Le colture cellulari - Biologia TBL - PDF
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Prof. Biasin
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This document discusses the techniques used in preclinical testing, before drugs or molecules enter clinical trials. It covers in silico and in vitro techniques, as well as describing the benefits and challenges of in vivo studies and the three R's. The document details the history of cell culture, starting with Harrison's work in 1907, explaining primary cultures and the issues of contamination.
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Tab 1 Biologia TBL - Prof. Biasin - Lezione n. 01 LE COLTURE CELLULARI data 22/10/2024 | sbobinatori: Irene Zecca fino a pag. 10, Giacomo Giudici a seguire Oggi facciamo una carrellata di quelle che sono le tecniche che vengono uti...
Tab 1 Biologia TBL - Prof. Biasin - Lezione n. 01 LE COLTURE CELLULARI data 22/10/2024 | sbobinatori: Irene Zecca fino a pag. 10, Giacomo Giudici a seguire Oggi facciamo una carrellata di quelle che sono le tecniche che vengono utilizzate nella sperimentazione preclinica, quindi prima che un farmaco (piuttosto che una molecola) vada in clinica nelle fasi 1, fasi 2, fasi 3 ecc. perciò tutto quello che succede prima, perché ovviamente quel farmaco (o quella molecola) in qualsiasi cosa deve essere testato prima che vada somministrato alle persone in clinica. Abbiamo diversi strumenti per ricercare qual è il metodo di reazione di una molecola piuttosto che qual è il suo bersaglio. Vediamo in primis quelli che sono gli strumenti che ci dà la tecnologia e quindi tutto quello che è la biologia che chiamiamo in silico (perché il computer ha dentro il silicio), quelle sono tutte applicazioni che riusciamo ad ottenere appunto con l’utilizzo del computer e sono delle più disparate, per esempio ultimamente si è diffusa l’idea di avere un farmaco che veniva utilizzato per un determinato scopo e cercarne uno scopo alternativo, in modo tale che quel farmaco non debba tornare di nuovo in clinica e fare tutta la trafila, poiché sappiamo già che è sicuro e vogliamo cercarne un’applicazione nuova. Il silico ci aiuta a fare queste cose perché è in grado di screenare diversi database con tutte le strutture delle molecole e, data una struttura target (una proteina, un recettore, quello che vogliamo) riesce ad indicarci per esempio quali delle milioni di molecole che sono presenti nel nostro database potrebbero essere dei candidati che vanno a legarsi al nostro recettore; questo ci consente di non dover stare in laboratorio giorno e notte a screenare milioni di molecole ma possiamo focalizzarci su quelle che sono risultate le più promettenti dall’analisi del silico. Così come altre applicazioni, per esempio si possono andare a creare delle strutture 3D nel modelling delle proteine, e questa è una cosa molto importante, perché la struttura della proteina fisica alle volte ne pregiudica l’utilizzo e la funzione, infatti uno dei primi Nobel è stato assegnato a dei ragazzi che hanno inventato questo software che si chiama AlphaFold, in cui basta inserire la struttura amminoacidica della proteina e lui ne ricava la struttura 3D e quindi predire la sua funzione semplicemente utilizzando un computer, invece che produrre la proteina tramite batteri, poi stabilizzarla e vedere come si dispongono i vari amminoacidi nello spazio; il computer riesce ad aiutarci anche in questo e questa scoperta ha vinto un Nobel quindi è una parte attualmente preponderante nella ricerca. C’è poi quello che facciamo noi in laboratorio, cioè quella che noi chiamiamo biologia in vitro, quindi colture in vitro, e consiste nel coltivare delle cellule esternamente all’organismo a cui appartenevano in condizioni estremamente controllate e riproducibili, in laboratorio. Esiste poi appunto la ricerca in vivo, che prevede l’utilizzo di animali, che possono essere dalla più piccola Drosophila fino ai macachi. All’intersezione tra questi due tipi di colture di biologia quindi quella in vitro e quella in vivo, abbiamo quella che chiamiamo biologia ex vivo, quindi la ricerca più traslazionale, ovvero la possibilità di andare a recuperare tessuti e cellule da organismi viventi, poterli coltivare in laboratorio in vitro e capire se effettivamente il risultato che abbiamo ottenuto in vitro può essere traslato in vivo; sta un po’ all’intersezione tra le due. Gli animali che vengono utilizzati nella ricerca in vivo è chiaro che ci consentono di avere dei vantaggi, cioè studiare l’organismo nella sua interezza, difatti alcune cose, se ci pensiamo, non potremmo studiarle in vitro, ad esempio la pressione, se volessi utilizzare una molecola per alzare o abbassare la pressione ho bisogno di un organismo intero, oppure se volessi studiare dei comportamenti ho bisogno di sapere se un animale, dato un determinato protocollo sperimentale, ha un comportamento piuttosto che un altro (ovviamente non si può fare in vitro). Abbiamo perciò un livello di “completezza” e complessità molto alto utilizzando i modelli in vivo, anche se si cerca di utilizzare dei modelli in vitro sempre più complessi e sempre più fisiologicamente rilevanti in modo tale da poter sì modellizzare quello che succede in vivo ma nel nostro laboratorio, senza che andiamo a scomodare gli animali. Tuttavia, le due cose sono complementari, non è possibile andare in clinica con uno studio solo in vitro, però è anche vero che ci sono tutta una serie di questioni etiche legate all’utilizzo degli animali fondamentalmente, e questo ha fatto sì che si creasse, che fosse istituito quello che si chiama il principio delle tre “R”. Le tre “R” stanno per: replacement, sostituzione: ogni qual volta che pensiamo che il nostro modello animale possa essere sostituito da un modello in vitro, ex-vivo, quindi vado a recuperare delle cellule dall’animale ma senza sacrificarlo o in silico, è preferibile farlo, anche perché noi che scriviamo dei progetti e ci servono un certo numero di animali dobbiamo andare a motivare esattamente perché e perché quel numero, oltre al fatto che gli animali costano tantissimo, quindi mantenerli costa, averli costa; riuscire a ottenere dei finanziamenti per fare una ricerca in vivo è difficilissimo, bisogna dire proprio perché l’animale e non un qualsiasi altro modello che al momento abbiamo a disposizione. refinement, affinamento: far sì che tutto ciò che riguarda la ricerca sia controllato ma anche il benessere dell’animale; è vero che il nostro scopo ultimo è quello di cercare che cosa sta succedendo alla molecola quando facciamo il nostro trattamento, non dobbiamo mai dimenticarci però che l’animale è un animale vivo e deve essere mantenuto il suo benessere psico-fisico. reduction: cercare di coinvolgere il minor numero di animali possibile, qualunque sia la loro grandezza (ad esempio, un