La Salute nei Secoli (PDF)

Summary

This document explores the evolution of health and medicine in ancient Rome, covering the Republican and Imperial periods. It examines the role of the Roman state in public health initiatives and individual healthcare practices. The text analyzes the integration of health and politics, demonstrating both advancements and societal perspectives of that time.

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dei tre contendenti: l’essere si sarebbe chiamato “uomo”, perché creato dall’humus, dal terreno”. Nell’ottica di questo mito, Cura accompagna l’uomo per tutta la vita e, poiché l’unica cosa che differenzia gli dèi dagli uomini è la morte, si trasforma nella peculiarità umana per eccellenza. Il...

dei tre contendenti: l’essere si sarebbe chiamato “uomo”, perché creato dall’humus, dal terreno”. Nell’ottica di questo mito, Cura accompagna l’uomo per tutta la vita e, poiché l’unica cosa che differenzia gli dèi dagli uomini è la morte, si trasforma nella peculiarità umana per eccellenza. Il “prendersi cura” viene rappresentato quindi come qualcosa di più di un complemento della vita: rappresenta una parte integrante di ogni vissuto, la struttura stessa dell’agire umano. L'età repubblicana: impegno concreto per la salute della città L’età Repubblicana fu caratterizzata dal ruolo primario dal Senato nel governo di Roma. In questo periodo Roma si espanse notevolmente, sia in Italia che nel Mediterraneo, a seguito delle guerre sannitiche e delle guerre puniche, raggiungendo una grande compattezza politico-istituzionale e una florida economia. A questa fase, intorno al IV secolo a.C., risalgono le prime notizie della presenza di medici nell’antica Roma. Si trattava di medici greci, per lo più schiavi, liberti e altri studiosi, che non facevano propriamente un esercizio professionale, ma erano essenzialmente dilettanti ed empirici, che impiegavano rimedi popolari, pratiche di ogni genere ed incantesimi. Dall’altro canto, questo periodo è caratterizzato dalla presenza di progredite ed importanti norme di igiene e sanità pubblica, grazie alla costruzione di numerosi acquedotti, bagni pubblici e grandi fognature. Sul finire della Repubblica, molti medici ebbero l'incarico di curare i gladiatori, furono addetti alle terme, al servizio e alla difesa dello Stato e fu loro concessa spesso anche la cittadinanza. La professione del medico, comunque, nonostante i successi dei primi medici greci a Roma, era vietata ancora ai patrizi e ritenuta degna solo per gli schiavi o per gli stranieri. L'età imperiale: ascesa e crisi della Roma Caput Mundi Nel 27 a.C. Roma vide la cessione del potere legislativo dal Senato a un singolo cittadino eminente, segnando l'inizio all’epoca dominata dai grandi imperatori. Il periodo imperiale fu caratterizzato fino al II secolo d.C. da una fase di grande prosperità e splendore, dovuto alle nuove conquiste e all'affermarsi di Roma come prima città del mondo allora conosciuta. A partire dal III secolo d.C., tuttavia, l’impero affrontò una profonda crisi politica ed economica, arrivando, nel IV secolo d.C., ad essere piegato dalle inarrestabili invasioni dei popoli oltre i confini: nel 476 d.C., infatti, il re barbaro Odoacre depose l'imperatore Romolo Augustolo e pose fine all'Impero Romano d'Occidente. In questo periodo storico così travagliato, anche l’impatto sulla salute del popolo viene fortemente condizionato. Nel periodo più fiorente dell’impero, venne messo ordine nell’esercizio professionale dei medici e venne sviluppata con cura tutta l’organizzazione della sanità pubblica: sotto Augusto, in particolare, fu ufficialmente introdotta la pratica medica nell'esercito e in seguito valorizzata anche tra la popolazione civile. In questa fase si ebbero i primi collegia medicorum e le prime scuole pubbliche di medicina sovvenzionate dallo Stato, il quale si preoccupò persino di rilasciare una probatio o legale abilitazione all'esercizio professionale. Nella fase più tardiva dell’impero, tuttavia, accanto alla crisi economica, i numerosi focolai pandemici (tra cui quello della famosa peste 63 Antonina, risalente al 165-180 d.C. circa) uccisero più di 5.000.000 di persone, inclusa una parte significativa dell'esercito romano, avendo un enorme impatto sul declino e la caduta dell'Impero Romano d’Occidente. L’accentuarsi dell’atteggiamento favorevole nei confronti della medicina popolare, con il progressivo decadimento dell’impero, si affiancò gradualmente ad una diffusa attitudine alla rinuncia della ricerca scientifica, al crescente impoverimento del ceto medio, all’insicurezza crescente dei traffici con l’Oriente, e per quanto riguarda la religione, all’emergere del cristianesimo. Quest’ultimo, che nel 380 d.C. divenne, per volere di Flavio Teodosio Augusto, religione unica e obbligatoria dell'Impero, consolidò via via la concezione dell’unione tra peccato e malattia e diffuse l’idea della salute come dono di Dio e della preghiera come mezzo per guarire. Il cambio della prospettiva religiosa determinò, accanto agli eventi storici che guidarono il declino di Roma, una progressiva messa in discussione del concetto di salute e di malattia inteso dai romani, chiudendo di fatto le porte dell’antichità per dare inizio al Medioevo. La grande storia di Roma, dal suo splendore alla sua caduta, ci offre numerosi spunti di riflessione sul tema dell’integrazione tra salute e politica, tra benessere e civiltà, e ci permette di ragionare sulle importanti analogie e differenze riscontrabili con la nostra realtà contemporanea. Figura 1: Linea del tempo della storia romana. La salute e il valore della vita per i romani: una cultura di paradossi Il termine italiano “salute” deriva dal latino “salus”, che letteralmente può tradursiin salvezza, incolumità e integrità, e ha una radice fortemente affine al termine, sempre latino, “salvus”, che significa salvo, incolume, ma anche esistente, vivente. Questa terminologia latina evoca la crucialità del tema di salute all’epoca dell’Antica Roma, creando un binomio indissolubile tra il benessere fisico e l’esistenza della persona. La cosa interessante, però, è che salus, che non a caso è anche il nome di una delle divinità venerate dai romani, Salus, è un termine che fa strettamente riferimento alla sfera pubblica, comunitaria della salute. Questo ci anticipa uno degli aspetti più 64 ammirevoli della cultura romana, secondo la quale la salute rappresenta una questione di stato, un dovere di tutela da parte dei governanti nei confronti della comunità dei cittadini. Il termine che fa riferimento alla sfera individuale della salute è invece “valetudo”, che letteralmente può tradursi in “stato di