazione. Il leucocita ha infatti sia delle glicoproteine sulla propria superficie sia dei recettori (integrine) che hanno la capacità di legarsi a delle glicoproteine presenti sulle cellule endoteliali dei vasi.  I neutrofili circolando nel torrente ematico vengono richiamati per chemiotassi (indotta dal rilascio di alcune citochine) a livello del sito di infezione, e nel momento in cui arrivano in prossimità il leucocita deve entrare all’interno del tessuto. La prima fase di attracco dei neutrofili avviene unendo le proprie glicoproteine di superficie a delle lectine (in particolare selectine P) espresse dalle cellule endoteliali. I neutrofili si fermano sulla parete interna del vaso e cominciano il cosiddetto processo di “rolling” (di rotolamento) sul vaso, fino a che il legame debole tra la glicoproteina dei neutrofili e la selectina P del vaso, non viene rafforzato per interazione delle integrine dei leucociti con le glicoproteine delle cellule endoteliali. A questo punto si ha la migrazione trans-endoteliale e l’uscita dei neutrofili dal circolo. I PROTEOGLICANI Sono macromolecole sempre costituite da una porzione proteica e una saccaridica MA in questo caso quest’ultima prevale sulla prima in quanto costituita da GAG (non più piccole catene oligosaccaridiche). I glicosamminoglicani che prevalentemente fanno parte dei proteoglicani sono: il condroitinsolfato e l’eparansolfato. Questi si legano sempre a livello di un residuo di serina di una proteina (che deve essere all’interno di una sequenza consenso) mediante un piccolo tetrasaccaride giunzionale (porzione costituita da 4 monosaccaridi che fa da aggancio tra la serina della proteina e il GAG). Funzioni:  Strutturale: danno forma, struttura e resistenza alla matrice extracellulare (particolarmente presenti nel tessuto connettivo). Definiti anche organizzatori tissutali.  Promuovono adesione cellula-matrice: le cellule ancoraggio-dipendenti non potrebbero vivere se non interagissero con i componenti proteici della matrice extracellulare perchè da questa adesione arrivano degli stimoli antiapoptotici e proliferativi che permettono sopravvivenza delle cellule stesse. Se una cellula del tessuto connettivo la isoliamo dalla sua capacità di ancoraggio, la cellula muore proprio per questi stimoli.  Regolano la coagulazione del sangue *  Attivano fattori di crescita ** I proteoglicani possono essere quindi sia proteine che si trovano nella matrice extracellulare (come abbiamo visto sopra) sia proteine che si trovano localizzate a livello della membrana plasmatica e la cui porzione saccaridica (GAG) sporge nel versante extracellulare. Quest’ultime possono essere di due tipologie: dei sindecani o dei glipicani.  Sindecano: la porzione proteica è una proteina transmembrana – è fisicamente inserita nel bilayer lipidico - che ha un dominio transmembrana (TM) e un dominio extracellulare a cui vengono associate 3-5 catene di condroitinsolfato e eparansolfato.  Glipicano: la porzione proteica non riguarda una proteina fisicamente associata alla membrana in maniera diretta ma attraverso un’ancora lipidica, ancora GPI (di glicosilfosfatidilinositolo), che la trattiene legata ai fosfolipidi di membrana. La porzione saccaridica associata è di 2-3 catene di eparansolfato. L’eparansolfato, formato da Domini NA: domini senza modificazioni Domini NS altamente solforilati – grossa quantità di gruppi fosfato: legano specifiche proteine extracellulari e fanno agire la molecola da fattore di segnalazione che può andare a favorire dei processi di segnalazione cellulare o dei processi fisiologici importanti. È proprio per questa sua caratteristica di segnalazione che è il GAG più presente nei proteoglicani. La presenza di questi gruppi fosfato altamente fosforilati rende conto delle capacità segnalatorie e regolatorie dell’eparansolfato che fa parte dei proteoglicani. Alcuni esempi delle attività dei proteoglicani legate alla presenza dell’eparansolfato: a. Partecipazione al processo di coagulazione*: questi proteoglicani sono di solito degli anti- coagulanti perché sui domini NS altamente fosforilati si può andare a legare l’antitrombina. Quando l'antitrombina si lega al dominio NS subisce una modifica conformazionale, per cui diventa particolarmente affine al fattore Xa (decimo) della coagulazione. Il legame tra l'antitrombina e il fattore Xa (è come se venisse sequestrato) impedisce a quest'ultimo di partecipare alla cascata proteolitica che induce il processo di coagulazione. Quindi in definitiva l’eparansolfato è un inibitore del processo di coagulazione. b. Potenziamento dell'interazione proteina-proteina: sempre agendo sul processo di coagulazione, i domini NS dell'eparansolfato che legano l’antitrombina fanno si che questa, cambiando conformazione, possa legarsi anche alla trombina. Legando la trombina impedisce a questa di poter agire e quindi impedisce con una seconda modalità il processo di coagulazione. In sintesi: L’eparansolfato agisce da inibitore del processo di