Virologia PDF - Morfologia e Struttura dei Virus
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This document provides an overview of virology, focusing on the morphology and structure of viruses. It details the composition of viruses, including the different types of viruses (DNA or RNA), and the elements that compose them such as their capsid, envelope, and peplomers. It explains the function of these components and how viruses interact with host cells. The document also considers the different types of viruses, such as Adenovirus and Retrovirus, and their unique characteristics.
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Virologia Morfologia e struttura dei virus I virus sono delle entità piccole e semplici poiché sono costituite da un solo tipo di acido nucleico (DNA o RNA) racchiuso all’interno di una struttura proteica, chiamata capside. Questo ha l’obiettivo di proteggere l’acido...
Virologia Morfologia e struttura dei virus I virus sono delle entità piccole e semplici poiché sono costituite da un solo tipo di acido nucleico (DNA o RNA) racchiuso all’interno di una struttura proteica, chiamata capside. Questo ha l’obiettivo di proteggere l’acido nucleico. Alcuni virus possiedono un’altra struttura che si trova all’esterno del capside, ovvero una membrana envelope ricoperta di proteine del virus (questa parte esterna prende il nome di: envelope, inviluppo, pericapside). Tale estrema semplicità strutturale del virus extracellulare non coincide tuttavia con la sua complessità dal punto di vista biologico-funzionale. Un virus, infatti, può essere considerato materiale biochimico inerte finché si trova all’esterno della cellula ospite: all’interno della cellula esso diventa un importante e complesso protagonista, in grado di alterare metabolismo e fenotipo cellulare in modo da orientarli a proprio vantaggio. Per sottolineare questa peculiarità, i virus sono definiti parassiti intracellulari obbligati, a indicare sia la loro dipendenza dal metabolismo della cellula ospite (parassitismo), sia l’obbligo assoluto di compiere il ciclo vitale all’interno della cellula stessa (intracellulare obbligato). Inizialmente i virus furono definiti come agenti filtrabili; tutto nacque da un’osservazione di una pianta di tabacco che presentava insofferenza alle foglie. Gli osservatori pensarono che le piante potessero essere aggredite da batteri o parassiti, dunque presero la pianta, la ridussero ad una piccola quantità e fecero filtrare il composto attraverso una membrana di dimensioni note, in grado di contenere eventuali batteri e parassiti. In verità, nella membrana erano presenti parassiti e batteri, ma nessuno di questi aveva caratteristiche di un patogeno. Studiarono, quindi, il filtrato, ma non videro nulla. Gli osservatori inocularono il filtrato in delle piante sane che, dopo tempo, si ammalarono. Da qui venne fuori il concetto di virus intesi come agenti filtrabili, in quanto questa entità è così piccola da passare attraverso i pori della membrana. I virus sono sprovvisti di componenti strutturali enzimatiche tipiche della cellula procariotica. Non possono produrre energia né sintetizzare proteine al di fori della cellula ospite. Il genoma virale può essere costituito solo da DNA (deossiribovirus) o RNA (ribovirus), ma non da entrambi acidi nucleici. I virus proprio perché non hanno strutture proprie non si replicano per scissione binaria, ma per assemblaggio delle diverse componenti virali. Lo spettro degli ospiti infettati dai virus è ampissimo: microrganismi unicellulari (come micoplasmi, alghe e batteri) o più complessi (come le piante, gli animali superiori e l’uomo). In tutti gli ecosistemi sono presenti virus, molti dei quali sono ancora da identificare. Si parla infatti di virosfera per indicare una miriade di agenti presenti ovunque. Molti virus infettano specifici batteri, funghi, protisti, o animali in ecosistemi selvaggi. L’invasione umana di tali può portare la specie umana a contatto con specie virali prima sconosciute, come è avvenuto negli ultimi secoli e negli ultimi decenni. Infatti, i virus non umani presenti nella virosfera possono non diventare mai capaci d’infettare la specie umana, ma quando si “adattano” geneticamente possono essere trasmessi da uomo a uomo e, quando ci riescono con particolare efficienza, possono generare epidemie associate a notevole gravità clinica ed elevata mortalità. Non a caso, la grande maggioranza delle infezioni dette emergenti osservate negli ultimi anni è dovuta a virus nuovi per la specie umana, inizialmente limitati ad altre specie animali (zoonosi). Se il virus possiede solo un capside viene definito nudo; se il virus è rivestito da un envelope, viene definito virus inviluppato. L’envelope è costituita da una membrana con peplomeri, ovvero glicoproteine del virus stesso. Queste hanno la funzione di interagire con le proteine di membrana della cellula ospite. I virus nudi hanno una composizione chimica costituita da proteine e acidi nucleici. Questi sono resistenti ad alte temperature, ad acidi, a proteasi e a detergenti. Vengono rilasciati per lisi della cellula infetta. Possono essere trasmessi facilmente attraverso fomiti, ovvero oggetti che, se contaminati o esposto a microrganismi patogeni, possono trasferire una malattia infettiva a un nuovo ospite. I virus inviluppati hanno una composizione chimica caratterizzata da proteine, lipidi, glicoproteine e acidi nucleici. Sono inattivati dall’essiccamento, dal calore, da acidi e da detergenti. Sono sensibili e vengono rilasciati per gemmazione. Non posso sopravvivere al tratto gastrointestinale, mantengono la loro infettività in ambiente umidi, vengono trasmessi per contatto diretto e non devono necessariamente uccidere la cellula per diffondere e infettare altre. I virus più resistenti sono i virus nudi poiché il capside è molto stabile; i virus inviluppati vengono condizionati dalle alterazioni della membrana e soffrono, poiché nel momento in cui perdono l’inviluppo muoiono. Capside Il capside è un rivestimento proteico costituito da singole subunità proteiche ripetute dette capsomeri. Il capside ha la funzione di mediare tra il virus e le nostre cellule tramite dei recettori. Protegge il genoma virale in ambiente extracellulare, come variazioni di pH, temperatura e dalle radiazioni. Permette inoltre l’adesione virione – cellula. I capsidi dei virus sono caratterizzati da diverse simmetrie. La struttura icosaedrica (o cubica) è rappresentata da un solido a 20 facce a triangolo equilatero. Le proteine del virus si dispongono a formare delle strutture più complesse chiamate capsomeri che si dispongono secondo una simmetria icosaedrica o cubica. La struttura cubica è rappresenta da un cubo all’interno del quale si trova il genoma. I capsomeri posti ai vertici dell’icosaedro sono formati da 5 subunità proteiche e costituiscono un pentone. Ogni altro capsomero è formato da 6 subunità proteiche o esone. I virus che infettano l’uomo sono a simmetria icosaedrica nudi. Per quanto riguarda il capside elicoidale, le proteine che formano il capside non si associano a formare i capsomeri, ma si dispongono seguendo un ideale passo di un’elica in modo da lasciare spazio all’interno per alloggiare l’acido nucleico che non è raggomitolato, ma segue il passo dell'elica. Apparentemente è una struttura più lassa, meno compatta della cubica, ma anche questi virus riescono a proteggere l'acido nucleico. I virus a simmetria elicoidale che infettano l’uomo sono tutti virus inviluppati, non esistono virus a simmetria elicoidale nudi che infettano l’uomo. La struttura del virus condiziona la modalità di trasmissione da un ospite all’altro (in maniera indiretta nei virus nudi, in maniera diretta nei virus inviluppati) e la modalità di interazione del virus con cellule in vitro (coltivazione in vitro del virus mediante cellule). I virus vengono osservati mediante microscopio elettronico. Composizione chimica dei virus I virus sono composti da: acido deossiribonucleico o acido ribonucleico; lipidi (colesterolo, grassi neutri e fosfolipidi); proteine (strutturali e funzionali); carboidrati. Il genoma virale può essere costituito da DNA o da RNA, ma non da entrambi gli acidi nucleici. Ci sono quindi due tipi di virus: virus a DNA o deossiribovirus e virus a RNA o ribovirus. Il deossiribovirus può essere a doppio o a singolo filamento, oppure lineare o circolare. Il 30% dei virus animali ha un genoma a DNA. Si può trovare anche parzialmente a singolo filamento, quando non è in fare di replicazione. Contrariamente a quanto si verifica per i virus a RNA, la cui espressione e replica-zione è prevalentemente citoplasmatica (esclusi gli orthomixovirus), la trascrizione e la replicazione dei virus a DNA avvengono all’interno del nucleo a opera rispettivamente di trascrittasi e polimerasi cellulari. Fanno eccezione i poxvirus, per i quali la trascrizione del genoma e l’intero ciclo replicativo si svolgono nel citoplasma. In linea generale, i virus a DNA tendono ad avere una minore variabilità rispetto ai virus a RNA. La ragione di ciò deve essere ricondotta al fatto che la duplicazione del genoma dei deossiribovirus dipende dalla DNA polimerasi cellulare, enzima abba- stanza fedele e dotato di attività di “correttore di bozze”. La maggior parte dei virus animali conosciuti possiede un genoma a RNA, rappresentando pertanto l’unico esempio in natura di organismi in cui l’RNA funge da depositario dell’informazione genetica. I genomi a RNA sono generalmente più piccoli (7-30 kb) di quelli a DNA e le differenti famiglie di ribovirus mostrano una notevole diversità nella struttura del loro genoma. Tutte, eccetto i retrovirus, possiedono un genoma aploide che può essere monocatenario o bicatenario, lineare o circolare, monosegmentato o plurisegmentato (2-12 segmenti) e infine a polarità positiva, negativa o ambisenso. Ognuna di queste varianti genomiche produce differenze nelle modalità di replicazione, nell’espressione genica e nell’assemblaggio dei virioni. L’RNA a polarità positiva contiene alle estremità 5′ e 3′ delle sequenze analoghe a quelle degli mRNA cellulari che consentono loro di essere direttamente letti come messaggeri dai ribosomi della cellula ospite. Al contrario, l’RNA a polarità negativa funge da stampo per una trascrittasi virale (RNA polimerasi-RNA dipendente) che media la formazione di un antigenoma (polarità+) e di altre molecole a polarità positiva in grado di fungere da messaggero. Virus a DNA e virus a RNA a confronto Carattere distintivo è che la maggior parte dei virus animali ha un genoma a RNA. La molecola di DNA e di RNA sono caratterizzate da diversa stabilità (DNA più stabili grazie alla doppia elica). I campioni biologici in cui è presente un virus a RNA devono essere maneggiati/conservati con particolare attenzione per proteggerlo dalla inattivazione per mantenere la vitalità dei virus (coltivazione del virus in vitro). Le tecniche per rilevare il genoma dei virus a DNA sono differenti da quelle per i virus ad RNA. Componenti virali Capside: Struttura proteica che racchiude l’acido nucleico o il core Capsomero: Unità strutturale proteica del capside Envelope: Involucro lipoglicoproteico Peplomeri: Proiezioni superficiali dell’envelope Virione: Particella virale infettante Tipologia dei virus Adenovirus: Sono dei virus a dna. Hanno un capside icosaedrico e sono. Questi virus hanno una peculiarità, ovvero dagli spigoli del poligono si dipartono delle proiezioni, chiamate fibre. È importante la presenza delle fibre, perché sono fondamentali quando il virus interagisce con le cellule. Nel caso di questi virus, sono le proteine che costituiscono la parte distale della fibra che prendono contatto con la cellula, vale a dire che se il virus per una qualunque ragione perdesse queste fibre sarebbe morto, perché non potrebbe più interagire con nessuna cellula. Questi virus sono dei patogeni per l’uomo, alcuni di loro danno infezioni respiratorie, altri infezioni gastroenteriche. Non sono in genere delle infezioni gravissime. Retrovirus: È un virus inviluppato, all’interno c’è il capside. In realtà è fornito di un capside particolare perché non è elicoidale, ma non è nemmeno icosaedrico, ha una forma come un tronco di cono. Possiede un genoma a RNA con polarità