salute”, ma anche in malattia, infermità. Si tratta di un’espressione con una connotazione molto più pratica e terrena rispetto alla salus, e racchiude in sé un importante aspetto della cultura romana che è quello del valore della forza, del vigore e della prodezza dell’individuo. Per i romani, popolo di soldati e guerrieri, la “valetudo”, che tra l'altro significa anche “coraggio”, è infatti uno stato di salute che definisce la dignità umana sulla base dell’utilità, del potersi mettere a servizio di Roma come un membro attivo della società. La pragmaticità del popolo romano, che vedremo esprimersi in vari modi, a volte anche crudeli, si affianca paradossalmente alla nascita del concetto di “humanitas”, affermatosi a partire dal II secolo a.C. grazie al Circolo degli Scipioni, un gruppo culturale di nobili romani che intendeva diffondere a Roma la cultura greca. Essi progettavano una fusione tra gli ideali di perfezione, armonia e sviluppo delle doti umane propri della civiltà greca e i tradizionali valori dell'aristocrazia latifondista romana, come il mos maiorum (rappresentato dai costumi degli antenati), il senso di legalità, severità, austerità, frugalità e compostezza. In tal senso… “L’essenza della humanitas romana sta propriamente nell’essere l’altra faccia di un insieme ordinato di valori molto precisi e severi che facevano parte del codice di comportamento del cittadino romano fin dalle origini: la pietas, la mores, la dignitas, la gravitas, l’integritas, e così via. L’idea di humanitas riassumeva in sé tutti questi valori... ma nello stesso tempo li sfumava, li rendeva meno rigidi e più universali”. Renato Oniga. L'idea latina di Humanitas. Sviluppata e rappresentata da molti poeti e drammaturghi e diffusasi con lo stoicismo, l’humanitas sosteneva quindi gli ideali di attenzione e cura benevola tra gli uomini e rappresentava la volontà di comprendere le ragioni dell'altro, di sentire la sua pena come pena di tutti. In quest’ottica, la persona non è più vista come nemica, un avversario da ingannare, oppure come un semplice strumento della società, ma come un altro essere umano meritevole di comprensione e aiuto. La trasversalità e l’immortalità dei termini latini, importante testimonianza di come la sanità e la medicina moderna siano in realtà fortemente radicate nel passato, ci anticipa che la civiltà romana era in realtà guidata da concetti e ideali fortemente contrastanti: a seguire, infatti, da un lato vedremo l’animo guerriero e pragmatico di un popolo che vuole star bene per aver valore, per garantire tale valore e ricchezza a Roma; dall’altro lato, in forma di sicuro più sommessa e mascherata, vedremo degli esempi di grande umanità e compassione, che ci raccontano la Roma della Pietas, forse un po’ più vicina al nostro mondo moderno. Prevenire è meglio che curare “Ricordati che il miglior medico è la natura: guarisce i due terzi delle malattie e non parla male dei colleghi” Galeno. Oltre duemila anni fa, i romani avevano già ben chiaro il concetto moderno secondo cui “prevenire è meglio che curare”. L’attenzione al benessere del corpo in senso preventivo e, solo in secondo luogo, curativo, era saldamente fondata su una concezione “olistica” della salute umana, nella quale si contemplava l’esistenza di equilibrio continuo tra il corpo e il mondo esterno. Questo concetto è spiegato molto bene dalle teorie di Galeno, celebre medico romano nato a Pergamo nel 129 d.C. e giunto a Roma attorno al 162 d.C., che sviluppò i principi che dominarono la medicina occidentale 65 per molti secoli. Egli, rifacendosi direttamente alla filosofia ippocratica, descrive la salute del corpo attraverso la teoria dei quattro umori corporei, rappresentati da sangue, bile gialla, bile nera e flegma, ciascuno definito dalla combinazione dei temperamenti “caldo”, “freddo”, “umido” e “secco”. Come per il mentore Ippocrate, secondo Galeno il funzionamento del corpo è determinato essenzialmente da queste quattro sostanze, che necessitano di trovarsi in equilibrio tra di loro e in equilibrio con gli eventi esterni. L’accumulo di uno di questi umori crea un deposito infetto (l’apòstema) finendo col generare nel corpo del malato infiammazioni, suppurazioni, ponfi o putrefazioni e solo il riassorbimento o eliminazione dell’umore maligno (eventualmente, anche grazie a interventi medici mirati), permette al malato di ritrovare la salute. L’aspetto più interessante, legato all’antica concezione che la mente è un continuum con il corpo, sta nel fatto che ciascuno degli umori è associato ad un determinato temperamento psicologico: il sangue, l’umore di consistenza calda-umida prodotto dal fegato, è abbondante nei bambini e nei giovanissimi, determinando un’indole passionale, sanguigna, nel soggetto che ne è provvisto in abbondanza; la bile gialla, l’umore di consistenza calda-secca contenuto all’interno della cistifellea, è fisiologicamente abbondante nei giovani adulti, determina un fare irruento, bilioso, che può sfociare in gesti di vera e propria collera se aumenta in maniera patologica; la bile nera, l’umore di natura fredda-secca generata dalla milza, è abbondante soprattutto negli individui di mezza età e può rendere nero anche l’umore del malato, generando uno stato di introversione e malinconia; il flegma (anche detto muco), consistenza fredda-umida, è generato dallo stomaco, e fisiologicamente è prodotto in gran quantità, generando nel soggetto un comportamento flemmatico e bonario. Figura 2: Rappresentazione della teoria del quattro umori. Seguendo questa filosofia, era importante agire per preservare il benessere del corpo e della mente, attraverso un’alimentazione e uno stile di vita che si adattassero alle sollecitazioni esterne nelle varie stagioni e periodi di vita: la cura più efficace e duratura (nonché il miglior metodo di prevenzione), in altre parole, era riportare l’equilibrio nella quotidianità dell’individuo. L’equilibrio poteva essere conservato e ristabilito attraverso un rapporto di combinazione tra alimentazione e lavoro e/o 66 esercizio fisico e, secondariamente, mediante strumenti chirurgici e farmacologici. I cibi e le bevande, infatti, una volta conosciuti e somministrati di conseguenza, presentavano le potenzialità di contrastare o integrare rispettivamente l’eccesso o il difetto che, a loro volta, provocano lo squilibrio e la malattia nel corpo umano. Il regime comportamentale, ad ogni modo, era costruito ad personam in modo da essere personalizzato tenendo conto dell’attività, dell’età, della costituzione e del sesso del singolo. “Prima di ogni cosa ognuno conosca la natura del proprio corpo, infatti alcuni sono magri, altri obesi; alcuni caldi, altri piuttosto