coagulazione sia per attivazione conformazionale dell’antitrombina che per localizzazione dell’antitrombina inattivata in prossimità̀ della trombina. Anche l’eparina, così come l’eparansolfato per la presenza dei gruppi solfato, impedisce la coagulazione e per questo motivo l'eparina viene inserita nelle provette che normalmente vengono utilizzate per i prelievi ematici. c. Partecipare come coadiuvanti alla segnalazione mediata da alcuni fattori di crescita**: l’FGF, fattore di crescita dei fibroblasti (anche se in realtà ha molti altri target ma per la prima volta è stato identificato con questo ruolo), normalmente viene secreto in basse concentrazioni. Per favorire la sua attività di segnalazione serve per prima cosa l’FGF deve andare a legarsi al proprio recettore specifico che è esposto sulla membrana delle cellule target. I proteoglicani contenti eparansolfato vanno proprio a facilitare questo legame perché il recettore per l’FGF, per funzionare, deve essere in forma dimerica e il dominio NS dell’eparansolfato favorisce proprio la dimerizzazione del recettore. Inoltre il dominio NS è affine sia al recettore ma anche al ligando (FGF) e quindi compie un effetto ‘calamita’ richiamando tale fattore. Lego il recettore, ne facilito la dimerizzazione ma nello stesso tempo richiamo l’FGF. In sintesi i proteoglicani sono considerati organizzatori della segnalazione cellulare perché vanno a determinare un aumento della concentrazione locale sia dei dimeri recettoriali sia dei ligandi specifici. d. Aiutare l’attività di un enzima: ad esempio i domini NS dell’eparansolfato (con alta densità delle cariche negative) hanno un’affinità molto forte per la lipoproteina lipasi (carica positivamente), un enzima che serve a scindere le lipoproteine plasmatiche, cioè quelle strutture lipoproteiche che servono a trasportare lipidi complessi in circolo. L’azione dell’eparansolfato è proprio quella di determinare un accumulo locale delle lipoproteine lipasi che consentono il rilascio da parte delle lipoproteine, arrivate nel sito specifico, dei trigliceridi e la loro assunzione da parte della cellula target. Gli LDL e le HDL sono lipoproteine e si legano alle cellule muscolari, al tessuto adiposo e come si fa a estrarre i trigliceridi dalle lipoproteine e consentirne l’ingresso nelle cellule muscolari e negli adipociti? Lo si fa grazie all’attività delle lipoproteine lipasi. Quindi quando una lipoproteina ha raggiunto una cellula target, grazie a particolari proteine che la traghettano verso il tessuto specifico, dovrà cedere i trigliceridi e questo avverrà grazie alle lipoproteine e l’eparansolfato serve a determinare un accumulo locale di lipoproteine lipasi che consente il rilascio di trigliceridi e l’assunzione di trigliceridi da parte di una cellula target. Aggregati proteoglicanici I proteoglicani, come abbiamo già detto prima, hanno anche un ruolo strutturale e fanno parte, come componenti, della matrice extracellulare. In questo caso il GAG più presente è l’acido ialuronico che oltre le caratteristiche viste in precedenza (assenza di solforilazioni e enorme estensione) ha anche la capacità di legare dei proteoglicani andando a formare strutture molto grandi, da un punto di vista di massa, che diventano altamente idrofiliche e cioè riescono sia ad idratare la matrice che a darle struttura. Questi grossi aggregati prendono proprio il nome di aggregati proteoglicanici e sono formati da una molecola di acido ialuronico a cui sono legati, tramite una proteina di legame (‘bottoncino’ giallo in figura) tanti aggrecani, e cioè dei proteoglicani. Hanno dimensioni talmente elevate (Mr = 2 ∗ 108 Da) che sono ben visibili al microscopio elettronico e presentano una struttura che possiamo definire spugnosa. Il singolo aggrecano è costituito da uno scheletro proteico, da tante copie di condroitinsolfato (rosso in figura) e poche copie di cheratansolfato (blu in figura). Funzioni:  Assicurare l’adesione delle cellule alla matrice extracellulare: queste macromolecole riescono ad interagire fisicamente con dei recettori esposti sulla membrana delle cellule che sono dei recettori integrinici che permettono l’attacco della cellula stessa alla matrice (senza questa adesione si perdono i segnali prosurvivor necessari per vivere). Tramite questi recettori partono delle vie di segnalazione che possono guidare anche dei processi importanti come la migrazione e l’invasione cellulare.  