macaco costa circa 100.000 euro perché sei responsabile della sua vita per intero). LA STORIA DELLE COLTURE CELLULARI Il primo esempio di coltura cellulare, se possiamo definirlo così, è quello che è stato raggiunto da Harrison nel 1907, il quale isola delle cellule nervose dal midollo spinale di un anfibio e le mette in coltura; questo è proprio il primo esempio di coltura cellulare che definiremo coltura primaria, perché deriva direttamente dall’organismo vivente. Fondamentalmente che cosa succede: si può andare a prendere una porzione di tessuto piuttosto che delle cellule, isolarle, quindi andare a disgregare meccanicamente il tessuto ed ottenere le cellule e andarle a mettere in coltura in una petri, una piastra di petri, sulla cui superficie di fatto ci possono essere o niente, quindi è semplicemente plastica, oppure il fondo della petri può essere trattato perché le cellule possano aderire alla superficie della petri. Una volta messo nella petri, lui ha osservato le sue cellule e le ha viste crescere, perché le cellule di solito si dividono e quindi con diversi tempi per le diverse tipologie cellulari otteniamo la replicazione della cellula in due, in quattro ecc. Ad un certo punto, lo spazio della petri finirà, dovremo quindi andare a dividere la coltura, cioè prendere una parte di queste cellule e trasferirle in una nuova casetta. Dunque, otteniamo due definizioni: la coltura primaria ed il concetto di sterilità. La prima è quella di coltura primaria: deriva direttamente da un tessuto le cui cellule sono state recuperate disgregando il tessuto stesso con azione meccanica o proteolitica; ad esempio c’è la tripsina, che è un enzima proteolitico che quindi taglia le proteine di giunzione tra le diverse cellule e perciò riesce a ricavare le cellule singole, e l’EDTA che è invece un chelante dei metalli e, sebbene non sia proteolitico, funziona in modo un po’ diverso: le molecole di adesione, per funzionare, hanno anche bisogno di alcuni ioni, l’EDTA va a sottrarre (a chelare) quegli ioni quindi sottraendoli le proteine di adesione non funzionano più e le cellule si staccano. Le colture primarie derivano da un tessuto e si duplicano, perciò ad un certo punto vanno splittate. Che cosa accade: abbiamo seminato la nostra coltura su un supporto di plastica (che può essere una petri ma ce ne sono anche degli altri), ad un certo punto andrà ad occupare tutto lo spazio e ci sarà bisogno di fare delle sub-colture, quindi staccare mettendo un supporto nuovo. In seguito, replicandosi, le cellule andranno incontro a quello che definiamo processo di senescenza, si vanno ad accumulare diverse mutazioni a livello genetico che portano una cellula a morire. Questo ci dice che una linea cellulare che deriva da una coltura primaria di fatto è finita e dipende dal tipo di tessuto che stiamo analizzando, ad un certo punto le cellule non cresceranno più, moriranno e la nostra linea finisce. Il vantaggio è, chiaramente, essendo che abbiamo preso le cellule direttamente dal tessuto dell’animale che ci interessa o dell’uomo addirittura, che più simile al vivo di così non ce n’è, cioè abbiamo proprio preso la fonte primaria; lo svantaggio è che queste cellule hanno una vita limitata, quindi non possiamo pensare per progetti a lungo termine di chiedere che qualcuno si immoli per la causa. Il secondo problema è che, oltre al fatto che le cellule muoiono, ad un certo punto lui si rendeva conto che oltre alle sue cellule, nella sua capsula petri cresceva di tutto, dai batteri, alle muffe, altre cellule eucariotiche; queste sono tutte le contaminazioni che noi possiamo andare a ritrovare nella nostra coltura e debellare queste contaminazioni è veramente difficile, nel momento in cui la nostra coltura viene contaminata da batteri va buttato tutto e bisogna rifare tutto da capo, si lava tutto, si candeggia tutto e si riparte da capo. Di alcune di queste ce ne accorgiamo subito, perché per esempio i miceli dei funghi si vedono a occhio nudo, le altre contaminanti che possono essere viste al microscopio ottico arrivano fino ai batteri, ma micoplasma e virus non possiamo nemmeno vederli, quindi ci sono dei campanelli di allarme che ci avvisano della possibilità che la coltura sia contaminata da micoplasma ma noi non riusciamo a vederli nè a occhio nudo né con un microscopio. Pannello A Pannello B contaminazione da funghi La coltura nel pannello A è una coltura di cellule 293 aderenti quindi abbiamo queste cellule che si sono attaccate alla plastica e stanno crescendo, si stanno duplicando, hanno ancora dello spazio tra di loro e potrebbero ancora duplicare, ma se notiamo, quello che dovrebbe essere liquido vuoto, in realtà è un po’ grumoso, cioè all’ispezione microscopica vediamo che c’è tipo della sabbiolina sotto; se andiamo ad ingrandire nel pannello B si notano i batteri che hanno deciso di crescere nella nostra coltura e bisogna buttare tutto. Questa immagine mostra sempre delle cellule 293 che crescono in adesione, sono proprio schiacciate sulla plastica e stanno iniziando ad espandersi sulla plastica, quelli che vediamo puntati dalle frecce sono dei funghi e lo vediamo perché hanno la classica forma a catenella, quindi quando poi duplicano fanno questa forma di duplicazione che si chiama budding, vanno a nucleare dei nuovi funghi e rimangono tutti attaccati a mo’ di catenella; questa è una contaminazione che non riusciamo a debellare. Un’altra contaminazione difficilissima da vedere è quella da micoplasma; l’unico modo per vedere una contaminazione da micoplasma è o fare un test utilizzando un kit molto costoso, oppure usare il microscopio ottico a fluorescenza che ci consente di andare a vedere una determinata componente delle cellule che avremo colorato; in questo caso, il colorante si chiama DAPI e colora gli acidi nucleici, quindi colora i nuclei che contengono gli acidi nucleici nelle nostre cellule. Nel pannello A le nostre cellule hanno dei nuclei blu con il loro materiale genetico e intorno non c’è nulla, sono pulite; nel pannello B abbiamo ancora i nostri nuclei tondi ma accanto ci sono tutte delle macchioline blu, e quello è il materiale genetico del micoplasma, che è entrato all’interno della cellula, sta venendo nel citosol della cellula, è nel suo citoplasma e sta di fatto parassitando le nostre cellule. La colorazione con DAPI è mediamente costosa e anche un po’ dispendiosa a livello di tempo. In seguito, qualcuno che ha pensato a questa cosa della contaminazione, ha deciso di provare a capire come fare a non avere contaminazione nelle colture cellulari, quindi prima si inventa il concetto di sterilità, perciò va a usare la fiamma per sterilizzare tutte le componenti in vetro che si utilizzavano ai tempi (adesso si utilizzano di plastica perché meno pericolose), inizia a passare la fiamma su tutti gli strumenti in vetro così che i