Cap. 2 - Pena: Caratteristiche e Finalità PDF

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Questo documento approfondisce le caratteristiche e le finalità della pena nel contesto del diritto. Viene analizzata la teoria retributiva e la prevenzione, evidenziando come la pena sia una sanzione afflittiva che serve ad assicurare il rispetto delle norme e la sicurezza sociale.

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CAP. 2 - PENA: CARATTERISTICHE E FINALITÀ Premessa La pena è la più drastica e la più afflittiva delle sanzioni di cui un sistema giuridico possa disporre per garantire l’effettiva osservanza dei suoi precetti ed è anche ciò che più contraddistingue questa branca del diritto. Essa ri...

CAP. 2 - PENA: CARATTERISTICHE E FINALITÀ Premessa La pena è la più drastica e la più afflittiva delle sanzioni di cui un sistema giuridico possa disporre per garantire l’effettiva osservanza dei suoi precetti ed è anche ciò che più contraddistingue questa branca del diritto. Essa rientra nel più ampio genere delle CONSEGUENZE SANZIONATORIE PUNITIVE, nel cui ambito confluiscono ulteriori meccanismi di reazione all’inosservanza delle norme, appartenenti ad altri rami dell’ordinamento giuridici o e tutti aventi in comune l’impronta inderogabile dell’afflittività. Si parla, dunque, di “conseguenze sanzionatorie”: perché la sanzione in generale, e quella punitiva a fortiori, sono sempre, per definizione, conseguenza di un fatto illecito. Es. per questo che pagare un’imposta non è una sanzione mentre lo sono la multa, l’ammenda e la sanzione amministrativa pecuniaria. Si può dire allora che illecito e sanzione sono concetti che si pongono in un rapporto logico di implicazione reciproca e necessaria→ non può esservi illecito senza sanzione né sanzione che non sia conseguenza d’illecito. Alle sanzioni punitive si affiancano le SANZIONI RIPRISTINATORIE e quelle c.d. RIPARATORIE. Sono dirette a ricostruire una certa situazione Sono rivolte alla reintegrazione della quale essa si presentava prima della perdita patrimoniale determinata da violazione del precetto, annullandone gli fatto illecito (è il caso del risarcimento del effetti sul piano giuridico o materiale. danno). La pena, da un pov logico, appare come un MALE NECESSARIO: una conseguenza della norma giuridica intesa come comando, oltre che come garanzia di beni ed interessi, e quindi connaturata alla stessa esistenza del diritto. Senza essa il diritto cesserebbe di essere una disciplina capace di imporsi coattivamente per degradare a complesso di norme solo eticamente vincolanti. Si è detto che la pena rappresenta la sanzione punitiva per antonomasia: il che può indurre a pensare che essa produca i suoi effetti soltanto ex post (nel momento successivo al verificarsi della violazione). Ma in realtà la pena COMINCIA AD AVERE LA SUA RAGION D’ESSERE ED A SVOLGERE UNA SUA FUNZIONE GIÀ ALL’ATTO DELLA POSIZIONE DELLE NORME, nel momento in cui essa viene astrattamente minacciata dal legislatore alla generalità dei consociati come conseguenza della violazione di quelle stesse norme. I caratteri essenziali della pena: afflittività e significatività simbolico-espressiva. La pena è per forza afflittiva (essa consiste nell’inflizione di un male, di una sofferenza)→ L’AFFLITTIVITÀ CONSISTE dunque IN UNA DI QUELLE CONDIZIONI MINIME senza le quali la pena cesserebbe di essere tale. La PREMIALITÀ è invece caratteristica di una tipologia di meccanismi sanzionatori (detti premiali) volti ad incentivare comportamenti conformi alle regole poste dalle norme giuridiche e contrapposti alle pene (che operano invece in chiave disincentivante, in quanto tendono a scoraggiare i loro destinatari a commettere in futuro fatti penalmente illeciti). Il male che s’infligge consiste nella privazione o nella diminuzione di beni individuali di pertinenza dei soggetti passivi della sanzione (vita, libertà personale…)→ per questo si dice che la pena rappresenta un’ARMA A DOPPIO TAGLIO: tutela dei beni giuridici attraverso la lesione di altri beni. Nel nostro sistema penale la pena è l’UNICA SANZIONE PUNITIVA IN GRADO DI INCIDERE (anche se solo in via mediata tramite il meccanismo della conversione delle pene pecuniarie) SUL BENE PRIMARIO COSTITUZIONALMENTE GARANTITO: la libertà personale. P.S. una componente