freddi; alcuni umidi, altri secchi; alcuni soffrono di stitichezza, altri di diarrea. Raramente si incontra qualcuno che non ha un qualche lato debole. Il magro si deve riempire, il pieno dimagrire; il caldo si deve raffreddare, il freddo riscaldare; l’umido si deve seccare, il secco umidificare; parimenti deve stringere l’alvo colui che lo possiede lento, al contrario scioglierlo colui che lo ha stretto: sempre bisogna venire a soccorrere quella parte che è sofferente” Celso. Nell’ottica romana, perciò, era importante intrecciare l’alimentazione, l’esercizio fisico, il lavoro, il bagno, il sonno, l’attività sessuale, il vomito, la purgazione, con il fine non solo di curare, ma soprattutto di conservare la salute e prevenire la malattia. La nota locuzione “Mens sana in corpore sano” (“mente sana in corpo sano”) derivante dalla Satire del poeta romano Decimo Giunio Giovenale, che nella sua accezione originale in realtà fa riferimento all’importanza di pregare gli dèi non per ottenere cose effimere come la ricchezza e la fama ma per un corpo sano e una mente sana, nella tradizione romana in effetti si carica fortemente dell’idea che il mantenere un corpo sano e in forze è essenziale per il benessere generale della persona. La famosa espressione, entrata ormai a far parte del nostro linguaggio comune, non a caso è divenuta nel corso del tempo il manifesto della connessione univoca tra il benessere del corpo e quello della mente, racchiudendo in sé un concetto di estrema attualità e importanza. La filosofia del prevenire a Roma veniva applicata regolarmente sotto vari punti di vista della vita cittadina. Basti pensare alla diffusione nelle città delle palestre pubbliche, luoghi destinati all’allenamento e il potenziamento del corpo, o delle terme e delle installazioni balneari che erano disponibili, teoricamente, a tutti i cittadini di Roma. A tal proposito, la civiltà romana fu molto dedita al concetto dell’idroterapia, quindi all’insieme dei sistemi curativi basati sull’acqua. Sebbene i romani avessero imparato molte pratiche di idroterapia (assunzioni per bocca, docce, bagni totali e parziali) dai medici greci, nella realtà dei fatti diedero il più significativo sviluppo a questo campo. Figura 3: Palestre e installazioni balneari nell’Antica Roma. 67 Le terme e i bagni romani non a caso, vengono considerati ancora oggi come una delle istituzioni più importanti e utili della vita romana ai fini del mantenimento della salute e del vigore del corpo. Una salute democratica o utilitaristica? Nella sua lunga storia, Roma rappresenta un ottimo esempio di come la Salute Pubblica si sia dovuta adattare alle necessità logistiche di una grande città, al mantenimento di una potenza bellica, e, naturalmente, allo scoppio di occasionali epidemie, e ci fornisce degli spunti interessanti sull’importanza del benessere e della cura del cittadino nelle società complesse. Pur nascendo oltre duemila anni fa, la salute pubblica concepita nell’Antica Roma, in particolare a partire dal periodo Repubblicano, presentava dei connotati sorprendentemente moderni, assumendo un’impostazione piuttosto democratica. I Romani, popolo fortemente pragmatico, credevano che le malattie avessero essenzialmente una causa naturale e che la cattiva salute potesse essere causata in larga parte da acque malsane e fognature. Per questo motivo, il loro principale desiderio era quello di migliorare il sistema sanitario pubblico, in modo che tutti ne potessero usufruire e beneficiare, indipendentemente dalla ricchezza. Sebbene è probabile che questo desiderio avesse un’impronta di fondo molto utilitaristica (coloro che lavoravano per i Romani, in particolare i soldati, dovevano essere in buona salute), in ogni caso i Romani furono la prima civiltà a introdurre un programma di salute pubblica per tutti, realizzato, ad un primo livello, attraverso il potenziamento di strutture architettoniche e ingegneristiche quali acquedotti e sistemi fognari, che potessero rendere città romane, le ville e i forti dei “luoghi sani”. In merito a ciò, Marco Terenzio Varrone, scrittore e letterato nato nel 116 a.C., scrisse: “Quando si costruisce una casa o un’attività commerciale, occorre prestare particolare attenzione a metterla ai piedi di una collina boscosa dove è esposta a venti che danno la salute. Occorre prendere in considerazione dove ci sono paludi nel quartiere, perché certe piccole creature non possono essere viste dagli occhi ma galleggiano attraverso l’aria ed entrano nel corpo tramite bocca e naso, causando gravi malattie”. Non a caso, i Romani furono il primo popolo a drenare le paludi per liberare le aree abitate dalle zanzare, riducendo il rischio di trasmissione della malaria nella popolazione. Ancora più sorprendentemente, a partire dal 142 d.C. venne istituita in tutto l'Impero Romano, per ordine di Antonino Pio, la professione dell’“archiater”, ovvero il medico pubblico cittadino. Prima di allora, il corpo malato non era oggetto di attenzione del potere sovrano, ma preoccupazione autonoma di patres o medici privati. Nello sviluppo del sistema sanitario romano, infatti, prima del consolidamento del mondo della sanità pubblica, era riconoscibile principalmente la sfera domestica della cura del corpo. Fin dagli inizi, infatti, a Roma fu prerogativa del pater familias, quale depositario di un sapere empirico da tramandare di generazione in generazione, intervenire in qualità di medicus nel caso di malattia dei familiari. Fondata sull’osservazione del corpo e sullo sfruttamento delle proprietà benefiche di erbe, oltre che sul rispetto di norme igieniche e alimentari, nonché sull’esercizio fisico, la medicina domestica costituiva un insieme di regole, credenze magico-sacrali per rinvigorire i membri della comunità e ridare salute all’uomo. La cura del corpo, in altre parole, era una forma di manifestazione del potere e del carattere decisorio e autoritario proprio di questo ambito. Questo si evince anche dal significato individuato da Benveniste come il più arcaico della radice indoeuropea “med”: questa, infatti, rimanda all’atto di “prendere con autorità le misure che sono appropriate a una difficoltà attuale; riportare alla norma un problema”. Pertanto, si intuisce che il soggetto, tradizionalmente preposto al controllo e al ristabilimento del fisiologico benessere umano, non potesse che coincidere con il pater, colui che aveva interesse a che i suoi filii e servi fossero in 68 condizioni tali da poter espletare i loro compiti, senza peraltro perseguire nessun fine di lucro sull’attività terapeutica fornita. Nel mondo patriarcale, in ogni caso, non bisogna dimenticare il ruolo della “matrona” o “domina” (cioè la moglie