Assemblaggio matrice extracellulare: così come i proteoglicani stessi, anche gli aggregati proteoglicanici si vanno a legare ad altre componenti puramente proteiche (come fibronectina e collageno) per andare a formare, dare struttura alla matrice extracellulare assemblandola. (Organizzatori tissutali). GLI AMMINOACIDI Gli amminoacidi (AA) sono i componenti delle strutture proteiche. Differiscono dai monosaccaridi perché oltre ad essere costituiti da carbonio, idrogeno e ossigeno presentano anche l’azoto dovuto al gruppo funzionale caratterizzante amminico -NH2 e la struttura base è quella riportata di lato. Un amminoacido infatti è costituito da un carbonio centrale definito carbonio α a cui sono legati quattro sostituenti diversi. Tre sostituenti sono sempre gli stessi in tutti gli aminoacidi ossia un idrogeno -H, un gruppo carbossilico -COOH che normalmente a livello del citosol è in forma deprotonata (- COO-), e un gruppo amminico -NH2 che nel citosol risulta in forma protonata (-NH3+) e il quarto sostituente è un gruppo R, che prende il nome di catena laterale. È proprio la catena laterale che va a definire l’identità dei singoli amminoacidi e che quindi li differenzia l’uno dall’altro. Il carbonio α, legando 4 sostituenti diversi, è un centro chirale. C’è solo un’eccezione che riguarda la glicina, l’amminoacido più semplice che ha come catena laterale un secondo atomo di idrogeno -H. Essendo il carbonio α un centro asimmetrico, questo avrà due stereoisomeri: uno stereoisomero D e uno L. Nel caso degli amminoacidi è stato introdotto anche un altro tipo di stereoisomeria, la stereoisomeria R-S che si correla con la capacità degli AA di essere molecole otticamente attive. Prendendo un amminoacido e facendolo attraversare da un fascio di luce polarizzata, a seconda della configurazione D o L, questo devierà il fascio di luce polarizzata o verso dx o verso sx. Quindi si distinguono amminoacidi levogiri che sono quelli che deviano il fascio di luce verso sx, e si dice che questi hanno configurazione S (equivalente alla configurazione D), se invece deviano il fascio verso dx, sono destrogiri, e si indica che appartengono alla configurazione R (equivalente alla configurazione D). In realtà la configurazione che più utilizzeremo sarà quella che li accomuna ai monosaccaridi e quindi quella D-L. Il modo di associare un amminoacido alla serie D o alla serie L è simile a quanto detto per i monosaccaridi. Nel caso dei monosaccaridi per determinare l'appartenenza ad una serie o all'altra scrivendo la formula prospettica di Fisher si pone in alto l'atomo di carbonio a maggior numero di ossidazione e poi si va a vedere se il gruppo -OH legato al centro chiralico si trova a dx o a sx (a sx è un L, a dx un D). Stesso discorso vale per gli amminoacidi, infatti vengono descritti anch'essi con la formula prospettica di Fisher: in alto viene posto il carbonio a stato di ossidazione più alto (in questo caso il gruppo carbossilico COO-) e poi si va a vedere la disposizione del gruppo amminico legato al centro chirale. Se il gruppo -NH2 è sulla sx allora l'amminoacido appartiene alla serie L mentre se si trova sulla dx allora l'amminoacido appartiene alla serie D. NB: Tutti i monosaccaridi presenti in natura appartengono alla serie D, mentre gli amminoacidi che costituiscono le proteine, soprattutto quelle appartenenti ai vertebrati superiori, appartengono alla serie L. I D amminoacidi si trovano solamente come componenti delle proteine batteriche. Gli amminoacidi vengono identificati con il loro nome per intero, o con il codice a tre lettere, o con il codice o una lettera. Quello maggiormente usato è il codice a tre lettere. Classificazione amminoacidi Gli amminoacidi che entrano a far parte della composizione delle proteine sono 20 e si distinguono sulla base della natura e struttura chimica della loro catena laterale in due grosse classi, a cui appartengono anche dei sottogruppi:  AA APOLARI, insolubili in H2O→ quindi idrofobici: i. catena R alifatica: Glicina (unico senza centri chirali e otticamente INattivo, Alanina, Valina- Leucina-Isoleucina (definiti ramificati), Prolina (presenta ciclo intramolecolare con la catena laterale richiusa sul gruppo amminico), Metionina (contiene anche zolfo S); ii. catena R aromatica, presentano un anello aromatico: Fenilalanina, Tirosina, Triptofano.  AA POLARI, solubili in H20→ quindi idrofilici: (a pH neutro) i. Catena R carica positivamente (risiede su gruppo amminico): Lisina, Arginina, Istidina (fondamentale per mantenere pH costante a livello intracellulare perché funziona come soluzione tampone nell’intorno della neutralità.) ii. Catena R non carica: Serina, Treonina, Cisteina (contiene anche zolfo S), Asparagina (consente legami n-ammidici), Glutammina iii. Catena R carica negativamente (risiede su gruppo carbossilico): Aspartato, Glutammato MATERIA E LEZIONE Biochimica l lezione 3 DATA 19/11/2021 PROFESSORE Giannoni COPPIA Giulia Gozzi/Riccardo Gabbani Abbiamo incominciato a parlare di amminoacidi e abbiamo visto un’iniziale classificazione dei 20 amminoacidi in base alla loro polarità e quindi abbiamo distinto una classe di amminoacidi polari e una classe di amminoacidi apolari. Gli apolari vengono suddivisi in aromatici e alifatici e i polari in polari privi di carica, polari con carica positiva e polari con carica negativa, tutto questo a pH neutro. Questo è un amminoacido che fa parte degli amminoacidi apolari con catena alifatica, la glicina è l’amminoacido più semplice in assoluto, l’unico amminoacido che non presenta centri chirali