di afflittività può riscontrarsi anche in altre tipologie sanzionatorie (es. il risarcimento del danno determina comunque una perdita patrimoniale in pregiudizio dell’obbligato ma si tratta di un effetto collaterale e accessorio di una misura funzionale al conseguimento di un altro obiettivo non della sua ratio essendi) Le sanzioni punitive devono trovare applicazione solo nei confronti di chi abbia commesso l’illecito→ PRINCIPIO DI PERSONALITÀ DELLA RESPONSABILITÀ PENALE Tale principio (nella sua minima accezione di responsabilità per fatto proprio) è un corollario del carattere necessariamente afflittivo della pena. Autore della violazione e soggetto passivo della sanzione devono necessariamente coincidere. Una pena ingiusta nell’an prima ancora che nel quantum (perché inflitta ad un soggetto diverso da quello al quale dovrebbe irrogarsi) sarebbe un controsenso da qualunque pov: - Da un lato→ una pena minacciata e poi inflitta indiscriminatamente a soggetti diversi dall’autore del fatto non potrebbe che operare come fattore di disorientamento dei consociati, i quali non avrebbero motivo di osservare i precetti penali - Dall’altro→ la rieducazione non può essere imposta ma solo proposta al condannato, la cui disponibilità a farsi rieducare dipende in larga misura dal fatto che egli percepisca come giusta la pena che gli sia stata inflitta. Alla pena va riconosciuta una spiccata VALENZA IN CHIAVE SIMBOLICO-ESPRESSIVA→ in essa si esprime un giudizio di disapprovazione sociale del fatto e del suo autore. La pena è dunque l’unica sanzione che produce CENSURA, che innesca un processo di degradazione nella fase della criminalizzazione secondaria È proprio questa valenza sul piano della comunicazione simbolica ciò che consente di distinguere la pena dall’altra specie di SANZIONE punitiva: quella AMMINISTRATIVA. Nel nostro sistema essa può avere un importo più elevato delle pene pecuniarie (multa, ammenda) o avere un identico contenuto. Ma resta il fatto che tale sanzione esprime un giudizio attenuato in termini di disvalore sociale in relazione all’illecito commesso. Il dibattito sui fini della pena. Vi è da chiedersi quale sia il motivo che legittima la minaccia prima e, poi, l’inflizione di un male come conseguenza dell’inosservanza di un precetto. Bisogna chiedersi dunque quali siano le finalità assegnate alla pena nel quadro delle molteplici e complesse dinamiche del sistema giuridico. P.S. Naturalmente, quando si parla della questione dei fini della pena, si fa riferimento alle sanzioni afflittive da applicare al giudice, all’esito del processo… mentre nulla hanno a che vedere con questo discorso le misure coercitive applicate in via cautelare nel corso del processo (anche se queste finiscono per assumere il ruolo di “pene anticipate”). I diversi orientamenti possono ricondursi a 3 differenti idee-giuda: IDEA DELLA RETRIBUZIONE→ la pena retributiva è rivolta al passato: è un “dover essere” il cui significato sta tutto nell’esigenza, etica prima ancora che giuridica, di compensare, con l’inflizione di un male, il male rappresentato dal fatto commesso. La pena interpretata in chiave preventiva guarda invece al futuro, è un mezzo per prevenire la commissione di reati. IDEA DELLA PREVENZIONE GENERALE→ ha come destinatari la generalità dei consociati e il fine che si persegue è quello di trattenere la collettività dal delinquere; IDEA DELLA PREVENZIONE SPECIALE→ ha come soggetto l’agente concreto. Qui si vuole vitare che torni a delinquere chi ha già delinquito (si intende contrastare il fenomeno della recidiva) C.D. TEORIE SINCRETISTICHE (O ECLETTICHE)→ variante che cerca di combinare e ricomporre in una sintesi unitaria i precedenti pov, con una maggiore accentuazione di uno di essi (retribuzione, prevenzione generale e speciale) rispetto agli altri. Mentre la retribuzione assume come punto di riferimento la colpevolezza, con la prevenzione l’accento si sposta sulla pericolosità dell’autore concreto o sulla potenziale attitudine di ogni individuo a violare la legge penale. La teoria retributiva. La TEORIA RETRIBUTIVA è quella che corrisponde di più all’idea di giustizia radicata nell’immaginario collettivo. È una TEORIA ASSOLUTA perché per essa la pena sarebbe del tutto svincolata dal perseguimento di qualunque scopo valutabile