di un cittadino romano), che nell’antica Roma godeva di grande rispetto, venendo considerata la “regina della casa”. Ella, nella famiglia romana aveva il compito concreto della manutenzione della domus e della crescita dei figli, di cui si occupava da sola fino al compimento dei sette anni. Mettendo in pratica il volere del pater e ricadendo sotto la sua tutela, la matrona era in realtà la vera curatrice del nucleo familiare romano: non a caso, l’educazione all’epoca riservata alle donne era esclusivamente finalizzata ad insegnare i doveri di una “mater”. Questa forte relazione tra cura e mater familias, forse spiega anche il motivo per cui nella medicina religiosa romana si tendeva a venerare perlopiù figure femminili: queste, infatti, erano spesso figure rassicuranti e benevole e racchiudevano, diversamente dalle controparti maschili, una forte idea di prosperità e premura. Nel corso del tempo, e soprattutto grazie all’approdo della medicina del popolo greco, si assistette ad un processo di graduale qualificazione dell’arte sanitaria, che partì dal riconoscimento della cittadinanza e della qualifica ai medici greci, che inizialmente erano molto mal visti a Roma, per poi arrivare alla creazione di una complessa rete di strutture sanitarie pubbliche, che fu unica nella storia dell’uomo. A Roma nascono infatti le tabernae, cioè gli ambulatori, dotate di un herbarium (erbario) dove il medico preparava farmaci e redigeva certificati per i comuni cittadini, e nasce un servizio pubblico di assistenza medica destinato a gladiatori, soldati, e vestali. Anche se risulta molto complesso ricostruire fedelmente gli aspetti sociali legati all’organizzazione sanitaria nella Roma Antica, è probabile che i principali destinatari e i maggiori beneficiari del sistema di salute pubblica furono, come vedremo in seguito, i soldati. Nell’esercito imperiale, in particolare, la qualificazione sanitaria era molto elevata e venivano testate pratiche farmacologiche, mediche e chirurgiche che non esistevano tra la popolazione normale. Similarmente, anche alle scuole in cui si addestravano i gladiatori, fu assegnato un medico incaricato di assistere i combattenti in caso di ferite, ma soprattutto di regolare la vita dei partecipanti sia dal punto di vista dietetico che ginnico. Accanto all’universo della salute pubblica, si sviluppò anche una sfera di sanità privata, di cui beneficiavano però esclusivamente senatori e famiglie più altolocate, che era costituita da medici privati, istruiti o in ogni caso fidati, definiti i “medicus”, che erano costantemente al servizio dei bisogni dei componenti della domus. Figura 4: La cura del soldato nell’Antica Roma. 69 Se da una parte le istituzioni romane prestarono particolare attenzione alla salute dei loro soldati, per gli strati sociali inferiori la difficoltà a reperire un medico istruito era molto maggiore, tenendo conto sia delle limitate disponibilità economiche, che del fatto che il medico si trovava sempre in città, lontano dagli abitanti di villaggi, che spesso non potevano spostarsi. Questo è uno dei motivi per cui molte fonti sostengono che, prima degli effetti dell'influenza cristiana, la logica assistenziale era pressocché estranea a Roma e l’antieconomicità di un sistema terapeutico realmente aperto alla popolazione e agli indigenti finiva per vincere sulle considerazioni di carattere umanitario. In questo senso, l’organizzazione dei sistemi di assistenza medica quali i valetudinaria per soldati e schiavi, può essere letta come un’ulteriore conferma del fatto che venisse prevista solo laddove vi fosse una ragione economica. L’assenza di assistenzialismo da molti viene interpretata come la logica conseguenza della mancanza di attenzione verso la sofferenza e la miseria, perpetrata da un popolo che non contemplava il rispetto per la vita umana come lo intendiamo oggi e che era apparentemente poco propenso a sentimenti filantropici. Al tempo dei romani, infatti, sul tema della morte, al contrario di quanto avviene all’interno degli ordinamenti moderni, le fonti giuridiche non conservano memoria di alcuna definizione di derivazione scientifica. Questa assenza non stupisce, ma testimonia come la morte nell’antichità fosse una questione di fatto, inequivocabilmente e irreversibilmente rappresentato dal venire meno di tutte le funzioni vitali, dall’allontanamento dello spiritus, della vita, dal corpo. Perfino la concezione dell’oltretomba per i romani trova una connotazione piuttosto pragmatica: i famosi Campi Elisi, infatti, nell’immaginario romano erano un luogo di beatitudine abitato solo dalle anime di coloro che erano amati dagli dèi, cioè persone che, durante la vita, si erano mostrate degne di una ricompensa così grande. Virgilio descrive questo “aldilà” come un luogo stupendo, dove tra prati e boschi, le anime beate vagavano indisturbate, continuando a coltivare le normali attività della vita quotidiana. Secondi i romani, però, per meritare i Campi Elisi non occorrevano tanto la purezza d’animo o la benevolenza, ma bisognava essere stati dei difensori della patria oppure dei sapienti o magari essersi distinti nella poesia o nella letteratura. Il rendersi utili alla società romana permetteva dunque di guadagnarsi la beatitudine eterna… in altre parole “ut sementem feceris, ita metes”, “raccoglierai ciò che hai seminato”. I campi Elisi secondo Virgilio “È facile la discesa in Averno; la porta dell’oscuro Dite è aperta notte e giorno; ma ritirare il passo e uscire all’aria superna, questa è l’impresa e la fatica. Pochi, che l’equo Giove dilesse, o l’ardente valore sollevò all’etere, generati da Dei lo poterono. Selve occupano tutto il centro, e Cocito scorrendo con oscure sinuosità lo circonda.” Virgilio (Eneide, VI, vv. 126-132) Questa visione probabilmente portava i romani a vivere la morte con un senso molto pratico e, per questo motivo, può essere utilizzata per spiegare alcune pratiche del tempo, che apparirebbero agghiaccianti se lette esclusivamente con occhi contemporanei. A Roma, infatti, una pratica comune era, in caso di rifiuto di un neonato da parte del capofamiglia, la cosiddetta “expositio”, quindi 70 l’abbandono al di fuori dalla porta di casa. Il padre del bambino al tempo era l’unico ad avere personalità giuridica in ambito familiare e poteva esercitare il suo potere di vita e di morte (ius vitae necisque) sui figli1, riservandosi anche la possibilità di venderli come schiavi o per altre mansioni più o meno redditizie e spesso disumane. Nell’antica Roma, di conseguenza, i bambini con deformazioni evidenti venivano soppressi al momento della nascita e se entro i 3 anni mostravano segni di sordità venivano eliminati in quanto