positiva, e inoltre è rappresentato con 2 molecole di RNA indipendenti. Questo virus possiede già una proteina funzionale molto importante ed è una trascrittasi inversa. L’inviluppo è caratterizzato da PEPLOMERI, proteine che fuoriescono. Queste proteine sono importantissime perché servono al virus per interagire con la cellula. In particolar modo si dice che questi PEPLOMERI assomigliano vagamente ad un fungo e il fungo è costituito da 2 proteine diverse: GP120, fondamentale per l’interazione con la cellula, e un’altra chiamata GP41. Queste ultime assumono la funzione del virus di creare un contatto con la cellula e di entrarci dentro. Herpesvirus: È un virus inviluppato. Il capside ha una simmetria icosaedrica. Gli herpesvirus sono una famiglia di virus abbastanza grande, tutti patogeni per l’uomo. Sono dei virus a DNA a doppio filamento lineare. Al microscopio elettronico i virus si vedono bene, dunque l’analisi al microscopio serve per identificare in maniera generica un herpesvirus; ma dal punto di vista della diagnosi l’impiego del microscopio risulta essere complessa, soprattutto nell’allestimento, quindi si cerca di utilizzare delle metodiche più semplici. Virus influenzale: È un virus inviluppato. Il capside ha una simmetria elicoidale. Anche questo inviluppo possiede i peplomeri. Questo virus possiede 2 tipi differenti di peplomeri indipendenti e diversi tra di loro. Uno di questi è l’H SPIKE, sta per emoagglutinina e serve per interagire con la cellula, questo nome perché il virus si lega ai globuli rossi, seppur non li infetta. L’altra proteina è l’N SPIKE, neuraminidasi; quest’ultima è una proteina di attività enzimatica che serve al virus quando infetta la singola cellula, il suo compito sarà permettere al virus una volta riprodotto di uscire dalla cellula. L’impiego della N SPIKE, però, lo si ritrova anche quando il virus infetta l’uomo per raggiungere le cellule; poiché l’uomo possiede dei meccanismi di difesa come le ciglia e il muco. Il muco, quando qualcosa penetra all’interno dell’organismo, la circonda cosicché possa trascinarla con lui nello stomaco e infine eliminarla. In realtà il virus, prima sarà predisposto a effettuare questo legame con il muco, successivamente attivando la neuraminidasi, che servirà a rompere il legame con il muco, si aprirà una strada per arrivare alle cellule della mucosa. Reovirus: La famiglia dei reovirus sono nudi ed inviluppati. Sono dei virus particolari: possiedono un genoma a RNA a doppio filamento segmentato. In realtà sono dei virus molto resistenti, non solo perché sono dei virus nudi, ma perché hanno 2 strati di capside, uno più interno e uno più esterno. Questi virus danno all’uomo delle infezioni dell’apparato gastroenterico, cioè loro passano dallo stomaco che ha un ambiente molto acido, che comunque non li danneggia; arrivano alla mucosa gastroenterica e danno gastroenteriti. Rhabdovirus: È un virus inviluppato, dunque possiede le proteine necessarie per l’interazione con la cellula. Ha una simmetria elicoidale. Il virus della rabbia appartiene a questa famiglia di virus. Ebolavirus: È un virus che tanto si teme. Qualche anno fa, nei paesi africani vi fu un’importante epidemia. Questo virus Ebola è altamente mortale. Ha una forma allungata, ed è un virus inviluppato con le sue glicoproteine. Conoscere la struttura dei virus ,e in particolar modo, la natura degli acidi nucleici, è quello da cui si è partiti per classificare i virus. La prima classificazione dei virus si è basata sulla morfologia e sulla struttura, es: virus nudi o inviluppati, capside a simmetria icosaedrica o elicoidale. Un’altra distinzione è la natura dell’acido nucleico (DNA o RNA). Dunque, virus che condividono le stesse caratteristiche sono stati inseriti in famiglie, che vengono indicate con il suffisso: VIRIDAE. Laddove all’interno di una famiglia ci si è resi conto che esistevano più virus con le stesse caratteristiche, si sono andati a studiare le caratteristiche le caratteristiche differenziali, permettendo un’ulteriore classificazione in SOTTOFAMIGLIE, ES. alpha herpes viridae e beta herpes viridae. La classificazione delle sottofamiglie è stata fatta sulla base delle cellule che infettano per dare origine a una progenie virale e sulla base di cellule che utilizzano per nascondersi al sistema immunitario. All’interno delle sottofamiglie vi sono le SPECIE, ES. nella sottofamiglia dell’alpha herpes viridae sono classificate: Herpes Simplex e il virus della varicella-zoster. Moltiplicazione dei virus I virus non possiedono, come i batteri, fattori di patogenicità. Quindi, la loro capacità patogena è legata alla loro capacità di interagire con la cellula, con l’obiettivo di riprodursi. I danni che le cellule subiscono nell’immediato o nel tempo, una volta entrate in contatto con il virus, verranno visti come conseguenza dell’infezione virale. I virus sono parassiti intracellulari obbligati, quindi si possono moltiplicare solo se interagiscono con una cellula. Il tempo che questi virus impiegano per potersi moltiplicare e dare progenie virale non è uguale per tutti; ci sono virus che si moltiplicano più rapidamente e altri meno. Ci sono virus che riescono a riprodursi in minor tempo con un elevato quantitativo di progenie virale, mentre altri meno. La spiegazione sta nel fatto che il genoma di questi virus è diverso, vale a dire: i virus che si riproducono più velocemente sono i virus che hanno una molecola di RNA detta a polarità positiva. Il gruppo che impiega un tempo medio ha un genoma con polarità negativa. Il terzo gruppo invece, ha un genoma a polarità positiva, ma che si comporta in maniera differente. Quindi, i virus che hanno RNA a polarità positiva sono avvantaggiati dal fatto che il loro genoma, non appena il virus prende contatto con le celle e entra dentro la cellula, questo genoma viene riconosciuto dai ribosomi e lo traducono immediatamente; questo perché il loro genoma a polarità positiva ha lo stesso orientamento dei messaggeri cellulari: orientamento 5’-3’. I virus che hanno RNA a polarità negativa, invece, possiedono l’orientamento del genoma al contrario: 3’-5’. Quindi, quando questo genoma arriva all’interno della cellula, quest’ultima non lo riconosce ed è dunque necessario che il virus con un suo enzima prima inverte l’orientamento e dopo sarà riconosciuto dai ribosomi. Il terzo gruppo invece, che si comporta in maniera differente, sono anche essi a polarità positiva però risultano essere più lenti e meno efficienti; perché il loro genoma non viene riconosciuto dai nostri ribosomi. Per essere riconosciuto, il virus utilizza un enzima, Polimerasi inversa, che trasforma le molecole di RNA in molecole di DNA. Quindi, prima l’RNA deve essere trasformato in DNA nel citoplasma, dopo il DNA deve essere portato nel nucleo e la polimerasi virale deve tagliare il DNA cellulare e integrare quello virale, in maniera tale che l’RNA polimerasi delle nostre cellule lo possa trascrivere. Quindi, avvengono le trascrizioni cioè la formazione dei messaggeri, questi messaggeri devono andare di nuovo nel citoplasma dove ci sono i ribosomi e on questo momento può iniziare la sintesi delle proteine. Quindi è logico che questi virus sono più lentie meno efficienti. Fasi del ciclo moltiplicativo Adsorbimento: Ognuna di queste fasi avviene a carico di una struttura o di un compartimento cellulare. Questo perché i virus hanno delle strutture poste superficialmente al capside o dell’inviluppo che servono per interagire con le cellule. L’interazione è specifica, ognuna di queste proteine dei virus interagisce con un recettore cellulare ben preciso. La componente proteica che assolve alla funzione di adsorbimento del virus si chiama antirecettore virale. (es. emmaglutinina del virus influenzale è l’antirecettore di questo virus). Questo antirecettore riconosce un recettore cellulare, ognuno il suo. Se nella cellula non viene trovato il recettore non sarà concluso nulla. Però questo vuol dire che il virus può attaccare solo le cellule che presentano il recettore cellulare che egli conosce. ES: il virus dell’epatite b, virus icosaedrico inviluppato, ha le sue proteine di superficie riconosciute come antirecettori virali, che servono per legare le cellule. il recettore cellulare è il recettore che serve al trasporto degli acidi biliari. Esso si troverà a livello del fegato, negli epatociti. Di solito l’interazione, tra antirecettore virale e recettore cellulare, avviene nel seguente modo: il virus ha delle glicoproteine che sporgono, il recettore cellulare, invece, è una molecola della membrana citoplasmatica, avviene il legame tra le due parti. In qualunque interazione, la proteina più esterna del virus è l’antirecettore virale, il virus durante la propria evoluzione ha imparato a legare come recettore cellulare, una molecola che ha una caratteristica morfologica diversa, cioè che protubera dalla cellula. Questo per dire come ogni meccanismo è controllato. Ovviamente conoscere l’antirecettore virale, fa comprendere quali cellule il virus è in grado di infettare, questo viene definito spettro di tessuto. Queste proteine, che funzionano come antirecettore virale, quando un virus infetta l’ospite, sono le prime proteine che il sistema immunitario vede; quest’ultimo riconosce queste proteine e produce anticorpi. Come l’antirecettore serve a legare la cellula, se tra queste si interpone l’anticorpo, il virus non si può più legare alla cellula, dunque questi anticorpi vengono definiti: anticorpi neutralizzanti. ES: durante la vaccinazione per il corona virus, inoculano la proteina spike, che è l’antirecettore virale. Viene scelta questa porzione, perché viene riconosciuto che quella proteina è capace di stimolare una risposta immunitaria che a serve per protezione. I virus che appartengono alla stessa famiglia utilizzano recettori differenti. Quindi, sapere quale recettore cellulare utilizza un virus, non significa conoscere il comportamento dei virus che fanno parte della sua stessa famiglia. Penetrazione: Alcuni virus, per legarsi alla cellula, hanno bisogno non soltanto di un recettore, ma anche di corecettori, per effettuare un legame specifico con la cellula. I corecettori sono delle molecole presenti nella membrana cellulare delle cellule che i virus hanno imparato a sfruttare. Un virus che si adsorbe alla cellula, ha preso solo un contatto con la cellula. In realtà, l’obiettivo del virus è quello di entrare all’interno della cellula, questa è infatti la seconda tappa: la penetrazione. Il virus entra all’interno della cellula in base alla loro struttura, se sono virus nudi entrano per endocitosi. Il virus si lega con le sue fibre alla membrana citoplasmatica e stimola la membrana a invaginarsi, fino a ritrovarsi nella vescicola endocitica. Questa fase non è uguale per tutti i virus, per esempio i virus a DNA nudi devono riuscire dopo essere arrivati a livello citoplasmatico, devo riuscire a raggiungere il nucleo e lo fanno sfruttando i filamenti di actina del citoplasma, successivamente devono superare i pori della membrana nucleare e infine arrivare a livello nucleare. I virus inviluppati, invece, si comportano in un altro modo. Ad esempio, i paramyxovirus hanno sull’inviluppo 2 diverse proteine: una proteina che è l’antirecettore virale e un’altra proteina che viene definita fusogena, perché ha la capacità di fondere la membrana citoplasmatica della cellula con l’inviluppo del virus. Questa fusione è possibile perché sia la membrana citoplasmatica che l’inviluppo sono costituiti da fosfolipidi e proteine. Per cui infine l’inviluppo del virus rimane come una parte della membrana citoplasmatica e il capside entra nel citoplasma. Questa metodica viene chiamata: penetrazione per fusione. Esempio: nel caso della struttura a fungo che sporge dalla membrana dell’hiv, presenta 2 proteine differenti: GP120 e GP41. La GP120 è l’antirecettore virale, mentre la GP41 è la proteina fusogena. Ovviamente questo virus entra all’interno della cellula per fusione. Dunque, il virus incontra i linfociti CD4 e si lega al loro recettore, il virus è adsorbito. Per penetrare si sfrutta la proteina fusogena, ma in questo caso la proteina fusogena non libera, qui interviene il corecettore. Quindi, la GP120 si lega al CD4 e questo insieme si lega a un corecettore, così