batteri muoiono e quando li utilizza non si contamina più niente; poi pensa che magari è il caso che lui aggiunga dei nutrienti a queste colture, perché altrimenti loro in vivo hanno un torrente circolatorio che porta sangue con ossigeno e nutrienti, mentre in vitro non ce l’hanno, quindi lui per il fatto di aver inventato il concetto di sterilità e per il fatto di aver capito che ci volevano dei nutrienti nelle colture cellulari si prende il Nobel; stiamo parlando del dottor Carrel e siamo nel 1912. Arriviamo al 1951: una donna si presenta in ospedale dopo aver partorito 5 figli, stava benissimo, aveva fatto l’ultimo parto 4 mesi prima, torna in ospedale lamentando un sanguinamento vaginale e le viene diagnosticato un tumore alla cervice tra l’altro anche grande. Il medico, che voleva fare un po’ anche il ricercatore, decide di prendere un campione di questo tumore e di metterlo in vitro; si accorge che queste cellule si duplicano all’infinito e sono praticamente immortali, rispetto alle altre colture cellulari di cui si era detto che ad un certo punto vanno in senescenza e muoiono per queste non era così, si replicavano all’infinito. Pertanto, scopre che il fatto che quel tumore alla cervice fosse derivato da un’infezione da papilloma virus che aveva mutato un enzima all’interno di queste cellule ossia la telomerasi, questa mutazione fa sì che queste cellule non vadano mai incontro all’accorciamento dei telomeri e quindi replichino. Scopre anche che sì, sono cellule cancerose, ma fondamentalmente, a parte questo discorso della telomerasi, tutti gli altri meccanismi fisiologici sono come quelli delle cellule normali quindi pensa di poter iniziare a utilizzarle come modello in vitro, e nasce da qui la prima linea cellulare umana di fatto immortalizzata. Siccome la donna in questione si chiamava Henrietta Lacks, queste cellule si chiamano HeLa, cellule che al momento sono in utilizzo praticamente in tutti i laboratori del mondo, tutti le stanno utilizzando perché sono facili da replicare, poi nel momento in cui uno scopre che queste cellule si replicano all’infinito e magari ad un certo punto non ci deve più lavorare, si è passati anche al congelamento di queste cellule; si prende la coltura, si congela, si crea una sorta di biobanca, a quel punto queste cellule congelate possono essere anche spedite in altri laboratori del mondo, quindi si sono diffuse veramente dappertutto. Vengono applicate in questo settore di ricerca, nella ricerca di base o nella ricerca per tutte le malattie infettive, ma le HeLa fanno nascere anche una questione etica, perché di fatto nessuno aveva detto alla donna (morta poco dopo) che le sue cellule erano state prelevate dal medico, e soltanto a distanza di anni ad un certo punto alcuni ricercatori che utilizzavano queste cellule hanno pensato di chiamare la famiglia di discendenti della donna per chiedere delle informazioni di carattere clinico, perciò contattano la famiglia ma questa non aveva idea che le cellule della madre fossero in giro in tutto il mondo. Nascono tutta una serie di questioni etiche che vengono affrontate proprio nel momento in cui viene scoperta questa cosa, nel frattempo i ricercatori pubblicavano, avevano finanziamenti, ricevevano soldi e premi, mentre la famiglia non aveva i soldi per pagarsi l’assicurazione sanitaria, un paradosso assurdo. Per dare una definizione, le cellule tumorali derivano da un tessuto tumorale e, di conseguenza, sono potenzialmente in grado di replicarsi all’infinito. Ma se volessimo noi rendere una cellula immortale, così come è successo nel caso delle HeLa, come possiamo fare? Abbiamo già introdotto il concetto che una cellula normale, a un certo punto durante i suoi cicli di replicazione, va incontro a mutazioni ma anche a accorciamento dei telomeri, che la portano allo stato di senescenza. Così come è successo nel caso delle HeLa, uno dei primi metodi che possiamo utilizzare per immortalizzare le nostre cellule è quello di andare a inserire all’interno delle cellule degli oncogeni, dei geni di origine virale che vanno a sopprimere alcuni meccanismi di controllo cellulari che farebbero sì che la cellula ad un certo punto smetta di replicarsi. Un esempio è quello di P53 e RB, che sono due geni che controllano lo stato di salute della cellula e se qualcosa non va fanno mandare la cellula in morte programmata; se noi andiamo a cancellare questo gene, la cellula continua a replicarsi all’infinito ed è quello che di fatto vogliamo ottenere. Un secondo metodo è quello di inserire all’interno del patrimonio genetico della cellula di interesse il gene che codifica per una proteina che è un enzima e si chiama Telomerase Reverse Transcriptase protein che va semplicemente ad allungare i telomeri, così che di fatto non si accorciano mai e, di conseguenza, le cellule diventano immortali. Questi sono due metodi che possono essere utilizzati per superare la senescenza, la crisi cellulare e quindi ottenere l’immortalizzazione; entrambi i metodi, sia i geni virali che l’espressione di questo enzima fanno parte di quelli che chiamiamo i metodi di trasformazione cellulare. Succede quindi che se da un organismo possiamo andare a prelevare un tessuto che andiamo a disgregare con la tripsina o con altri metodi enzimatici, otteniamo le cellule e le mettiamo in coltura, a questo punto ci si aprono due vie: avremo o una linea cellulare finita, la teniamo così, ci serve per fare i nostri esperimenti e ad un certo punto morirà, oppure la possiamo trasformare e ottenere una linea cellulare immortalizzata del tipo cellulare che ci interessava studiare. Vediamo come cambia la curva di crescita che non va più verso il basso ma con la trasformazione continua a replicare all’infinito in modo esponenziale. UN LABORATORIO DI COLTURE CELLULARI Lo starter pack del biologo cellulare si compone di quegli strumenti che ci servono per fare questo lavoro che ovviamente non possiamo fare a casa: una cappa a flusso laminare, un incubatore, un microscopio invertito, la centrifuga, un bagnetto tipicamente settato a 37°C, freezer e frigoriferi, l’azoto liquido che arriva fino a -150°C, importantissimo per preservare le cellule nel momento in cui le vogliamo congelare e mantenere per lunghi periodi di tempo, delle camerette di conta quando vogliamo contare le nostre cellule, pipette, plasticheria varia per coltivare le cellule, tutta una serie di quelli che vengono chiamati consumabili, e quindi materiale plastico usa e getta (ad esempio si utilizza per dividere la coltura poi però si butta). Le condizioni asettiche servono a preservare la coltura da contaminazioni esterne che possiamo avere portato noi. Al contrario però, vorremmo anche preservare noi; è quindi necessario adottare dei livelli di biosicurezza, quindi così come noi vogliamo conservare le colture, è giusto anche che noi preserviamo