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Università Telematica Pegaso

Maria Vittoria Bramante

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legal contracts elements of legal contracts roman law legal theory

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This document provides a detailed explanation of essential elements of legal contracts, including a discussion on the concept of legal acts versus voluntary acts of autonomy, and the distinction between voluntary and involuntary legal acts. It also details different types of legal contracts, drawing upon principles and concepts related to Roman law.

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Maria Vittoria Bramante - Elementi essenziali del negozio giuridico 1. Premessa Il negozio giuridico come è stato efficacemente affermato è ‘una categoria concettuale non romana … l’utilizzo della nozione di ‘negozio giuridico … con riferi...

Maria Vittoria Bramante - Elementi essenziali del negozio giuridico 1. Premessa Il negozio giuridico come è stato efficacemente affermato è ‘una categoria concettuale non romana … l’utilizzo della nozione di ‘negozio giuridico … con riferimento al ius Romanorum può ritenersi accettabile esclusivamente sul piano didattico, solo cioè quale espediente espositivo, al limitato scopo di inquadrare e descrivere meglio il diritto privato dei romani attraverso l’utilizzo di categorie concettuali oggi profondamente radicate ed ampiamente utilizzate nella scienza giuridica’ (Fasolino). In punto di teoria generale del diritto il negozio può essere definito come un atto di autonomia privata, lecito, produttivo di effetti giuridici conformi alla volontà di chi lo pone in essere, e alla funzione pratica che è in grado obiettivamente di svolgere, e che possono essere costitutivi, modificativi ed estintivi. Il negozio giuridico, comunemente si afferma, va distinto dal mero atto giuridico, il cui compimento è rimesso alla determinazione dell’agente, ma i cui effetti sono predisposti dall’ordinamento. Per comprendere quanto stiamo dicendo occorre fare un passo indietro, e partire da un ragionamento più ampio che conduca al nostro tema. L’ordinamento come noto è l’insieme delle norme che da un lato, posto il cd. contratto sociale consacrato nella legge fondamentale di una certa società (la costituzione, di natura politica, che è la fonte di produzione prima, originaria, del diritto ordinamentale di una comunità organizzata), definiscono la struttura dello stato, individuando i meccanismi di accesso dei governati, cittadini o sudditi, al governo, e che quindi investe una caratterizzazione pubblicistica che riguarda la forma di Stato; ma dall’altro l’ordinamento è l’insieme delle norme che definiscono i rapporti tra i cittadini e i beni di rango primario da tutelare. L’ordine giuridico da questo punto di vista è il portato di queste norme, che disegnano un ordinamento ma che tuttavia non rendono immutabile, ma consentono che l’ordine giuridico, vale a dire il diritto effettivamente vigente sia il prodotto di ciò che i soggetti giuridici hanno realizzato in conformità all’ordinamento. L’ordinamento cioè in astratto contiene norme che assegnano posizioni di diritti e posizioni di doveri e consentono rispetto ad una griglia di valori ai governati di intessere tra loro situazioni giuridicamente rilevanti. A ben vedere quindi l’ordine giuridico, conforme all’ordinamento e che possiamo definire complessivamente, qui, diritto, è determinato da cause (che Guarino definiva Cause Efficienti); l’ordine giuridico, in altri versi, è il portato delle cause che lo determinano; l’ordine giuridico è il complesso degli effetti giuridici. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 3 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi essenziali del negozio giuridico Gli effetti giuridici non sono altro che il ‘risultato’ di una causa che li ha prodotti. Questo risultato, l’effetto giuridico, può essere di tre tipi: 1.costitutivi, 2.estintivi, 3.modificativi, vale a dire creano, fanno sorgere, rapporti giuridici; li fanno venire meno, oppure ne mutano un carattere intervenendo sull’oggetto oppure sul soggetto del rapporto, quindi implicando un fenomeno giuridico di successione (di subingresso di altri nella posizione giuridica di un altro soggetto, nei casi previsti dalla legge; un esempio di successione avviene per causa di morte). Ciò detto, se l’ordine giuridico è determinato da cause, capaci di generare questa mutevolezza stessa dell’ordine giuridico, occorre intendersi per cause, efficienti, di questi effetti. In altri termini occorre individuare la fonte causale della produzione di questi effetti giuridici. La causa efficiente, produttiva dell’effetto, è un accadimento, che è giuridico, in quanto considerato rilevante dall’ordinamento. I fatti giuridici quindi sono degli accadimenti rilevanti giuridicamente, a proposito dei quali si è soliti tra i giuristi distinguere i fatti giuridici volontari e i fatti giuridici involontari; ed a proposito dei primi i fatti giuridici si distinguono in leciti ed illeciti. In particolare i fatti giuridici - quegli accadimenti cui l’ordinamento riconnette rilevanza in quanto produttivi di effetti giuridici, quindi idonei a costituire modificare o estinguere i rapporti giuridici – sono involontari quando si verificano indipendentemente dal contegno di chi è o sarà titolare del rapporto giuridico rispetto al quale il fatto è destinato a produrre il suo effetto causale Quindi i fatti giuridici involontari possono essere cagionati causalmente da fatti naturali (es. la morte) o fatti di un terzo. I fatti giuridici volontari sono invece determinati da chi di chi è o sarà titolare del rapporto giuridico rispetto al quale il fatto è destinato a produrre il suo effetto causale, e prendo il nome di atto giuridico. Quindi l’atto giuridico è un fatto giuridicamente rilevante posto in essere con volontà di un soggetto, e può essere a sua volta lecito oppure illecito, conforme cioè oppure no all’ordinamento giuridico. Chiaramente si postula che il soggetto agente sia un soggetto giuridico di pieno di diritto e sia capace di intendere e di volere, che sono i due presupposti dell’attività giuridica e che in ciascun ordinamento in ogni tempo sono stati definiti di volta in volta. Gli atti di autonomia volontari o sono meri atti giuridici o sono atti giuridici di autonomia altrimenti detti negozi giuridici (L’ordinamento pone delle norme ai cittadini/sudditi volte a consentire l’esercizio di una propria autonomia negoziale nei limiti imposti dalla legge stessa). In questo caso la distinzione tra meri atti giuridici e atti giuridici di autonomia (altrimenti detti negozi giuridici) non è la volontà, che abbiamo detto connota la determinazione del soggetto capace, abile e Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 4 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi essenziali del negozio giuridico abilitato, a porre in essere l’azione (o ad omettere un contegno) che sia generativa dell’accadimento, ma che gli effetti dell’atto giuridico di autonomia siano predeterminati dall’ordinamento stesso. Dunque nel mero atto giuridico gli effetti sono puntualmente fissati dall’ordinamento in via preventiva, ma il compimento del mero atto dipende dal soggetto, mentre nell’atto giuridico di autonomia si vuole concludere e porre in essere l’atto e si vogliono effettivamente certi effetti. L’atto giuridico di autonomia può essere, chiaramente, pubblico o privato. Il negozio giuridico è un atto di autonomia privata, ed è il frutto – la teorizzazione – della riflessione scientifica della pandettistica ottocentesca. La sistemazione e la riflessione scientifica ha portato ad individuare razionalmente alcuni elementi caratterizzanti il negozio giuridico, ed indefettibili alla sua stessa esistenza in punto di diritto, che appunto sono detti essentialia negotii, e sono: la forma, la causa e la volontà. Al negozio giuridico potevano accedere ulteriori clausole che erano incidenti sull’efficacia del negozio stesso, vale a dire sulla produzione degli effetti, e sono usualmente indicate come clausole accidentali, o elementi accidentali, i cd. accidentalia negotii. Si tratta della condizione (che a sua volta può essere sospensiva o risolutiva) e del termine (che a sua volta può essere iniziale o finale). Ad essi si aggiunge il modus o clausola modale che però pur accedendo al negozio non interferisce con la produzione degli effetti, non inficia l’esistenza o la validità dell’atto. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 5 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi essenziali del negozio giuridico 2. La Forma La forma è la manifestazione esteriore e esteriorizzata della volontà negoziale. Il principio della libertà della forma è espressione del principio dell’autonomia contrattuale. Essa può essere libera o vincolata. L’ordinamento consente all’autore o agli autori del negozio di manifestare con ampia discrezionalità la determinazione a concludere un negozio, quando non decida di imporre una forma del negozio vincolata: l’ordinamento prescrive una certa esteriorità o consente che le stesse parti o l’autore del negozio decidano quale impiegare (forma convenzionale). La forma vincolata assolve ad una funzione direi di certezza: essa può essere ad probationem, per la prova del vincolo giuridico, oppure ad substantiam, per l’esistenza stessa del negozio giuridico, e in tal caso si parla di negozi formali o solenni. In particolare si distingue la forma ad substantiam in relazione alla struttura interna del negozio stesso, e si parla di forma concorrente, dominante o assorbente, nel senso che non prevale, prevale su causa e volontà oppure riassume in sé il negozio stesso. Del resto l’esperienza giuridica romana si caratterizzò per un rigido formalismo, particolarmente sino alla metà della repubblica. In tal caso è stato osservato che si può distinguere tra negozi meramente formali, negozi processualmente astratti (ricognizione di debito) e negozi materialmente astratti (cambiale). E si parla anche di negozi a forma complessa (in iure cessio, manumissio servi vindicta, testamentum per aes et libram). Una precisazione, dal punto di vista diacronico, possiamo farla riguardo al diritto civile italiano, che nel codice propende per la libertà della forma. Rispetto al tema possiamo dire che quando la forma scritta è imposta, il contratto non può essere provato per testimoni o per presunzioni semplici, ma occorre un documento scritto dal quale risulti che una volontà sia stata comunque manifestata (cfr. art. 1888 c.c.). e la forma scritta è un atto pubblico o una scrittura privata avente data certa: il negozio privo della forma necessaria è nullo. In diritto romano, negozi formali conosciuti dal ius privatum di epoca classica e postclassica sono tradizionalmente distinti, in base alla forma, in: librali, verbali, documentali e a forma complessa (Fasolino). E chiaramente un discorso sulla forma tagliato rispetto all’esperienza giuridica romana non può non tenere presente l’importanza dell’oralità nelle epoche più risalenti e sicuramente vi incidono forme e modi del passaggio alla scrittura. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 6 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi essenziali del negozio giuridico 3. La causa La causa è uno degli elementi essenziali del negozio giuridico, la cui mancanza o illiceità ai sensi dell’attuale codice civile (cioè la contrarietà all’ordine pubblico, al buon costume e alle norme imperative) comporta la nullità del negozio stesso (artt. 1325, 1343 ss. c.c.). La causa viene tradizionalmente definita come la funzione economico-sociale che il negozio è obiettivamente capace di raggiungere e in ragione della quale lo stesso è ritenuto meritevole di tutela dall’ordinamento, vale a dire, ad esempio, in tema di contratto di deposito che la funzione che assolve lo schema negoziale - la dazione di una cosa gratuitamente - avviene a scopo di custodia, mentre la dazione di una cosa sempre gratuitamente che avviene a scopo di utilizzo e godimento può essere lo schema di un contratto di comodato oppure può essere il bene che si dà in usufrutto, e siamo nei rapporti assoluti su cosa altrui. È dunque importante che il negozio sia interpretato attentamente valutando tutti gli elementi del negozio. Rispetto alla causa si distinguono negozi tipici e negozi atipici. Rispetto alla causa essa può essere lecita o illecita, nel qual caso vi è una contrarietà all’ordinamento (iniustus, contra bonos mores, aut contra lèges perfectas) Dobbiamo stare attenti a distinguere l’invalidità e l’inutilizzabilità del negozio. L’illiceità può essere piena, semipiena o generica, conseguendone la nullità del negozio cioè l’invalidità assoluta del negozio (con una sanzione da parte dell’ordinamento ai suoi autori), e forme più gravi o meno importanti di irregolarità: quando il negozio era contrario a leges minus quam perfectæ, che cioè comminavano solo una sanzione a carico del trasgressore e non anche la nullità del negozio, la illiceità era semipiena; quando era contrario a leges imperfectæ, cioè a quelli leggi che non comminavano alcun tipo di sanzione per la loro violazione, la illiceità era generica. L’illiceità ci induce a ricordare, limitatamente ad un mero riferimento, il tema della frode alla legge, vale a dire utilizzare uno strumento negoziale del tutto coerente e conforme dell’ordinamento per raggiungere finalità ultronee, e dunque di una illiceità indiretta (cfr. È nota la vendita con patto di riscatto a tenore della quale il venditore si riserva di riacquistare il dominio sul bene restituendo il prezzo ricevuto. È altrettanto noto il patto commissorio, nel quale il credito è garantito da garanzia reale e i rei obligationis si accordano perché la cosa, in caso di inadempimento, passi in proprietà del creditore. È però noto il cd. patto marciano, che prevede un correttivo, volto a monetizzare la garanzia del credito, ma a restituire al debitore il surplus del valore o della vendita; o ancora la vendita sottocosto per aggirare il divieto delle donazioni tra coniugi). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 7 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi essenziali del negozio giuridico E non dobbiamo dimenticare rispetto all’esperienza giuridica romana i negozi turpi, una categoria emersa in seno alla riflessione dei giuristi sotto cui si riuniscono quei negozi inutilizzabili perché obiettivamente orientati verso scopi contrari ai boni mores (Fasolino), avverso cui furono ammessi rimedi giuridici (la remissio e la condictio ob turpem causam). I negozi a causa lecita a loro volta sono: a titolo gratuito (o di gratificazione, come la donazione) o di corresponsione (o oneroso, come la vendita). Questi ultimi possono distinguersi in sinallagmatici (o a prestazioni corrispettive, aventi cioè una interdipendenza delle obbligazioni) e non sinallagmatici, e rispetto ai primi in negozi giuridici con sinallagma genetico, funzionale o condizionale. In diritto romano, come è stato sostenuto, il discorso è complesso: ‘Nel lessico dei giureconsulti romani … il lemma ‘causa’ si caratterizza per un sua polisemia difficilmente riconducibile ad unità e solo raramente assume un’accezione analoga a quella impostasi nell’uso moderno: nei suoi usi più frequenti, infatti, può indicare il motivo per il quale un negozio è stato concluso, la fonte di un rapporto giuridico o una situazione giuridicamente rilevante, considerata nel suo complesso, od anche l’interesse sotteso al negozio o la forma della sua tutela. Ne discende l’impossibilita di inquadrare sistematicamente il concetto di causa presso i romani che, non a caso, se ne occuparono assai poco (Fasolino). In particolare, ‘la causa trovò più ampia considerazione e ad essa si fece riferimento quale elemento di qualificazione del negozio, al fine di sussumere l’atto concretamente realizzato dalle parti in un tipo negoziale e farne derivare il regolamento applicabile. In questo contesto, deve segnalarsi come strutture negoziali modellate per rispondere a determinati scopi subirono talvolta un fenomeno di “adattamento funzionale”, in ragione del quale, a seguito di una revisione più o meno intensa dei loro elementi costitutivi, si trovarono asservite ad una causa diversa da quella originaria. In questa prospettiva, la riflessione giurisprudenziale si distacca dai singoli interessi concreti dei contraenti per acquisire una rilevanza più astratta e generale, di cui è espressione la nota definizione di causa cui approda Ulpiano in D. 2.14.7 (Ulpianus 4 ad ed.), che la individua nella esecuzione di una prestazione da parte di uno dei contraenti orientata ad ottenere una controprestazione. La nozione più matura di causa per i Romani viene dunque ancorata alla considerazione dell’equilibrio complessivo nel quale trovano composizione gli interessi di tutte le parti contraenti’ (Fasolino). Il giuspositivista storico del diritto individua: 1. negozi a causa plurima (o negozi misti, aventi due o più cause), come la donatio mortis causa, e 2. cause a negozi plurimi (o cause autonome che potevano realizzarsi con più negozi indifferentemente), nei quali la funzione può realizzarsi giovandosi di più strumenti, come per la causa di dote o la causa di donazione che si possono variamente costituire; 3. negozi a causa astratta, come la mancipatio. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 8 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi essenziali del negozio giuridico 4. La volontà È uno dei tre elementi necessari ed indefettibili per l’esistenza del negozio giuridico. Essa può essere definita come la determinazione di volere del soggetto che pone in essere l’atto, e si distingue dai motivi, definiti come ‘le aspettative in ragione delle quali un soggetto è indotto a concludere un negozio. Essi costituiscono un prodotto della sfera soggettiva del soggetto agente e, perciò, restano estranei alla ragione giustificativa del negozio, obiettivamente considerata’ (Fasolino). L’accertamento della volontà è molto importante ai fini dell’apprezzamento del negozio e del tipo di negozio, e particolarmente dei negozi astratti, come la mancipatio. Non a caso anche il nostro legislatore è attento a far emergere dal processo dell’interpretazione del negozio, la volontà, attraverso la valorizzazione del «significato proprio delle parole» o per mezzo del ricorso ai principi generali dell’ordinamento. È stato osservato (Fasolino) posta la ‘differenza tra negozi dichiarativi e non dichiarativi … I primi si imperniano su di una dichiarazione espressa, nel senso che l’assetto di interessi desiderato dalle parti è reso palese dall’impiego di una struttura di discorso, orale o scritta. Nei secondi, l’adesione al contenuto precettivo del negozio avviene in modo tacito, ricavandosi da un comportamento della parte che ne segnali in modo inequivoco l’intenzione’ che ‘i romani mostrarono di dare rilievo ad entrambe le tipologie negoziali considerate, salvo pretendere che il carattere conclusivo ed inequivoco delle espressioni tacite di adesione al negozio venisse accertato di volta in volta, in base alle caratteristiche proprie del caso e sulla scorta delle regole di comune esperienza. Solo in età giustinianea, il profilo venne presidiato da specifiche previsioni normative, che introdussero presunzioni relative e si occuparono di ripartire l’onere della prova qualora la venuta ad esistenza dell’incontro di volontà fosse in contestazione. Dalle ipotesi fin qui considerate deve distinguersi il caso del silenzio o, comunque, della mancata espressione di volontà, che si verificava quando il titolare avesse del tutto omesso di esternarla, anche solo mediante gesti o comportamenti. Una simile ricorrenza era per i romani del tutto priva di rilevanza sul piano del diritto ed inidonea a far ritenere concluso un negozio giuridico. Esclusa sarebbe stata parimenti la possibilità di prospettare l’esistenza di negozi taciti, ossia di negozi la cui esistenza si sarebbe dovuta presumere dal fatto che un soggetto, il quale aveva interesse a porli in essere, non aveva manifestato alcuna intenzione di rinunziare a farlo’. La volontà deve essere liberamente formatasi nell’autore o negli autori del negozio, non deve cioè essere viziata geneticamente nel segno e deve essere correttamente manifestata. Quando la volontà, esistente, non è sana e correttamente manifestata, ma si è formata non liberamente, si parla di vizio del volere (e dunque di dolo malevolo, violenza morale, e errore di fatto). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 9 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi essenziali del negozio giuridico La volontà può essere scorrettamente manifestata, quando l’autore o gli autori del negozio non hanno formato una volontà negoziale o ne hanno formata una diversa da quella che esteriormente è manifestata. La volontà è scorrettamente manifestata, secondo una tradizionale impostazione didattica della trattazione delle ‘ipotesi di divergenza e discordanza tra volontà e manifestazione’ (Guarino), nelle seguenti ipotesi: violenza fisica, riserva mentale, mancanza di serietà, errore ostativo (o errore improprio o errore di manifestazione, e simulazione (assoluta o relativa). Iniziamo dalla violenza fisica nella quale il negozio è nullo per assoluta mancanza di volontà nell’autore o negli autori del negozio che sono stati coartati a manifestare una volontà negoziale che non avevano affatto. Si parla di vis absoluta, come quando si prende la mano di un soggetto e gli si fa apporre una firma. Si ha riserva mentale quando la manifestazione di volontà negoziale non è, se così vogliamo dire, piena, nel senso che essa si caratterizza per non essere completa, avendo l’autore o gli autori del negozio manifestato esteriormente qualcosa che non vuole, o non vuole in quel modo (Guarino parla di ‘omissione di un dato estensivo, integrativo, limitativo o negativo della propria volontà). Questa reticenza non invalida però il contratto. E come esempi, propongo quelli suggeriti da Guarino: si promette 100, quando invece si voleva promette 100 solo se lo si vorrà in futuro, oppure si promette una perla quando invece si voleva promettere tutta la collana di perle. Fasolino presenta questo esempio: Tizio dona un bene a Caio, gravemente ammalato ed in fin di vita, ma senza volerlo veramente in quanto lo fa solo per esaudire un ultimo desiderio espresso da Caio. La mancanza di serietà è tipica del gioco e della didattica, nel senso che la manifestazione esteriore di volontà non esiste in chi la dichiara, per scherzo o per teatralità o a fini esemplificativi, o pure come è stato ritenuto, a fini di cortesia o per ragioni di ira. In questo caso, si ritiene che sia riconoscibile la mancanza di serietà e il negozio è inesistente. Come esempio, si può rappresentare la vendita di un bene mobile di valore a poco prezzo oppure si può oralmente fare un riconoscimento di debito o una promessa di danaro. Il malinteso è una manifestazione di volontà esistente che si è formata non avendo il dichiarante compreso, avendo frainteso, le dichiarazioni altrui, come quando gli interlocutori non parlano la stessa lingua; se le avesse comprese la manifestazione di volontà non si sarebbe formata né sarebbe stata manifestata nel segno conferitovi. In questo caso il negozio è invalido. L’errore ostativo si ha quando chi manifesta la volontà (non ha compreso male qualcosa dell’altra parte e quindi la sua volontà si forma su un fraintendimento, ma) in prima persona manifesta una volontà che non corrisponde effettivamente alla sua, o che non viene intesa dalla sua controparte, come se una cosa che vale 100 si vuol vendere a 100, ma per errore di manifestazione si pone in vendita a 10 (direi un lapsus calami). Tra i frammenti dei giuristi ricordiamo D. 44.7.57 (Pomponius 36 ad Q. Mucium.) da cui risulta che se nelle trattative per la conclusione di un negozio, ricorrendo o meno la buona fede, interviene un errore Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 10 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi essenziali del negozio giuridico per effetto del quale il dichiarate intende una cosa e la controparte invece un’altra, ciò che si è fatto non ha valore. In tal caso il negozio si ritiene da alcuni nulli da altri annullabile. La simulazione si ha quando si pone in essere una manifestazione di volontà negoziale che non esiste (simulazione assoluta) o che non corrisponde a quella reale, effettiva, tra i contraenti (simulazione relativa). Nel primo caso quindi si pone in essere una evidenza giuridica, un negozio, che è del tutto fittizio, in quanto le parti non vogliono tra loro nessun negozio, ma ne simulano uno. Diversamente se i contraenti vogliono tra loro un contratto, ma non vogliono che questo sia noto all’esterno, pongono in essere un negozio, anche esso, apparente, simulato, ma tra loro vige il negozio interno, cd. dissimulato (come quando vi è un prestanome – più tecnicamente – interposizione fittizia di persone, o si fa una donazione che simula una vendita). Chiaramente il negozio simulato, apparente, spiega i suoi effetti nei confronti dei terzi: l’ordinamento tutela il terzo in buona fede svantaggiato dalla simulazione in modo che gli atti nei suoi confronti gli siano dichiarati inefficaci o avente causa da uno dei contraenti. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 11 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi accidentali del negozio giuridico 2.La condizione La condicio o clausola condizionale è un elemento accidentale del negozio giuridico e consiste nella previsione di una circostanza da verificarsi eventualmente nel futuro, un evento futuro e incerto, dal cui verificarsi discendeva la produzione degli effetti del negozio: si tratta di ‘uno degli strumenti più indicati per adattare alle esigenze del caso concreto le conseguenze derivanti dall’assetto di interessi che le parti avevano stabilito … In questo modo, eventi esterni alla cornice negoziale venivano ad assumere rilievo nel regolamento di un rapporto giuridico’ (Fasolino). In altri termini, la condizione, così come il termine, rendere gli effetti del negozio più compatibili con gli interessi dell’autore o degli autori del negozio, di cui sono portatori. Si può ancora dire che con la condizione le parti subordinano l’efficacia del contratto o la risoluzione del medesimo (e con conseguente cessazione dei suoi effetti) al verificarsi di un determinato evento futuro ed incerto. Parliamo quindi di condizione sospensiva o condizione risolutiva, per cui al verificarsi dell’evento dedotto in condizione nel primo caso il negozio, medio tempore completo e valido, acquistava efficacia, mentre nell’altro cessava di averne. In diritto romano abbiamo attestazione dell’uso della condizione risolutiva già nelle XII Tavole, risalenti alla metà del V secolo a.C., in tema di statulibertas, a proposito dello schiavo manomesso per via testamentaria sotto condizione sospensiva (Tab. 7.12). Rispetto all’uso della condizione risolutiva i Romani preferirono realizzare l’effetto dell’interruzione dell’efficacia di un atto apponendovi un patto aggiunto oppure ricorrendo ad un negozio autonomo rispetto a quello da condizionare, ed in particolare questo congegno, per realizzare l’analogo effetto di una condizione risolutiva, si impiegò in relazione a rapporti di durata destinati fisiologicamente ad avere natura temporanea. Si ricorse all’usufrutto, il quale costituì non di rado oggetto di legato in favore della vedova fino a quando non fosse eventualmente passata a nuove nozze, quindi sotto condizione risolutiva che la mulier non contraesse un nuovo matrimonio, da intendersi quale avvenimento futuro ed incerto che condizionava l’attribuzione mortis causa. Rispetto alla condizione posto che si tratta di un elemento accidentale strutturalmente incompatibile con gli atti cd. legitimi, possiamo operare in punto di diritto alcune distinzioni e classificazioni. Si distinguono, oltre che la condizione sospensiva e la condizione risolutiva, condizioni positive e negative; condizioni casuali, potestative e miste; condizioni proprie ed improprie; condizioni possibili e impossibili, lecite ed illecite. Si parla anche di ‘condiciones iuris’ Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 6 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi accidentali del negozio giuridico Le condizioni, in base al contenuto, sono positive o negative, a seconda che l’evento condizionante fosse integrato dal verificarsi («si navis ex Asia venerit …», «se la nave arriverà dall’Asia…») o dal non verificarsi («si navis ex Asia non venerit …», «se la nave non arriverà dall’Asia …») di un fatto. Le condizioni sono casuali, potestative, miste, in relazione al concorso della volontà dell’autore o degli autori del negozio nella produzione dell’evento. La condizione è casuale quando il verificarsi del fatto condizionante trascende la volontà delle parti. La condizione potestativa è quella nella quale rileva la volontà di uno dei contraenti il negozio. Si parla di condizione mista quando l’avveramento della condizione, del fatto futuro e incerto, dipende non solo dal fluire del corso degli eventi, ma anche dalla volontà di uno degli autori del negozio. La condizione meramente potestativa è invece quella nella quale l’avveramento dell’evento è rimessa all’autore del negozio, nel cui interesse è posta (cfr. art. art. 1355), alla volizione totalmente discrezionale di uno dei contraenti: ‘Ti darò cento se vorrò’. La conseguenza della loro apposizione era, secondo i giuristi romani, quella di invalidare integralmente l’atto. Le condizioni possono essere proprie o improprie. Tale distinzione è ‘fondata sulla natura oggettiva o meno dell’incertezza relativa all’evento condizionante. Nella condizione in senso improprio, infatti, l’avvenimento a cui è collegata, positivamente o negativamente, l’efficacia del negozio potrebbe essersi già verificato o essere in corso di svolgimento ma i contraenti lo ignorano. Pur mancando un’incertezza oggettiva in ordine al fatto, i romani non negarono rilevanza a simili clausole condizionali, quando entrassero a fare parte dell’assetto di interessi predisposto dalle parti’ (Fasolino). Sono condizioni improprie quelle apparenti, terminali e quelle meramente potestativa. Le condizioni apparenti erano da considerarsi non apposte al negozio, perché superflue, e tali erano le cd. condiciones iuris, cioè quelle previsioni in cui erano dedotti requisiti di efficacia dei negozi già previsti dall’ordinamento ed inutilmente riproposti dalle parti nei contenuti dell’accordo, i quali finirono per essere considerati come non apposti. Le condizioni terminali erano quelle che riguardavano circostanze di fatto future e certe, ed operavano in realtà come un dies. Le condizioni sono possibili o impossibili rispetto all’evento dedotto o meglio al fatto che l’evento si possa verificare nella realtà e far discendere gli effetti sospensivi o risolutivi. Le condizioni impossibili sono quelle che si sapeva che non si sarebbero mai potute verificare come il volo dei quadrupedi (nel nostro ordinamento è nullo il contratto al quale venga apposta una condizione, sospensiva, impossibile; la condizione risolutiva impossibile si considera non apposta, in quanto il negozio è già produttivo di effetti). Esse ‘si caratterizzavano per la certezza, sin da quando fossero state concordate, che la circostanza condizionante non potesse realizzarsi, per ragioni naturali (in quanto l’evento era contrario alle leggi della Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 7 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi accidentali del negozio giuridico natura) o giuridiche (per l’esistenza di una preclusione nascente dall’ordinamento)’ è stato di recente efficacemente dedotto. In diritto romano la giurisprudenza ritenne che il negozio cui era apposta una condizione impossibile dovesse ritenersi invalido in quanto l’impossibilità che l’evento si verificasse lo avrebbe posto in uno stato di indefinita pendenza. Tuttavia, nell’ambito della scuola sabiniana, in materia testamentaria la condizione sospensiva impossibile apposta ad istituzioni di erede, legati, fedecommessi e manomissioni si considerò tamquam non esset, in palese applicazione del favor testamenti. Le condizioni illecite sono quelle nelle quali sono dedotte circostanze contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico, al buon costume, nel qual caso si ritiene, oggi, che il negozio sia nullo. In diritto romano, si