facendo si crea una modifica della conformazione del fungo per cui la parte globbosa si sposta e la parte bastoncellare emerge, siccome nella parte bastoncellare viene identificata la GP41, che è la proteina fusogena, a questo punto può avvenire la fusione. Denudamento ed esposizione all’acido nucleico virale e sintesi macromolecolari virus-specifiche: La terza tappa del ciclo replicativo è rappresentata dalla sintesi macromolecolare. Si intende che il genoma del virus deve riuscire, in tutti i modi, a far si che la cellula si occupi del suo DNA. Il genoma deve riuscire a presentare alla cellula degli RNA messaggeri, cioè significa la disponibilità di proteine e quindi la traduzione. Per i virus nudi inizia nella vescicola endocitica in quanto le condizioni di pH determinano un’alterazione dei legami tra le proteine capsidiche, per cui il capside si rompe e l’acido nucleico si libera. Per i virus inviluppati inizia con la fusione e poi lo scompaginamento del capside. L’obiettivo del virus è sintetizzare nel modo più rapido possibile le proteine. Quindi il virus deve presentare alla cellula un suo messaggero: il virus ha genomi a RNA e genomi a DNA quindi cambia il comportamento dei virus. Allora, i virus che hanno un genoma a RNA a polarità positiva quando esso entra nella cellula si è liberato delle proteine del capside, il suo genoma è detto fatto. Quindi questi genomi non hanno bisogno di andare nel nucleo. Mentre, i virus a polarità negativa, hanno polarità opposta. Il cambiamento della polarità è effettuato dalla polimerasi del virus; quindi, l’rna a polarità negativa viene trascritto ad rna a polarità positiva, diventando messaggero. Questo discorso ovviamente non è valido per i virus a DNA, in quanto il loro genoma non è un messaggero. In questo caso, portano il genoma nel nucleo delle nostre cellule dove vi è la dna polimerasi, le quali non discriminano il dna del virus e trascrivono, si formano i messaggeri. Questi messaggeri vengono portati nel citoplasma e vi sarà la traduzione. Questo processo è fondamentale, perché si formeranno: le proteine del capside, le proteine strutturali, ma anche le proteine che servono al funzionamento. Tra le proteine funzionali vi sono le polimerasi virali, il virus si sintetizza le sue polimerasi che serviranno a sintetizzare le molecole di genoma che servono per la formazione dei nuovi virus. l virus si assorbe alla cellula, penetra dentro la cellula e il genoma virale deve raggiungere il nucleo. Questi virus hanno un genoma molto grande e la polimerasi cellulare non ce la fa a trascriverlo tutto, quindi li trascrive in blocchi. Dunque si avrà una distinzione di mRNA: precocissimi, precoci e tardivi. Tra i precoci vi è la polimerasi virale, che serve per replicare il genoma virale. Una volta che si sono formate tutte queste molecole di DNA, il DNA torna nel nucleo e vengono trascritti i messaggeri tardivi e queste sono le proteine strutturali. Quindi, il virus si è prodotto tutte le proteine di cui aveva bisogno, a questo punto mette insieme tutto e questa sarà la progenie virale. Per quanto riguarda un virus a RNA a polarità positiva, virus prende contatto con la cellula, entra nella cellula. Rimane nel citoplasma, poiché non ha bisogno di andare nel nucleo. Siccome si tratta di virus a polarità positiva, vengono utilizzati con la funzione di messaggero, quindi viene tradotto. Si forma una grande poliproteina, a questo punto intervengono degli enzimi, le proteasi, che tagliano la poliproteina per dare le proteine della giusta dimensione. A volte partecipano a questo processo delle proteasi del virus stesso. Tra le proteine si formano 3 molecole della polimerasi virale, rna polimerasi rna dipendente, cioè utilizza il genoma come stampo per formare le altre molecole. Quindi, il virus ha tutte le componenti che gli servono, tutto pronto all’uso, può essere assemblato. Per i virus a RNA a polarità negatica, il processo sarà identico al precedente, tranne per un passaggio. Quando l’RNA arriva nella cellula, prima deve essere convertito in RNA a polarità positiva. Il virus che fa eccezione nel caso dei virus a RNA è l’HIV, i retrovirus: il virus si lega, entra nella cellula e rimane nel citoplasma. Rimane nel citoplasma perché sfrutta l’energia, i nucleotidi e la sua retrotrascrittasi per convertire le molecole di RNA in molecole di DNA a doppio filamento. Questo DNA viene portato nel nucleo, un enzima del virus, che si chiama integrasi, taglia il DNA cellulare e lo fa integrare. A questo punto l’rna polimerasi cellulare trascrive, si formano i messaggeri che vanno nel citoplasma e avviene la traduzione. Nel frattempo, subisce vari danni, non è un processo indifferente per la cellula. Assemblaggio: È un processo molto controllato. Le proteine strutturali devono costituire il capside, il genoma virale deve finire dentro il capside. Quindi si tratta di un processo in cui tutto avviene con cognizione di causa. Se il virus è nudo, tutte queste particelle virali si accumulano nella cellula, ad un certo punto la cellula non le può più trattene e scoppia. Quindi il virus viene diffuso. Diverso è per i virus inviluppati, le proteine dell’envelope sono alcune glicoproteine, quindi, devono passare dal RE e dal Golgi per essere glicosilate. Le proteine dopo essere state glicosilate vengono inviate verso la membrana citoplasmatica. Quindi il nucleocapside viene convogliato in questa parte della cellula dove le proteine virali si sono insediate nella membrana. Una parte di queste proteine sporge fuori, una attraversa la membrana e un’altra sporge dentro. In quest’ultima porzione vi sono dei segnali di richiamo delle proteine del capside; quindi, il capside va dove sono inserite le proteine dell’inviluppo. L’inviluppo spinge dall’interno, in questo processo di esocitosi. Il virus esce per gemmazione, si porta un pezzo di membrana che diventa il suo inviluppo. Spesso le proteine matrice si associano alle proteine glicosilate e fungono da sito di ancoraggio. Tutto questo spiega il fatto che i virus inviluppati escono per gemmazione, la cellula via via che le particelle virali portano via un pezzo di membrana inizia ad andare in sofferenza ma non muore subito. Dunque, studiare i cicli dei singoli virus ha portato a definire che ruolo hanno le singole proteine del virus. La funzionalità delle proteine è stata messa in evidenza e questo risulta importante quando si vogliono coltivare i virus. Mentre la coltivazione dei virus è una pratica di diagnosi, quella della coltivazione dei virus non lo è, perché è una metodologia complicata, non standardizzata. Quindi si va verso metodologie più efficienti. Dunque, studiare i cicli dei singoli virus ha portato a definire che ruolo hanno le singole proteine del virus. La funzionalità delle proteine è stata messa in evidenza, questo risulta importante quando si vogliono coltivare i virus. Mentre la coltivazione dei virus è una pratica di diagnosi, quella della coltivazione dei virus non lo è, perché è una metodologia complicata, non standardizzata. Quindi si va verso metodologie più efficienti. Metodi di coltivazione Uno degli aspetti importanti per studiare i microrganismi è legato alla possibilità di coltivarli in laboratorio. I virus sono parassiti intracellulari obbligati per cui, per la coltivazione in vitro, bisogna fornire loro delle cellule. I primi metodi di coltivazione prevedevano l’utilizzo di animali da laboratorio. Il virus riprodurrà nell'animale quello che più o meno fa nell’ospite naturale quindi è possibile l'infezione naturale e dai liquidi animali estrarre il virus. Consistevano nell’inoculare all’interno dell’animale un virus e osservare la risposta. Questo metodo venne immediatamente abbandonato, e considerato poco idoneo, in quanto l’animale, possedendo un proprio sistema immunitario, avrebbe attuato dei meccanismi di difesa, anche diversi a seconda dell’individuo. Inizialmente furono anche utilizzati le uova embrionate, con il vantaggio di avere una grande resa virale, ma lo svantaggio di dover essere lavorati da operatori preparati, a causa della difficile manipolazione. Per vedere se il virus si è moltiplicato nell'uovo si guarda l'uovo contro luce, se il virus ha determinato la morte dell'embrione non lo si vedrà più muoversi. Se questo non avviene non si ha parametro, dopo un tot di giorni si deve rompere l'uovo tirare fuori e vedere se c'è virus. Oggi molti vaccini sono fatti così perché questo sistema consente di produrre una grande quantità di virus. L’inoculazione della sospensione virale si può fare in distretti differenti (cavità amniotica, membrana corion allantoide, sacco vitellino) a seconda del tipo di virus. Per recuperare il virus si rompe l'uovo e si prende la parte in cui l'ho inoculato. Questi metodi di coltivazione vennero abbandonati del tutto, con l’utilizzo delle colture cellulari. Colture cellulari Le colture cellulari sono cellule che devono essere mantenute vitali in vitro. Si dividono in: − Colture primarie − Colture secondarie Le colture cellulari primarie sono cellule prese da un tessuto digerito e messe in coltura (mucosa, placenta, fegato). Sono cellule simili alla cellula originale sotto ogni punto di vista, sia a livello di vitalità, che di numero di cromosomi, che a livello comportamentale. Queste linee hanno lo svantaggio di morire dopo 1 – 2 cicli replicativi. Le colture cellulari secondarie si suddividono in ceppi diploidi e in continue. Le prime sono programmate per subire un certo numero di cicli di divisione e successivamente andare incontro a morte. Le seconde vengono anche definite immortali, derivano dalle colture cellulari primarie. Durante la replicazione sono andate incontro a delle mutazioni che gli hanno fatto acquisire l’immortalità. Naturalmente lo svantaggio di queste cellule è che subendo numerosi cicli replicativi si allontaneranno sempre di più dalla cellula originaria, ed avranno caratteristiche differenti rispetto ad essa. La loro trasformazione può essere: spontanea, dovuta ad un danno al DNA, ad un’espressione eccessiva di telomerasi o alla mutazione di un gene di senescenza; indotta, mediante virus o agenti chimici. Le cellule delle linee cellulari continue hanno la caratteristica di non risentire del fenomeno dell’inibizione da contatto. Se si fanno crescere in vitro, infatti, se due cellule si trovano a fianco, a differenza di come succederebbe se le cellule fossero finite, cominceranno a crescere le une sulle altre. Terreni di coltura Le colture cellulari che si possono trovare in laboratorio sono di due tipi. Se osservate al microscopio ottico, si possono osservare cellule adese, ovvero adese al supporto utilizzato, o cellule in sospensione, ovvero cellule che nuotano nel mezzo utilizzato, cioè nel terreno di coltura, che contiene i nutrienti necessari. Questo comportamento differente delle cellule deriva dal mantenimento delle stesse caratteristiche del tessuto da cui provengono. Affinché le cellule aderiscano alla plastica, bisogna favorire questa interazione, in quanto la carica elettrica della membrana citoplasmatica delle cellule è uguale a quella della plastica, per cui le cariche tendono a respingersi. Per favorire questa interazione all’interno del terreno di coltura viene inserito il siero di vitello fetale (che non ha anticorpi contro il virus). All’interno del siero sono presenti fattori nutrizionali, fattori di adesione e fattori di crescita. Hanno lo svantaggio di avere una variabilità da lotto in lotto. Il terreno di coltura di base è composto da: soluzione salina a PH 7, glucosio, amminoacidi, sistema tampone, ed un indicatore di PH (che serve a vedere lo stato di benessere delle cellule). Osservando il terreno, infatti, se quest’ultimo è rosso ciliegia, significa che le cellule metabolizzano troppo poco per cui sono in sofferenza, se invece il terreno è rosso è tendente all’arancione significa che le cellule metabolizzano normalmente. Talvolta il terreno è talmente acido da diventare giallo, il che significa che le cellule metabolizzano troppo, in quanto ci sono troppi metaboliti e cataboliti ed in questo caso bisogna sostituirlo. Inoltre, nel terreno di coltura vengono aggiunti antibiotici ed antimicotici che servono a controllare eventuali contaminazioni da batteri e miceti. Ciò può essere