e ha come catena laterale R un idrogeno. Si trova quindi ad avere il carbonio alfa che non ha quattro sostituenti diversi. La glicina viene inserita tra gli amminoacidi apolari perché non ha sulla catena laterale dei gruppi polari, infatti l’idrogeno non dà polarità alla molecola ma non si può neanche definire un forte amminoacido apolare perché non ha dei gruppi che consentono di formare delle interazioni idrofobiche come l’anello aromatico o il gruppo metilico, o i gruppi metilenici; quindi diciamo che è un amminoacido che sta a ponte tra polari e apolari, non ha una forte apolarità e idrofobicità ma non si può dire che sia un amminoacido polare. Gli altri amminoacidi a catena alifatica che non presentano gruppi aromatici nel gruppo R effettivamente presentano gruppi funzionali con cui possono formare interazioni idrofobiche e quindi sono a pieno titolo apolari. Il primo è l’alanina, che, dopo la glicina, è l’amminoacido più semplice perché come gruppo laterale ha un gruppo metilico che può prendere parte alla formazione di interazioni idrofobiche ed quindi è un classico amminoacido di tipo idrofobico. Oltre all’alanina c’è la prolina, un amminoacido particolare perché nella sua catena laterale presenta tre gruppi metilenici (CH2) che sono legati al carbonio alfa però l’ultimo gruppo metilenico si va a legare al gruppo amminico legato al carbonio alfa. Si forma così una struttura ciclica in cui la catena laterale si ripiega su se stessa e va ad interagire direttamente, mediante formazione di un legame covalente, con il gruppo amminico in alfa e questo darà delle proprietà particolari alla prolina generando una struttura rigida dove la rotazione tra C alfa dell’amminoacido e C della catena laterale non sarà possibile. Gli altri amminoacidi apolari alifatici sono: la valina, la leucina, l’isoleucina e la metionina. Tutti questi hanno possibilità di formare interazioni idrofobiche tra loro e con altre molecole idrofobiche perché hanno nella loro catena laterale gruppi metilici e gruppi metilenici che consentono di formare queste interazioni. La valina la leucina e l’isoleucina vengono detti anche amminoacidi ramificati, mentre la particolarità della metionina è di contenere oltre a carbonio idrogeno, ossigeno e azoto anche un atomo di zolfo. La metionina è l’amminoacido con cui di solito parte la sintesi proteica, è quindi il primo che viene inserito per formare la catena polipeptidica dalla amminoacil-tRNA-sintetasi anche se spesso viene eliminato a seguito di processi post-traduzionali. Poi ci sono gli amminoacidi apolari che hanno come caratteristica tipica quella di contenere come gruppo R un anello aromatico. Esempi di questi amminoacidi sono: la fenilalanina, la tirosina e il triptofano. La fenilalanina ha un gruppo metilenico che si unisce all’anello aromatico, mentre la tirosina differisce dalla fenilalanina soltanto per l’aggiunta di un gruppo ossidrilico OH a livello dell’anello aromatico. La tirosina, quindi, resta un amminoacido apolare però la presenza del gruppo idrossilico le conferisce una piccola porzione polare così come il triptofano. Quest’ultimo, infatti, ha un anello aromatico nella sua catena laterale a 5 elementi che contiene un gruppo amminico e consente di formare deboli legami a idrogeno con l’acqua, quindi anch’esso, acquista una piccola porzione polare. La catena laterale del triptofano, formata dall’anello aromatico e da questo anello a 5 elementi viene detta anello indolico. Tutti e tre questi amminoacidi hanno la caratteristica di assorbire la luce ad una lunghezza d’onda di 280 nm nello spettro della radiazione ultravioletta. Questa caratteristica importante viene sfruttata sperimentalmente per determinare la concentrazione di proteine all’interno di una miscela; infatti fenilalanina, tirosina e triptofano sono amminoacidi molto presenti nelle proteine con percentuale diversa a seconda del tipo di proteine. Per il fatto che ogni proteina contiene un certo numero di residui aromatici, questo gli concede la possibilità di assorbire la luce ad una lunghezza d’onda di 280 nm. Sfruttando le caratteristiche spettroscopiche di questi amminoacidi aromatici si può andare a calcolare sperimentalmente attraverso lo spettrofotometro, la concentrazione di una miscela proteica. C’è infatti un’equazione che si chiama legge di Lambert-Beer che mette in relazione l’assorbanza ad una lunghezza d’onda di 280 nm di una miscela proteica con la sua concentrazione. Miscela proteica vuol dire che può essere un insieme di proteine diverse o una stessa proteina di cui vogliamo valutare la concentrazione. L’assorbanza, nel momento in cui la miscela viene irradiata da una lunghezza d’onda di 280 nm, assorbe questa radiazione luminosa e ne trasmette un’altra parte. L’assorbanza è il logaritmo in base 10 dell’intensità della luce incidente i0 diviso l’intensità della luce trasmessa i. Questa assorbanza è direttamente proporzionale alla concentrazione della proteina o miscela proteica secondo due costanti