in termini di convenienza sociale. La PENA È ORIENTATA AL PASSATO perché si deve punire quia peccatum est, perché c’è un malum actionis e c’è una culpa da ripagare. È indubbia la sua VALENZA GARANTISTA→ in questa prospettiva l’unica pena concepibile è la pena giusta, e giusta è solo la pena che corrisponde alla gravità del fatto commesso e all’intensità della colpevolezza dell’autore. Sono posti LIMITI INVALICABILI AL POTERE PUNITIVO DELLO STATO, i quali possono riassumersi nei 2 principi cardine di PROPORZIONE e COLPEVOLEZZA. I RAPPORTI TRA PENA E CONSAPEVOLEZZA possono descriversi IN TERMINI DI BILATERALITÀ→ la pena presuppone una colpevolezza da retribuire e la colpevolezza, a sua volta, è ciò che fonda la pena e ne reclama l’inflizione al colpevole. La colpevolezza, dunque, da un lato legittima la pena e, dall’altro, la rende inevitabile. Una volta accertata la colpevolezza, la pena non può non essere applicata: nulla poena sine culpa, nulla culpa sine poena. Ma proprio per queste sue relazioni con la colpevolezza, LA CONCEZIONE RETRIBUTIVA È ENTRATA IN CRISI, essenzialmente per 2 motivi: 1) LA COLPEVOLEZZA, in quanto fondata sul principio della libertà del volere, NON È IN GRADO DI FORNIRE UN’ADEGUATA LEGITTIMAZIONE DELLA PENA 2) LA PENA, essendo la pena conseguenza necessaria della colpevolezza, DOVREBBE TROVARE SEMPRE E COMUNQUE APPLICAZIONE anche quando essa non risulti funzionale al conseguimento di obiettivi socialmente utili (perché non necessaria o non opportuna). Le correnti neoretribuzionistiche. L’idea retributiva non è tuttavia stata definitivamente archiviata. Da qualche decennio sono affiorate CORRENTI DI PENSIERO (etichettate come NEORETRIBUZIONISTICHE) inclini ad attribuire alla pena una particolare valenza sul piano della psicologia collettiva. La pena sarebbe determinata in base a quanto risulti necessario per compensare l’insicurezza e i potenziali impulsi a delinquere dei cittadini, vale a dire in base al bisogno di sanzione della collettività. Sono sorte, però, alcune perplessità: - Innanzitutto, perché una efficace strategia sanzionatoria non può essere fondata sui bisogni di una punizione, mutevoli ed irrazionali, della collettività, i quali meritano attenzione da parte del legislatore ma vanno comunque valutati con grande accortezza - Una prospettiva tutta incentrata sugli effetti psicosociali della punizione porta fatalmente a relegare sullo sfondo le esigenze personali (in primis rieducative) del condannato, subordinandole a quelle della società (trascurando come un sistema che valorizzi il recupero non sia semplicemente un lusso rispetto alle esigenze della società ma si ponga al centro delle strategie preventive). La prevenzione generale. Con le teorie preventive, l’accento si sposta dal quid peccatum est al NE PECCATUR→ la pena non è più fine a se stessa ma è un mezzo orientato ad uno scopo: evitare, in futuro, la commissione di fatti penalmente illeciti. All’idea di pena “giusta” subentra quella di PENA “UTILE”. Ecco perché si parla anche di TEORIE RELATIVE (cioè, vincolate a uno scopo da perseguire) o UNILATERALISTICHE (in contrapposizione alle teorie retribuzionistiche che invece reclamano l’attributo dell’assolutezza). Mutano il ruolo e il significato di illecito e di colpevolezza, che non sono più le ragioni giustificative della pena. Ciò che invece assume rilievo la POTENZIALE ATTITUDINE A DELINQUERE dei membri della collettività, cioè la pericolosità dell’autore del fatto È nei confronti di costoro che la pena dovrebbe esercitare la sua azione (dissuasiva o persuasiva) scoraggiandoli dal commettere in futuro fatti penalmente illeciti. Se, come e quanto punire andrebbero determinati in funzione di tale obiettivo. Qualora l’azione preventiva della pena sia rivolta indistintamente alla generalità dei consociati, si parla di PREVENZIONE GENERALE→ la quale può essere qualificata, a seconda delle diverse modalità del suo operare, come NEGATIVA o POSITIVA. (Segue) La prevenzione generale negativa. La minaccia legale di una pena, quale conseguenza della violazione di una norma, spiegherebbe l’EFFETTO DETERRENTE, di coazione psicologica, nei confronti dei consociati, dissuadendoli dal trasgredire i precetti penali. La prospettazione anticipata della pena opererebbe insomma come fattore motivante