favorito lavorando in un ambiente sterile, ovvero, all’interno delle cappe a flusso laminare di secondo livello. Attraverso le colture cellulari, è possibile effettuare la titolazione cellulare, stabilire quindi quanto virus è presente nel campione, ossia la carica virale. La carica virale che oggi viene misurata si basa sulla quantizzazione delle particelle virali. Quando si effettua sulle colture cellulari si quantifica la quantità di virus originario, non quello che si replica; quando si misura la carica virale attraverso il genoma virale o le proteine, invece, si quantificano le migliaia di copie del DNA che si replicano. Dunque, è chiaro che i numeri dei due metodi non potranno mai corrispondere. Per coltivare le cellule in laboratorio bisogna avere delle cellule idonee, quindi vitali, che il virus sia in grado di infettare. Affinché un virus infetti una cellula, bisogna favorire l’interazione cellule-virus, ciò si fa eliminando il terreno di coltura che contiene gli elementi nutrizionali, aggiungendo il virus e aspettando circa due ore. Successivamente le cellule si saranno unite al virus e dunque è possibile aggiungere nuovamente il terreno di coltura. Si lascia il terreno ad incubare a 37 gradi per circa 24 h, successivamente le cellule saranno pronte per l’osservazione. E’ necessario aspettare 24h, affinché si verifichi l’effetto citopatico. Questo si verifica con un’alterazione cellulare creata dal virus. Se le cellule diventano nere, quindi si è verificata una lisi, si può dedurre che la lisi sia stata provocata da un virus nudo. E’ possibile osservare dei sincizi, ovvero ampie cellule derivanti dalla fusione di più elementi cellulari che mantengono inalterati i loro nuclei. Si parla quindi di effetto citopatico sinciziale. Questo effetto è causato da virus inviluppati. Dopo aver osservato l’effetto citopatico si può stabilire di che virus si tratta, attraverso la ricerca di nuovi antigeni virus-indotti, tramite immunofluorescenza o western blotting, tecniche che sfruttano, appunto, il principio del legame antigene-anticorpo. Interazione virus – cellula Esistono vari tipi di infezioni diverse, questo perché i virus hanno una diversa capacità di interagire con le cellule: − Infezione produttiva − Infezione abortiva − Infezione persistente − Infezione trasformante L’infezione produttiva si verifica quando un virus infetta una cellula, si replica e successivamente provoca la morte della cellula infettata (ciclo litico). È un’infezione che porta alla produzione di nuovi virioni, ma affinché il virus possa infettare una cellula è necessario che questa cellula sia sensibile (deve esprimere sulla membrana cellulare determinati recettori che quel virus è in grado di riconoscere e a cui si può legare) e permissiva (deve supportare un virus nel proprio ciclo replicativo fornendo energia, aminoacidi, enzimi, cioè tutto ciò che il virus non possiede). Se la cellula che incontra è sensibile e permissiva, il virus lega la cellula che successivamente andrà subito incontro a morte a causa di lisi cellulare (ciclo litico). Nell’infezione abortiva, la cellula che può incontrare il virus può essere sensibile ma non permissiva, ciò vuol dire che il virus si può legare ad essa e penetrare, ma essendo non permissiva non si può replicare, dunque, questa infezione non si concluse e proprio per questo motivo viene definita abortiva. Nell’infezione abortiva può accadere anche che la cellula che incontra il virus sia sensibile e permissiva, ma che il virus abbia un difetto che non gli permette di legarsi alla cellula e di finire il proprio ciclo. Un esempio è il virus dell’epatite B, che non è in grado di creare i propri antirecettori autonomamente. Riesce a crearli solo in presenza del virus dell’epatite B. L’infezione persistente si verifica perché esistono dei virus che dopo aver infettato una cellula ed essersi replicati in essa, non provocano la morte della cellula. Ciò gli dà la possibilità di poter ancora utilizzare quella cellula. Queste infezioni si chiamano persistenti perché persistono nel tempo, e possono essere di due tipi: infezioni persistenti croniche, quando il virus è in grado di continuare ad utilizzare la cellula originaria (perché non l’ha uccisa) replicandosi sempre, ed infezioni persistenti latenti, quando il virus durante la latenza non fa nulla e del virus quello che rimane nell’infezione latente è il genoma virale che si trova nel nucleo delle cellule, sotto forma di DNA circolare. Infatti, un virus lineare, quando va in latenza si circolarizza. Dal punto di vista diagnostico, non è possibile individuare un virus latente, in quanto non è presente, perché non esprime nulla. Nelle infezioni trasformanti il virus induce delle mutazioni genomiche che portano alla formazione di cellule trasformate, che potrebbero portare, se presente una predisposizione, all’insorgenza di una patologia tumorale. Solo alcuni virus sono in grado di dare un’infezione trasformante, e vengono chiamati virus oncogeni. Non tutti i virus possono infettare tutte le cellule degli organismi viventi presenti in natura, esistono virus che possono infettare solo gli uomini, virus che possono infettare solo gli animali, e così via. La capacità di un virus di infettare una particolare cellula dipende dalla capacità del virus di adattarsi ai diversi ospiti cellulari. Questo parametro viene definito spettro d’ospite. Rapporto virus – ospite È importante tenere in considerazione il rapporto che coesiste tra un virus e l’ospite, in quanto permetterà la replicazione del virus. Un virus, in quanto parassita endocellulare obbligato, può instaurare un rapporto con u organismo ospite solo se in grado di avviare in esso un processo infettivo. Perché si abbia un processo infettivo è necessario che il virus possa penetrare nei tessuti dell’ospite e, contestualmente o subito dopo la penetrazione, trovare in esso cellule sensibili e permissive, che permettano al virus non solo di entrare, e quindi di istaurare un rapporto con l’ospite, ma anche di sfruttare quelle cellule per inserire le proprie informazioni genetiche e quindi avviare la replicazione. Conclusa la replicazione ione e istaurata l’infezione esso verrà liberato all’esterno, dove cercherà altri individui da infettare. Il legame o rapporto che intercorre tra l’ospite e il virus è chiamato patogenesi. Il processo patogenetico inizia nel momento in cui il soggetto viene esposto al virus e quindi si verifica la penetrazione di esso all’interno dell’individuo. L’insieme di specie sensibili ad un virus definiscono lo spettro d’ospite. I virus possono infettare un solo tipo cellulare, oppure diversi tipi cellulari. Indipendentemente da ciò, le cellule condividono la capacità di esporre dei recettori che il virus riconosce e a cui successivamente si lega. Ci sono virus che hanno uno spettro d’ospite più ristretto e virus che hanno uno spettro d’ospite più ampio, dovuto alla capacità di alcuni virus di infettare un solo ospite e altri invece più ospiti, anche di specie differenti. Ad esempio, alcuni virus possono infettare solo l’uomo (spettro d’ospite ristretto), altri invece possono infettare sia l’uomo che l’animale (spettro d’ospite ampio). Gli animali infettabili si possono trovare, nella scala zoologica, vicini o lontani dall’uomo. L’ospite naturale del comune virus dell’influenza sono gli uccelli acquatici, non l’uomo. Il virus, evolvendosi, ha acquisito le capacità per infettare anche l’uomo, grazie alle capacità di adattamento del virus. Questo passaggio di specie da un animale ad un uomo non è a favore del virus, in quanto l’entrata in un nuovo ospite potrebbe anche portare ad un effetto sfavorevole. Gli animali nella scala zoologica sono tutti diversi tra di loro ed esistono molte differenze tra quest’ultimi. Alcuni sono lontani dall’uomo, altri invece sono molto vicini. Il virus parte da animali lontani, avvicinandosi sempre di più; questi piccoli passaggi di specie hanno permesso al virus un adattamento costante in sistemi che fossero più simili a quelli umani.. Il salto di specie, quindi, è possibile, ma avviene solo se nella seconda specie vi sono delle condizioni favorevoli e ideali affinché il virus possa moltiplicarsi, perché qualora venissero a mancare queste condizioni il virus andrebbe incontro alla morte. I maiali sono animali che stanno a contatto con innumerevoli virus, alcuni di questi umani. L’infezione avviene tramite starnuti o particelle di aerosol che vengono rilasciate dall’organismo umano. La capacità del virus di poter infettare sia animali che uomini dipende dal suo adattamento e a livello di differenze tra i due si potrebbero riscontrare un cambiamento a livello della sequenza amminoacidica. Infezione Nel momento in cui si crea il legame tra il virus e l’ospite, l’entrata del virus porterà ad un’infezione, causando, possibilmente, una reazione da parte dell’individuo che contrae il virus. Il tipo di reazione può essere più o meno grave e questo dipende dal suo sistema immunitario. Questo in genere è anche associato alla possibilità che l’ospite concede al virus di replicarsi. Ovviamente il virus se infetta poche cellule, di cui l’organismo può fare a meno, perché quest’ultime si rigenerano, il danno che si viene a creare è minimo. Le possibili reazioni da un’infezione potrebbero essere asintomatiche e sintomatiche, e questo dipende sia dal tipo di cellule che infetta il virus, ma anche dalla quantità di cellule che il virus infetta. Una reazione sintomatica si verifica con una perdita eccessiva di cellule e con sintomatologia. Un virus che infetta, ma non porta ad una malattia, dà vita ad una reazione asintomatica. A volte il virus infetta poche cellule, e ciò potrebbe far pensare che sarà e si avrà una reazione di tipo asintomatico, ma qualora le cellule infettate fossero cellule come i neuroni, questo porterebbe a reazioni con sintomatologie gravi. Il 90% delle infezioni a livello del sistema nervoso centrale e del sistema nervoso periferico si verificano con sintomatologie gravi. Quindi i danni da parte di un virus a livello del sistema nervoso centrale o sistema nervoso periferico sono delle reazioni importanti, e i danni di queste cellule sono altrettanto gravi perché i neuroni non sono cellule che si rigenerano. Nei nervi il sistema immunitario non li vede in quanto non può agire. Ci sono virus che arrivano neuroni, e per loro i neuroni sono cellule sensibili e permissive quindi si moltiplicano. Altri invece non li considerano sensibili e permissive e quindi non si moltiplicano. Normalmente in una popolazione che contrae il virus una buona parte di essi avrà una reazione di tipo asintomatico, e una quota minore una reazione di tipo sintomatico. Normalmente dalle malattie che causa un virus si guarisce, ma potrebbe capitare che si muoia e ciò ovviamente è a sfavore del virus. Questo perché essendo un virus ha bisogno dell’ospite per replicarsi. L’obiettivo del virus è quello di creare una reazione di tipo asintomatica così il virus può replicarsi ed espandersi ed aumentare la sua infettività. L’infezione scaturita dal processo infettivo può essere localizzata. Questa causerà una malattia solo e solamente nel sito d’ingresso. Il comportamento dei Rhinovirus, agenti eziologici del raffreddore comune, viene rappresentato nell’epitelio nasale con le sue cellule. Arriva il virus, nelle cellule ci sono delle ciglia che servono a proteggere, ovviamente il virus deve riuscire a superare l’azione delle ciglia e scavalcarle e solamente dopo si verificherà l’infezione. A quel punto avverrà la moltiplicazione, la cellula morirà e l’ospite avvierà una sua risposta all’infezione; quindi, a questo punto la cosa più comune è una sinusite. Questo è il tipico esempio di infezione localizzata perché nasce nell’epitelio basale e li muore. Viceversa, un’infezione che parte dal sito di ingresso, ma poi si estende prende il nome di infezione disseminata o sistemica. Ovviamente a seconda del virus l’organo bersaglio sarà diverso in quanto il virus gode di tropismo ovvero un’affinità diversa agli organi a seconda del virus. Il sangue nutre tutti i tessuti, e se nel sangue c’è il virus questo può arrivare ovunque. Arrivato nel sangue esso si deve preoccupare perché ci sono le cellule che ci devono difendere. Il rischio che corre il virus