che sono epsilon (coefficiente di estensione molare) e l (cammino ottico). Sono due parametri costanti e noti. La miscela proteica viene messa all’interno di un piccolo contenitore all’interno dello spettrofotometro che si chiama cuvetta, la profondità della cuvetta corrisponde al cammino ottico. Quindi nel momento in cui epsilon e l sono noti, andando a valutare l’assorbanza (valore che ci dà lo spettrofotometro) possiamo definire la concentrazione in termini di molarità di una proteina purificata o di una miscela proteica. Questo grazie alle capacità di assorbimento specialmente di tirosina e triptofano, inoltre il triptofano è anche un amminoacido fluorescente. Per quanto riguarda invece gli amminoacidi polari, abbiamo detto che si distinguono in: privi di carica, carichi positivamente e carichi negativamente. Tutto questo considerando il grado di ionizzazione della catena laterale di ogni amminoacido ad un pH neutro che viene normalmente mantenuto sia a livello dell’ambiente intracellulare sia a livello plasmatico. Il gruppo degli amminoacidi polari non carichi comprende questi amminoacidi e tutti sono accomunati dall’avere un gruppo funzionale che può formare legami a idrogeno con l’acqua; da questo deriva l’idrofilicità di questi e la loro solubilità in acqua, infatti, in acqua riescono a solubilizzare tutte le molecole che hanno gruppi polari che riescono a formare legami a idrogeno con l’acqua. Questi amminoacidi hanno almeno uno di questi gruppi polari, o hanno il gruppo idrossilico come la serina e la treonina, o il gruppo sulfidrilico (SH) come la cisteina, che differisce dalla serina soltanto perché al posto del gruppo idrossilico ha un gruppo sulfidrilico. Asparagina e glutammina hanno due gruppi ammidici che rendono conto della polarità. A pH neutro però questi amminoacidi non presentano nessuna carica e sono quindi detti amminoacidi apolari privi di carica. Questi due invece, l’acido aspartico e l’acido glutammico, sono due amminoacidi che presentano nella catena laterale che differisce solo per un gruppo metilenico in più nell’acido glutammico, presentano entrambi un gruppo carbossilico. Il gruppo carbossilico al pari di quello legato al carbonio alfa si presenta a pH neutro in forma dissociata, quindi perde il protone e ciò determina la presenza di una carica negativa sul gruppo. Quindi a Ph neutro sia l’acido aspartico che l’acido glutammico, spesso detti aspartato e glutammato perché in forma dissociata, hanno questa carica negativa sul gruppo laterale. La capacità del gruppo carbossilico di ionizzarsi e perdere il protone viene quantifica dal valore di pKa che è la costante di dissociazione del gruppo carbossilico, diversa a seconda dell’amminoacido in questione. Il valore indicato tra parentesi è il pH a cui il gruppo carbossilico è per metà dissociato e per metà indissociato (COO-). Questo parametro pKa indica la tendenza di un gruppo funzionale di cedere un protone, più basso è pKa maggiore la tendenza del gruppo funzionale a ionizzarsi e cedere il protone, più alto è pKa minore sarà la tendenza del gruppo funzionale di comportarsi da acido e cedere il protone. La costante di dissociazione indica il pH in cui, in questo caso il gruppo carbossilico, ha la tendenza di perdere il protone e comportarsi da acido. Gli amminoacidi che invece a pH neutro presentano una carica positiva sono: la lisina, l’arginina, l’istidina. Tutti e tre hanno un gruppo amminico presente nella catena laterale che può perdere o accettare protoni. Anche in questo caso si può definire un pKa (diverso per i tre amminoacidi) ma in particolare la lisina e l’arginina hanno un pKa molto più alto di quello del gruppo carbossilico degli amminoacidi con carica negativa, perché questi gruppi amminici hanno una scarsissima tendenza a perdere il protone e normalmente sono in forma indissociata perciò perdono il protone solo quando si raggiungono valori di pH molto basici. Il pKa della lisina è 10.5 ed indica il pH in cui il gruppo amminico sulla catena laterale della lisina è metà dissociato e metà indissociato. Il pka del gruppo guanidinico dell’arginina, che presenta due gruppi amminici, è di 12.5; quindi c’è una scarsissima tendenza a cedere protoni e non si comportano come buone molecole acide. Per l’istidina il discorso è diverso, essa ha un anello imidazolico nella catena laterale e uno degli azoti di questo anello può legare un protone o può dissociarsi da questo protone, esiste quindi in forma ionizzata o non ionizzata. Il pka di questo gruppo funzionale (gruppo imidazolico) è pari a 6, un valore di pH molto più vicino alla neutralità e ciò vuol dire che l’istidina può accettare o cedere elettroni più facilmente intorno alla neutralità perciò quest’ultima diventa un buon sistema tampone nell’ambiente intracellulare. Mentre il sistema tampone del plasma è quello del bicarbonato, nel caso dell’ambiente intracellulare il pH neutro viene mantenuto sia grazie alla presenza del tampone fosfato sia soprattutto grazie