sulla psiche e sul comportamento dei potenziali trasgressori. L’inflizione della pena e la sua esecuzione altro non sarebbero che 2 necessari passaggi ulteriori di questo percorso sanzionatorio (senza i quali verrebbe meno la serietà della minaccia legale). L’immagine del sistema punitivo che si profila lascia perplessi: un sistema chiuso al dialogo, fondato esclusivamente sulla paura della punizione. Le OBIEZIONI MOSSE ALLA TEORIA DELLA PREVENZIONE NEGATIVA sono molteplici: a) Essa pecca per ECCESSO DI ASTRAZIONE RAZIONALISTICA in quanto prospetta un modello di autore potenziale dell’illecito in grado di ponderare le proprie scelte comportamentali e di valutare in anticipo i pro e i contro delle proprie azioni→ ora, una tipologia d’autore di questo tipo non si addice ai delitti perpetrati sull’onda di un improvviso moto dell’animo (es. chi uccide perché colto da un impeto d’ira di certo non riflette) b) Un approccio basato esclusivamente sulla prevenzione generale comporterebbe il RISCHIO DI UNA STRUMENTALIZZAZIONE DEL CONDANNATO per fini generali di politica criminale→ ciò colliderebbe con il principio di personalità della responsabilità penale e si porrebbe in contradizione con quella “istanza personalistica di fondo, per la quale ogni uomo deve essere trattato non come un mezzo per scopi che lo trascendono, ma come un fine in sé”. In un’ottica del genere potrebbero giustificarsi l’astratta previsione da parte del legislatore, e poi l’applicazione ad opera del giudice, di pene di inaudita severità (sproporzionate rispetto alla gravità del fatto e al grado di colpevolezza dell’autore) funzionali all’obiettivo di contenere la potenziale attitudine a delinquere della collettività. (Es. Niente impedirebbe che per il furto di biciclette venisse comminata la pena della reclusione da 10 a 20 anni, se tale pena è considerata necessaria per arginare il dilagare di tale fenomeno) Non è detto, d’altra parte, che un esasperato rigore repressivo sortisca sempre gli effetti sperati sul piano della prevenzione dei reati. Può addirittura produrre l’effetto contrario: PENE TROPPO SEVERE SONO DESTINATE A RESTARE LETTERA MORTA perché i giudici, più delle volte, si asterrebbero dall’applicare agli autori dei reati Ciò che assume rilievo in questa prospettiva sono, più della severità delle pene, la prontezza e la certezza della loro applicazione (“un sufficiente grado di probabilità che l’autore di reato sia condannato e punito”) senza che intercorra un lasso di tempo eccessivo dal momento in cui quel reato è stato commesso. (Segue) La prevenzione generale positiva. Invece che sull’effetto deterrente, l’accento può spostarsi sull’AZIONE PEDAGOGICA che la minaccia legale della pena è in grado di svolgere sui destinatari dei precetti sanzionati penalmente→ si parla di PREVENZIONE GENERALE POSITIVA Il messaggio che s’intende rivolgere alla collettività, attraverso la previsione di norme incriminatrici, è chiaro: CERTE CONDOTTE SONO DISAPPROVATE E NON POSSONO ESSERE TOLLERATE, certi valori e certi beni giuridici meritano una tutela rafforzata, onde garantire una pacifica convivenza e la stabilità dei rapporti sociali. La disapprovazione normativa di certe condotte illecite dovrebbe concorrere a RINFORZARE LA COSCIENZA MORALE E GIURIDICA DEI CONSOCIATI, e ciò porterebbe ad una diminuzione del numero dei reati. Tutto questo non può prescindere da UN GRADO SUFFICIENTE DI DETERMINATEZZA DELLE FATTISPECIE LEGALI→ perché solo le norme formulate in maniera tassativa, traducibili in chiare e precise direttive di comportamento, sono in grado di incidere sul modo di pensare ed agire dei consociati. L’attitudine della pena a operare come fattore di orientamento culturale è subordinata peraltro alla convergenza di ulteriori condizioni: - OCCORRE CHE LA MINACCIA LEGALE TROVI CONFERMA NELLA APPLICAZIONE DELLA PENA (l’effettività del sistema è un presupposto necessario della sua credibilità). - OCCORRE CHE I VALORI TUTELATI DALL’ORDINAMENTO SI IDENTIFICHINO CON QUELLI GIÀ DIFFUSI NEL CONTESTO SOCIALE di riferimento. Questo processo culturale di apprendimento dei valori penalmente tutelati e socialmente condivisi è, in realtà, solo uno dei possibili effetti della prevenzione generale positiva. Gli altri sono: il RISTABILIMENTO NEI CONSOCIATI DELLA FIDUCIA NELLA