ovviamente è che l’uomo si difenda e causi la sua morte; quindi, il virus attua due comportamenti diversi. Intanto nel sangue cerca di associarsi alle cellule del sangue, quindi il virus si sposta verso i reticoli endoteliali ovvero milza e fegato, che sono luoghi dove i virus si possono moltiplicare. Successivamente il virus poi torna nel sangue, avvenendo la viremia secondaria. Ovviamente essendosi moltiplicati la quantità di virus è diventata importante e quindi hanno una maggiore probabilità di difendersi. I virus hanno un tropismo cellulare, quindi hanno anche un tropismo di tessuto. Se un virus ha tropismo per il fegato, può infettare solo il fegato. Ovviamente affinché tutto questo processo patogenetico avvenga in media ci vogliono 15 giorni; quindi, affinché compaia una malattia con l’insorgere della sintomatologia deve passare il periodo di incubazione; quindi, il danno a questo punto sarà molto grande. Un altro aspetto molto importante è conoscere la patogenesi, quindi il comportamento del virus nell’ospite. Si può confrontare un’infezione localizzata quale per esempio il raffreddore, con un’infezione sistemica quale per esempio il morbillo. Il raffreddore è una malattia che insorge da infezione localizzata. Il morbillo insorge da un’infezione generalizzata e infetta cellule della mucosa faringea che si replicano, e la malattia porta all’insorgere dell’esantema in quanto è una malattia esantematica. Il virus però arriva nel sangue, quindi viremia, solo nel caso in cui si ha a che fare con un’infezione disseminata, non con un’infezione localizzata. Quindi l’infezione sistemica si associa a una risposta immunitaria molto consistente, in quella localizzata il sistema immunitaria non risponde allo stesso modo. C’è un'altra differenza importante a favore dell’infezione localizzata, che induce una risposta immunitaria da parte delle igA secretorie. Le igA secretorie sono immunoglobuline che non vanno in circolo nel sangue, ma rimangono nelle mucose, quindi averle significa avere una prima difesa contro l’infezione del virus. È importante capire la patogenesi dell’infezione virale per comprendere al meglio e conoscere al meglio quello che sarà il campione biologico che si dovrà accettare all’interni del laboratorio Fasi fondamentali di un’infezione virale Quando si parla di processo patogenetico si deve mettere in risalto come questi virus possano entrare nell’ospite, replicarsi e successivamente come vengono trasmessi e come vengono eliminati. Entrata di un virus in un ospite e trasmissione: normalmente i microrganismi tendono ad utilizzare nel momento in cui entrano nell’ospite le cellule che si trovano nelle mucose perché sono quelle più facilmente raggiungibili dall’esterno. L’ingresso dei virus può avvenire attraverso vie che coinvolgono le mucose.Le mucose utilizzate di più sono la mucosa genitale, faringea, nasale e la mucosa respiratoria. Ogni qual volta che si respira, si ha un colpo di tosse o uno starnuto, si sta eliminando all’esterno piccole goccioline di aerosol possibilmente infette, infatti a volte a seconda della distanza tra colui che emette la goccia e colui che si trova davanti l’individuo infetto è possibile che avvenga l’infezione. I virus che tipicamente utilizzano la mucosa respiratoria sono il Rhinovirus, il virus del morbillo e quello influenzale. Sono virus che vengono trasmessi per via inalatoria, e in termini di trasmissione si parla di trasmissione aerogena. Un’altra mucosa utilizzata è la mucosa genitale, la via di trasmissione è prettamente sessuale, in quanto questi virus entrano nell’ospite tramite rapporti sessuali. I virus che prettamente sfruttano la trasmissione sessuale sono il virus dell’ HIV e anche il Papillomavirus. Un'altra mucosa sfruttata è quella gastroenterica. In genere i virus che penetrano in questa mucosa sono quelli che contaminano le mani e queste portate alla bocca permettono l’entrata del virus. Altro esempio potrebbe essere l’introduzione di cibo contaminato da virus. I virus che sfruttano questa mucosa sono principalmente, i ROTAVIRUS e il virus dell’EPATITE A, e la via di trasmissione è la via fecale orale. Il Rotavirus causa diarrea nella maggior parte dei casi. L’ingresso del virus può avvenire attraverso delle vie che coinvolgono il percorso linfo – ematico, come la via cutanea, la via parenterale e la via verticale. La parte più esposta dell’organismo è sempre la cute. La cute è una barriera protettiva, a meno che questa barriera non venga distrutta. Potrebbe essere distrutta attraverso, per esempio, il morso di un cane, o la puntura di una zanzara. Il virus causato dal morso della zanzara prende il nome di virus WEST NILE e la sintomatologia più comune è proprio la febbre di West Nile, molto diffuso in Africa. I soggetti infettati maggiormente sono gli animali, ma capita anche che infetta l’uomo. I virus che vengono trasmessi maggiormente per via cutanea sono il virus della febbre gialla e il virus della rabbia. Altra modalità di trasmissione è la via parenterale, significa quando un soggetto in maniera accidentale e no, viene in contatto con il sangue di un soggetto potenzialmente infetto. Questo perché ci sono dei virus come HIV, che sfruttano questa modalità di trasmissione. Ad alto rischio di infettarsi per via parenterale sono i tossici, con l’uso delle stesse siringhe. Queste vie di trasmissione, elencate sopra, però sono delle vie di trasmissione orizzontale in quanto avviene tra uomo a uomo. La trasmissione verticale invece si distingue da quella orizzontale, perché è una via di trasmissione che avviene principalmente tra la madre e il figlio che essa porta in grembo. La trasmissione verticale può avvenire per via transplacentare, perinatale, o neonatale. La via transplacentare che consiste in una via attraverso la placenta, permette la trasmissione di virus quali per esempio il Citomegalovirus, o il virus della rosolia. La via perinatale è una via di trasmissione del virus, dove il bambino nel momento in cui sta attraversando il canale del parto entra in contatto con alcuni virus presenti in quel distretto, esempio possono essere l’HIV. La via neonatale è una via di trasmissione dove i virus entrano in contatto con l’ospite durante l’allattamento, esempi comuni il Citomegalovirus. Via di eliminazione dei virus: I virus, dopo che avviene l’infezione, devono essere eliminati all’esterno, e questo dipende tanto dal virus. Nel caso di una gastroenterite virale, i virus si eliminano con le feci, ed è importante saperlo per il tecnico per capire il campione biologico che dovrà accettare. Nel virus della varicella, malattia esantematica, si vengono a creare delle vescicole, e queste si trasmettono tramite virus aerogena. La varicella è un’infezione sistemica, e si può trasmettere tramite contatto con le vescicole. L’esantema sono le vescicole. Un altro esempio è quello del citomegalovirus, che è un’infezione sistemica acquisita con la secrezione respiratoria ed eliminate con la secrezione. Primo caso: in un primo momento il virus entra nell’ospite, si replica, causa un’infezione e successivamente si verifica un episodio di malattia, a quel punto il sistema immunitario causerà una risposta immunitaria, e solo dopo si verificherà la guarigione dall’infezione. Ci sono condizioni variabili, dove i virus hanno sia la capacità di farsi controllare dal sistema immunitario, oppure sfuggire da quest’ultimo. Ad esempio, gli enterovirus, si replicano, arrivano nel sangue, successivamente agli organi bersaglio e poi intraprendono la via secondaria. Secondo caso: E’ possibile che il sistema sconfigga l’infezione virale, ma non del tutto in quanto il virus è ancora presente. Esso si nasconde, in seguito si verificherà un secondo episodio. Terzo caso: un altro esempio è rappresentato dall’infezione cronica, ovvero un’infezione caratterizzata dalla replicazione continua del virus. Quarto caso: la malattia si verifica quando il danno è grosso ed è persistente, tipico esempio da HIV. Le cellule che infetta HIV sono i linfociti cd4. Diagnosi virologica La diagnosi virologica è una procedura complessa che ogni attore che partecipa al processo diagnostico può vedere dal proprio punto di vista, ma così facendo si ha una visione parziale. Una diagnosi arriva al risultato migliore quando si ha compartecipazione di tutti gli attori che intervengono nella procedura. I primi attori del processo diagnostico sono: il clinico che osserva il paziente, chi deve fare il prelievo e chi lo deve fare arrivare in laboratorio. Sono il medico, l’infermiere e chi trasporta il campione. Poi in laboratorio c’è chi riceve il campione, chi processa, chi decide quali sono le procedure di laboratorio da mettere in atto. Chi decide le procedure da mettere in atto in laboratorio sono i tecnici. Il tecnico fa la valutazione analitica e il dirigente mette insieme tutto; il dato analitico così diventa risultato clinico. Ognuno fa la sua parte e tutti insieme fanno la diagnosi. Il clinico è colui che vede il paziente, che ha la possibilità di visitarlo (vedere se ha la febbre, se ha la pressione alta, se ha un processo infiammatorio in corso e dove lo ha), ha la possibilità di interrogare il paziente, di fare l’anamnesi. Le informazioni vengono raccolte perché sono quelle che il clinico deve trasmettere a chi lavora in laboratorio. Tutto questo al clinico serve per farsi un’idea generale anche per prendere decisioni immediate, senza aspettare la diagnosi di laboratorio, se ritiene che il paziente si trovi in una condizione particolarmente grave per la sua salute o anche per quella del prossimo; deve prendere delle decisioni anche molto rapide. Però gli serve anche a stabilire quali sono gli strumenti diagnostici che può sfruttare: se è convinto che il quadro clinico sia o possa essere di tipo infettivo allora deve scegliere i campioni biologici da inviare in laboratorio. Sbagliare il campione biologico significa che non si arriverà ad una diagnosi. Altra cosa importante è la modalità di trasporto. Ci sono virus che sono molto labili nell’ambiente, sia nudi che inviluppati. Il trasporto, quindi, deve essere fatto utilizzando un terreno di trasporto per virus: soluzioni che contengono un’elevata quantità di proteine. Il campione biologico viene prelevato e messo direttamente in questo terreno di trasporto che contiene un’alta quantità di proteine che formano uno strato protettivo attorno alla particella virale, quindi lo rendono più resistente, più capace di affrontare gli sbalzi termici e il trasporto. Nei terreni di trasporto in genere sono presenti miscele di antibiotici con l’obiettivo di impedire l’ulteriore moltiplicazione dei batteri che sono inevitabilmente finiti nel campione (campioni contaminati da flora microbica). Per i campioni che nascono sterili (sangue, liquor, liquidi che vengono da cavità chiuse) devono essere prelevati sterilmente e devono arrivare sterili. Il trasporto è affidato a delle persone che si occupano di trasporto e questo in genere è la catena debole del processo diagnostico perché il medico è consapevole, l’infermiere è consapevole, chi è in laboratorio è consapevole, chi trasporta non lo è perché non ha nessuna specifica conoscenza. Inoltre, i batteri che si trovano in un campione biologico lo sfruttano come fonte di nutrimento, come un terreno. Di mettere il campione in un terreno di trasporto o meno lo decide a monte il medico o l’infermiere, ma il loro compito è quello di sensibilizzare chi si occupa del trasporto a farlo rapidamente. Per il campione microbiologico questa dovrebbe essere la regola generale. Alcuni campioni possono essere trasportati a temperatura ambiente, altri devono essere refrigerati. Poi in laboratorio c’è chi riceve il campione clinico. Nei laboratori, dove è possibile, c’è un infermiere che fa la ricezione dei campioni, ma può essere il tecnico, e ci vuole l’altra consapevolezza cioè valutare l’idoneità del campione biologico. Se in laboratorio arriva un campione biologico di urina che traborda dal contenitore questo è fortemente inquinato e come non va bene per cercare i batteri non è idoneo neanche per un esame di tipo virologico perché il campione è contaminato. Tutto ciò avviene all’interno del ciclo diagnostico che si compone della fase preanalitica e analitica. Fase preanalitica La