noi stessi. Esistono 4 diversi livelli di biosicurezza che vengono applicati in base all’agente con cui si sta lavorando; ad esempio, nel caso di escherichia coli che è un batterio non patogenico si possono anche solo indossare guanti, camice ed occhiali, mentre se arriviamo a casi di virus più patogenici e quindi molto pericolosi arriviamo fino a un livello di sicurezza 3 (il laboratorio della Mara qui all’interno del Sacco è l’unico in Lombardia e uno dei pochissimi in Italia ad avere una camera di sicurezza 3) per entrare è necessario fare tutto un percorso di vestizione in cui si indossano camici, guanti e via dicendo, e quando si esce si smaltisce tutto lì per non andare a portare il virus o qualsiasi agente patogeno fuori dalla stanza. Le camere di sicurezza di livello 4 sono molto più rare, è quella un po’ più folcloristica, non è diciamo il livello di sicurezza quotidiano. L’incubatore è un mini fornetto che settiamo a 37°C (tipicamente viene mantenuto alla temperature delle cellule normali), e che ci consente di mantenere delle condizioni di coltura standard che sono appunto la temperatura, che generalmente è di 37°C ma ci sono casi in cui alcune cellule crescono a 30° e si può impostare, in seguito viene mantenuto il 95% di umidità altrimenti le cellule andrebbero ad asciugarsi e il 5% di CO₂; queste sono le condizioni standard di una coltura cellulare umana. Sembra triviale ma in realtà, appena si spostano questi valori, le colture già iniziano a non crescere più, basti pensare che quando apriamo un incubatore la temperatura non è più di 37° perché probabilmente magari un po’ si raffredda e le colture si fermano, non si replicano più; sono molto delicate e ci vuole un po’ di pazienza. Che cosa si utilizza per coltivare le cellule? Per coltivare le cellule si utilizzano dei mezzi di coltura, che di fatto non sono altro che dei liquidi. Normalmente questa bottiglia si conserva in frigorifero ed è di colore rosso/rosino, questa si apre sotto cappa con i guanti; per andare a recuperare del liquido si utilizzano per esempio una sierologica di questo tipo, quelle di plastica monouso, si inserisce all’interno un pipettatore elettronico, si raccolgono il tot millilitri che ci servono e andiamo poi a mettere nella nostra petri (piuttosto che una piccola fiasca), tutto quello che può servire a coltivare, a fungere da casa per le nostre cellule. Questo terreno si chiama in un determinato modo, ha un codice (quello che la prof ci mostra è 1640) esistono così tantissime bottiglie, tantissimi terreni diversi; questo perché ognuno di noi è diverso e ogni tipo cellulare ha bisogno di determinati nutrienti. Dentro al liquido fondamentalmente ci sono delle vitamine, dei metaboliti, dei minerali, un indicatore di pH, ci possono essere dentro delle fonti di carbonio come il glucosio (ci sono dei casi in cui viene scritto “high glucose” o “low glucose” che dipende se la coltura ha bisogno di un'alta fonte di carbonio piuttosto che non), un sistema tampone che consente di mantenere la coltura a un pH fisiologico; le altre cose non sono già lì dentro ma vengono addizionate, quindi andiamo ad addizionare tipicamente: la glutammina (questo terreno nasce come “without glutamine”), amminoacido essenziale per la crescita delle colture che non nasce qua dentro direttamente perché è instabile e quindi va addizionata al momento; gli antibiotici, così, sebbene siamo sotto cappa e usiamo tutto materiale sterile, non si sa mai potrebbe comunque comparire una contaminazione, e con l’utilizzo di una percentuale di antibiotici che tipicamente è l’1% sul volume cerchiamo di arginare la contaminazione; il siero FBS (fetal bovine serum), siero di feto bovino, che addizionato alle colture ne fornisce tutti dei fattori di crescita che servono alla coltura per propagarsi e duplicarsi. Il rosso che si vede all’interno della bottiglia è una molecola che si chiama rosso fenolo, è un indicatore di pH e se mantenuto a temperatura ambiente e senza CO₂ rimane a questo colore che vuol dire terreno vuoto. Se mettiamo il terreno con le cellule in coltura possono succedere due cose: le cellule crescono, metabolizzano i nutrienti che ci sono all’interno del terreno di coltura e producono dei metaboliti acidi che vanno ad acidificare il terreno; in coltura quindi quando apro il mio incubatore nelle mie fiaschine (possono essercene di più piccole o di più grandi) io vedrò che non ho più il terreno come prima ma ce l’ho arancione e questo è un segnale che mi indica che la coltura si sta acidificando, devo rimuovere il terreno esausto e aggiungerne di nuovo perché non ci sono più nutrienti dentro. Un’altra cosa che può accadere è che il terreno diventi molto giallo, e quando diventa giallo così è perché oltre alle mie cellule che stanno mangiando, metabolizzando i nutrienti e acidificando il terreno, anche i batteri sono cresciuti dentro e stanno acidificando dentro molto più velocemente delle cellule perché i batteri si acidificano in ore piuttosto che magari in giorni come le cellule, per cui ho una iperacidificazione del terreno che a questo punto devo andare a capire se ho una contaminazione e, se sì, buttare via tutto. Quando mi capita di dover buttare via tutto, quindi aggiungo magari della candeggina per uccidere la coltura e smaltirla in modo sicuro, la candeggina è basica e il colore diventa violetto. Riassumendo: normalmente è rosa/rosso; se diventa arancione le cellule stanno crescendo bene; se diventa giallo c’è una contaminazione. Questa è una lista non esaustiva di tutti i terreni che possono esistere; alla colonna “medium” vediamo tutti i nomi dei terreni, che chiaramente corrispondono nella colonna “cell line” a tutte delle linee cellulari che sono state immortalizzate e che adesso sono commercialmente disponibili, che noi possiamo andare fisicamente a comprare da un portale; una volta comprate mi arrivano, le devo mettere nel pozzetto di azoto liquido per preservarle, poi però devo essere sicuro di avere in laboratorio il suo terreno corrispondente. Nel momento in cui si comincia un nuovo progetto, si cerca qual è la linea cellulare migliore e a quel punto però bisogna anche capire se si è in grado di mantenere le colture in quel determinato modo che viene specificato. Ogni linea cellulare ha il suo terreno. Noi possiamo andare a scongelare delle linee cellulari immortalizzate che abbiamo precedentemente acquistato, metterle in coltura, coltivarle e quindi espanderle e fare quello che si chiama splitting, il passaggio delle cellule ogni volta che ricoprono tutta la plastica che stiamo utilizzando, quindi le dividiamo e le andiamo ad espandere oppure possiamo aver isolato le cellule da un tessuto. Dunque, i punti di partenza sono due: se è da un tessuto è ex vivo; se è da una cellula immortalizzata è in vitro. In entrambi i casi possiamo ottenere la