PERMANENTE VIGENZA DELLA NORMA VIOLATA E NELLA “TENUTA” DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO (derivante dal fatto che esso è in grado di imporsi ai trasgressori e di ribadire il suo carattere vincolante) E UN EFFETTO DI PACIFICAZIONE SOCIALE (che si ottiene allorché la coscienza collettiva si “tranquillizza” e considera definitivamente risolto il conflitto con l’autore del reato) È soprattutto con riferimento a un tale effetto di pacificazione che oggi si parla di “prevenzione-integrazione). Un limite alla prevenzione generale positiva è stato nella sua “GIUSTIFICAZIONE STRUMENTALE”→ una pena la cui minaccia e la cui inflizione si giustificano solo in considerazione dell’influenza ch’essa esercita sul comportamento futuro dei cittadini finisce con il relegare in secondo piano la persona dell’autore del fatto (che anche in questo caso non sarebbe più trattato come “attore morale” bensì solo come mezzo per il perseguimento di uno scopo socialmente utile). In conclusione, queste teorie hanno un fondo di verità difficilmente contestabile, anche se la funzionalità generalpreventiva di un sistema risulta difficile da verificare sul piano empirico. P.S. Il fatto che poi, nonostante la minaccia e l’applicazione delle pene, si continui a commettere reati non dimostra l’inefficacia della prevenzione generale. Si può replicare che la stragrande maggioranza dei cittadini si comporta in modo conforme ai precetti giuridici ed è ragionevole supporre che molti più reati sarebbero commessi se si rinunciasse alla pena come strumento di controllo sociale. La prevenzione speciale. La prevenzione speciale SI FOCALIZZA SULL’AUTORE DEL FATTO ILLECITO. La pena serve a far sì che costui non riprenda la strada che lo ha portato a delinquere. Ancora oggi si intende distingue 3 modus operandi della prevenzione speciale: 1) NEUTRALIZZAZIONE→ “neutralizzare” qualcuno significa porlo nelle condizioni di non poter più delinquere. La neutralizzazione CONSISTE NELL’EMARGINAZIONE e quindi nell’incapacità materiale o giuridica del soggetto passivo dell’azione. Qui non si opera per agevolare la reintegrazione del deviante bensì per emarginarlo ancora di più, se non per escluderlo in via definitiva dal contest dei rapporti sociali. Con riferimento alla neutralizzazione di parla di PREVENZIONE SPECIALE NEGATIVA. 2) INTIMIDAZIONE→ nei confronti del condannato la pena dovrebbe operare come COAZIONE PSICOLOGICA volta a distoglierlo dal commettere in futuro altri delitti (una funzione analoga a quella che la stessa pena svolgerebbe nei confronti della generalità dei consociati) Si parla di PREVENZIONE SPECIALE NEGATIVA. 3) RISOCIALIZZAZIONE→ l’unica prospettiva plausibile (e costituzionalmente imposta dall’art.27.3) è quella della risocializzazione, intesa come chance di RECUPERO SOCIALE che si offre agli autori di fatti penalmente rilevanti. L’idea della risocializzazione è quella che meglio corrisponde alle esigenze poste dal principio dello stato sociale. Si può parlare di PREVENZIONE SPECIALE POSITIVA. Un’altra variante della prevenzione sociale è l’EMENDA→ intesa come RIGENERAZIONE MORALE DEL CONDANNATO, rappresenta il punto d’arrivo di quel percorso di sofferenza psicofisica in cui si sostanzia la pena. L’emenda potrebbe però avere senso solo rispetto alle violazioni della legge penale che risultino anche moralmente riprovevoli (es. omicidio, violenza sessuale, rapina) Anche la teoria della prevenzione speciale ha suscitato molteplici perplessità: - La PENA SI CONNOTA, anche in questo caso, IN TERMINI DI EFFICACIA STRUMENTALE RISPETTO AL FINE DA PERSEGUIRE→ potrebbe dunque apparire legittimo ad es. il ricorso a pene detentive senza limiti di tempo o sproporzionate rispetto alla gravità del fatto commesso. - IN NOME DELLA RIEDUCAZIONE SI POTREBBERO ANCHE GIUSTIFICARE INTERVENTI MOLTO INVASIVI SULLA PERSONALITÀ DEGLI INDIVIDUI (es. somministrazione forzata di farmaci, tecniche di manipolazione della personalità→ rischio di una compressione degli spazi di libertà del singolo che vada oltre i limiti che si è disposti ad accettare in uno stato di diritto. D’altra parte, potrebbe anche darsi il caso di INDIVIDUI CHE, pur avendo delinquito, NON NECESSITANO DI ALCUN TRATTAMENTO DI RISOCIALIZZAZIONE in quanto sono già perfettamente integrati nel contesto