fase preanalitica consiste nella manipolazione del campione biologico. I campioni utilizzati possono essere di diversi tipi, (sangue, urine, espettorato, tampone faringeo...) ma per effettuare tale scelta il medico deve conoscere in primo luogo la patogenesi di ogni microrganismo. I campioni biologici devono essere facili da prelevare e che consentano di fare diagnosi (nei limiti del possibile) quindi devono corrispondere all’organo in sofferenza: polmonite-espettorato, faringite-tampone, gastroenterite-feci, febbre-sangue, sintomatologia neurologica-liquor e così via. Inoltre, la metodologia che viene utilizzata deve essere sensibile, cioè che riesce a captare anche piccole quantità dell’oggetto in esame, e specifica, vale a dire che capti solo quello e inoltre deve essere rapida, semplice, efficiente e possibilmente non costosa. Altrettanto importante è il tempo, si prende in considerazione l’epatite A: Un soggetto, che a tempo 0 ingerisce il virus, ha un periodo di incubazione di 3-4 settimane o di più; prima della comparsa dell’ittero si trova il virus nelle feci e nel sangue per un periodo alquanto breve mentre la risposta del sistema immunitario tramite gli anticorpi è più duratura (prima IgM e poi IgG). Ricercare il virus nelle feci è poco utile in quanto non tutti i virus possono essere coltivati e, nel caso in cui è possibile, i tempi sono lunghi; Ricercare il genoma o gli antigeni nelle feci è svantaggioso poiché quando compaiono i sintomi la concentrazione nel campione scende (potrebbe essere utile nel prodromo); Ricercare nel sangue è la scelta migliore da tutti i punti di vista, considerata la scala temporale. Da ciò si evince che non tutti i campioni biologici “coinvolti” sono adatti. Fase analitica Per diagnosi si intende la determinazione della natura di una malattia, in questo caso dimostrare che la sintomatologia del paziente è attribuibile ad un certo virus o microrganismo. Innanzitutto si deve fare una distinzione tra diagnosi diretta e indiretta: nel primo caso si dimostra che nel campione biologico in considerazione è presente il virus, mentre nel secondo caso si dimostra che la malattia del paziente è correlabile ad un infezione virale, tramite la ricerca degli anticorpi. La diagnosi diretta può essere fatta attraverso: − Osservazione al microscopio − Isolamento colturale − Esame colturale − Ricerca degli acidi nucleici Osservazione al microscopio: per vedere i virus sono necessari i microscopi elettronici, ma nei laboratori di diagnostica non ce ne sono perché permettono di guardarne esclusivamente la morfologia: se, per esempio, si prendesse in considerazione l’epatite A si vedrà un virus a simmetria icosaedrica nudo, ma questa informazione non aiuta nella diagnosi e sarebbe uno spreco di soldi e tempo e per di più deve essercene una buona quantità per visualizzarli (poco sensibile). Questa tecnica però risulta valida per confrontarsi con un potenziale agente sconosciuto, come il Coronavirus. Esame colturale: su questa metodologia si è basata la diagnostica per parecchio tempo, ma adesso non più perché ha dei limiti notevoli, in particolare necessita di un tecnico preparato che deve tenere vitali le cellule e non contaminare le colture. I tempi sono lunghi e poi il virus deve potersi coltivare in vitro. Quindi, nonostante il valore dell’esame colturale per studiare i virus, è stato sostituito da metodi più efficienti. Ricerca degli antigeni: in questo caso bisogna dimostrare che nel campione biologico ci sono gli antigeni del determinato microrganismo ed è parecchio utilizzato in virologia. In particolare, vengono utilizzate metodologie molto diverse tra loro, con sensibilità e specificità distinte, per ottenere un risultato sempre al massimo dell’efficienza; Si effettua attraverso reazioni di agglutinazioni. Questa tecnica abbastanza semplice consiste nel mescolare il campione biologico con degli anticorpi: se è positivo le due componenti si legano e formano un agglutinato che precipita, mentre se è negativo non si vede nulla. Questa tecnica non è sempre utilizzabile perché i virus non sono cellule e, in quel caso, la reazione si chiama di precipitazione o agglutinazione passiva. In quest’ultimo caso la precipitazione viene prodotta artificialmente tramite particelle di latex: quando avviene tale reazione i grumi che si formano non sono le cellule legate all’antigene, ma sono dati da tale sostanza. La reazione di agglutinazione è veloce, costa poco ma è poco sensibile, perciò, può essere utilizzata quando si è sicuri di trovare una gran quantità di virus, come nel caso dell’eliminazione tramite le feci nei Virus Gastrointestinali. Ottime alternative sono: Immunoenzimatica, Immunofluorescenza, Chemiluminescenza... Queste metodiche hanno molti vantaggi a favore: sono specifiche (la specificità dipende dall’anticorpo utilizzato), sono sensibili e standardizzabili, importante per avere dei risultati corretti e riproducibili abbattendo l’errore dato dall’operatore. Il costo è alto ma, allo stesso tempo, permettono di fare diagnosi in modo accurato; se si considera l’epatite B, questo virus produce antigeni in abbondanza tanto che, nonostante il prelievo di sangue rappresenta una parte millesimale, non rappresentativa della totalità (5-7 ml su 5L), sono necessari solo 50 μl di questo per fare diagnosi e sono talmente sicuri che vengono utilizzati dalle banche del sangue per individuare i donatori. Ricerca del genoma: dal punto di vista diagnostico ricercare il genoma di un virus, prima degli anni ’80, non aveva alcun vantaggio perché erano poco sensibili; solo dopo la scoperta della PCR (Reazione Polimerasica a Catena) questo settore è avanzato e venne accantonato l’isolamento colturale. Essa è una tecnica molto sensibile, con tempistiche brevi di 3-4 ore, standardizzabile, ma qualitativa; divenne quantitativa con l’avvento della Real Time PCR. I risultati di questa metodologia non sono indicativi della vera quantità di particelle virali (ottenibile con le colture cellulari) poiché quando il virus si replica produce tantissimi genomi virali, ma non c’è correlazione tra i due. Oggi i risultati vengono indicati come numero di molecole e, mentre prima venivano utilizzate unità di misura differenti in base al kit utilizzato o ai laboratori, ad oggi l’unità di misura è Unità Internazionali/ml. La diagnosi si basa principalmente sulla ricerca degli anticorpi. In questo caso, partendo da un campione di sangue e in particolare dal siero, si ricerca l’anticorpo tramite l’antigene e, siccome tale reazione non è visibile ad occhio nudo, si utilizza un colorante. Quando un individuo incontra un patogeno che dà origine ad un’infezione sistemica viene attivata la risposta immunitaria o immunità umorale; innanzitutto vengono prodotti gli anticorpi di classe IgM e in seguito si interrompe la produzione di questi, che col passare del tempo scompaiono, e vengono generati gli anticorpi della memoria, le IgG. Questo sistema permette, nel momento in cui l’individuo incontra nuovamente il patogeno, una risposta maggiore, più veloce ed efficiente e gli anticorpi prodotti saranno o esclusivamente IgG oppure IgG con una concentrazione ridotta di IgM. Secondo quanto detto prima, per fare diagnosi di infezione, bisogna ricercare IgM perché sono le prime ad essere prodotte mentre, per vedere se in passato il soggetto è stato infettato da un virus, si ricercano le IgG; accade però che, in una infezione recente, le IgG siano negative mentre le IgM o sono negative o a basse quantità e quindi sarà necessario ripetere l’esame dopo un certo periodo. In queste “brutte” occasioni dove magari vi è urgenza nell’ottenere il risultato, e anche per alcuni virus dove non è possibile individuare le IgM e le IgG separatamente, si effettua la ricerca degli antigeni o del genoma (ricorda: prima il virus si replica, poi c’è la risposta immune). In due soli casi, per l’HIV e l’epatite C, è necessario dopo aver ottenuto la positività a test come quelli sopracitati effettuare un test di conferma tramite il Western Blot, per assicurarsi che questi anticorpi siano specifici; in particolare per l’HIV risulta essenziale per differenziare i due tipi di HIV, tipo I (che circola in tutto il mondo, di cui abbiamo test di screening, test di conferma e farmaci) e tipo II (che circola solo in alcuni paesi africani e non esistono ne test ne farmaci).Oltre a questa ragione e ad essere obbligatorio per legge, il Blot oltre non ha una grande utilità perché è molto più veloce e conveniente effettuare una ricerca del genoma che, anche dopo aver accertato la positività, è imprescindibile per vederne la quantità. La Diagnosi Sierologica, quindi, ha un ruolo essenziale perché è la prima informazione a cui poi si possono sommare delle altre se si tratta di pazienti immunocompetenti; quando si parla di paziente immunocompromesso o immunosoppresso ovviamente non si può tener conto del risultato perché una diagnosi negativa non sarebbe indice di negatività al patogeno. Infezioni localizzate Virus gastroenterici – rotavirus I virus gastroenterici sono dei virus nudi a simmetria icosaedrica, ma non sono tutti uguali fra loro. Essendo dei virus nudi hanno la caratteristica di essere resistenti a condizioni sfavorevoli. Le gastroenteriti virali sono delle infezioni abbastanza comuni. Il ruolo patogeno del virus ha un impatto diverso sulla popolazione, a seconda di quale popolazione si prende in considerazione: ovviamente nei paesi in cui le condizioni socioeconomiche, alimentari e igieniche non sono delle migliori, si stima sicuramente una quota significativa di morti come conseguenza alla gastroenterite virale (3.000.000–5.000.000 di casi). Un esempio di questi virus gastroenterici è la famiglia Reoviridae, a cui appartiene, tra gli altri, il Rotavirus. Questi virus sono dei virus a RNA a doppio filamento segmentato (la sua informazione genetica è divisa in 11 molecole), caratterizzati da un doppio capside che li rende particolarmente resistenti. Questi virus si chiamano “Rotavirus” perché quando sono stati scoperti, dall’osservazione al microscopio elettronico, sembravano delle ruote. Sono caratterizzati da un’elevata variabilità genetica, che si traduce in una variabilità antigenica legata alla tendenza a portare avanti un fenomeno di riassortimento genico: quando due Rotavirus infettano la stessa cellula possono scambiarsi alcuni segmenti genomici; ciascun segmento genomico codifica per una specifica proteina. Tra queste proteine vi sono: l’antirecettore virale, rappresentato dalla proteina VP4; la VP7 (glicoproteina), che è un antigene di tipo; la proteina VP6 (una proteina del capside interno) che è un antigene di gruppo. L’antigene di gruppo è un antigene che è comune a tutto il gruppo dei Rotavirus (in questo caso); mentre, quando ci si riferisce a un antigene di tipo, sarà un antigene specifico di un determinato genotipo. In particolare, la variabilità antigenica di questi virus dipende dalla proteina VP6, che determina la distinzione dei Rotavirus in 7 gruppi antigenici (A –G). Grazie a questa distinzione si è visto che i Rotavirus del gruppo A sono quelli che circolano in tutto il mondo, associati a quelli del gruppo B e C: − Gruppo A: ubiquitario; − Gruppo B: ristretto a Cina e India; − Gruppo C: associato ai suini. I Rotavirus infettano maggiormente l’uomo, ma hanno uno spettro d’ospite molto ampio, in quanto infettano anche gli animali. Quando entrano in contatto con l’uomo (sia i virus che circolano già con l’uomo che quelli di origine animale), vanno a infettare la mucosa gastroenterica in 2 o 3 giorni provocando una malattia autolimitante. Questi virus sono molto resistenti e hanno un’alta carica virale, per questo è facile che il virus passi da un ospite all’altro, ciò però è associato a una scarsa capacità infettante. Visto che di questi virus ne esistono 7 gruppi antigenici, vuol dire che nella vita ci si può infettare più volte, in quanto si ha la possibilità di poter essere infettati ogni volta da un gruppo antigenico diverso della volta precedente. È stato dimostrato che le infezioni da Rotavirus interessano principalmente i bambini, perché quando entrano in contatto con i Rotavirus, ogni volta che incontrano un gruppo diverso (A, B, C) sviluppano una loro immunità, fino a quando avranno raggiunto