incapaci di apprendere. “Un bambino chiaramente deformato deve essere condannato a morte” (IV legge delle dodici tavole-V secolo a.C.). In linea con questa concezione, era prevista anche l’idea dell’emarginazione e dell’eliminazione dei malati incurabili, come possiamo vedere dalle parole di Lucio Seneca: “Soffochiamo i nati mostruosi, anche se fossero nostri figli. Se sono venuti al mondo deformi o minorati dovremo annegarli. Ma non per cattiveria. Ma perché è ragionevole separare esseri umani sani da quelli inutili…” (De Ira, libro I). Questo concetto non deve necessariamente essere visto come un segno di crudeltà da parte dei romani, ma può essere letto come un’interpretazione delle terapie mediche di Asclepio, il quale sosteneva che i rimedi medicinali potessero in qualche modo influire negativamente sulla salute già compromessa di un paziente handicappato o disabile. Figura 5: Emarginazione del disabile. Sebbene l’interpretazione analitica della maggior parte delle fonti antiche tenda a sottointendere che secondo i romani una perfetta condizione fisica fosse un requisito fondamentale per fare parte di uno stato che funzioni bene, nel tempo sono emersi alcuni rari esempi che raccontano una storia differente. La professoressa Valentina Gazzaniga, docente di Storia della Medicina e Bioetica e direttore del museo di Storia della Medicina all’Università degli studi di Roma La Sapienza, racconta infatti di una sorprendente scoperta, ottenuta grazie ad un attento lavoro di ricostruzione di reperti archeologici trovati nel foro di Ostia Antica. 1 Costantino (260-337 d.C.) promulgò una legge che condannava con la morte i filiicidi; tuttavia, la legge romana di fatto non proibì mai l’abbandono dei bambini. 71 Una rara storia di compassione “Grazie ai nostri lavori con la sovrintendenza abbiamo trovato ad Ostia i resti di un ragazzo che lavorava nelle saline e che era nato con una malformazione congenita della mandibola che gli impediva di aprire e chiudere la bocca. Secondo le ricostruzioni degli antropologi, questo ragazzo sarebbe riuscito a crescere fino a 30-32 anni, un'età ragguardevole soprattutto per un romano che faceva un lavoro così faticoso, grazie ad un intervento molto particolare: una segatura circolare della dentatura. Questa evidentemente gli permetteva di essere nutrito attraverso un tubo in cui veniva inserito del cibo premasticato o comunque ridotto in poltiglia, suggerendo l’esistenza di una comunità di riferimento che si era presa carico del disabile, occupandosi della sua nutrizione e sopravvivenza”. Questo semplice esempio ci insegna che spesso le singole storie restituiscono una realtà molto più sfumata rispetto a quella scaturita dalle fonti scritte, mettendo in luce, in questo caso, l’humanitas, l’immortalità di sentimenti di compassione e amore per il prossimo, che evidentemente trovavano espressione, seppur mascherata, già nella “pragmatica e crudele” Roma. Cure, strumenti e tecniche Gli acquedotti e le fognature: la prevenzione igienico-sanitaria come bene comune “Come della strada, l'architettura romana si fece gloria di un'altra costruzione di utilità pubblica, dell'acquedotto. A servigio di esso pose uno dei suoi elementi caratteristici: l'arco, che nello stesso tempo fu snello sostegno, superò i salti del terreno e regolò la pendenza del decorso. Con la cloaca e con la strada poteva l'acquedotto essere considerato nell'antichità uno dei tre monumenti che manifestavano la potenza e la magnificenza romana. E gli acquedotti di Roma ancor più che una meraviglia della città potevano essere vantati tra le meraviglie del mondo” (Alessandro Della Seta). Invenzione benefica e pionieristica in termini di salute pubblica ed incremento dell'aspettativa di vita nell’Antica Roma furono gli acquedotti. La costruzione degli acquedotti fu infatti una delle imprese più grandi e più impegnative della civiltà romana, tanto da essere considerata “la più alta manifestazione della grandezza di Roma”, come testimoniato dalle parole scritte nel 97 d.C. da Frontino, noto come il “curatore degli acquedotti” (“curator aquarum“). 72 Figura 6: Riproduzione del processo di costruzione maestosi acquedotti romani. Nei secoli prima dell’ideazione degli acquedotti, il Tevere, le sorgenti ed i pozzi cittadini furono in grado di soddisfare il fabbisogno della città; tuttavia, l’incredibile sviluppo urbanistico, la grande crescita demografica e la diffusione di intossicazioni ed epidemie da inquinamento organico delle acque, resero necessario ricorrere a nuove soluzioni. Grazie all’abilità dei suoi costruttori quindi, a partire dal 312 a.C. con la costruzione del primo acquedotto Aqua Appia, Roma cominciò a sfruttare queste strutture architettoniche mozzafiato, formate da ponti sopraelevati che attraversavano le valli e le aree urbane e che permettevano di trasportare una quantità enorme di acqua su lunghissime distanze. Grazie a questi strabilianti impianti, ancora oggi simbolo inequivocabile dell’eredità romana, fu possibile soddisfare il bisogno di acqua potabile di tutti gli abitanti di Roma, garantendone la qualità fino al punto di erogazione. Inizialmente l’acqua era offerta come servizio pubblico accessibile a tutti nei vari sbocchi dell’acquedotto, i “castellum”, chiamati così proprio perché la loro struttura ricordava un castello. Con il passare dei secoli poi, oltre ai castellum, iniziarono a essere presenti degli sbocchi privati, soggetti a tributi, direzionati alle Domus dei patrizi o dei senatori, e anche alle terme, alle fontane, alle piscine e ai laghi e bacini artificiali che venivano utilizzati per lo svolgimento di spettacoli ed eventi pubblici. Anche se molte fonti storiche riportano la creazione inevitabile di diseguaglianze nella distribuzione dell’acqua tra alta e bassa società, a Roma rimase sempre una politica di approvvigionamento democratica, monitorata da veri e propri vigilanti dell’acqua, i quali ne evitavano gli sprechi, controllavano gli sbocchi privati abusivi e infliggevano pene ai trasgressori. Naturalmente, l’attenzione e la regolamentazione della purezza e della distribuzione delle acque è un simbolo di avanzamento culturale e sociale molto forte, e ha messo in evidenza, forse per la prima volta nella storia, l’importanza della prevenzione igienico-sanitaria nel benessere di grosse realtà urbanistiche. In tal senso, un altro elemento innovativo caratteristico di questa civiltà fu l’organizzazione del sistema fognario. I romani, infatti, sotto l'influenza degli Etruschi, avevano ideato un complesso sistema di fogne ricoperto da pietre, concettualmente analogo a quello delle fognature moderne: i rifiuti, scaricati dalle latrine presenti nella