alla presenza delle proteine che hanno un alto contenuto in istidina, che avendo un pKa vicino alla neutralità garantisce di mantenere un pH costante all’interno della cellula e opporsi alla variazione di pH provocata dalla produzione di molecole acide o particolarmente basiche. Quindi la catena laterale dell’istidina, che può cedere o accettare un protone, si comporta da buon sistema tampone nell’ambiente intracellulare. In realtà non solo i gruppi funzionali degli amminoacidi possono essere gruppi ionizzabili, ma tutti gli amminoacidi hanno almeno due gruppi ionizzabili; sia il gruppo amminico sia il gruppo carbossilico legato al carbonio alfa degli amminoacidi e quindi presenti in tutti gli amminoacidi sono due gruppi ionizzabili. Ogni amminoacido indipendentemente dalla natura della catena laterale potrà comportarsi da acido o da base. Infatti, in dipendenza dal pH cui viene esposto l’amminoacido, esso potrà presentarsi in tre forme diverse: - Una forma che viene detta diprotica; nella forma diprotica il gruppo amminico e il gruppo carbossilico legati al carbonio alfa sono protonati, questo fa sì che la carica netta dell’amminoacido sia pari a +1. Questa forma viene detta diprotica perché ha entrambi i gruppi funzionali in alfa che mantengono il protone. - L’altra forma è quella che ha carica netta pari a 0: in questo caso il gruppo carbossilico legato in alfa risulta dissociato (deprotonato), mentre il gruppo amminico presenta ancora il protone ad esso legato. La carica netta dell’amminoacido è pari a 0 perché le due cariche si annullano tra di loro. - La terza forma è completamente deprotonata, in cui anche il gruppo amminico perde il proprio protone e si converte in forma dissociata e quindi la carica netta dell’amminoacido è pari a -1. Queste tre forme si vanno a convertire l’una nell’altra a seconda del pH a cui viene esposto l’amminoacido. Questa sopra è un’immagine di una curva di titolazione di un amminoacido: si va a vedere come si comportano i gruppi ionizzabili di un amminoacido in funzione del pH, si vanno a valutare tutti i punti di pH mettendo prima l’amminoacido in una soluzione a pH 0 costituita da HCl 1 M (concentrazione pari a 14 molare degli ioni H+); dopo di che si va ad aggiungere soda (NaOH) che va via via ad aumentare il pH della soluzione finché non si arriva a pH 14 che corrisponde alla soda 1 molare. Che cosa succede all’amminoacido andandolo a titolare, e quindi andando a variare il pH della soluzione? A pH 0 l’amminoacido si presenta in forma diprotica, perché tutti e due i gruppi funzionali legati al carbonio alfa sono in forma indissociata. Man mano che si aggiunge la soda e il pH comincia ad aumentare si vede che pian piano la forma diprotica comincia a calare perché comincia a dissociarsi il gruppo carbossilico, man mano che aumenta il pH si arriverà a valori di pH compatibili con un’iniziale dissociazione del gruppo carbossilico. Si raggiungerà il valore di pKa del gruppo carbossilico legato al carbonio alfa che è quel valore di pH a cui il gruppo carbossilico è per metà in forma dissociata e per metà indissociata. Si arriva quindi ad un valore di pH in cui si comincia a perdere il protone da parte del gruppo carbossilico ma il gruppo amminico è ancora in forma protonata. Continuando ad aumentare il pH si arriverà ad un punto in cui il gruppo carbossilico ha ormai perso il protone ed è completamente in forma dissociata, ma il gruppo amminico ancora non ha iniziato a perdere il protone perché non abbiamo ancora raggiunto valori di pH compatibili con la sua costante di dissociazione. Quindi siamo davanti alla seconda conformazione a carica netta pari a 0 in cui il gruppo amminico è ancora in forma completamente indissociata e il gruppo carbossilico in forma deprotonata. Questa forma viene detta zwitterionica e ha carica netta pari a 0. Se si continua ad aumentare il pH ad un certo punto si raggiungerà anche la costante di dissociazione del gruppo amminico ed esso diventerà per metà in forma dissociata e per metà in forma indissociata e solo continuando ad aumentare il pH raggiungeremo la completa dissociazione del gruppo amminico e l’ultima forma dell’amminoacido cioè quella completamente deprotonata, in cui entrambi i gruppi funzionali legati al carbonio alfa hanno ormai perso il loro protone. Quindi in un amminoacido il gruppo carbossilico è sicuramente quello più acido, cioè quello che ha la maggior tendenza a cedere il protone e infatti lo fa a valori di pH più bassi: il suo pKa, che è più basso, indica che il gruppo carbossilico ha una buona tendenza a cedere il protone, mentre il gruppo amminico ha una scarsa tendenza a cedere il protone, infatti, lo fa solo quando si raggiungono pH molto basici. Senza dubbio il gruppo amminico e carbossilico li hanno tutti gli amminoacidi, però il pKa del gruppo carbossilico e amminico dei diversi amminoacidi non è sempre lo stesso: varia in un range molto piccolo ma dipende anche dall’intorno chimico in cui questi gruppi funzionali