un’autoimmunità eterotipica in grado di difenderli non solo dai virus che li hanno infettati perla prima volta, ma in generale da tutti i Rotavirus. Per questo motivo gli adulti non hanno malattie da Rotavirus. I bambini si infettano più volte prima di raggiungere l’autoimmunità eterotipica perché questi virus che circolano nella popolazione ogni anno presentano un ceppo prevalente, però, in quanto questi ceppi di Rotavirus si possono ricombinare (scambiandosi dei segmenti genomici), ogni qual volta che si entra in contatto con il Rotavirus ricombinato si subisce nuovamente l’infezione. Le possibili combinazioni antigeniche del Rotavirus sono moltissime (122) e l’immunità che si acquisisce in seguito all’infezione può essere rappresentata sia dalle IgG (che si trovano del siero) che dalle IgA (che si trovano nelle secrezioni). Lo studio di questi virus però, ha portato alla formulazione di un vaccino che contiene il virus vivo non patogeno e, in quanto di questi Rotavirus ne esistono moltissimi, si sono scelti per il vaccino i ceppi prevalenti; per questo motivo è molto importante conoscere quali sono i genotipi che circolano nella popolazione, per capire se il vaccino va bene o meno. Però nonostante il vaccino non contenga tutti i genotipi esistenti, si è visto che il vaccino ha protetto i vaccinati anche nei confronti della quasi totalità degli altri Rotavirus (tranne in un solo caso), infatti le infezioni da parte di questo virus si sono ridotte significativamente. Per la diagnosi ci sarà un obiettivo diagnostico e un obiettivo epidemiologico. Per quanto riguarda l’obiettivo diagnostico, il virus ha una trasmissione oro-fecale, quindi i campioni biologici da cui si parte per effettuare una diagnosi sono le feci. Per dimostrare la presenza di Rotavirus nel virus è possibile effettuare l’agglutinazione passiva oppure si può procedere con la ricerca del genoma virale. L’agglutinazione passiva è una metodica scarsa in termini di sensibilità, ma in questo caso risulta efficace in quanto questi virus, quando sono responsabili di malattia, vengono eliminati in grandissime quantità. Per il test di agglutinazione si andranno a utilizzare degli anticorpi specifici per il virus e l’antigene che si frutta per il legame è la VP6 (antigene di gruppo). La ricerca del genoma viene effettuata solamente nel caso in cui sia necessario aumentare il grado di sensibilità. Per quanto riguarda invece l’aspetto epidemiologico ciò che si fa è caratterizzare i Rotavirus che circolano nella popolazione: in questo caso, dopo aver verificato la presenza del virus è necessario andare a studiare le caratteristiche genetiche di questo virus, andando quindi a cercare il genotipo specifico. Tutto ciò si fa durante l’anno, nell’intera stagione epidemiologica. Oggi, a questo tipo di sorveglianza se ne aggiunge un’altra, il controllo delle acque reflue. Se vi è la presenza di Rotavirus nelle acque, questo andrà a indicare che il Rotavirus sta già circolando nella popolazione. Tutto ciò servirà per sapere se il virus va bene o necessita di essere modificato (nel caso in cui il virus abbia subito ad esempio una mutazione). Virus dell’influenza Un altro esempio di infezione localizzata è il virus dell’influenza appartenente alla famiglia Orthomyxoviridae. Il genoma è a RNA a polarità negativa suddiviso in 8 segmenti, la simmetria è elicoidale e sono virus inviluppati; la caratteristica di questi virus è avere sull’inviluppo due diverse glicoproteine: − Emoagglutinina: che rappresenta l’antirecettore virale − Neuraminidasi: un enzima che taglia i legami con l'acido sialico L’influenza è un’infezione così comune perché la sua trasmissione avviene principalmente per via aerogena (secrezioni respiratorie), ma può essere mediata anche da un contatto (attraverso le mani ad esempio). Essendo un’infezione localizzata ha un periodo di incubazione di 2 o 3 giorni e i sintomi più comuni sono la febbre, la gola infiammata, brividi, tosse, mal di testa, ecc. Del virus dell’influenza ne esistono di tre tipi: A, B, C. Ciò che differenzia principalmente i tre virus è lo spettro d’ospite: − Virus influenzale A: spettro d’ospite ampio, infetta uomo, uccelli, suini, ecc. − Virus influenzale B: infetta solamente l’uomo. − Virus influenzale C: infetta uomo e suini. Il virus influenzale di tipo B ogni anno dà origine a delle epidemie, in quanto, rispetto al virus dell’anno precedente, ha acquisito delle mutazioni, attraverso un fenomeno che si chiama “Antigenic Drift”. Di solito quello che accade è che, chi entra a contatto con il virus di tipo B sviluppa la malattia (l’influenza). Quando si parla di antigenic drift ci si riferisce alle mutazioni puntiformi (virus influenzale di tipo B). Quando avviene la replicazione, affidata all’RNA polimerasi del virus, può succedere che questa polimerasi commetta degli errori che non è in grado di correggere; quindi ogni volta che inserisce un nucleotide differente è possibile che l’aminoacido cambi e quindi si vengono a formare queste mutazioni amminoacidiche a carico dell’emoagglutinina e alla neuraminidasi. Di queste mutazioni se ne formeranno tante, ma nella popolazione ne persisteranno solo alcune, infatti questo tipo di variazioni antigeniche da origine anche a quelle che vengono anche chiamate varianti epidemiche, che essendo dei virus che hanno delle piccole variazioni amminoacidiche rispetto a quelli dell’anno precedente, andranno a infettare non tutta la popolazione perché comunque il sistema immunitario sarà in grado di riconoscere questi virus; se però l’anno successivo il sistema immunitario riconosce il virus, l’anno dopo ancora il virus avrà subito delle altre mutazioni e quindi non verrà più riconosciuto e sarà in grado di infettare nuovamente. Si calcola infatti che ogni individuo, con le varianti epidemiche, si possa infettare ogni 2 o 3 anni, cioè quando le caratteristiche antigeniche del virus sono cambiate al punto che il sistema immunitario non le riconosce più. I virus influenzali di tipo A invece hanno un doppio comportamento: da una parte anche loro hanno acquisito una mutazione antigenica rispetto all’anno precedente e circolano ogni anno infettando diversi ospiti, dall’altra hanno la possibilità di andare incontro a un fenomeno genetico di riassortimento che avviene tra i virus umani e i virus animali, che in questo caso prenderà il nome di “Antigenic Shift”. Quando questo avviene non si andrà più incontro a un’epidemia, ma ad una pandemia. In particolare, con il termine antigenic shift ci si riferisce alle mutazioni per riassortimento (virus influenzale di tipo A). Questo fenomeno si manifesta quando due virus, uno animale (animale acquatico) e uno umano, infettano le stesse cellule e quindi si possono scambiare dei segmenti genomici; ciò vuol dire che il virus che poi verrà fuori non sarà uguale né al virus animale e né al virus umano: sarà quindi un ibrido. Questo riguarderà esclusivamente i virus influenzali di tipo A, in quanto hanno uno spettro d’ospite ampio. Tutte le volte che si è verificato un Antigenic Shift si sono verificate delle pandemie, per questo motivo l’Antigenic Shift è il responsabile delle varianti pandemiche, che essendo praticamente dei virus nuovi, mai visti prima, sono in grado di infettare chiunque ne entri in contatto. È stato visto che questo fenomeno che porta alla formazione delle varianti pandemiche si può realizzare quando un virus animale e un virus umano vanno a infettare ad esempio il maiale, che ha recettori sia alfa 2 –6 che alfa 2 –3. La trasmissione tra uomo e maiale, in questo caso, può avvenire ad esempio a causa degli allevatori che stanno a contatto con questi animali; per quanto riguarda invece la trasmissione tra uccelli e maiali può avvenire anche tramite le feci, in quanto gli uccelli possono eliminare le particelle virali anche in questo modo. Se succede questo, nel maiale, può avvenire l’Antigenic Shift e quindi un riassortimento che porterebbe alla formazione di una variante pandemica. Quindi, nel caso di questo esempio specifico, il virus umano H2N2 si è replicato nella stessa cellula (del maiale) in cui si è replicato il virus dell’animale acquatico H3N8, ciò ha portato ad un riassortimento genico che ha portato alla formazione di un ibridoH3N2. Una volta che questo ibrido si è formato, deve essere in grado di infettare l’uomo, ma non è detto che ciò accada; se però riuscisse a infettare l’uomo, sarà l’allevatore, in questo caso, colui che potrebbe avere un contatto diretto con questo virus e che andrà a trasmettere il virus ad altri individui: in questo caso si andrebbe quindi a verificare una pandemia. Oltre all’Antigenic Drift e all’Antigenic Shift potrebbe verificarsi anche il salto di specie, che si verifica quando il virus da un’altra specie passa all’uomo. Ciò però avviene nel caso in cui l’uomo sia esposto ad un grande quantità di virus (anche in questo caso potrebbe essere un esempio l’allevatore). In questo caso però il virus che l’uomo poi andrà a trasmettere, non avrà grandi capacità infettanti, infatti nel caso del virus H5N1 (esempio nell’immagine) solo 18 persone sono state infettate, però tra queste 18 i morti registrati sono stati 6, questo perché è un virus totalmente nuovo che entra a contatto con l’uomo per la prima volta. Quando ciò avviene si verifica un grosso danno economico, in quanto ci si trova costretti ad abbattere tutti questi animali in grado di trasmettere il virus all’uomo. Per spiegare il motivo per cui avviene una pandemia, bisogna partire da un concetto: l’emoagglutinina del virus dell’influenza utilizza come recettore cellulare le molecole di acido sialico legate al galattosio; si è visto che, nell’uomo, il galattosio è legato all’acido sialico con un legame alfa 2 –6, quindi i virus che infettano l’uomo sfruttano questo legame come recettore cellulare. I virus che infettano gli animali utilizzano anche loro come recettore cellulare il legame tra galattosio e acido sialico ma in questo caso sarà il legame alfa 2 –3. Anche l’uomo però ha una piccola parte di cellule delle alte vie respiratorie che hanno dei recettori alfa 2 –3.Allo stesso modo ci sono degli animali, come i maiali, che hanno (in maniera più o meno uguale), recettori alfa 2 –6 che recettori alfa 2 –3. In base a ciò, andando a studiare le caratteristiche antigeniche dell’emoagglutinina del virus dell’influenza(indicata con la lettera H), si è visto che ce ne sono tante: esistono 17 emoagglutinine diverse. Facendo lo stesso studio con l’altra proteina presente sull’inviluppo dell’influenza virus, che è la neuraminidasi (indicata con la lettera N), si è visto allo stesso modo che ne esistono 10 diversi tipi. Sia le diverse emoagglutinine che le diverse neuraminidasi sono state trovate negli animali acquatici: ciò vuol dire che gli ospiti naturali del virus dell’influenza sono proprio gli animali acquatici. I primi studi epidemiologici del virus dell’influenza sull’uomo risalgono al 1890, grazie ai quali si è visto che, nella storia dell’uomo, i virus influenzali di tipo A che hanno infettato l’uomo sono soltanto di tre tipi antigenici: per l’emoagglutinina H1, H2 E H3 e per la neuraminidasi N1 ed N2. L’uomo, ad oggi, ha incontrato i virus dell’influenza di tipo H1N1, H2N2 eH3N2. Tutte le altre tipologie di combinazioni non sono state incontrate. Infatti, per quanto riguarda soltanto i virus influenzali di tipo A, per capire diche virus influenzale si tratta, si sfruttano le caratteristiche antigeniche dell’emoagglutinina e della neuraminidasi. Mentre per i virus di tipo B e di tipo C non si sfruttano queste caratteristiche perché questi sono dei virus più stabili. Per quanto riguarda la diagnosi del virus dell’influenza, i campioni biologici da cui si può partire sono le cellule delle alte vie respiratorie (tampone naso-faringeo) e, in alcuni casi eccezionali, si può partire anche dall’aspirato bronco alveolare in quanto alcuni soggetti, perché hanno altre malattie, a volte l'infezione, invece di rimanere localizzata nelle alte vie respiratorie, si può espandere verso il basso. Una volta che il campione arriva in laboratorio, l’obiettivo è verificare se il virus è presente (ricercando il genoma) e, se è presente, capire di quale virus si tratta. Per capire di che virus si tratta si vanno a studiare