ritenne che la condizione sospensiva illecita producesse l’invalidità dei negozi la cui tutela fosse apprezzata attraverso giudizi di buona fede. Negli atti mortis causa le condizioni illecite che fossero tali perché contra legem si avevano per non apposte. A quelle contra bonos mores era solito porre rimedio il pretore sul piano del diritto onorario, attraverso la remissione, un rimedio in forza del quale la clausola condizionale era resa inoperante. Possiamo parlare anche di condizione sospensiva potestativa negativa senza limiti di tempo. In punto di diritto quando ad un negozio è apposta una condizione si possono riconoscere due fasi, la pendenza della condizione e l’avveramento della condizione, che opera differentemente. Durante il tempo di pendenza della circostanza, se la condizione era sospensiva, il negozio era provvisoriamente improduttivo di effetti; se risolutivo, invece, sarebbe stato provvisoriamente efficace. Verificatosi l’evento dedotto in condizione, il negozio sospensivamente condizionato acquistava definitivamente efficacia, quello risolutamente condizionato la perdeva definitivamente. I giuristi romani negarono validità al negozio sospensivamente condizionato fino all’età classica quando affinata la riflessione giuridica e con essa la differenza tra validità ed efficacia del negozio si ammise che l’atto fosse valido, ancorchè non produttivo di effetti. Quando la condizione si fosse verificata, i suoi effetti retroagivano al momento della costituzione del negozio. In particolare, va segnalato, ‘Un caso singolare di pendenza della condizione, per gli effetti aberranti che vi si ricollegavano’ come è stato definito recentemente (Fasolino), era quello della condizione sospensiva potestativa negativa senza limiti di tempo. L’esempio solito che si fa è la promessa di dare 100 a chi non si sposerà. Analizzando la disposizione, la promessa di pagamento è subordinata ad un fatto negativo, non sposarsi, del tutto potestativa, dipendente dalla volontà del soggetto di non sposarsi, ma che logicamente è verificabile – cioè si considera avverata la condizione – solo nel giorno della morte di chi non si è sposato nel corso della sua vita, per cui la condizione è di fatto impossibile e l’avveramento della condizione rende però ineseguibile il negozio. Si deve a Quinto Mucio Scevola la soluzione del caso: fu data immediata esecuzione alla disposizione se ed in quanto il destinatario della elargizione avesse promesso, Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 8 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi accidentali del negozio giuridico tramite stipulatio, di operarne la restituzione qualora in futuro avessero tenuto il comportamento dedotto negativamente in condizione (c.d. cautio Muciana). In tema di pendenza della condizione si pose la questione delle sorti del negozio se la condizione divenisse impossibile. In via generale si ritiene l’invalidità del negozio sospensivamente condizionato e la definitiva validità di quello risolutivamente condizionato. In ogni caso, in epoca classica si affermò il principio dell’avveramento fittizio della condizione divenuta impossibile se: 1) la sua verificazione fosse stata dolosamente impedita da chi avesse interesse ad evitarla; 2) si trattasse di condizione potestativa o mista alla cui realizzazione si fosse contrapposto un evento casuale, malgrado il contraente avesse fatto tutto il possibile per farla verificare. In tema di avveramento della condizione quindi gli effetti derivanti dall’avveramento della condizione in punto di diritto attuale (art. 1360 c.c.) retroagiscono al momento della conclusione del contratto. Pertanto se la condizione era sospensiva gli effetti del contratto si considerano prodotti dal momento della stipulazione del contratto e non dal momento della condizione, e se era risolutiva, l’avveramento della condizione cancella gli effetti del contratto che si considerano come mai sorti, sebbene l’autonomia negoziale riconosciuta alle parti consentono, laddove non derivi dalla natura del rapporto, che gli effetti del contratto o della risoluzione vengano riportati ad un momento diverso, e in ogni caso il nostro legislatore ha disposto che nei contratti di durata (ad esecuzione periodica o continuata), il verificarsi della condizione risolutiva non pregiudica, salvo diverso accordo tra le parti, le prestazioni già eseguite e che l’avveramento della condizione non toglie efficacia agli atti di amministrazione posti in essere dal titolare del diritto. I frutti della cosa oggetto della prestazione contrattuale sono dovuti a partire dal momento del verificarsi dell’evento condizionante (art. 1361 c.c.). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 9 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi accidentali del negozio giuridico 3.Il termine e il modus Il dies o termine è la previsione di un evento futuro e certo dedotto in una clausola apposita, una circostanza futura di cui era però certo il verificarsi, detta appunto dies. Il termine può essere iniziale o finale, per cui al sopraggiungere della data fissata come limite nel primo caso il negozio acquistava efficacia, nell’altro cessa di averne. Il dies per definizione è sempre certus an, potendo eventualmente restare incerto soltanto il quando. I giuristi romani si interrogarono non tanto a proposito del dies certus an et quando, ossia di termine di efficacia di cui è certa sia la verificazione, sia l’epoca (“le idi di marzo”), né tanto della determinazione per relationem del termine sulla base di elementi oggettivi riconoscibili, quanto piuttosto a proposito del dies certus an et incertus quando, per il quale la data di realizzazione dell’evento non è preventivamente conoscibile (‘ti lego 100 il giorno della mia morte’), e che pertanto fu ricostruita come condizione; ed ancora a proposito del termine incertus an sed certus quando (“il giorno del mio quarantesimo compleanno”). Nell’esplicazione dell’autonomia negoziale, si ammise la previsione di una circostanza che non interferisse sugli effetti del negozio, pienamente valido se conforme all’ordinamento, quanto piuttosto operasse sul piano sociale. Parliamo del modus o clausola modale, che non incideva sugli effetti del negozio giuridico e che era apponibile ai soli negozi a titolo gratuito (donazioni, manomissioni) ed ebbe in tema di negozi mortis causa vasta diffusione. Come è stato detto, ‘per mezzo della clausola modale, gli effetti di una disposizione erano collegati, sul piano sociale, ad un comportamento che il beneficiato avrebbe dovuto tenere; la tenuità dell’obbligo imposto era tale, comunque, che l’atto di ratificazione restasse tale e non si potesse scorgere alcuna corrispettività tra le prestazioni. Il modus non poteva equipararsi ad una condizione sospensiva, dal momento che le espressioni di regola utilizzate per formularlo non prevedevano la subordinazione degli effetti del lascito alla tenuta del comportamento richiesto; in ogni caso, la clausola modale imposta all’erede non poteva essere equiparata ad un legato perché la sua formulazione mancava di carattere imperativo. Nell’ipotesi in cui l’onerato non avesse adempiuto l’obbligazione che lo riguardava a titolo modale, il negozio sarebbe stato ugualmente efficace. Per fare in modo che la volontà dell’autore della disposizione a titolo gratuito fosse comunque rispettata, nell’ambito dell’autonomia privata si fece ricorso a diversi espedienti, quali, ad esempio, l’introduzione di multe o di una stipulatio poenae per l’ipotesi di inadempimento da parte del beneficiario; la prassi giurisdizionale, a sua volta, apprestò altri rimedi quali il rifiuto di tutela da parte del magistrato Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 10 di 12 Maria Vittoria Bramante - Elementi accidentali del negozio giuridico (denegato actionis) nei confronti del legatario che chiedesse in giudizio la consegna dell’oggetto del legato all’erede senza aver adempiuto il modus; l’imposizione dal magistrato al beneficiato di una promissio cautelativa per l’adempimento, nelle forme di una stipulato praetoria’ (Fasolino). Il modus consisteva, quindi, in un modico obbligo che non rendeva sinallagmatico il negozio originario a titolo gratuito, e quindi da non determinare l’onerosità del negozio cui era apposto. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 11 di 12 Maria Vittoria Bramante - I vizi della volontà negoziale: dolo, violenza morale, errore di fatto 2. La volontà È uno dei tre elementi necessari ed indefettibili per l’esistenza del negozio giuridico. Essa può essere definita come la determinazione di volere del soggetto che pone in essere l’atto, e si distingue dai motivi, definiti come ‘le aspettative in ragione delle quali un soggetto è indotto a concludere un negozio. Essi costituiscono un prodotto della sfera soggettiva del soggetto agente e, perciò, restano estranei alla ragione giustificativa del negozio, obiettivamente considerata’ (Fasolino). L’accertamento della volontà è molto importante ai fini dell’apprezzamento del negozio e del tipo di negozio, e particolarmente dei negozi astratti, come la mancipatio. Non a caso anche il nostro legislatore è attento a far emergere dal processo dell’interpretazione del negozio, la volontà, attraverso la valorizzazione del «significato proprio delle parole» o per mezzo del ricorso ai principi generali dell’ordinamento. È stato osservato (Fasolino) posta la ‘differenza tra negozi dichiarativi e non dichiarativi … I primi si imperniano su di una dichiarazione espressa, nel senso che l’assetto di interessi desiderato dalle parti è reso palese dall’impiego di una struttura di discorso, orale o scritta. Nei secondi, l’adesione al contenuto precettivo del negozio avviene in modo tacito, ricavandosi da un comportamento della parte che ne segnali in modo inequivoco l’intenzione’ che ‘i romani mostrarono di dare rilievo ad entrambe le tipologie negoziali considerate, salvo pretendere che il carattere conclusivo ed inequivoco delle espressioni tacite di adesione al negozio venisse accertato di volta in volta, in base alle caratteristiche proprie del caso e sulla scorta delle regole di comune esperienza. Solo in età giustinianea, il profilo venne presidiato da specifiche previsioni normative, che introdussero presunzioni relative e si occuparono di ripartire l’onere della prova qualora la venuta ad esistenza dell’incontro di volontà fosse in contestazione. Dalle ipotesi fin qui considerate deve distinguersi il caso del silenzio o, comunque, della mancata espressione di volontà, che si verificava quando il titolare avesse del tutto omesso di esternarla, anche solo mediante gesti o comportamenti. Una simile ricorrenza era per i romani del tutto priva di rilevanza sul piano del diritto ed inidonea a far ritenere concluso un negozio giuridico. Esclusa sarebbe stata parimenti la possibilità di prospettare l’esistenza di negozi taciti, ossia di negozi la cui esistenza si sarebbe dovuta presumere dal fatto che un soggetto, il quale aveva interesse a porli in essere, non aveva manifestato alcuna intenzione di rinunziare a farlo’. La volontà deve essere liberamente formatasi nell’autore o negli autori del negozio, non deve cioè essere viziata geneticamente nel segno e deve essere correttamente manifestata. Quando la volontà, esistente, non è sana e correttamente manifestata, ma si è formata non liberamente, si parla di vizio del volere e dunque di dolo malevolo, violenza morale, e errore di fatto). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 6 di 15 Maria Vittoria Bramante - I vizi della volontà negoziale: dolo, violenza morale, errore di fatto La volontà può essere scorrettamente manifestata, quando l’autore o gli autori del negozio non hanno formato una volontà negoziale o ne hanno formata una diversa da quella che esteriormente è manifestata. La volontà è scorrettamente manifestata, secondo una tradizionale impostazione didattica della trattazione delle ‘ipotesi di divergenza e discordanza tra volontà e manifestazione’ (Guarino), nelle seguenti ipotesi: violenza fisica, riserva mentale, mancanza di serietà, errore ostativo (o errore improprio o errore di manifestazione, e simulazione (assoluta o relativa). Iniziamo dalla violenza fisica nella quale il negozio è nullo per assoluta mancanza di volontà nell’autore o negli autori del negozio che sono stati coartati a manifestare una volontà negoziale che non avevano affatto. Si parla di vis absoluta, come quando si prende la mano di un soggetto e gli si fa apporre una firma. Si ha riserva mentale quando la manifestazione di volontà negoziale non è, se così vogliamo dire, piena, nel senso che essa si caratterizza per non essere completa, avendo l’autore o gli autori del negozio manifestato esteriormente qualcosa che non vuole, o non vuole in quel modo (Guarino parla di ‘omissione di un dato estensivo, integrativo, limitativo o negativo della propria volontà). Questa reticenza non invalida però il contratto. E come esempi, propongo quelli suggeriti da Guarino: si promette 100, quando invece si voleva promette 100 solo se lo si vorrà in futuro, oppure si promette una perla quando invece si voleva promettere tutta la collana di perle. Fasolino presenta questo esempio: Tizio dona un bene a Caio, gravemente ammalato ed in fin di vita, ma senza volerlo veramente in quanto lo fa solo per esaudire un ultimo desiderio espresso da Caio. La mancanza di serietà è tipica del gioco e della didattica, nel senso che la manifestazione esteriore di volontà non esiste in chi la dichiara, per scherzo o per teatralità o a fini esemplificativi, o pure come è stato ritenuto, a fini di cortesia o per ragioni di ira. In questo caso, si ritiene che sia riconoscibile la mancanza di serietà e il negozio è inesistente. Come esempio, si può rappresentare la vendita di un bene mobile di valore a poco prezzo oppure si può oralmente fare un riconoscimento di debito o una promessa di danaro. Il malinteso è una manifestazione di volontà esistente che si è formata non avendo il dichiarante compreso, avendo frainteso, le dichiarazioni altrui, come quando gli interlocutori non parlano la stessa lingua; se le avesse comprese la manifestazione di volontà non si sarebbe formata né sarebbe stata manifestata nel segno conferitovi. In questo caso il negozio è invalido. L’errore ostativo si ha quando chi manifesta la volontà (non ha compreso male qualcosa dell’altra parte e quindi la sua volontà si forma su un fraintendimento, ma) in prima persona manifesta una volontà che non corrisponde effettivamente alla sua, o che non viene intesa dalla sua controparte, come se una cosa che vale 100 si vuol vendere a 100, ma per errore di manifestazione si pone in vendita a 10 (direi un lapsus calami). Tra i frammenti dei giuristi ricordiamo D. 44.7.57 (Pomponius 36 ad Q. Mucium.) da cui risulta che se nelle trattative per la conclusione di un negozio, ricorrendo o meno la buona fede, interviene un errore Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 7 di 15 Maria Vittoria Bramante - I vizi della volontà negoziale: dolo, violenza morale, errore di fatto per effetto del quale il dichiarate intende una cosa e la controparte invece un’altra, ciò che si è fatto non ha valore. In tal caso il negozio si ritiene da alcuni nulli da altri annullabile. La simulazione si ha quando si pone in essere una manifestazione di volontà negoziale che non esiste (simulazione assoluta) o che non corrisponde a quella reale, effettiva, tra i contraenti (simulazione relativa). Nel primo caso quindi si pone in essere una evidenza giuridica, un negozio, che è del tutto fittizio, in quanto le parti non vogliono tra loro nessun negozio, ma ne simulano uno. Diversamente se i contraenti vogliono tra loro un contratto, ma non vogliono che questo sia noto all’esterno, pongono in essere un negozio, anche esso, apparente, simulato, ma tra loro vige il negozio interno, cd. dissimulato (come quando vi è un prestanome – più tecnicamente – interposizione fittizia di persone, o si fa una donazione che simula una vendita). Chiaramente il negozio simulato, apparente, spiega i suoi effetti nei confronti dei terzi: l’ordinamento tutela il terzo in buona fede svantaggiato dalla simulazione in modo che gli atti nei suoi confronti gli siano dichiarati inefficaci o avente causa da uno dei contraenti. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 8 di 15 Maria Vittoria Bramante - I vizi della volontà negoziale: dolo, violenza morale, errore di fatto 3. I vizi della volontà: il dolo In tema di vizi della volontà occupiamoci del dolo. Vizio della volontà non è il cd. Dolus bonus da intendersi come l’abilità negoziale idonea ad attrarre e provocare, senza influenzare, la determinazione a contrarre (e considerato per questo irrilevante, in quanto consistente nella mera esaltazione delle qualità di un bene al fine di invogliare la controparte alla conclusione del negozio), ma il cd. Dolus malus, che consiste in artifizi e raggiri, posti in essere (‘in modo preordinato e malizioso’: Fasolino) da un soggetto, raggiratore, o deceptor, nei confronti di un altro soggetto, raggirato, per indurlo a concludere un contratto pregiudizievole nei suoi confronti. Di fronte ad un contratto concluso da chi non avrebbe concluso il negozio se la sua volontà non fosse stata alterata nel formarsi dall’attività dell’altro contraente o avrebbe avuto un segno parzialmente differente – Ulpiano in D. 4.3.1.2 (11 ad ed.), riporta la definizione data da Labeone attivo in età augustea, che lo descrive come «qualunque furbizia, inganno o macchinazione finalizzata a circumvenire, ingannare o indurre in errore altri» -, il pretore ritenne di accordare dei rimedi processuali a tutela del raggirato nell’ipotesi più grave, quando cioè in forza del dolo l’altro contraente si fosse formato una rappresentazione della realtà falsa od alterata’ o versasse in ‘una situazione psicologica tale da portarlo ad assumere decisioni obiettivamente contrarie alla propria convenienza (Fasolino). Nell’ambito dei giudizi di buona fede (bonae fidei iudicia), introdotti a tutela di alcuni nuovi contratti (c.d. nova negotia), affermatisi nella pratica commerciale del III sec. a.C., quali la compravendita (emptio venditio), la locazione (locatio conductio), la società (societas) ed il mandato (mandatum), nei quali, nei rapporti tra le parti contrattuali, era prioritaria la salvaguardia della fides, intesa quale lealtà e correttezza. Successivamente nel 66 a.C., come ricordato da Cicerone, il pretore Aquilio Gallo estese la tutela contro il dolo a tutti gli atti e rapporti contrattuali, ivi compresi quelli di stretto diritto (stricti iuris), trasformandola in tal modo un rimedio di applicazione generale. I rimedi previsti dal pretore furono tre: l’exceptio doli, la in integrum restitutio ob dolum, e l’actio de dolo, e come detto vennero riconosciuti in caso di dolo determinante (il raggirato non avrebbe mai concluso il contratto: dolus causam dans) e non in caso di dolo incidente (il raggirato avrebbe concluso il contratto a condizioni diverse e/o meno onerose: dolus incidens). In particolare, l’eccezione di dolo, che poi divenne un’eccezione generale in epoca tarda, fu accordata a tutela del raggirato nei confronti del raggiratore che lo avesse citato in giudizio per l’adempimento del negozio concluso con dolo. Ad esempio nel caso di vendita di immobile non seguita dal pagamento del prezzo il venditore che citava per l’adempimento l’acquirente poteva vedersi opporre una Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 9 di 15 Maria Vittoria Bramante - I vizi della volontà negoziale: dolo, violenza morale, errore di fatto eccezione basata sul dolo, cioè sul fatto che il negozio non era stato concluso sulla base di una autentica determinazione, liberamente formatasi, dell’acquirente e che ciò dipendeva dai raggiri e dagli artificiosi espedienti della controparte. Chiaramente si tratta di una eccezione perentoria, sempre proponibile, che nel giudizio si trova nella cd. pars pro reo in cui erano dedotte le difese del convenuto, così che la formula inviata dal pretore al giudice privato tenesse conto di entrambe le posizioni giuridiche affermate. Un altro rimedio contro il dolo fu la cd. in integrum restitutio ob dolum a tutela del raggirato che fosse già eseguito il negozio concluso con dolo e si volesse eliminare gli effetti del negozio, se la situazione preesistente tra le parti fosse in concreto ripristinabile. Il rimedio complementare alla procedura formulare fu basato sull’imperium del magistrato giusdicente che causa cognita provvedeva in seguito all’istanza del raggirato con un provvedimento di annullamento del negozio che avesse ritenuto concluso con dolo. Il negozio – nel nostro esempio di vendita di immobile – sarebbe stato così espunto dal novero degli atti, tamquam non esset, come se non ci fosse mai stato. Ulteriore rimedio fu l’actio de dolo, a tutela del raggirato che avesse adempiuto ai propri obblighi negoziali, e che agiva, citava in giudizio il raggiratore, per ottenere la restituzione di ciò che aveva dato o la riparazione del torto. Si trattava di un’azione sussidiaria, cioè uno strumento processuale di ultima istanza come si dice, nel senso che poteva trovare applicazione solo se al deceptus non fossero disponibili altri mezzi processuali ex delicto ovvero se egli non potesse comunque essere reintegrato in altro modo; era una azione penale in simplum perché si richiedeva al giudice di condannare il raggiratore al pagamento di una somma in favore del raggirato a titolo di pena e il valore del pregiudizio subito per effetto del dolo.; era infamante, e prevedeva appunto la formula la clausola arbitraria. Infatti, per mezzo dell’inserzione della clausola il pretore consentiva al raggiratore di sottrarsi alla condanna ripristinando spontaneamente lo status quo ante, e poteva essere esercitata anche contro gli eredi del deceptor. Esperita oltre il termine di un anno (che salì a due con l’imperatore Costantino), la condanna non avrebbe potuto eccedere l’id quod ad eum pervenit, ossia quanto era pervenuto nel patrimonio del deceptor o dei suoi successori per effetto della dolosa macchinazione. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 10 di 15 Maria Vittoria Bramante - I vizi della volontà negoziale: dolo, violenza morale, errore di fatto 4. I vizi della volontà: il metus Vizio della volontà è il metus o detta anche vis compulsiva che può essere definito come il timore negoziale, determinato dalla condotta di chi (coactor) avesse ingiustamente minacciato, di un male ingiusto e notevole, una persona (coactus), i prossimi congiunti o i loro beni per indurre l’altra parte a concludere un contratto, che non avrebbe concluso. Chiaramente la riflessione giuridica si soffermò sulla tipologia e sulla gravità della minaccia rispetto alla persone e alla capacità di discernimento dei soggetti coinvolti e dei loro legami: infatti, occorreva che la minaccia fosse idonea ad influire su una persona normale, così come restava tendenzialmente esclusa la possibilità di rendere inutilizzabili quei negozi che fossero stati perfezionati sotto l’azione di un timore reverenziale, un sentimento di intenso rispetto. Come per il dolo, anche per la violenza morale nell’ordinamento antico non erano previsti specifici rimedi. Il pretore accordò, analogamente a quanto fece di fronte ai casi di negozi conclusi con dolo malevolo, tre rimedi: l’ exceptio metus, la in integrum restitutio ob metum, l’ actio quod metus causa. Dapprima nell’ambito dei iudicia relativi ai contratti di buona fede e, in seguito, a partire dal I sec. a.C., mediante un apposito editto applicabile anche ai contratti di stretto diritto, il pretore espressamente stabilì che non avrebbe ritenuto in nessun caso validi gli atti posti in essere nel timore di una violenza (metus causa). L’eccezione era posta a tutela di chi avesse subito violenza morale nei confronti dell’autore della violenza che lo avesse citato in giudizio per l’adempimento; e si trattava di una eccezione perentoria, sempre proponibile. La In integrum restitutio ob metum era un provvedimento reso dal magistrato, complementare alla procedura formulare, a tutela di chi avesse subito la violenza morale, che avesse già eseguito il negozio concluso per timore negoziale e volta ad eliminare gli effetti del negozio, se la situazione preesistente tra le parti fosse in concreto ripristinabile. L’azione quod metus causa era un’azione in quadruplum entro l’anno (nel senso che poteva condurre alla condanna del coactor a pagare il quadruplo del pregiudizio subito dal cactus; se esercitata oltre l’anno, diveniva in simplum come l’azione de dolo). Questa azione non era sussidiaria come era invece l’azione di dolo. L’azione conteneva la clausola arbitraria, ed era in rem scriptam: per l’ipotesi in cui la violenza fosse stata esercitata da un soggetto diverso da colui che intendeva avvalersi del negozio, Giustiniano dispose che l’actio metus potesse essere rivolta contro chi avesse tratto profitto (in simplum) e contro l’autore della minaccia (in triplum). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 11 di 15 Maria Vittoria Bramante - I vizi della volontà negoziale: dolo, violenza morale, errore di fatto L’azione poteva esser rivolta anche contro gli eredi di chi si fosse approfittato dell’atto compiuto metus causa, ma nei limiti però del loro arricchimento. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 12 di 15 Maria Vittoria Bramante - I vizi della volontà negoziale: dolo, violenza morale, errore di fatto 5. I vizi della volontà: l’errore di fatto Ulteriore vizio della volontà è costituito dall’errore di fatto, cioè dal fatto che un soggetto ignora, non conosce, o ha una falsa rappresentazione di una o più circostanze e da ciò deriva il segno della sua volontà. L’errore deve essere essenziale, e cioè, tale che in mancanza di tale errore, il negozio non sarebbe stato concluso; riconoscibile, e cioè, tale da poter essere autonomamente riconoscibile anche dalla controparte;  scusabile, e cioè tale da potersi tollerare in una persona di normale diligenza e intelligenza. L’esempio usualmente proposto è da ultimo considerato in letteratura in questi termini: ‘Un caso emblematico è quello del soggetto che ha intenzione di acquistare l’unica botte che un altro ha nella sua cantina con la convinzione che contenga vino, mentre invece ospita dell’aceto. Tra i due l’accordo sull’oggetto del trasferimento – la botte – può reputarsi senz’altro perfezionato ma è viziato dall’errore del compratore Tizio rispetto alla sostanza conservata nel contenitore. L’errore potenzialmente rilevante doveva quindi investire la situazione di fatto (error facti) e possedere almeno due requisiti: doveva essere “essenziale”, ossia tale da far escludere, in relazione alle circostanze concrete, che senza di esso il negozio sarebbe stato ugualmente concluso; inoltre doveva essere “scusabile”, ossia tollerabile in una persona dotata di normale intelligenza e diligenza’ (Fasolino). Posto che l’errore di diritto è inoperante stante il principio ignorantia legis non excusat fu sempre da parte del pretore, rispetto ai negozi a forma libera e dapprima rispetto ai negozi di buona fede, ragionare sulla possibilità di accordare rimedi, in via di eccezione, a chi fosse caduto in errore. Di qui si affermò, stante la preziosa riflessione della giurisprudenza, una casistica attenta a distinguere diversi tipi di errore di fatto: in persona (errore sull’identità di una delle parti, che diveniva rilevante specialmente quando il negozio fosse stato concluso intuitu personae, ossia in ragione di specifiche qualità dell’altro contraente), in negotio (errore sul tipo di negozio che si andava a concludere, purché riguardasse la sostanza delle pattuizioni e non la sua denominazione formale), in substantia aut qualitate (ad esempio nella vendita, l’errore sulle qualità essenziali della cosa venduta, come dell’aceto scambiato per vino), in quantitate (errore sulle dimensioni quantitative dell’oggetto stesso, nella misura in cui queste erano suscettibili di incidere sul suo valore: in tale ultimo caso, tuttavia, il negozio restava valido per la quantità minore), in corpore (errore sull’oggetto giuridico del negozio), in demonstratione (sulla descrizione di soggetti od oggetti, nella misura in cui rendesse equivoca la loro identificazione), in materia (errore relativo al materiale di cui era fatta la cosa oggetto del negozio). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 13 di 15 Maria Vittoria Bramante - I vizi della volontà negoziale: dolo, violenza morale, errore di fatto Irrilevanti era l’error in causa (falsa causa) concernente una qualità non essenziale o i motivi o alle circostanze alla base di un determinato atto negoziale (ad esempio Tizio acquista un oggetto nell’erronea convinzione che gli necessiti per lo svolgimento del suo lavoro). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 14 di 15 Maria Vittoria Bramante - Soggettività giuridica e capacità di agire in diritto romano 1. I soggetti giuridici: le qualificazioni soggettive regolari La soggettività giuridica è l’astratta capacità giuridica di un soggetto di essere titolare di situazioni giuridiche soggettive, attive e passive. Essa definisce la posizione del soggetto di diritto nell’ordinamento di riferimento. La capacità di agire è l’attitudine del soggetto giuridico di compiere atti idonei ad incidere sulla propria sfera giuridica. Nell’ordinamento italiano, come è noto, la capacità giuridica si acquisisce alla nascita (art. 1 c.c., Libro I Titolo I: Delle persone fisiche), e la capacità di agire con la maggiore età (art. 2 c.c.). Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa. Nell’ordinamento giuridico romano le cose stavano diversamente. Innanzitutto occorre tenere presente che la giurisprudenza romana tenne presente ‘Tre concezioni ambivalenti degli esseri umani’ che.’’ ‘confermano la possibilità per questi ultimi di essere non solo soggetti, ma anche oggetti di rapporti giuridici privati’ (Guarino). Si tratta delle nozioni di a) di persona; b) di status personae; c) di caput. Con il termine persona, in diritto classico, si designava l’uomo, con esclusione dei soggetti giuridici immateriali (collegia, sodalitates, municipia, coloniae, societates) e con inclusione, viceversa, dei servi, dei peregrini, dei filii familiarum privi della soggettività giuridica, che avevano la possibilità di acquistare la soggettività giuridica: il giurista Gaio trovò conseguentemente opportuno trattare anche di essi, in quanto “soggetti potenziali”, come precisa sul tema Guarino, unitamente ai soggetti veri e propri, in un unico e solo discorso dedicato a quel che si disse il ius personarum (Guarino). Occorre tener presente che con riferimento all’esperienza giuridica romana, nella quale hominum causa omne ius constitutum est, si può parlare di soggetti giuridici di pieno diritto, ove sussistano le qualificazioni regolari per essere titolari di situazioni giuridiche e per poter validamente avere la capacità di agire. Ciò detto andiamo a considerare le qualificazioni soggettive regolari. Esse sono i presupposti e i requisiti normalmente indispensabili per essere soggetti di diritto a Roma. Essi furono cinque, e segnatamente: l’appartenenza alla specie umana, l’esistenza, la libertà, la cittadinanza romana e l’autonomia familiare. L’appartenenza alla specie umana e l’esistenza sono ovviamente i due presupposti in senso naturalistico. Gli altri tre, la libertà, la cittadinanza romana e l’autonomia familiare, sono meri requisiti. L’appartenenza alla specie umana indica che solo l’uomo poteva essere soggetto di diritto, e non già pure gli animali o gli dei (considerati estranei al ius humanum, ma soggetti del ius sacrum ( si ritiene che Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 3 di 13 Maria Vittoria Bramante - Soggettività giuridica e capacità di agire in diritto romano la nozione di diritto divino derivò essenzialmente dalla sottrazione alla disponibilità giuridica e umana delle res sacrae, le quali furono pertanto ritenute in disponibilità degli dèi, Macr. Sat. 3.3.2: Sacrum est, ut Trebatius libro primo de religionibus refert, quicquid est quod deorum habetur). In diritto romano, si discusse molto se gli “esseri anormali”, chiamati ostenta, e la malformazione fisica, consistente nella mancanza di forme umane o nella fattezza fisica particolare (es., tre piedi), potessero incidere sulla soggettività giuridica. Si ritenne in epoca classica che costoro, per i quali viene impiegata l’omnicomprensiva