sono esposti. In generale però il pka del gruppo carbossilico degli amminoacidi oscilla tra 1.8-1.4 (molto acido); il pka del gruppo amminico oscilla tra 8.8-11 e quindi bassissima tendenza a cedere il protone. La caratteristica dell’amminoacido di perdere o accettare protoni gli permette di comportarsi da acidi o da basi e questa è una proprietà della forma zwitterionica, essa ha il gruppo amminico a uno stato indissocciato e il gruppo carbossilico allo stato dissociato. Questa è la forma prevalente a pH neutro ed è per questo che tutti gli amminoacidi visti prima si presentavano con il gruppo carbossilico COO- e il gruppo amminico sotto forma di NH3+. Però a seconda di come varia il pH nella cellula, questa forma zwitterionica può comportarsi da acido o da base; se l’amminoacido in forma zwitterionica, precedentemente a pH neutro, viene esposto ad un ambiente basico allora lo zwitterione si comporta da acido e va a cedere il protone del gruppo amminico e passerà nella forma completamente deprotonata; se invece lo zwitterione viene esposto ad un ambiente acido, andrà a protonare il gruppo carbossilico e quindi si comporterà da base. A seconda del pH lo zwitterione può comportarsi sia da acido sia da base. Questo comportamento è relativo solo ai gruppi alfa-amminici e alfa-carbossilici degli amminoacidi. Ogni amminoacido ha però una catena laterale ed è possibile che nella catena ci siano altri gruppi ionizzabili quindi ci saranno amminoacidi con un comportamento acido-base solo relativo ai gruppi amminico e carbossilico legati in alfa, altri che invece avranno comportamenti acido-base legati anche alla natura della catena laterale. Per quanto riguarda la glicina essa ha come catena laterale un idrogeno, quindi nessun gruppo ionizzabile, esso infatti si comporta come acido-base solo per i gruppi alfa- amminico e alfa-carbossilico. Se vogliamo vedere la curva di titolazione della glicina, vediamo che aumentando il pH cui viene esposta, questa partendo da pH acido presenta entrambi i gruppi funzionali legati al carbonio alfa in forma indissociata. Man mano che il pH aumenta si raggiunge la costante di dissociazione del gruppo carbossilico e quindi il gruppo carbossilico comincia a perdere il protone: il valore del pka del gruppo carbossilico della glicina è 2.34, valore in cui il pH è metà dissociato e metà indissociato. In corrispondenza di questo punto del grafico abbiamo il primo punto di flesso nella curva di titolazione della glicina. Se si continua ad aumentare il pH, si arriva ad un altro punto di flesso chiamato punto isoelettrico. Il punto isoelettrico (pi) è il valore di pH in cui il gruppo carbossilico è arrivato ad una forma completamente dissociata, mentre il gruppo amminico ancora non ha iniziato a dissociarsi. È quindi il valore di pH in cui l’amminoacido è in forma zwitterionica. Aumentando ancora il pH si arriva ad un altro punto di flesso corrispondente al pka del gruppo amminico che per la glicina è 9.6: questo indica il valore di pH a cui il gruppo amminico è per metà in forma protonata e per metà deprotonata, arriverà a perdere il protone e assumerà la forma completamente deprotonata con l’aumentare del pH. Quindi nella curva di titolazione della glicina si possono trovare due regioni che sono corrispondenti ai due pKa dei gruppi titolabili che sono il gruppo carbossilico e amminico che definiscono le regioni tamponanti a cui l’amminoacido glicina può funzionare appunto da sistema tampone. Le due regioni tamponanti sono relative ai punti di flesso della curva di titolazione e in particolare ai due pKa del gruppo carbossilico e del gruppo amminico. La regione tamponante si estende di un’unità di pH in più e in meno rispetto al valore di pKa, ciò vuol dire che il gruppo carbossilico della glicina riesce a tamponare una soluzione in un range di pH che va da 1.34 a 3.34, mentre la capacità tamponante del gruppo amminico si esprime tra 8.6 e 10.6. È chiaro che la glicina non può tamponare in ambiente neutro fisiologico perché ha due regioni tamponanti una fortemente acida e una fortemente basica quindi non sarà un amminoacido sfruttato come sistema tampone nell’ambito della neutralità. Il punto isoelettrico (pH a cui l’amminoacido si presenta in forma zwitterionica) è la media aritmetica dei valore di pKa dei due gruppi titolabili. Visto che la glicina ha solo due gruppi ionizzabili, viene definito come la maggior parte degli amminoacidi, un amminoacido diprotico perché può perdere al massimo due protoni. In particolare, per quanto riguarda il punto isolettrico, per valori di pH inferiori al punto isoelettrico la glicina presenta una carica positiva e quindi è in forma diprotica, mentre, per valori superiori al punto isoelettrico, presenta una carica negativa e quindi è in forma deprotonata. Però, per tornare all’esempio dell’istidina, ci sono degli amminoacidi che hanno un gruppo ionizzabile anche nella catena laterale. In questo caso questo aminoacido non viene definito diprotico ma è