città, fluivano attraverso un canale centrale sotterraneo nella rete fognaria principale e da lì raggiungevano un fiume o ruscello vicino. Il vero decollo del sistema fognario a Roma arriva però con la creazione della Cloaca Maxima, letteralmente “la fognapiù grande”, che rappresenta uno dei manufatti igienico-sanitari più noti del mondo antico e che risaleal regno dei tre Re etruschi nel VI secolo a.C.. Si tratta un canale originariamente a cielo aperto che fu successivamente chiuso, originariamente costruito per drenare il terreno pianeggiante del Foro Romano e il Velabro, alla acquitrinosi, e per riservarlo al fiume Tevere 73 Figura 7: Fotografia dell’interno della Cloaca Maxima oggi. Nel tempo i romani ampliarono notevolmente la rete di fognature che attraversavano la città, collegandone la maggior parte alla Cloaca Maxima, e intorno al 100 d.C. comparvero i collegamenti diretti delle case alle fognature. Furono poste fogne in tutta la città, servendo sia le latrine pubbliche diffuse in luoghi come bagni, fortezze e Colosseo, che alcune private, presenti naturalmente solo nelle case dei più ricchi. Sebbene i costumi e la conoscenza scientifica dell’epoca ponessero inevitabilmente delle grosse limitazioni all’effettiva prevenzione della diffusione di malattie (la pulizia di latrine e delle strade rimaneva molto scarsa), è comunque interessante riflettere sull’impostazione metodica e pragmatica che questa civiltà sviluppò, così come in ambito urbanistico e bellico, anche per la cura dei propri cittadini. Le terme: templi del benessere e dell’otium romano “Gli uomini moderni non riescono a comprendere o a sentire la passione degli antichi per il bagno, ed infatti il mondo moderno non ha nulla che corrisponda alla magnificenza, alla signorilità, al gusto delle antiche Terme” Roberto Paribeni. Il concetto del “bagnarsi”, specialmente in acqua fredda, costituì da sempre per gli antichi romani un segno di rinvigorimento dei costumi e del carattere. All’inizio i romani si bagnavano nel Tevere, ma ben presto cominciarono a comparire nelle città le piscine e i bagni, sia pubblici sia privati, fino a che, grazie al perfezionamento degli impianti, l’abitudine di bagni, sia caldi che freddi, assunse il significato di vera e propria idroterapia, sostenuta dalla dottrina medica del tempo. Fin dai primi tempi, le case romane erano dotate di un locale, detto “lavatrina”, dove ci si lavava quotidianamente il viso, le braccia e le gambe e, una volta ogni nove giorni, tutto il corpo (Seneca, Epistulae ad Lucilium, 86, 12). A partire dal II secolo a.C., nascono poi i “balnea”, ovvero le terme più antiche, che erano costruite da pochi ambienti, non molto spaziosi e male illuminati, che venivano gestiti da ricchi appaltatori e che erano disponibili ai cittadini romani con il pagamento di un piccolo contributo d’ingresso. Grazie alla creazione di queste strutture, ben presto si diffonde tra i cittadini romani un forte apprezzamento per quel piacevole appuntamento quotidiano, per quei momenti di otium (tempo libero) prediletto, e si sviluppa una vera e propria cultura termale diffusa. Nascono così le grandi “thermae” romane, le quali, diversamente dai balnea, furono costruite da imperatori, grandi dignitari o rappresentanti delle élite cittadine che aspiravano a passare alla storia come benefattori. 74 Figura 8: Ricostruzione dei lussuosi complessi termali dell’epoca imperiale. I complessi termali, che con il tempo divennero sempre più sfarzosi e lussuosi, inglobavano vari isolati oppure sorgevano in zone esterne alle mura dove potevano espandersi liberamente fino ad assumere l’estensione di un parco, e presentavano in genere una struttura comune. La struttura classica delle Terme si apriva con una stanza chiamata “Apodyterium“, che fungeva da spogliatoio, dove si potevano lasciare i propri effetti personali e i vestiti, indossando solitamente delle mutande grandi e leggere. Normalmente questa era annessa ad un’altra sala fondamentale, che era quella delle cosiddette “Palestrae“, dedicate agli esercizi fisici, sia per i normali cittadini ma soprattutto per gli atleti o i legionari che avevano bisogno di mantenersi in costante allenamento anche durante il congedo o periodi di pace. Altri ambienti tipici erano la “Natatio“, una grande piscina all’aperto che solitamente accoglieva i primi visitatori per un bagno veloce e i cosiddetti “Sudatoria“, stanze secche e umide, surriscaldate in maniera costante con un vapore persistente, che i romani usavano, come noi usiamo il bagno turco, per espellere le tossine e dimagrire. Nella zona centrale del complesso, si trovavano un percorso di tre stanze con altrettante temperature, finalizzato a creare un lento e graduale passaggio dal caldo al freddo: si partiva dal “Calidarium”, una zona dotata di grandi piscine con acqua calda e molto spesso accompagnata da una vasca separata di supporto denominata “labrum”; di seguito vi era il “Tepidarium“, una stanza dalla temperatura leggermente inferiore, tiepida e confortevole e infine il “Frigidarium“, una stanza fresca, che molto spesso era la preferita dai cittadini, dato che i grandi centri urbani erano puntualmente caldi e afosi. A fianco di queste stanze si aprivano anche altre sale per i massaggi e trattamenti di salute, che erano particolarmente graditi dalle donne. L’alternarsi di caldo e freddo del bagno romano aveva la funzione di una specie di allenamento della sostanza vivente a sopportare le cause morbose e a liberarsi di sostanze nocive. Le terme antiche si possono considerare dei grandi complessi dedicati al culto del corpo, dove i quattro elementi fondamentali erano messi al servizio di un’esperienza sensoriale completa: l’acqua nelle vasche a diverse temperature, il fuoco per riscaldare gli ambienti, la terra, che andava dalla semplice argilla ai più sofisticati marmi d’importazione, e l’aria, che creava un’atmosfera densa di calore, umidità e oli profumati. I bagni termali generavano sensazioni tattili e olfattive di ogni tipo, trasformando una necessità puramente igienica in un piacere dei sensi finalizzato alla cura del benessere mentale e spirituale, oltre che quello fisico. 