nostra coltura, possiamo avere questi passaggi ciclici perché di fatto una cellula immortalizzata potrebbe replicarsi all’infinito, fino a che non arriviamo ad avere un numero di cellule sufficienti a fare il nostro esperimento. In quel caso, prendiamo la nostra coltura e la seminiamo in una piastra multi pozzetto (in inglese multiwell) avente un coperchio per mantenere la sterilità e dentro dei pozzettini, ci sono multiwell da 6, 12, 24, 48 e 96 well; abbiamo dei buchetti in numero differente ma varia la loro dimensione, se ne abbiamo 6 sono più grandi e man mano che aumentano di numero vanno a restringersi. Questo ci consente di seminare la stessa coltura e dividerla in parti uguali, per poi andarla a trattare; avrò dei pozzetti che magari non tratto (mi rimane un non trattato) e pozzetti in cui magari metto un trattamento, poi lo metto in un altro in una concentrazione più alta, più bassa ecc.; questo mi consente di avere delle copie delle mie cellule che posso poi confrontare tra di loro e capire se con il trattamento le ho uccise, non le ho uccise, le ho attivate, non le ho attivate. Questo è il momento del trattamento e quindi quello dell’esperimento vero e proprio. Fino a che stanno qua dentro si stanno replicando ed espandendo fino a ottenere un numero necessario per gli esperimenti, perché tecnicamente, se la coltura è in adesione, deve andarmi a riempire tutto il fondo del pozzetto, e se il fondo è di una 48 well è poco, potrebbero servirmi circa 30.000 cellule, ma se invece ho un pozzetto più grande, servono quasi due milioni di cellule. In base a quante cellule mi servono, ho bisogno di raggiungere qui dentro un numero adeguato. Quando l’ho raggiunto, parto e faccio l’esperimento. Quando ho finito tutti i miei esperimenti, la coltura da qui la recupero e la metto in delle provette apposite e tornano a -150° in azoto liquido, quindi posso mettere in pausa il lavoro, prendere le mie cellule, rimetterle in azoto liquido e quando mai sarà necessario riscongelarle riparto da capo; scongelo, rimetto in coltura, aspetto che si acclimatizzino perché dopo essere state scongelate non sono proprio felicissime (ci mettono magari anche più giorni) e quando si sono acclimatate posso ricominciare ad espanderle fino a fare lo splitting. Iniziamo a fare la primissima differenza: colture in adesione e colture in sospensione. Spoiler: quasi tutte le colture sono in adesione. Le uniche colture che sono in sospensione sono quelle del sistema immunitario fondamentalmente. Se ci pensate i nostri tessuti sono tutti solidi, mentre l’unico tessuto liquido è il sangue che gira nell’apparato circolatorio. Le cellule del sangue (immunitarie etc…) sono tutte colture in sospensione, quindi tecnicamente non si attaccano alla plastica, nuotano nel nostro terreno. Se io metto del terreno qua dentro poi la lascio nell’incubatore, ad un certo punto loro per gravità mi si vanno a posizionare sul fondo ma, appena le muovo, tornano a nuotare. E questa è una prima distinzione. Seconda distinzione: possono essere distinte le colture dal punto di vista morfologico. Se prendo un microscopio e vado a ispezionare le mie colture posso ottenere diverse forme (morfologia significa forma). Quindi, se vedo che ho delle cellule che sono squamose, colonnari, cuboidali, posso immaginarle come dei mattoncini, stiamo parlando di cellule epiteliali. Se le guardo e invece ho delle cellule che sono allungate, però, hanno i bordi lisci, quella è una cellula endoteliale. Se invece ho delle cellule che sono allungate ma il bordo non è liscio ma ha delle protuberanze un po’ a stellina, quelli sono fibroblasti (da non confondere con le cellule neuronali). Quello che è della linea linfoblasti di fatto è in sospensione (e quando sono in sospensione non hanno una forma, sono tonde, galleggiano). Se vedete una cellula liscia, non attaccata alla plastica, è una cellula del sangue, della linea linfoide. I neuroni hanno questo corpo cellulare un po’ stellato e poi abbiamo dei prolungamenti lunghissimi, possono quindi essere confusi con i fibroblasti, che sono un po’ a stellina anche loro. In realtà c’è una differenza: il fibroblasto è più contenuto, è a stellina ma è contenuto tutto lì, il neurone ha il suo corpo, poi questi prolungamenti molto lunghi. Ad un certo punto bisogna staccare le cellule, ma per x motivi. Può essere che siano cresciute troppo, non ci stanno più e devo fare uno splitting, le devo staccare (chiaramente invece le colture in sospensione non vanno staccate perché non si sono mai attaccate, loro hanno sempre nuotato quindi lì è più facile). Parentesi: perché stiano bene le cellule non devono essere né troppe né troppo poche. Se non troppe non hanno abbastanza nutrienti, se son troppo poche non riescono a comunicare tra di loro, pensano che l’ambiente sia ostile e non replicano. Quindi dobbiamo mantenerci in un range: i monociti stanno bene tra i 500.000 monociti per ml e raggiungono duplicando 1.000.000 di monociti per ml. Se son troppo poche non crescono più, gli puoi dare tutto il siero che vuoi, ma loro non crescono più; se sono sopra al milione non crescono più comunque perché hanno finito i nutrienti. Sulle cellule in sospensione fare la subcolture con splitting è molto facile: se io in una provetta ho 10 ml di cellule che hanno già raggiunto un milione per ml, semplicemente ne metto 5 ml in un terreno che di cellule non ne ha e le ho portate a 500.000, così ho anche espanso la mia coltura, se aggiungo 10 ml le ho diluite, loro saranno portate ad espandersi ancora. Se le cellule sono attaccate non è mica così semplice, perché bisogna staccarle fisicamente dalla plastica e questa cosa si fa per diverse ragioni: quando dobbiamo splittarle quando vogliamo portarle dalla coltura alla semina per l’esperimento quando oltre ad averle guardate al microscopio non sono sicuro di che tipo di cellula sia, perché magari si è una cellula epiteliale, mi sembra un po’ cuboide, ma non so che epitelio è, ho bisogno di farle un’analisi per capire chi è. Per capire ciò devo usare dei marcatori che costituiscono come se fosse la carta d’identità della cellula. Se mettiamo insieme delle caratteristiche specifiche riescono a dirci: “è esattamente quell’individuo lì”. Le cellula sulla loro superficie esprimono delle proteine, che possono essere utilizzate come bandierine, che se una cellula ha determinati marcatori (di solito 3-4), quella combinazione di marcatori definisce esattamente quella cellula lì. In questo caso i metodi per staccare la cellula dalla plastica cambiano: devo fare una subcoltura, devo semplicemente staccarne metà e metà e metterle in due petri? Posso usare la tripsina, quella che viene utilizzata in assoluto più comunemente: si toglie il terreno, le cellule rimangono adese alla plastica, si aggiunge questa soluzione di tripsina, che è un enzima che taglia