l’emoagglutinina e la neuraminidasi (studiando i segmenti genomici). Si potrebbero pure andare a cercare gli anticorpi presenti, ma ciò non ha senso in quanto i virus influenzali si modificano di anno in anno. La diagnosi del virus dell’influenza comunemente non viene effettuata, ma risulta importante ai medici sentinella per capire i virus che circolano di anno in anno, in modo tale da produrre il vaccino antinfluenzale, che conterrà l’emoagglutinina e la neuraminidasi dei ceppi prevalenti in quell’anno. Quindi la diagnosi non è volta al singolo paziente, ma viene effettuata per il bene dell’intera popolazione. Ci sono però dei casi eccezionali in cui risulta utile fare diagnosi, come ad esempio un paziente fragile, perché esistono dei farmaci ad azione antivirale specifica per il virus influenzale, che il medico può usare. Questi virus vengono trasmessi per via aerogena e circolano principalmente nel periodo autunnale e invernale e, per capire i ceppi prevalenti affinché venga prodotto il vaccino, in quanto gli emisferi sono alternati nelle stagioni, si sfrutta questo per studiare i ceppi prevalenti. Il vaccino è nato inizialmente solo per i soggetti fragili (bambini e anziani), ad oggi è aperto a tutta la popolazione (in particolare al personale sanitario), ma ovviamente ha un’efficacia limitata, in quanto nell’arco di una decina di mesi l’immunità acquisita viene persa (per questo il vaccino si fa ogni anno). Papillomaviridae Della famiglia del Papillomaviridae fanno parte i Papillomavirus, dei virus nudi con trasmissione che avviene per contatto diretto o sessualmente. I Papillomavirus hanno una caratteristica che spiega il motivo per cui danno origine infezioni localizzate: si replicano solamente negli epiteli. Inoltre, quando si replicano, stimolano le cellule a proliferare; da questa proliferazione il virus potrebbe trarne un vantaggio diventando un virus oncogeno. Esistono diversi Papillomavirus (classificati in Alpha-papillomavirus, Beta-papillomavirus, ecc.) e i virus umani fanno parte degli Alpha-papillomavirus, ma all’interno di ogni genere ogni virus è diverso dall’altro, in quanto studiando la sequenza nucleotidica si è visto che ci sono delle differenze: per questo motivo i Papillomavirus sono distinti l’uno dall’altro in genotipi. Si è visto inoltre che statisticamente ogni genotipo è associato più spesso a un quadro clinico (determinati genotipi sono responsabili delle verruche, altri sono associati a lesioni oncogene da parte del virus, ecc.). Tra tutti i genotipi ne esistono circa 40 che infettano gli epiteli mucosi e, in particolare, da sempre è stata posta una maggiore attenzione alla mucosa anogenitale, perché a livello di questa mucosa si è visto che l’infezione da Papillomavirus, in alcuni casi, esprime il suo potere oncogeno. Il genoma del Papilloma virus è DNA a doppio filamento circolare dove sono contenute tutte le informazioni genetiche, ad esempio le proteine della struttura L1 ed L2 e le proteine deputate alla replicazione, tra queste vi sono E5, E6 ed E7 che, grazie alla loro azione riescono a stimolare la proliferazione cellulare. Quando il virus infetta gli epiteli e quindi si replica, queste tre proteine vengono espresse tanto quanto è necessario al virus per replicarsi; quindi, il virus crea questa iperproliferazione cellulare che quando si verifica a livello cutaneo genera delle verruche e quando si verifica a livello della mucosa genitale crea altri tipi di lesioni: in ogni caso saranno tutte delle infezioni benigne. Il problema del ruolo oncogeno del virus nasce da momento in cui queste proteine, in particolare le proteine E6 ed E7, vengono espresse in quantità esagerata. Ciò avviene in alcuni determinati epitelicome, ad esempio, nell’epitelio di transizione della cervice uterina, nell’epitelio di transizione della mucosa anale, quindi in alcuni determinati epiteli e non in tutti. Quando queste proteine (E6 ed E7) vengono iper-espresse assumono determinati ruoli: − La proteina E6 si lega alla p53, una proteina che rileva la presenza di DNA danneggiato e arresta il ciclo cellulare, affinché si verifichino i processi di riparazione prima che il DNA alterato si replichi e sia trasmesso alle cellule figlie; quando la proteina E6 del virus si lega alla p53, ovviamente il funzionamento di quest’ultima viene compromesso, quindi il DNA cellulare in questo modo potrebbe andare incontro a danni che non verranno più ripristinati. − La proteina E7 si va a legare alla pRB, una proteina che blocca la cellula in uno stadio del ciclo cellulare prevenendone errate o dannose divisioni, quando la proteina E7 del virus si lega alla pRB, il funzionamento di questa viene compromesso e alcune cellule mutate possono continuare a dividersi indisturbate dando origine ad un tumore. Gli altri virus, quando infettano la mucosa, trovano cellule sensibili e permissive e quindi iniziano a replicarsi, il Papilloma virus invece, per potersi replicare, deve sfruttare tutto l’epitelio: l’epitelio è costituito da molti strati cellulari e le cellule con il quale interagisce il virus sono le cellule basali (cioè le cellule più lontane dalla superfice), nonostante queste non siano pienamente permissive e il virus quindi riesce a infettarle, ma non riesce a replicarsi totalmente; infatti il virus deve aspettare che la cellula basale si sposti negli strati superiori per differenziarsi e, via via che si differenzia, diventa sempre più permissiva al virus, per cui il virus sale con la cellula, si replica sempre di più e quando arriva nello strato superficiale ha prodotto i virioni. Affinché tutto ciò possa avvenire è necessario che ci sia una lesione in modo che il virus riesca a penetrare arrivando fino allo strato basale. Per questo motivo, nonostante i Papillomavirus siano virus che portano ad un’infezione localizzata (negli epiteli) hanno un periodo di incubazione lungo, al contrario delle altre infezioni localizzate che hanno un periodo di incubazione breve; questo perché devono aspettare il differenziamento cellulare dell’epitelio. Il processo oncogenetico è un processo multifattoriale, nel processo oncogenetico i virus possono avere il ruolo di induttori del fenomeno, ma che poi ciò si concretizzi realmente in una malattia tumorale dipende da altri fattori che non dipendono dal virus. Il vaccino è stato originariamente consigliato solamente alle donne perché si pensava chela malattia oncogena fosse prevalente nel sesso femminile piuttosto che in quello maschile, oggi però non è più così infatti il vaccino è esteso sia agli uomini che alle donne, in quanto anche gli uomini possono presentare la malattia tumorale indotta dal Papillomavirus. Il vaccino contiene una delle due proteine capsidiche L1 (prodotte in laboratorio), che ha la caratteristica di associarsi ad altre proteine L1 formando una sorta di capside dove però all’interno non è contenuto il genoma virale. Questo vaccino ovviamente non contiene tutti i genotipi del Papillomavirus, ma successivamente si è arrivati ad un vaccino che ne contiene 9 tipi, tra i quali7 a cui è stato riconosciuto il ruolo oncogeno. In ogni caso si spera, in un futuro, di riuscire a produrre un vaccino che contenga non solo la proteina L1, ma anche la proteina L2, in quanto quest’ultima sembra che abbia delle caratteristiche antigeniche in grado di riuscire a proteggere nei confronti di più genotipi. Una delle caratteristiche biologiche dei Papillomavirus è l’epiteliotropismo, in quanto fanno tutto utilizzando l’epitelio. Quando il Papillomavirus si replica nella cellula induce la formazione di vacuoli che si localizzano intorno al nucleo. Queste cellule così modificate, che prendono il nome di coilociti, si possono formare anche in seguito ad altre infezioni, ma nel 75% dei casi la formazione di coilociti è associata alle infezioni da Papillomavirus. Quindi, se si vuole fare diagnosi si vanno a cercare i coilociti (nelle cellule delle mucose d’interesse) tramite il PAP test, un test citologico.Nella realtà però un’informazione fondamentale che serve al medico per un’adeguata diagnosi è sapere il genotipo: i genotipi che infettano la mucosa genitale sono distinti in gruppi ad alto a basso rischio di infondere il processo oncogenetico; per questo motivo, sapere il genotipo presente risulta fondamentale. Il test a cui si fa affidamento è l’HPV test che va a cercare in queste cellule il genoma del virus. Perché l’esame abbia senso bisogna controllare se il prelievo è stato fatto in maniera adeguata, in quanto ciò potrebbe portare a risultati falsi negativi: per fare ciò, si deve verificare le cellule siano presenti in una quantità sufficiente. Si va quindi a ricercare un gene circolare e, dopo averne verificato la presenza di una certa quantità, si va a effettuare l’estrazione dell’acido nucleico e una successiva reazione di amplificazione; una volta ottenuto il DNA si andrà a utilizzare per l’identificazione del genotipo: per rilevare la presenza dell'acido nucleico si usano delle sonde a DNA che vanno a complementarsi col genoma virale; laddove il DNA è stato legato alle varie sonde si formano delle bande nerastre in base alla quale si andrà a determinare il genotipo. Infezione sistemica L’infezione sistemica consiste nel processo mediante il quale il virus, arriva nella mucosa orale, si moltiplica e, attraverso i vasi sanguigni e il sistema linfatico, arriva nel sangue. Questa fase è chiamata viremia primaria. Dopodiché, attraverso il sangue raggiunge il reticolo endoteliale delle cellule all’interno dei vari organi, si moltiplica e ritorna nel sangue, stavolta numericamente molto rappresentato e quindi con maggiori probabilità di difendersi dal sistema immunitario. Questa fase è chiamata viremia secondaria. A questo punto, In base al suo tropismo d’organo, il virus raggiungerà l’organo o gli organi bersaglio. Dal momento dell’infezione alla malattia dell’organo bersaglio, c’è un periodo di incubazione che generalmente è di 12-15 giorni circa, salvo ovviamente alcune eccezioni. Solitamente queste infezioni sono autolimitanti, in quanto si guarisce perché interviene il sistema immunitario dell’ospite che riesce a controllare la moltiplicazione del virus. Può anche capitare che dall’infezione e dalla malattia si guarisce ma, a distanza di tempo, si possono avere anche altre forme di malattia. Questo accade perché alcuni virus hanno un tropismo per determinate cellule, però possono colpire altri tipi cellulari e comportarsi in maniera differente. Per esempio, dopo settimane dalla guarigione dall’infezione e dalla malattia del morbillo, può insorgere una malattia chiamata Panencefalite Sclerosante Subacuta (SSPE) che determina la morte degli oligodendrociti, ovvero le cellule che a livello del sistema nervoso centrale producono la mielina, sostanza che permette la conduzione del sistema nervoso, quindi una malattia gravissima. Famiglia dei paramyxoviridae All’interno della famiglia delle Paramixoviridae vi è la sottofamiglia delle Paramyxovirinae, che comprende tre generi: Respirovirus, Rubulavirus e Morbillivirus. All’interno di questi generi sono classificati una serie di virus alcuni dei quali infettano l’uomo e altrigli animali. I vari virus, quindi, nonostante appartengano alla stessa sottofamiglia o allo stesso genere, interagiscono con l’ospite in maniera differente. Alcuni virus con la stessa denominazione sono classificati in generi differenti, come ad esempio i Virus parainfluenzali, questo perché quelli di tipo 1 e 3 danno infezioni localizzate, mentre i virus parainfluenzali di 2 e di tipo 4 danno infezioni sistemiche. Quindi a livello diagnostico è molto importante nominare specificamente i virus, per sapere cosa aspettarsi da una determinata infezione. All’interno della sottofamiglia degli Pneumoniovirinae, un virus da attenzionare è quello del Virus respiratorio Sinciziale umano, che parte con infezioni localizzate, ovvero delle alte vie respiratorie, ma può arrivare fino ai bronchi. Questo provoca una malattia importante nei bambini, la Bronchiolite e lo stesso ruolo patogeno importante ce l’ha nei confronti delle persone anziane. Quindi alcuni virus danno delle infezioni localizzate ma le conseguenze possono essere gravi per alcune fasce d’età, in quanto approfittano delle fragilità dell’ospite.) I paramyxovirus, i