75 Figura 9: Struttura interna delle antiche terme di Caracalla. Ma le terme non si fermavano solamente ad essere un antico centro del benessere: i romani, infatti, concepivano le terme come delle strutture multifunzionali e anche culturali. Non era raro trovare, all’interno delle Terme, anche delle biblioteche di libera consultazione, delle zone dedicate allo studio e alla conversazione, delle aule per l’insegnamento ai ragazzi, oltre a fontane e giardini all’aperto che andavano a completare una struttura di grandissime dimensioni. Le terme erano quindi anche un luogo di incontro per la cittadinanza, un’occasione di riunione e stimolo alla vita quotidiana e ai commerci, nonché un simbolo della ricchezza e dello splendore della civiltà romana. La sfera sociale di questi incredibili templi dell’otium, si percepisce anche dalla ritualità con la quale il popolo romano era spinto alla partecipazione: il momento di andare alle terme per i cittadini era l’hora octava, cioè tra l’una e le due di pomeriggio. “Fino alla quinta ora Roma prolunga i suoi lavori, la sesta è la pace per lo stanco, la settima la fine della pace, dall’ottava alla nona c’è tempo per le palestre unte d’olio” Marziale. Le terme romane, perciò, oltre che rappresentare uno degli esempi di architettura e ingegneria più strabilianti dell’antichità, si portano in eredità tanti diversi aspetti della cultura romana, che non si limitano soltanto all’attenzione per il benessere del corpo e l’igiene generale della popolazione, ma riguardano soprattutto l’esaltazione del piacere e del godimento del tempo libero, e la volontà di creare una sfera corale di partecipazione, socialità e senso di appartenenza per i cittadini. La “galenica”: origini della farmacologia Galeno di Pergamo, celebre medico romano i cui punti di vista hanno dominato la medicina occidentale per secoli, ispira la nascita della galenica, ovvero l'arte del farmacista di preparare i farmaci. 76 Il farmaco veniva considerato da tutti gli autori che come Galeno si rifanno ad una matrice di pensiero ippocratico, una qualsiasi sostanza naturale che, in qualunque modo, alteri la condizione di un corpo vivente, sia agendo positivamente, correggendo un difetto di equilibrio umorale, la sovrabbondanza di un umore, il conseguente disequilibrio qualitativo, sia determinando la rottura della crasi stessa, in virtù di una dynamis, cioè di una proprietà, di cui è portatore: cibo e farmaco possono essere la stessa cosa, ma soprattutto il farmaco è, con lo stesso diritto, ciò che guarisce e ciò che uccide. Secondo quest’ottica, ogni farmaco ha un potere assolutamente relativo, e tutto ciò che è nocivo può, sotto opportuno controllo, essere utilizzato per il bene del paziente. Un farmaco, in virtù dell’essenza di cui è composto, veniva quindi considerato come portatore della qualità necessaria al corpo per ristabilire l’equilibrio, e perciò valutato non per sé stesso, ma in stretta relazione con lo stato del corpo del singolo paziente, secondo la stagione dell’anno, il sesso, le abitudini di vita, il tipo di malattia e il suo stadio. I romani curavano la gran parte delle loro malattie attraverso l’utilizzo delle piante, da cui ricavavano i principi attivi che costituivano la base della loro medicina. Ogni pianta aveva un effetto che nel corso del tempo i medici romani avevano collegato al trattamento di una particolare patologia. Alcuni esempi erano: i fichi secchi, utilizzati per curare la tonsillite; il decotto di melograno, usato contro le congiuntiviti, dal momento che si riteneva avesse una funzione disinfettante; lo sterco d’asino impastato con l’aceto, certamente non molto gradevole da applicare, ma era utilizzato regolarmente per le ferite; la farina d’orzo, impiegata per accelerare la guarigione e la cicatrizzazione; il cavolo: una sorta di panacea per tutti i mali, aveva moltissime proprietà e poteva essere combinato con diversi altri alimenti o piante. Curava dall'indigestione fino all’insonnia, dai dolori articolari alla stipsi e in generale era considerato un ricostituente per gli anziani; i funghi: i romani avevano intuito che esistevano degli elementi in grado di sconfiggere le infezioni e probabilmente avevano immaginato la presenza di piccoli corpuscoli, i batteri, che andavano combattuti. I funghi possono essere comodamente considerati come degli antibiotici o antisettici dell’epoca. Figura 10: Raffigurazione della raccolta delle erbe medicinali. 77 Nell’ambito della farmacologia dell’antica Roma, cruciale fu lo sviluppo del commercio e la possibilità di importare da luoghi remoti droghe, minerali e prodotti vari per la composizione di nuovi farmaci. Nel periodo della Repubblica, ad esempio, grazie alla progressiva espansione della potenza militare di Roma, era frequente importare dall’Arabia, dall’Asia minore o dall’Egitto numerose sostanze con proprietà curative, fra cui l’incenso, la cannella, il cardamomo, le radici di costo, lo spigonardo, il mirabolano, l’amomo, il malabrato e lo zenzero. Alcune notizie interessanti ci giungono anche relativamente all’ambiente delle officine in cui venivano prodotti e venduti i farmaci: sappiamo che avevano un’apposita stanza per le preparazioni ed una per le vendite e che queste spesso erano separate con una tenda divisoria dallo “stabulum”, l’ambiente riservato a passare la notte. Queste officine erano anche dotate di oggetti adibiti alla conservazione dei medicamenti: le foglie ed i semi venivano avvolti in fogli di papiro o in sacchetti, i liquidi disposti in vasi di vetro, di metallo, di legno, di bosso e d’avorio, le sostanze aromatiche chiuse in cassette di bosso o in istoriati “balsamari”, mentre i classici “Collyria”, preparazioni specifiche per le malattie degli occhi, posti in apposite scatole divise in scomparti. Le antiche farmacie, inoltre, presentavano all’esterno un’insegna-emblema con il serpente di Esculapio2 attorcigliato ad un bastone (vedi sotto), e affiggevano una legenda della “specialità” raccomandate, con i relativi prezzi. L’insegna-emblema col serpente di Esculapio attorcigliato ad un bastone che veniva esposta sulle officine dei “farmacisti” romani, è divenuta nel tempo il simbolo delle arti sanitarie. Viene utilizzata infatti come logo della Organizzazione Mondiale della Sanità, della Stella della vita e come simbolo della Associazione Medica Nel corso della storia della civiltà romana, varie furono le formulazioni farmaceutiche in uso: vi erano infusi, decotti, polveri, miscele varie, cataplasmi… che spesso avevano nomi di certa fantasia, come l’”Anthera”, che era un miscuglio di polveri di fiori aromatici, colorato in rosso e usato per le ulcerazioni della cavità orale, ma anche nomi derivanti dall’inventore, o dall’impronta più aulica, come l’“Ambrosia”, il cosiddetto unguento degli Dei, invincibile apportatore di bene. Lo sviluppo particolarmente ricco della farmacologia in epoca romana deriva in larga parte dai numerosi contatti culturali che Roma aveva con popoli di diverse abitudini ed usi. Molte delle influenze provenivano naturalmente dalla Grecia, dalla quale originarono diversi farmaci di ampia diffusione a Roma. Tra questi ricordiamo il farmaco da 61 ingredienti denominato “Soave”, inventato da Andromaco (medico greco vissuto nel I secolo d.C.) e considerato il farmaco adatto ad ogni male, e poi il medicamento dal nome noto di “Theriaca” (vedi sotto), che ebbe lunghe traversie nei secoli: a Napoli, alla fine del ‘700, divenne “farmaco di Stato” e ancor oggi viene preparato a Roma, con la stessa tecnica lunga e minuziosa e con gli stessi prodotti. Inoltre, considerato lo sviluppo a Roma delle attività ginniche, dei ludi, delle scuole di Gladiatori e delle lotte nei circhi e vista anche la facilità delle risse nelle città, troviamo come rimedi molti diffusi anche l’acqua vulneraria, miscela a base di artemisia, scrofularia e macerazioni di vin bianco, che 2 Nome latino della divinità greca Asclepio, dio della medicina. Il suo culto come divinità guaritrice si estese rapidamente in tutto il mondo antico. 