le proteine, però non sa che deve tagliare solamente le proteine di adesione, quella va e taglia tutto. Tutte le proteine che la cellula esprimeva sulla sua superficie vengono tagliate via. Ma a noi non interessa, ne prendiamo le due metà, le mettiamo nelle due petri, le facciamo riaderire e riespandere e loro piano piano rimanderanno in superficie le loro proteine. Si può usare l’EDTA (come visto in precedenza); si può fare quello che si chiama “raschiamento”, con uno scraper, che di fatto è un bastoncino con un piccolo segmento di plastica. Quindi se le cellule con la tripsina non si staccano (no con la tripsina si staccano) si può utilizzare questo, che di fatto è come se le raccogliesse meccanicamente, andando a staccarle di forza dalla superficie, il rischio però di romperle è alto. Dipende sempre da qual è l’applicazione finale. In un altro caso, nel caso della marcatura, io non voglio assolutamente perdere le proteine di superficie, perché costituiscono i miei marcatori, se le vado a tagliare con la tripsina vado a eliminare l’identità della cellula. Potrei quindi utilizzare lo scraper, perché se sono molto molto delicato potrei anche riuscire a non romperle. Ma in linea di massima se so che devo andare a fare una marcatura per determinare il tipo cellulare con cui ho a che fare devo utilizzare per forza una soluzione di dissociazione enzimatica non tripsinica (cell dissociation solution) che serve a spezzare le cellule in modo molto più delicato, ci vuole più tempo, si mette in un incubatore, ci mette minuti e minuti prima che si stacchino, possiamo anche agevolare il distacco dando una bottarella alla plastica, così che loro si stacchino dalla superficie, dopodiché possiamo portare le cellule alla nuova coltura. Le cose essenziali ed importanti da ricordare sono: uso la tripsina solo se devo fare una subcoltura o se voglio seminare ma non mi interessano i marcatori uso lo scraper se non riesco a staccarle bene ma voglio farlo meccanicamente uso la soluzione di dissociazione non enzimatica se ho bisogno che le loro cellule mantengano la loro proteine di superficie Le cellule in sospensione è molto più difficile ispezionarle al microscopio ottico, perché si depositano sul fondo ma fatico a trovare un unico piano focale e vederle bene la loro morfologia, mentre le colture in adesione sono molto più facili da ispezionare, si capisce meglio se vanno divise oppure no, se la superficie è completamente coperta dalle cellule oppure no. Il concetto di confluenza significa proprio questo: se le cellule hanno coperto tutta la superficie a loro disposizione sono arrivate al 100% della loro confluenza. Così come il discorso della densità superficiale in sospensione anche qui si sta tra il 50% e il 70%, se arrivo poi al 100% le cellule non stanno più bene, non si staccano più facilmente. Monocolture e co-colture: se ho in coltura un unico tipo cellulare è una monocoltura se voglio vedere come interagiscono due tipi cellulari diversi posso fare delle co-colture, che possono essere: ○ co-colture indirette: in due pozzetti diversi della piastra multipozzetto metto due colture diverse (A e B) che crescendo rilasceranno nel mezzo, quindi nel liquido, dei fattori, se voglio farle comunicare posso raccogliere quello rilasciato dalla coltura A (il suo medium), metterlo nella coltura B, così come se loro si fossero parlate, senza che loro siano realmente entrate in contatto ○ co-coltura diretta: sono due linee in adesione che vado mettere in percentuali diverse, magari 70% sono cellule epiteliali e ci metto una percentuale di cellule immunitarie per un macrofago residente nell’intestino; o ho epitelio intestinale e ci voglio mettere insieme dei monociti in sospensione e lo posso fare coltivandoli nello stesso pozzetto. In questo caso la coltura è diretta, perché loro si toccano. COLTURE 3D Transwell: piccoli cestelli dove al di sotto c’è una membrana porosa semipermeabile. In questo caso avendo a disposizione la membrana porosa possiamo mettere in comunicazione delle cellule senza che loro si tocchino, fattori solubili possono diffondere verso le altre cellule, ma le cellule no, rimangono adagiate o sulla membrana o sul fondo del pozzetto. Ci sono diversi metodi per creare delle altre colture di tipi 3D: rete ribaltata: si mettono delle gocce sul fondo della petri, la si ribalta e si crea una coltura di tipo tridimensionale. il fondo della petri è reso liscissimo, le cellule non vanno a toccarsi, creano quindi delle strutture 3D Quello che dobbiamo pensare è che in vivo le cellule non sono mai in un liquido, c’è sempre del tessuto, la matrice dei nostri tessuti. Due ricercatori: Herman e Gey, lo stesso che scoprì le HeLa, iniziano a coltivare delle cellule umane isolando il collagene dalle code dei ratti e utilizzandolo come substrato, qualcosa di gelificato dove le cellule possono andare a crescere mantenendo una struttura 3D. Differenze tra coltura 2D e coltura 3D: 2D: le cellule sono forzate a spandersi sulla superficie della plastica e ad ottenere una forma che di fatto non è la forma che otterrebbero in vivo più facile da coltivare più facile da ispezionare al microscopio più facile da tenere in coltura non c’è gradiente, perché il liquido va su tutta la petri morfologia forzata 3D: se nella coltura inseriamo una matrice di tipo gel, le cellule possono andare a creare delle strutture tridimensionali, molto più vicine a quelle che sono le strutture in vivo. Per farlo possiamo mischiare delle molecole gelificanti per ottenere strutture di tipo gel. la concentrazione di un soluto fonde attraverso le matrici condizioni più fisiologiche interazioni cellula-cellula le cellule hanno tre dimensioni in cui espandersi APPLICAZIONE: drug discovery: differenza tra un trattamento e un altro vado ad utilizzare le colture cellulari per avere un modello uguale e che posso ripetere nel tempo per stabilire qual è l’effetto del mio trattamento ricerca sul cancro studio dei sistemi di differenziamento fisiologia cellulare espressione in cellule di proteine di interesse: posso utilizzare colture di cellule contenenti un gene codificante per una determinata proteina per produrla, dopodiché rompo le cellule e recupero l’insulina. Vent’anni dopo altri due ricercatori sviluppano la prima coltura in vitro di tessuti 3D che derivano da cellule progenitrici umane. Qui è necessario introdurre il concetto di differenziamento cellulare: tutti noi abbiamo diversi tipi cellulari nel nostro corpo, sono stimati essere circa 220, che hanno funzioni e strutture diverse. Alcune sono più abbondanti (globuli rossi, circa 80% delle nostre cellule), altre meno, alcune hanno vita più lunga, altre più corta. Le nostre cellule hanno funzioni estremamente diverse, ma derivano tutte da un’unica cellula uovo, in unione con uno spermatozoo. Come è stato possibile? Lo zigote è andato