sociale di appartenenza (es. l’autore di reati economici) o di individui rispetto ai quali il rischio di recidiva è pressoché nullo. Il “mito” della risocializzazione è già entrato in crisi da tempo, in particolare negli stati uniti e nei paesi scandinavi, dove si sono poste in discussione soprattutto l’ammissibilità di pene indeterminate nella durata e la possibilità di trattamenti disposti coattivamente a scopo terapeutico. Nell’occhio del ciclone si è trovata soprattutto l’ISTITUZIONE CARCERARIA→la pena detentiva è ancora vista come la sanzione penale per eccellenza, che, al di là dei buoni propositi, continua ad essere luogo di sofferenza, emarginazione e luogo ideale per l’apprendimento di modelli comportamentali devianti. Prendendo atto di questa realtà, oggi si ritiene che l’obbiettivo minimale da perseguire debba essere quello di evitare la desocializzazione del condannato. Ciò nondimeno, prima di deporre le armi e di prendere definitivamente congedo dall’idea rieducativa, bisognerebbe chiedersi se, in vista della sua concreta attuazione, sia stato fatto tutto il possibile o se invece rimanga ancora molto da fare. E la risposta non può che essere “no” alla prima domanda e “si” alla seconda. Le teorie sincretiche o eclettiche. Gli ORIENTAMENTI SINCRETISTICI si propongono di combinare in vario modo i differenti approcci teorici nel dichiarato intento di superarne i limiti e le difficoltà. La necessità di un APPROCCIO PLURIDIMENSIONALE AL PROBLEMA DELLA PENA si spiega anche alla luce della particolare conformazione degli attuali sistemi penali (i quali offrono indicazioni non univoche circa gli scopi che questa dovrebbe perseguire). Si tratta di EVIDENZIARE QUALE SIA LA FUNZIONE DELLA PENA (esclusiva o prevalente) in relazione alle diverse fasi della fenomenologia punitiva. La pena nella sua dimensione Costituzionale: il principio di umanità Art.27.3 cost→“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di UMANITÀ e devono tendere alla RIEDUCAZIONE del condannato” (2 principi fondamentali: quello di umanità e quello rieducativo). Il PRINCIPIO DI UMANITÀ opera come limite esterno invalicabile all’afflittività della sanzione penale e preclude al legislatore la possibilità di fare ricorso a pene che contrastino con il senso dell’umanità (per come è avvertito nel contesto socioculturale di riferimento)→ si pensi a quei trattamenti che producono sofferenze fisiche che ormai appartengono al passato (es. fustigazioni, mutilazioni…) o alle tecniche di manipolazione della personalità. Da questo pov, si deve ritenere che vivere in una situazione di sovraffollamento carcerario si ponga in contrasto con questo principio. In termini più ampi, la Corte costituzionale ritiene CONTRARIE AL SENSO DI UMANITÀ TUTTE QUELLE PENE CHE SI TRADUCONO IN UNA COARTAZIONE MORALE DELLA PERSONA E NON TENDONO AD ALCUNA FINALITÀ RIEDUCATIVA. Finalismo rieducativo quale connotato essenziale della pena costituzionalmente orientata. L’art. 27.3 cost. INDIVIDUA NELLA RIEDUCAZIONE LA FINALITÀ, perlomeno tendenziale, DELLA PENA. P.S. Vi è un legale indissolubile tra il principio della rieducazione e quello di colpevolezza→ non avrebbe senso una pretesa rieducativa rivolta nei confronti di colui al quale non possa muoversi alcun rimprovero per il fatto commesso e che dunque dimostri di non aver bisogno di essere rieducato. Eppure, per circa un quarto di secolo ha prevalso un ATTEGGIAMENTO CULTURALE CONSERVATORE che antepone il principio di umanità al finalismo rieducativo, per sostenere che la pena (anche nella sua dimensione Costituzionale) manterrebbe una connotazione afflittiva e avrebbe come scopo necessario la retribuzione. Si può, in primis, replicare che “pena umana” e “pena rieducativa” non coincidano affatto, potendo quest’ultima consistere anche in trattamenti contrari al senso di umanità. Il PRINCIPIO DI UMANITÀ MANTIENE, DUNQUE, INTATTA anche nell’ottica della rieducazione, LA SUA VALENZA GARANTISTICA, ponendosi come argine contro il rischio di possibili degenerazioni. Il fatto che vi sia un ulteriore “binario sanzionatorio” (quello delle MISURE DI SICUREZZA) orientato alla prevenzione speciale, non preclude la possibilità di collocare anche la pena nella medesima prospettiva. Le misure di sicurezza svolgono, rispetto alle pene, un insostituibile