triprotico perché sono tre i gruppi ionizzabili a livello dell’istidina: il gruppo alfa-carbossilico, il gruppo alfa amminico e il gruppo imidazolico presente nella catena laterale. Se si osserva la curva di titolazione dell’istidina possiamo vedere tre regioni tamponanti che sono relative ai valori di pka del gruppo carbossilico, al pka del gruppo imidazolico della catena laterale e al pka del gruppo amminico. Se si parte da pH 0, l’istidina si presenta in froma completamente protonata, in questo caso triprotica perché tutti e tre i gruppi sono protonati; quando si comincia a salire con il pH il gruppo funzionale più acido è anche questa volta il gruppo carbossilico che comincia a perdere il protone e si converte in una forma intermedia che mantiene però due cariche positive perché solo il gruppo carbossilico è stato ionizzato mentre il gruppo amminico e imidazolico hanno ancora il protone, quindi contiene due cariche positive di cui una viene annullata dalla carica negativa del gruppo carbossilico. La forma triprotica quindi triprotica dell’istidina ha carica +2, la sua forma diprotica ha carica +1. Se si continua ad aumentare il pH ad un certo punto si arriva alla forma zwitterionica, quindi inizialmente si avrà la dissociazione del gruppo amminico della catena laterale finché si raggiunge il pKa di dissociazione del gruppo imidazolico dell’istidina dove la catena laterale sarà per metà dissociata e per metà indissociata. Continuando ad aumentare il pH tutto il gruppo imidazolico sarà in forma dissociata e resterà in forma protonata solo il gruppo alfa amminico, questa sarà la forma zwitterionica in cui la carica netta è uguale a 0. Continuando ad aumentare il pH anche il gruppo amminico perderà il protone e si raggiungerà la forma completamente deprotonata con carica netta pari a -1. Le regioni tamponanti dell’istidina sono tre corrispondenti ai valori di pKa dei tre gruppi titolabili che sono: gruppo alfa carbossilico, gruppo imidazolico e gruppo alfa amminico e questi valori sono pari a: 1.82, 6 e 9.17. Le capacità tamponanti dei gruppi amminico e carbossilico non sono applicabili alle soluzioni intracellulari, mentre la capacità tamponante del gruppo imidazolico consente all’istidina di funzionare come sistema tampone intorno alla neutralità: infatti l’istidina può tamponare introno a valori di pH che vanno da 5 a 7, è quindi un buon sistema tampone per l’ambiente intracellulare. Qualche accenno sulla disponibilità degli amminoacidi a livello alimentare sul fatto che a differenza dei microorganismi noi non abbiamo la capacità di sintetizzare in modo autonomo, attraverso le vie metaboliche endogene, alcuni amminoacidi. Gli amminoacidi che possiamo sintetizzare, in quanto abbiamo a disposizione il corredo enzimatico necessario per la loro biosintesi, sono gli amminoacidi non essenziali; mentre quelli invece che non riusciamo a sintetizzare e che dobbiamo introdurre con la dieta sono detti essenziali. Per quanto riguarda gli amminoacidi essenziali devono essere introdotti con la dieta in una quantità tra i 700-800 mg al giorno. Tra gli amminoacidi ci sono anche quelli definiti semi-essenziali: cisteina e tirosina. Noi non possiamo sintetizzare questi amminoacidi partendo da precursori semplici perché ci mancano gli enzimi ma possiamo sintetizzarli a partire da amminoacidi essenziali: dalla metionina possiamo ottenere la cisteina e dalla fenilalanina possiamo ottenere la tirosina. È però assolutamente opportuno che sia garantito l’apporto di metionina e fenilalanina. Ci sono poi amminoacidi essenziali solo nella prima infanzia perché all’inizio gli enzimi per la biosintesi non sono espressi in quantità sufficienti e quindi devono essere introdotti con la dieta. Successivamente si acquista la capacità di sintetizzarli in modo autonomo; uno dei più caratteristici è l’arginina. Questi sono gli alimenti in cui più maggiormente si ritrovano gli amminoacidi essenziali e se guardate attentamente ci sono degli alimenti in cui si trovano tutti gli amminoacidi essenziali: le uova, il latte e in parte la carne vedono una buona rappresentazione. La fenilalanina è molto presente nel riso integrale e nel grano, l’istidina è presente in buona quantità nel pesce. Gli amminoacidi sono delle molecole estremamente reattive; la prima reattività di cui possiamo parlare è sicuramente la reattività dei gruppi alfa amminici e alfa carbossilici perché è grazie a questi gruppi che si crea il legame tra i vari amminoacidi e si va a costituire la catena polipeptidica. La formazione di una catena polipeptidica si avviene grazie alla reattività di due amminoacidi che reagiscono tra loro, in una reazione catalizzata da un enzima, dove il gruppo carbossilico di un amminoacido presenta un’alta reattività per un gruppo amminico di un altro amminoacido. In seguito a catalisi enzimatica si ha una reazione di condensazione, quindi perdita di una molecola di acqua, e formazione di un legame

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