attraverso un percorso di differenziamento: All’inizio le cellule sono totipotenti, possono diventare qualsiasi cosa. Allo stato di blastocisti iniziano a formarsi i primi tre foglietti: ectoderma, mesoderma, endoderma Allo stato adulto noi avremo delle cellule che sono oligopotenti: per le cellule del sangue ci sono a livello del midollo dei precursori che poi danno origine a diversi tipi di cellule del sangue (non è che una cellula oligopotente del midollo mi può diventare una cellula dell’osso, sono già programmate per diventare cellule del sangue). Le altre cellule sono unipotenti: ci facciamo un taglio? L’epitelio si duplica e va a chiudere il nostro taglio grazie alla risalita in superficie delle cellule dell’epidermide più profondo. Definiamo quindi un altro grado di classificazione delle colture cellulari: Stem: staminali, che ancora possono differenziarsi in quello che ci interessa Differenziate: ci sono in coltura cellule epidermiche che sono cellule differenziate. Se volessi in vitro produrre delle colture di macrofagi o cellule dendritiche (due cellule del sistema immunitario, deputate al riconoscimento dei patogeni), potrei partire dai loro precursori, i monociti. Compro delle cellule monocitarie congelate, le scongelo e aggiungo dei fattori di differenziamento, che sono diversi se voglio ottenere un macrofago o se voglio ottenere una cellula dendritica. Dopo giorni di coltura a contatto con il fattore di differenziamento il monocita sarà o un macrofago (se ho aggiunto PMA) o una cellula dendritica (se ho aggiunto GM-CSF o IL-4). A quel punto posso guardarle al microscopio: il monocita è una cellula in sospensione, il macrofago e la cellula dendritica sono in adesione. Un altro modo per capire se è avvenuto il differenziamento è utilizzare i marker, cercando le proteine superficiali delle cellule specializzate, in questo caso si utilizza il citofluorimetro. Questa è una tipologia di differenziamento in vitro. Se invece raccogliessi del sangue periferico e per stratificazione su una componente zuccherina particolare centrifugassi il sangue, potrei andare a dividere le componenti del sangue: il plasma, i linfociti (che si presenterebbero sotto forma di anello bianco che galleggia su una componente trasparente zuccherina) e infondo avremmo un deposito di globuli rossi. Potrei isolare ad esempio i linfociti e posso marcare le cellule definite come monociti con un anticorpo che si attacca al CD14, il quale presenta una pallina magnetica. Dopodiché ponendoli in una coltura dove solo questo tipo cellulare può proliferare e facendo scorrere dell’acqua, tutte le cellule che non avevano CD14 vanno giù e le lavo via. Questo processo si chiama isolamento magnetico delle cellule CD14 positive, grazie al quale riesco a recuperare soltanto i monociti da tutto il sangue. Grazie a questo procedimento posso evitare di comprare quel tipo di cellula, avendola isolata ex vivo da un organismo vivente. Per verificare se le cellule che abbiamo estratto dall’organismo stavano bene oppure no utilizziamo un test che si chiama MTT: ci fa capire tramite l’aggiunta di questo sale (l’MTT) che è di colore giallo se le cellule sono metabolicamente attive oppure no. Il sale giallo che viene metabolizzato da un enzima presente nei mitocondri delle cellule vive si trasforma in cristalli insolubili viola, questo ci fa capire che la cellula è metabolicamente attiva oppure no. Una volta che si sono creati questi cristalli, si toglie il terreno, si sciolgono i cristalli, in modo tale che questo viola vada in soluzione e avremo dei pozzetti che sono un po’ meno viola. Se io volessi tornare indietro? Tornare da una cellula differenziata a una in grado di originare più tipi di cellule? Uno studioso nel 2006 è riuscito a fare proprio questo. Ha preso delle cellule somatiche di topo, le ha messe in coltura, ci ha aggiunto dei fattori che sono chiamati fattori di pluripotenza, queste cellule si sono de-differenziate e da qui in base ai fattori di differenziamento che andiamo a metterci dentro noi possiamo ottenere ipoteticamente la coltura che vogliamo. Se io prendo una iPSC (cellula staminale pluripotente indotta), la trasformo da monocita a macrofago o cellula dendritica sto attuando un differenziamento in vitro. Se io compro delle iPSC e le differenzio allora si tratta di coltura in vitro; se le estraggo da un organismo, le de-differenzio e poi inserisco dei fattori di differenziamento per trasformarle nella coltura cellulare di mio interesse allora si tratta di coltura ex vivo. Iniziano poi a nascere tutta una serie di colture 3D più avanzate (organoidi). Definiamo sferoidi monocolture (un tipo cellulare) e definiamo organoidi colture 3D con più di un tipo cellulare. Le applicazioni degli organoidi sono molteplici: possono essere utilizzati per curare le ustioni, coltivate in vitro per essere poi trapiantati in vivo; colture 3D di cornea, per curare la cecità etc.. Si possono andare a creare degli organoidi anche a partire da cellule staminali. La cosa più vicina al vero potrebbe essere utilizzare delle staminali embrionali ma c’è un problema etico, è per questo che si sono create le iPCS. Nel 1988 Klebe, appassionato di stampa 3D, mette insieme questa sua passione e colture cellulari creando la biostampa 3D. Prende una stampante 3D, utilizza un bioink (che di fatto è un terreno), con all’interno cellule, terreno stesso, degli additivi, ma anche le componenti di una matrice extracellulare. Così lui può stampare dei dispositivi che possono essere ipoteticamente trapiantati, può giocare sulla rigidità della struttura e la tipologia cellulare. Ci sono diversi tipi in cui si possono stampare le colture 3D che contengono le cellule: a fettine: materiale depositato e solidificato con UV una fettina sopra l'altra a striscioline a cubetti sotto forma di purea Il fine ultimo di questa applicazione è cercare di produrre delle impalcature che possono essere biocompatibili e trapiantate in vivo (sperando che le cellule immunitarie del sistema ospite vadano a colonizzare l’impalcatura), dove subiranno un processo che consiste nell’aggiunta di matrice extracellulare e vascolarizzazione. Spesso e volentieri questi impianti vengono rigettati, poiché riconosciuti come non self, chiaramente non è uno stato ottimale. Nel 2018 si iniziò a parlare di decellularizzazione: se non riesco a stampare l'impalcatura di un organo, ne prendo uno che già esiste e rimuovo tutte le cellule, lasciando solo la matrice extracellulare, permettendo la colonizzazione delle cellule del paziente che deve essere trattato. Organ-on-chip, tecnica che mette insieme: colture cellulari biostampa 3D tecnologia multi fluidica Sono chip in cui all’interno ci sono diversi canali, che contengono diversi tipi cellulari. C’è un’entrata e un’uscita, da cui le cellule possono passare. In questo modo