RUOLO COMPLEMENTARE, essendo destinate a fronteggiare la pericolosità dell’autore tutte le volte in cui quest’ultime (stante il limite rappresentato dal principio di colpevolezza) o non potrebbero trovare applicazione o sarebbero comunque inadeguate allo scopo→ e ciò legittima la sopravvivenza delle misure di sicurezza. Es. si pensi all’ipotesi di un grave fatto di sangue commesso da un individuo affetto da vizio totale di mente e che si supponga un’elevata probabilità di recidiva→ non gli si potrà applicare una pena perché non è configurabile un reato (di cui manca l’elemento essenziale della colpevolezza) e si potrà solo fare ricorso ad una misura di sicurezza (es. ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario) finalizzata alla prevenzione speciale sia in termini di neutralizzazione sia di riabilitazione. Ma cosa significa concretamente “RIEDUCAZIONE DEL CONDANNATO”? La rieducazione va intesa come RISOCIALIZZAZIONE, come attività volta a promuovere, fin dove è possibile, la reintegrazione ed il recupero sociale del reo, e ad incentivare comunque, una sua “presa di distanza” dalla precedente esperienza antisociale e la riacquisizione dei valori basilari della convivenza civile. La pena acquista, in tal modo, una sua indubbia VALENZA SUL PIANO ETICO (che una prospettiva unilateralmente appiattita sulle esigenze della prevenzione generale rischierebbe di farle perdere): deve essere una chance di reinserimento sociale che si offre al condannato per far sì che questi non cada un’altra volta nelle maglie della giustizia penale→ e ciò dimostra “che lo stato si interessa al destino personale del condannato e non lo abbandona al ruolo di mero strumento di politica criminale generale”. È inutile dire poi che ci sono molti modi per rieducare. Ma gli unici che possono ammettersi sono quelli COMPATIBILI CON I PRINCIPI DELLO STATO DI DIRITTO. La rieducazione, d’altronde, va concepita come qualcosa che si propone e non s’impone al condannato. Il CONDANNATO RESTA LIBERO DI DECIDERE SE ACCETTARE O MENO LA PROPOSTA RIEDUCATIVA e non può non essere in alcun modo costretto a farlo. Ed è proprio con questa chiave di lettura che va interpretato quel “tendere” di cui parla l’art.27.3. Principio di proporzione. Corollario del finalismo rieducativo della pena è il PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ. È uno dei criteri-guida che dovrebbero orientare le scelte del legislatore all’atto della posizione delle norme incriminatrici, allorché si tratta di predeterminare la species ed il quantum della pena applicabile ad un certo reato: LA RISPOSTA SANZIONATORIA DEVE ESSERE PROPORZIONATA AL DISVALORE DEL FATTO CUI VIENE COLLEGATA. Con ciò si intende dire che se una pena è in astratto sproporzionata al reato per il quale viene comminata, non potrà non esserlo anche in concreto, con riferimento al fatto storico conforme alla fattispecie tipica→ in questo caso il giudice non potrà fare altro che sollevare questione di illegittimità costituzionale per manifesta irragionevolezza della norma incriminatrice. Va da sé che in un sistema penale che voglia dare piena attuazione al principio di colpevolezza LA PROPORZIONALITÀ DELLA PENA DOVRÀ ESSERE VALUTATA IN RELAZIONE ALL’OFFESA considerata nella sua dimensione oggettiva ma anche in relazione al GRADO DI RIMPROVERABILITÀ dell’autore del fatto. L’AFFERMAZIONE DEL PRINCIPIO DI PROPORZIONE nel diritto penale→ porta a ritenere costituzionalmente illegittime quelle incriminazioni che producono, attraverso la pena, danni ai diritti fondamentali dell’individuo e alla società sproporzionalmente maggiori dei vantaggi ottenuti da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni. Quanto alla prevenzione generale è stato osservato come la MINACCIA DI UNA PENA ECCESSIVAMENTE SEVERA susciti sentimenti di ribellione nei delinquenti potenziali ed alteri nei consociati la percezione di quella corretta scala di valori che dovrebbe riflettersi nel rapporto tra i vari reati e sanzioni corrispondenti. Le finalità della pena viste in rapporto alle diverse fasi della sua dinamica. È chiaro che AL MOMENTO DELLA PREVISIONE LEGISLATIVA, LA PENA (essendo solo minacciata in astratto ed in via ipotetica ed essendo rivolta ad incertam personam) non ha ancora alcun significato, NON PUÒ SPIEGARE ALCUN EFFETTO, nei