locuzione di monstra vel prodigia, non potessero essere considerati soggetti giuridici. Diversamente in epoca giustinianea si ammise che i figli ancorché malformati potessero essere computati dalla madre per valersi dello ius liberorum. Si trattò di una evoluzione importante se consideriamo che il giurista severiano Paolo li escludeva dal novero dei figli, come risulta da D. 1.5.14. L’esistenza è il presupposto indicante che il soggetto doveva essere nato vivo e vitale. Il primo momento dell’esistenza era individuato quando il neonato iniziava a vivere di vita propria: occorreva pertanto il distacco del feto dall’alveo materno, il partus editus, mentre la vita effettiva era dimostrata da ogni sua manifestazione caratteristica, e perciò sopra tutto dal respiro o, nei neonati, dal primo vagito e l’attitudine a vivere dopo la nascita, era desunta principalmente dal fatto che il parto fosse stato un partus perfectus, a séguito di gestazione regolare di almeno sette mesi. Nell’esperienza giuridica romana furono riservati diversi diritti al concepito, che non fosse ancora venuto alla luce, in particolare dallo ius honorarium come la riserva al concepito una quota di partecipazione alla successione nei beni del pater defunto, nominandosi addirittura un curator ventris per la conservazione ed amministrazione dei cespiti relativi, e in omaggio al favor libertatis, si ritenne che si potesse tener conto del periodo del concepimento ai fini del riconoscimento della libertà e della cittadinanza al futuro neonato. Tutto questo complesso di eccezioni fu riassunto, dalla giurisprudenza postclassica, in una formulazione generale conceptus pro iam nato habetur, quotiens de eius commodis agatur, vale a dire il concepito vale come nato, tutte le volte che si tratti di favorirlo. La morte estingueva il soggetto giuridico persona fisica, e determinava il subingresso di altri nella posizione del de cuius. Si precisa che ‘tuttavia, motivi di utilità pratica indussero, in taluni casi eccezionali, a considerare il morto come ancora titolare, almeno a certi effetti, di situazioni giuridiche: per esempio, nell’ipotesi della bonorum venditio, che poteva essere effettuata anche a danno del debitore defunto, sulla memoria del quale veniva quindi a ricadere l’infamia conseguente alla missio in bona attesa la ragionevole aspettativa di venire alla luce’ (Guarino). La libertà indicava che occorreva non essere schiavi (sin dall’età classica si affermò, nella giurisprudenza e nella legislazione, un pronunciato favor libertatis in virtú del quale si ritenne opportuno Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 4 di 13 Maria Vittoria Bramante - Soggettività giuridica e capacità di agire in diritto romano risolvere i casi dubbi agevolando il riconoscimento o l’acquisto della libertà da parte di persone che fossero formalmente in stato servile. Una definizione di libertà e di schiavitù è conservata in D. 1.5.4 pr.-1 (= I. 1.3.1-2): Libertas est [naturalis] facultas eius quod cuique facere libet [, nisi si quid vi aut iure prohibetur]. Servitus est constitutio iuris gentium, qua quis dominio alieno [contra naturam] subicitur. La cittadinanza romana era l’ulteriore requisito per essere considerati soggetto di diritto. Occorreva non essere peregrini. In ogni caso, e salvo talune eccezioni, la cittadinanza romana venne progressivamente estesa a tutti i cittadini dell’impero con la constitutio di Antonino Caracalla del 212. Il tema, invero fu molto caldo, si potrebbe dire. Nell’età preclassica, l’acquisto della cittadinanza da parte dei peregrini fu ostacolato, cosí, la lex Licinia Mucia del 95 a. C. abolí il cd. “ius migrandi” dei Latini, istituendo una quaestio criminale per l’usurpazione della cittadinanza da parte degli stranieri; e ancora, la lex Minicia de liberis anteriore alla cd. guerra sociale (degli alleati [socii] italici desiderosi di ottenere la cittadinanza e conclusasi col cedimento di Roma tra il 90 e l’88 a.C.) stabilí non soltanto che il figlio di una romana e di un peregrino privo di connubium fosse peregrinus, ma anche che fosse peregrinus il figlio di un romano di sesso maschile e di una peregrina priva di connubium, pur se la donna fosse divenuta romana al momento del parto (cfr. Gai 1.78-79; Ulp. 5.8). Dopo la rivolta, e in ogni caso nel periodo della respublica universale, la situazione cambiò radicalmente: se da un lato, per reagire alla leggerezza con cui si operavano le manumissiones, furono posti dei limiti (dalla lex Aelia Sentia e dalla lex Iunia Norbana) all’acquisto della cittadinanza romana da parte dei libertini, dall’altro furono progressivamente ridotte le difficoltà che si frapponevano agli stranieri per il conseguimento della civitas. Difatti: a) un senatusconsultum proposto da Adriano stabilí che il nato da un latino e da una romana fosse cittadino romano (cfr. Gai 1.80); b) un altro senatusconsultum sollecitato da Adriano riconobbe la cittadinanza romana al figlio di due peregrini, se il padre (o, meglio ancora, la madre) avesse acquistato la civitas Romana prima della nascita; c) un altro senatoconsulto di età adrianea ammise la “erroris causae probatio” (cfr. Gai 1.67 ss.), nel senso che il cittadino romano, che avesse sposato una straniera nell’erronea credenza che si trattasse di una romana, era ammesso a provare il suo errore ed a conseguire la cittadinanza romana per il figlio e per la stessa moglie; d) per concessioni ad personam, i milites congedati con missio honesta (congedo con onore) conseguirono progressivamente il privilegio di sposare donne peregrine con l’effetto che i figli fossero cives Romani: al proposito i relativi diplomata (di cui restano parecchi esempi testuali) subordinavano l’effetto al tollere liberos da parte del padre, il quale, dunque, poteva anche non riconoscere il figlio come suo. Più in generale consideriamo qualche fonte testimone della riflessione dei giuristi. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 5 di 13 Maria Vittoria Bramante - Soggettività giuridica e capacità di agire in diritto romano Gai 1.3.9. Et quidem summa divisio de iure personarum haec est, quod omnes homines aut liberi sunt aut servi. 10. Rursus liberorum hominum alii ingenui sunt, alii libertini. Gaio, Istituzioni, 1.3.9. Ed invero, la più importante divisione relativa ai diritti delle persone è questa: tutti gli uomini o sono liberi o schiavi. 10. E ancora, degli uomini liberi alcuni sono ingenui, altri liberti. Inst.1.3. Summa itaque divisio de iure personarum haec est, quod omnes homines aut liberi sunt aut servi. Et libertas quidem est, ex qua etiam liberi vocantur, naturalis facultas eius quod cuique facere libet, nisi si quid aut vi aut iure prohibetur. Giustiniano, Istituzioni, 1.3. La più importante divisione relativa ai diritti delle persone è questa: tutti gli uomini o sono liberi o schiavi. La libertà, dalla quale anche sono denominati i liberi, invero è una facoltà naturale di fare ciò che ciascuno vuole, se non ne è impedito dalla forza o dal diritto. Gai 1.55. Item in potestate nostra sunt liberi nostri, quos iustis nuptiis procreavimus. Quod ius proprium civium Romanorum est (fere enim nulli alii sunt homines, qui talem in filios suos habent potestatem, qualem nos habemus)... Nec me praeterit Galatarum gentem credere in potestate parentum liberos esse. Gaio, Istituzioni,1.55. Ugualmente sono soggetti alla nostra potestà i nostri figli, che abbiamo procreato da legittime nozze. E questo diritto è proprio dei cittadini romani (difficilmente ci sono altri uomini che abbiano un tale potere sui loro figli, quale abbiamo noi)... Non mi sfugge che la gente Galata crede che i figli siano in potestà dei genitori. Altri testi su cui riflettere sono i seguenti. Servitus autem est constitutio iuris gentium, qua quis dominio alieno contra naturam subicitur, vale a dire ‘La schiavitù invece è un’istituzione del diritto delle genti, secondo la quale qualcuno è sottoposto contro natura al dominio di un altro’. Servi autem ex eo appellati sunt, quod imperatores captivos vendere iubent ac per hoc servare nec occidere solent: qui etiam mancipia dicti sunt, quod ab hostibus manu capiuntur, vale a dire gli schiavi sono chiamati in questo modo (servi) perché gli imperatori ordinano di vendere i prigionieri e così di « conservarli » (servare) e di non ucciderli : questi sono detti anche « mancipia », perché sono presi con la mano dai nemici (manu capiuntur)’. Servi autem aut nascuntur aut fiunt. Nascuntur ex ancillis nostris: fiunt aut iure gentium, id est ex captivitate, aut iure civili, veluti cum homo liber maior viginti annis ad pretium participandum sese venumdari passus est. In servorum condicione nulla differentia est. in liberis multae differentiae sunt: aut enim ingenui sunt aut libertini, cioè ‘Schiavi poi si nasce o si diventa. Si nasce dalle nostre schiave, si diventa o per diritto delle genti, cioè con la prigionia di guerra, o per diritto civile, come quando un uomo libero Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 6 di 13 Maria Vittoria Bramante - Soggettività giuridica e capacità di agire in diritto romano maggiore di 25 anni sopporta di essere venduto per condividere il guadagno. Nella condizione degli schiavi non vi è nessuna differenza, in quella dei liberi vi sono molte differenze. Infatti questi ultimi o sono ingenui o liberti. Il requisito dell’autonomia familiare consisteva nell’essere, come si dice, sui iuris, o personae sui iuris, cioè soggetti di pieno diritto non sottoposti ad altrui diritti, detti personae alieni iuris, e quindi non essere sottoposti alla patria potestas, all’altrui mancipium o alla manus maritalis, cioè nel non trovarsi nello stato di filius familias, di mulier in manu, di liber in mancipio. Così Gai 1.48-49:...quaedam personae sui iuris sunt, quaedam alieno iuri subiectae sunt. Rursus earum personarum, quae alieno iuri subiectae sunt, aliae in potestate, aliae in manu, aliae in mancipio sunt. Ove si vede che non si tratta di una “summa divisio personarum” (la summa divisio, dice Gai 1.9, è quella tra liberi e servi), ma di una suddistinzione della categoria dei liberi (e cives), alla quale sono assolutamente estranei gli schiavi. Il concetto di paterfamilias è espressi da Ulp. D. 50.16.195.2:... pater familias appellatur, qui in domo dominium habet..., quamvis filium non habeat (ove, sia pur sinteticamente, si intende che il paterfamilias è tale anche se non ha sottoposti liberi, tra cui principalmente i figli, e che egli, in quanto paterfamilias, è titolare di un patrimonio ed ha quindi il dominium in domo. Il termine di materfamilias appare solo di rado utilizzato per indicare la donna sui iuris (in contrapposto alle mulieres alieno iuri subiectae). Piú spesso esso ricorre per designare la uxor del paterfamilias, da questo incaricata di presiedere all’amministrazione domestica pur se priva di soggettività giuridica