diversi tipi cellulari possono essere messi in contatto, cosicché il livello di complessità della struttura sia molto più alto (di conseguenza il più simile possibile ad uno stato fisiologico). Se prendiamo singoli organ-on-chip e li connettiamo, creiamo uno human-on-chip. Esempi di applicazioni: Scoppia una pandemia e voglio studiare il sistema respiratorio. Ho bisogno di creare un sistema che simuli le metodologie di infezione delle cellule epiteliali (o altro tipo) polmonari da parte del virus. Parto dal definire una cellula polmonare e qual è il suo ruolo all’interno del sistema: utilizzo marcatori molecolari, che sono la carta d'identità della cellula, che mi permettono di capire la differenza tra cellule dei bronchioli, della trachea o dei polmoni. Se cerco un tipo un tipo cellulare, mi avvalgo della letteratura scientifica per identificare i marcatori cellulari della specifica cellula in analisi. A questo punto creo una monocoltura 2D (avvalendomi del transwell, quindi potrebbe quasi essere definita 3D) di cellule dell’epitelio polmonare. Qual è il miglior modo per mimare un epitelio? Uso uno specifico tipo di cellule in coltura. Per esempio, l'epitelio polmonare non è a contatto solo e soltanto con liquido, ma sul lato apicale è a contatto con l’aria. Quindi si vede che una coltura ha del liquido (anche l’epitelio intestinale ha il lume centrale che è vuoto). Per tutti quegli epiteli a contatto con l’aria si utilizza una coltura che si chiama ALI, che inizialmente utilizza liquido da entrambi i lati della cellula, ma poi viene rimosso quello soprastante e le cellule vengono lasciate differenziare per diversi giorni, perché la cosa importante è che in una situazione di coltura sommersa, le cellule rimangono tutte uguali, si attaccano alla membrana e non succede niente. Quando rimuoviamo il liquido le cellule si differenziano, polarizzandosi. La parte basale sarà adibita a trasmettere gas alla parte sottostante, mentre la parte apicale inizierà a creare delle ciglia (o dei villi se si stratta di cellule del gastroenterico), tra di loro le cellule inizieranno a comunicare tra loro, portando le cellule a differenziarsi. Nell’immagine si vede una coltura che è molto più vicina a quella fisiologica. Un altro lavoro recente va ad introdurre un altro concetto, un’evoluzione della coltura ALI. Si tratta di una coltura OTE (organ tissue equivalent): che consiste nel mettere insieme la coltura di fibroblasti seminati nella matrice, la matrice polmonare stessa, aggiungere delle molecole seminate nei pozzetti, che si legano quando irradiate da raggi UV. I ricercatori lo fanno variando le condizioni della molecola che va a solidificarsi, per ottenere tre livelli di solidità diversi: una matrice un po’ più lassa, una matrice media e una più dura. Al di sopra di questo gel vanno a seminare cellule epiteliali, che si differenziano in tutte le cellule dell’epitelio polmonare. Per verificare la loro ipotesi fanno diversi test: 1. test della conduttanza o misurazione della TER (della corrente trasmessa): se un epitelio è veramente un epitelio ed è continuo (tutte le cellule si toccano) allora data una corrente in un lato dell’epitelio, questa verrà trasmessa e rilevata da un secondo elettrodo. 2. ispezione microscopica: utilizzando un microscopio a fluorescenza. Vanno a marcare con una molecola intercalante (come il DNA) o con un anticorpo, che riconosca esattamente la proteina di interesse, al quale posso legare un fluoroforo (molecola che emette luce quando irradiata con una determinata lunghezza d’onda). E’ necessario fare dei pannelli, nei quali avremo diversi colori, derivanti dal legame dei marcatori con proteine diverse, così da capire la morfologia generale della cellula. Avendo marcato con i rispettivi fluorofori le strutture di interesse è possibile iniziare l’ispezione microscopica e catalogo ciò che vedo in diverse categorie: Human Airway tissue: epitelio umano vero 2D culture: coltura 2D poco stratificata FB+/ECM+ soft: coltura in gel poco denso FB+/ECM+ medio: coltura in gel di media densità FB+/ECM+ stiff: coltura in gel ad alta densità All’aumento della densità, aumenta la stratificazione cellulare e di conseguenza l’aspetto risulta essere sempre più simile ad una situazione fisiologica. Se vogliamo rendere la cosa più complessa creiamo organoidi polmonari. In base a quali e quanti tipi cellulari ottengo vanno a riflettere quella che è la nasosfera, la tracheosfera, la broncosfera o la alveolar sfera. Questi organoidi possono essere utilizzati per molteplici applicazioni: studio di infezioni virali su un modello di malattia polmonare: uso degli organoidi alveolari (i più semplici, con soltanto due tipi cellulari). Prendo una cellula pluripotente indotta, le dò diversi fattori di differenziamento, ottengo due diversi tipi cellulari che metto insieme in modo tale che creino una struttura 3D, ottenendo così un alveolo. Chi mi dice però che quello sia veramente un alveolo? E’ necessario analizzare la sua carta d’identità. Si utilizzano: - DAPI (pannello A, blu): per vedere i nuclei - SPC (pannello B, rosso): marcatori delle cellule polmonari alveolari - ACE2 (pannello C, verde): sappiamo tutti che Sars-COV 2 entra all’interno della cellula per legame con un recettore di superficie delle cellule polmonari, che si chiama ACE2. Sfrutto questa conoscenza per cercare questo recettore, che deve necessariamente essere espresso dalle cellule in analisi. - Co-localizzazione (pannello D, rosa): combinazione di questi tre marcatori iniziali. Si è creato un colore rosino nuovo, che è la sovrapposizione della luce rossa e verde. Questo è uno pseudocolore, significativo dell’espressione di ACE 2 a livello dell’alveolo. Posso quindi fare l’infezione - Rilevatore di infezione (pannello E, blu): avvio l’infezione e ne analizzo il cambiamento - Marcatore epiteliale (pannello F, rosso): controllo che si tratti ancora di un epitelio (e non di un tessuto nuovo) - Marcatore spike protein (pannello G, verde): voglio vedere se la spike del virus è a livello dell’alveolo - Merge (pannello H): pannello E + F + G, la proteina di SARS si trova a livello degli organoidi alveolari. Il virus effettivamente è lì. Polmone su chip: altro livello di complessità. Osservo come si vanno a disporre le cellule sull’interfaccia della matrice, avendo al di sotto addirittura le cellule epiteliali vascolari polmonari, che creano il vaso, in mezzo la matrice e sopra appoggiato l’epitelio polmonare alveolare, che essendo a contatto con l’aria si sta differenziando, si tratta di un modello avanzatissimo. Se volessi reimpiantare un polmone: 1. prendo un polmone da donatore 2. lo decellularizzo: ho la struttura ma non le cellule del donatore 3. prendo delle cellule staminali del donatore 4. le coltivo 5. le differenzio 6. ricellularizzo l’impalcatura 7. reimpianto il polmone