confronti di un autore che non si è ancora materializzato. Ma è altrettanto chiaro come, nel MOMENTO IN CUI QUESTI COMPARE SULLA SCENA, la prospettiva cambi e l’attenzione si focalizzi soprattutto sulla sua persona. Quindi, nella FASE DELLA POSIZIONE DELLE NORME, la pena non potrà che rivolgersi indistintamente a tutti i destinatari dei precetti e non potrà che perseguire il fine di distoglierli dal commettere fatti penalmente illeciti (anche in questa fase, si dovrà tener conto delle indicazioni dell’art.27.3). P.S. Il principio rieducativo dovrebbe avere un significato e una portata che coprono l’intero iter lungo il quale si svolge la dinamica della pena. Nella FASE DELL’APPLICAZIONE DELLA PENA, dovrebbe essere l’art.27.3 ad orientare la decisione giudice→ questi dovrebbe scegliere la sanzione che ritiene più adatta in vista dell’obiettivo di rieducazione di quel condannato. In questa sua scelta, tuttavia, egli incontra un limite nel principio di proposizione ed in quello di colpevolezza. Ma, posto questo limite, nulla impedisce al giudice di tenersi più o meno al di sotto di esso se ciò dovesse corrispondere alle esigenze della PREVENZIONE SPECIALE (se una pena inferiore dovesse risultare più idonea allo scopo). Nessuno spazio, invece, può riconoscersi in questa fase alla prevenzione generale quale criterio autonomo di commisurazione della pena. Ma è, ovviamente, nella FASE DELL’ESECUZIONE che l’idea rieducativa viene ad assumere un ruolo di primo piano e dovrebbe trovare piena attuazione. È in questa fase che si pone il problema di come GESTIRE IN CONCRETO IL RAPPORTO CON IL CONDANNATO, che bisogna “PERSONALIZZARE” IL TRATTAMENTO nei suoi confronti e di far sì che questi non torni a delinquere. La prevenzione generale resta comunque sullo sfondo: l’esecuzione della pena serve anche ad avvallare la serietà della minaccia e a rendere credibile l’intero sistema penale. I nuovi orizzonti della cosiddetta giustizi riparativa e la mediazione penale. Una corrente di pensiero progressista si è fatta strada negli ultimi anni→ ciò che si prospetta sono una presa di distanze dal consolidato paradigma commutativo della giustizia (fondato sul carattere della reciprocità della pena nei confronti del reato commesso) ed il RICORSO AD UN MODELLO ALTERNATIVO DI GIUSTIZIA (C.D. RIPARATIVA). La risposta al reato e il processo penale dovrebbero servire alla sua composizione ed al ristabilimento della comunicazione interrotta con l’autore dell’illecito penale. Tale risposta dovrebbe coinvolgere in modo “dialogico” il condannato e tradursi in un percorso impegnativo, segnato anche da sofferenza, che la porti fino “al recupero, per scelta personale, di un atteggiamento responsabile verso i beni giuridici offesi”. Nella gestione del conflitto viene esaltato il RUOLO PARTECIPATIVO DELLA VITTIMA ed anche la RIPARAZIONE DEL DANNO ASSUME in quest’ottica UN DIVERSO SIGNIFICATO→ non si tratta più di una prestazione economica che si offre al danneggiato per tacitarne la pretesa risarcitoria, ma piuttosto di un MODO DI ESPRIMERE L’IMPEGNO DELL’AUTORE DEL FATTO, il suo serio e fattivo adoperarsi nei confronti della vittima (una condotta positiva che dimostra dunque apertura verso la stessa e disponibilità di riconciliazione). Lo strumento privilegiato e più diffuso, nell’ottica di una giustizia dialogico-conciliativa, è dato dalla c.d. MEDIAZIONE→ può definirsi “un’attività in cui una parte terza e neutrale aiuta due o più soggetti a capire l’origine del conflitto che li oppone, a confrontare i propri punti di vista ed a trovare soluzioni, sotto forma di riparazione simbolica, prima ancora che materiale. Viene in questo modo rivalutata la figura della vittima, che si vede riconosciuto un ruolo attivo di primo piano nella gestione del conflitto (al quale ha dato origine il reato commesso). Si tratta di un programma ambizioso la cui attuazione comporterebbe una vera e propria svolta nell’approccio al reato e alla pena. Qualche apertura in tale direzione si riscontra nella produzione legislativa più recente (es. la riparazione dell’offesa, il risarcimento del danno e la mediazione sono stati particolarmente valorizzati dalla disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova introdotta nel 2014).

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