78 veniva usata nelle contusioni, nelle lussazioni e nelle infiammazioni, e gli unguenti per i crampi muscolari, a base di foglie di sambuco, giusquiamo, solano, stramonio, pestate finemente e cotte in sugna di porco. La Theriaca: un leggendario elisir Il farmaco più famoso nella storia della medicina è forse la Teriaca, che per quasi duemila anni ha avuto grande spazio nella farmacopea occidentale. Considerato un rimedio universale, un elisir di lunga vita, un mix di scienza e magia, in origine era utilizzato come antidoto ai veleni, in particolare quelli inoculati dal morso di animali. Il nome, infatti, deriva dalla parola greca "therion", usata per indicare la vipera e altre bestie velenose. La Teriaca manteneva in salute, rendeva la vita più tranquilla e la prolungava ringiovanendo tutti i sensi: gli imperatori romani avevano infatti l'usanza di prenderne due scropoli in un cucchiaio di miele con due bicchieri d'acqua. Galeno era così sicuro delle proprietà curative del farmaco da preparare più dosi per Marco Aurelio, che finì per credere di essere avvelenato. La "panacea" passò poi dai ceti più altolocati a quelli più bassi e nel tempo si svilupparono numerose ricette, a volte con colossali differenze, che non esclusero mai un ingrediente: la carne di vipera. Il suo utilizzo viene spiegato con la teoria ippocratica “similia similibus curentur” secondo la quale, un malessere va curato somministrando piccole dosi della sostanza che in quantità maggiori, si considera causa della malattia stessa. Strumenti e tecniche chirurgiche La chirurgia romana e i suoi reperti hanno stupito il mondo per la loro modernità, tanto che alcuni degli strumenti chirurgici inventati dai romani hanno ispirato la nascita di attrezzature utilizzate anche oggi. Strumenti come bilance, cucchiai, spatole e unguentari in vetro erano utilizzati per preparare e conservare i medicinali; bisturi e sonde per pulire o cauterizzare le ferite; pinze, uncini, sonde e specilli, cateteri e cannule, aghi e forbici, per gli interventi chirurgici e per il trattamento delle ferite. I materiali utilizzati per la produzione di questi strumenti erano principalmente bronzo e rame oppure, quando era necessario un materiale più duro per interventi sugli arti e sul cranio, si utilizzava il ferro o l'acciaio. Per altri strumenti, come gli aghi utilizzati per le suture chirurgiche di ferite, venivano scelti materiali particolari come osso e avorio. Oltre al ritrovamento di singoli strumenti, sono stati pervenuti, sempre dagli scavi, astucci, contenitori e teche con interi set chirurgici, che testimoniano quello che poteva essere il corredo degli strumenti che il medico portava con sé nelle visite. I principali strumenti usati si dividevano in: 79 1) Scalpelli (bisturi) lo scalpello (chiamato anche, a partire dal XV secolo, “bisturi”) rappresenta l'esempio più antico di "ferro chirurgico". Essi venivano usati anche durante gli interventi chirurgici sui denti o sulle ossa e quelli d'epoca più antica erano fatti di selce o d'ossidiana. 2) Uncini si dividevano in due tipologie principali: a punta smussa, utilizzati come sonde (specilli) per la dissezione o per sollevare vasi sanguigni; a punta acuminata, per agganciare e spostare brandelli di tessuto o per allargare i bordi di una ferita. 3) Pinze comuni le pinze erano utilizzate per rimuovere frammenti ossei o altri oggetti, come le punte di freccia, e venivano forgiate in acciaio o bronzo. Erano lunghe 20 cm circa, e avevano solitamente manici lavorati, per rendere meno sdrucciolevole la presa del chirurgo. Esistevano poi specifiche pinze per ossa e pinze per addominali. 4) Cauterizzatore costruito solitamente in ferro, in casi particolari in bronzo, consisteva in un lungo manico affilato ad una estremità e terminante, dall'altra estremità, con una piccola piastra piatta. Questa, una volta arroventata, era applicata sui tessuti del malato per vari scopi: come mezzo di azione superficiale, per ridurre un'infiammazione nei tessuti profondi sottostanti o adiacenti; come emostatico; come bisturi, avendo il vantaggio di ottenere un taglio con emostasi simultanea; come agente necrotizzante per rimuovere una neoplasia. 5) Speculum con il nome di “speculum” si definisce una serie di strumenti, originari dell’antica Roma, utilizzati per l'osservazione all'interno di orifizi o cavità dell'organismo. Aveva generalmente una forma conica, e disponeva di due o tre valve per la dilatazione. Le dimensioni e la forma potevano variare in base alla destinazione d'uso dello strumento (comuni erano, ad esempio, gli specula vaginali). 6) Ventose l'uso della ventosa era legato all'ipotesi che il dolore o la malattia potessero venire "succhiati" fuori dal corpo. Le prime antiche ventose erano fatte con corna di animali, poi di metallo: si applicavano alla cute mentre una persona aspirava l'aria attraverso un piccolo foro; più tardi si sfruttò il fenomeno fisico dell'aumento di volume dell'aria calda e della sua contrazione quando essa si raffreddava. In seguito, vennero utilizzate per effettuare la pratica popolare del salasso e per estrarre pus e "umorismo vizioso". Figura 11: Strumentazione medico-chirurgica romana. Anche in ambito di chirurgia, i romani praticavano numerose procedure sorprendentemente avanzate per i tempi, tra le quali ricordiamo: 1) Salasso detto anche flebotomia, era una pratica comune nell'antica Roma, era considerato una sorta di panacea per molte malattie e consisteva nel prelevare quantità spesso considerevoli di sangue da un paziente. Nell’antica Roma, si pensava che il sangue fosse l'umore dominante, quello che avesse più bisogno di essere controllato e che non fosse in grado di circolare all’interno dell’organismo ma che venisse creato e poi consumato e che quindi fosse in grado di 'stagnare' 80

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