perché in manu di lui. Stando a Cic. top. 14 (ma cfr. anche Serv. ad Aen. 11.581), l’uso (probabilmente piú antico) era di riferire il termine alle sole donne in manu: genus enim est uxor; eius duae formae: una matrum familias, eae sunt, quae in manum convenerunt; altera earum, quae tantummodo uxores (cioè sine manu) habentur. Comunque la decadenza della conventio in manum fece impallidire la distinzione riferita da Cicerone. In età classica per materfamilias si intendeva genericamente la “matrona”, vale a dire la donna di specchiati costumi (Ulp. D. 50.16.46.1: colei, quae non inhoneste vixit... nam neque nuptiae neque natales faciunt matremfamilias, sed boni mores) ‘Guarino’. Parentela naturale. Gai 1.156. Sunt autem agnati per virilis sexus personas cognatione iuncti, quasi a patre cognati, veluti frater eodem patre natus, fratris filius neposve ex eo, item patruus et patrui filius et nepos ex eo. At hi, qui per feminini sexus personas cognatione coniunguntur, non sunt agnati, sed alias naturali iure cognati. Sono agnati (=nati vicino) coloro che sono congiunti da parentela in linea maschile, come da un padre comune. Come il fratello nato dallo stesso padre, il figlio del fratello, o il nipote di lui, e così ancora lo Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 7 di 13 Maria Vittoria Bramante - Soggettività giuridica e capacità di agire in diritto romano zio (paterno) e il figlio dello zio e il nipote di lui. Coloro che, invece, sono uniti da parentela in linea femminile, non sono agnati, ma cognati (nati insieme), cioè diversamente legati da parentela naturale. In ordine ai soggetti di diritto dobbiamo considerare l’identificazione di un soggetto giuridico rispetto ad un altro, e quindi l’identità della persona, accertata in occasione dei censimenti e rimessa se contestata a testationes raccolte tra persone degne di fede. Gli ‘indici preminenti di identificazione’ (Guarino) erano tre: a) la denominazione (costituita dal praenomen, dal nomen familiae di solito corrispondente al nomen della familia communi iure di cui il soggetto era discendente agnatizio, alla gens); b) la sede ((in età preclassica e ancora in buona parte dell’età classica, era la tribus territoriale cui il soggetto, pur se residente in zone italiche ed extraitaliche lontanissime, era formalmente iscritto, poi sostituito dal domicilium, vale a dire del luogo in cui il soggetto avesse il centro principale dei suoi interessi che poteva coincidere con il criterio dell’orígo); c) l’attività economica esercitata. Chiaramente la categoria dei soggetti giuridici regolari muniti delle qualificazioni soggettive dianzi illustrate soffriva di eccezioni. Si parla infatti di ‘soggetti giuridici limitati perché non ammessi alla soggettività di tutti i rapporti giuridici, ma esclusi dalla titolarità di taluni rapporti e, comunque, variamente condizionati, a seconda delle categorie, nel godimento del ius privatum.’ (Guarino)’. Le cause delle limitazioni furono diverse: a) libertinità; b) extraromanità; c) sesso femminile; d) assoggettamento quasi servile; e) bassezza morale; f) condizione sociale; g) confessione religiosa In tema di soggettività giuridica, dobbiamo fare un cenno ai soggetti giuridici immateriali. Nei Digesta di Giustiniano un frammento di Ulpiano, tratto dal commento all’editto del pretore, D. 3.4.7.1 (Ulp.10 ad ed.), Si quid universitati debetur, singulis non debetur: nec quod debet universitas singuli debent, vale a dire ciò che deve l’universitas non devono i singoli. Il che a dimostrazione del fatto che i soggetti giuridici immateriali sono centro di imputazione di situazioni giuridiche del tutto autonome rispetto a quelle dei singoli componenti queste aggregazioni di soggetti giuridici. Soggetti giuridici immateriali erano municipia, coloniae, collegia e sodalitates. Municipia erano sottoposti a Roma e avevano una propria autonomia interna nei confronti dei loro cittadini; le coloniae erano comunità create da Roma nel territorio dell’imperium Romanum aventi anch’esse autonomia. Erano enti publici che potevano assumere solo in certe ipotesi ben determinate la veste di soggetti giuridici privati, privatorum loco habentur ed era loro pertanto concesso di compiere ogni attività, anche processuale, limitatamente alle relazioni giuridiche di carattere economico. Operavano: o direttamente, a mezzo dei proprî funzionari di governo; o, in singoli casi, a mezzo di speciali agenti (actores); o infine, in età piú tarda, a mezzo di stabili organi rappresentativi (curatores o syndici). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 8 di 13 Maria Vittoria Bramante - Soggettività giuridica e capacità di agire in diritto romano I collegia possono essere definite come associazioni di persone (Guarino parla di ‘confraternite’) a scopo di culto in comune, come quella di garantire una sepoltura ai membri collegia funeraticia; mentre le sodalitates erano ‘circoli’ per dirla con Guarino a fini di ricreazione e di mutua assistenza dei soci. Spesso erano composte da gente dai mezzi economici limitati (“societates tenuiorum”), o esercenti di arti e mestieri (“corpora artificum”) ‘ispirate al concetto che l’unione (in qualche misura) fa la forza e basate generalmente su una convenzione trasfusa in uno statuto scritto, che disciplinava l’organizzazione e il funzionamento del gruppo (lex collegii vel sodalicii)’ (Guarino)’. Una legge, di epoca augustea, intervenne su questi sodalizi e disciplinò lo scioglimento di quelle che ‘mascheravano attività di opposizione politica o addirittura di violazione dell’ordine pubblico’,salvo un ristretto numero di antica e nobile tradizione, e subordinò la costituzione di nuovi enti corporativi a requisiti minimi tra loro conformi e ad autorizzazione espressa del senato, e poi, del princeps. La rappresentanza processuale dei collegia “autorizzati” fu regolata dall’editto pretorio. Durante il periodo classico, si riconobbe che degli obblighi e delle responsabilità assunte dai rappresentanti del collegium rispondesse, nei limiti del patrimonio comune, il solo collegium; e che pertanto i suoi membri (detti corporati) fossero considerati, di regola, soci “a responsabilità limitata”, tenuti verso i creditori entro i limiti dei conferimenti da ciascuno fatti o promessi alla cassa comune (“arca communis”). Rispetto alle fondazioni è discusso che i Romani, mancanti come erano di spiccate tendenze all’astrazione, abbiano mai riconosciuto la soggettività giuridica ai patrimoni privi di titolari, che fossero destinati a beneficio di una categoria di persone o comunque alla realizzazione di un certo. I casi che solitamente si adducono sono quelli delle piae causae e dell’hereditas iacens. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 9 di 13 Maria Vittoria Bramante - Soggettività giuridica e capacità di agire in diritto romano 2. La capacità di agire in diritto romano I requisiti regolari della capacità di agire furono in diritto romano la pubertà, il sesso maschile e la normalità fisica e psichica. Per poter validamente compiere atti giuridici in diritto romano occorreva che il soggetto sui iuris avesse raggiunto l’età pubere, fosse di sesso maschile ed in grado di compiere appieno l’atto giuridico posto in essere. Una mera capacità di agire venne riconosciuta di fatto agli schiavi ed ai filii familiarum, e ciò in ordine a taluni atti sia di incremento patrimoniale sia di decremento e sia a situazioni in cui assunsero in proprio obbligazioni. La pubertà si riteneva raggiunta a 14 anni per i maschi ed a 12 per le femmine. Invero questa è l’opinione che prevalse nel I secolo ad opera dei Proculiani. Coloro i quali non avevano raggiunto questa età erano detti impuberes (ed erano privi della capacità di fare testamento, e si riteneva fossero incapaci di compiere atti illeciti). In ordine al compimento degli atti leciti, si distingueva in ordine all’età tra infantes, i neonati, gli infantiae proximi, coloro cioè che avevano imparato a parlare e fino ai sette anni, e gli infantia maiores. Questi ultimi che avevano superato i sette anni potevano validamente compiere gli atti giuridici negoziali con l’assistenza di un tutore (il quale doveva interporre la propria auctoritas) e compiere da soli atti di incremento del patrimonio, quale può essere l’occupatio di una res nullius. Il requisito del sesso maschile ai fini del riconoscimento della capacità di agire implicava che le femmine raggiunta la pubertà erano sottoposte alla cd. tutela mulierum e che per il compimento degli anni negoziali fossero assistite dal tutore il quale doveva interporre la propria auctoritas. Esse erano ritenute del tutto capaci di compiere atti illeciti e col tempo le venne riconosciuta la capacità di fare testamento, la cd. testamenti factio attiva. La capacità psico-fisica di intendere e volere l’atto implicava che il soggetto sui iuris, maschio, libero cittadino romano, pubere potesse compiere atti i cui effetti si rivolgevano nella sua sfera giuridica. Taluni soggetti non erano ritenuti in grado di compiere atti e negozi giuridici attese le loro condizioni psico-fisiche. Questi i casi: furiosus o pazzo; prodigus o ‘spendaccione’; persone minorate per disabilità uditiva, visiva, vocale; minori di anni venticinque. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633). 10 di 13 Maria Vittoria Bramante - Soggettività giuridica e capacità di agire in diritto romano 3. Fatti costitutivi ed estintivi Lo status personae fu termine riferito dalla giurisprudenza romana non al concetto di soggetto giuridico, ma a quello di persona, e fu usato per classificare le personae in liberae e non liberae e per trattare dei modi in cui queste ultime (i servi) potessero acquistare la libertas. Lo status civitatis consente di distinguere le personae liberae (non le altre) in cives e non cives. Lo status familiae fu usato per distinguere tra gli appartenenti ad una familia (come pater, come filius, come uxor in manu ecc.) e gli estranei alla familia stessa. In particolare con il termine Caput nel senso di unità, componente, membro di un gruppo, si indicava l’appartenenza ad una particolare categoria di personae libere: quella appunto degli uomini liberi (liberi); quella dei liberi che fossero cittadini (cives); quella dei membri liberi di una familia (il pater e i suoi sottoposti). In rapporto a ciò, capitis deminutio (letteralmente, “diminuzione del capo” subita dal gruppo, ma, per traslato, perdita del ruolo coperto nel gruppo subita da un suo membro, significò il mutamento dello status giuridico di una persona libera in dipendenza della sua definitiva uscita dal gruppo. Pertanto i giuristi classici parlarono: a) della capitis deminutio maxima di chi uscisse dal novero degli uomini liberi (divenendo servus); b) della capitis deminutio media di chi uscisse dal novero dei cives Romani

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