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Questo documento riassume i concetti base della fisica moderna, in particolare sulle teorie del corpo nero e dell'effetto fotoelettrico. Vengono descritti i risultati sull'emissione di luce e sulle caratteristiche della luce stessa in diverse situazioni.
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IL CORPO NERO E LA CATASTROFE ULTRAVIOLETTA La teoria della relatività nasce da alcune incongruenze tra la fisica classica e le equazioni di Maxwell (problema della velocità della luce, esistenza dell’etere). La relatività non è però l’unico ambito in cui le teorie di Maxwell contraddicevano nozion...
IL CORPO NERO E LA CATASTROFE ULTRAVIOLETTA La teoria della relatività nasce da alcune incongruenze tra la fisica classica e le equazioni di Maxwell (problema della velocità della luce, esistenza dell’etere). La relatività non è però l’unico ambito in cui le teorie di Maxwell contraddicevano nozioni preesistenti: un caso emblematico è quello del corpo nero. In fisica si definisce corpo nero qualsiasi sistema in grado di assorbire tutta la radiazione elettromagnetica che incide su di esso. Attenzione a non pensare il corpo nero in senso letterale: non è per forza un oggetto di colore nero. Si sta parlando solo di un modello usato per descrivere alcuni sistemi. Un modo comunemente utilizzato per illustrare il corpo nero è il seguente: consideriamo una cavità (la forma è indifferente) con un piccolo foro. Da questo piccolo foro può entrare luce (radiazione elettromagnetica). Una volta che un raggio luminoso entra nel foro, rimane intrappolato dentro la cavità. La radiazione così “assorbita” dal corpo nero interagisce con le pareti, che si riscaldano. Le pareti del corpo nero possono a loro volta emettere radiazione all’esterno. Un corpo nero quindi assorbe radiazione ma al contempo ne emette. Alcuni esempi concreti di corpo nero: le stelle (non appaiono nere proprio perché emettono luce); un edificio con una finestra aperta da cui entra la luce del sole. La luce emessa dai corpi neri ha delle caratteristiche ben specifiche. 1) Un corpo nero emette luce a qualsiasi lunghezza d’onda (dalle onde radio ai raggi X) 2) Le diverse lunghezze d’onda non vengono emesse tutte con la stessa intensità. Ogni corpo nero emette secondo uno spettro del seguente tipo Vi è quindi un picco in corrispondenza di un determinato valore di 𝜆. La forma esatta dello spettro dipende solo dalla temperatura del corpo nero. In particolare, più alta è la temperatura, più alto è il picco e più è spostato verso sinistra 3) La lunghezza d’onda del picco è inversamente proporzionale alla temperatura del corpo nero (legge di Wien) 1 𝜆𝑀𝐴𝑋 ∝ 𝑇 Queste sono osservazioni sperimentali. I modelli che cercavano di spiegare lo spettro di emissione del corpo nero basandosi sulle equazioni di Maxwell prevedevano correttamente l’andamento a 𝜆 grandi, ma deviavano nettamente dai dati sperimentali a 𝜆 piccole. In particolare, secondo queste previsioni teoriche, i corpi neri avrebbero dovuto emettere luce ultravioletta con intensità infinita. E’ come dire che il vostro forno di casa spento, a temperatura ambiente, dovrebbe emettere un’infinità di raggi UV, raggi gamma e raggi X, trasformandosi in un reattore nucleare. Questa netta discrepanza tra teoria e dati sperimentali venne chiamata “catastrofe ultravioletta” A fornire una spiegazione teorica alternativa fu Plank, che propose la seguente ipotesi: la luce viene assorbita/emessa dal corpo nero a “pacchetti” discreti. Ognuno di questi pacchetti (Plank li chiamò “quanti”) ha energia 𝐸 = ℎ𝑓 dove ℎ è una costante detta costante di Plank e 𝑓 è la frequenza della radiazione. Ciò significa che la luce a basse frequenze (microonde, onde radio...) viene scambiata a pacchetti molto piccoli, mentre luce ad alte frequenze (raggi X, raggi gamma, UV...) solo a pacchetti molto grandi. Questo spiega lo spettro di emissione: il corpo nero fatica a emettere luce a 𝜆 molto piccole perchè quel tipo di radiazioni richiede scambi di grandi quantità di energia. Plank non affermò mai che la sua ipotesi dei “quanti” di luce avesse un significato fisico: la propose unicamente come artificio matematico. Fu Einstein a identificare successivamente questi pacchetti di energia luminosa come “fotoni”. EFFETTO FOTOELETTRICO Anno 1905. L’esperimento è stato concepito e svolto da Lenard e l’elaborazione delle conseguenze è di Einstein. Una lastra metallica viene inserita in un tubo a vuoto (niente aria) e viene irradiata con luce di diverse frequenze (gamma, UV, visibile, IR). Si osserva che dalla lastra metallica fuoriescono elettroni. Viene misurato: 1) il numero di elettroni emessi ; 2) l’energia cinetica, quindi la velocità. Per misurare il numero di elettroni, essi vengono raccolti da una piastra e immessi in un circuito dotato di amperometro. Maggiore è la corrente registrata dall’amperometro, maggiore è il numero di elettroni emessi dal metallo. Per misurare l’energia degli elettroni, tra la piastra di emissione e la piastra di raccoglimento viene immesso un campo elettrico che tende a respingere gli elettroni. Il processo di misura dell’energia degli elettroni avviene quindi nel seguente modo: a) viene fissata l’intensità (quanta luce) e la frequenza (che tipo di luce) della radiazione incidente sulla lastra b) gli elettroni vengono emessi dalla piastra e raccolti. Il campo elettrico tra le piastre è spento c) il campo elettrico tra le due piastre viene acceso in modo che si opponga al moto degli elettroni. Il suo valore viene aumentato gradualmente finché nessun elettrone raggiunge la piastra di raccolta. Il valore di campo elettrico a cui ciò accade è detto campo di arresto. d) il valore di campo elettrico di arresto si può tradurre in una differenza di potenziale con la formula 𝛥𝑉 = 𝐸 ⋅ 𝛥𝑠 dove 𝛥𝑆 è la distanza tra le due piastre. Questo valore di 𝛥𝑉 è detto potenziale di arresto. Si può così ricavare l’energia potenziale elettrica che gli elettroni scambiano nel tragitto tra le due piastre con la formula 𝛥𝑈 = 𝑒 ⋅ 𝛥𝑉 dove 𝑒 è la carica dell’elettrone. Dalla conservazione dell’energia si ha che 𝛥𝑈 è uguale all’energia cinetica degli elettroni, quindi da qui si ottiene 𝐸𝑒𝑙𝑒𝑡𝑡𝑟𝑜𝑛𝑖 = 𝑒𝛥𝑉 Le osservazioni sperimentali mostrano tre fatti rilevanti: 1) Il numero di elettroni emessi dalla piastra NON dipende dal tipo di radiazione incidente, cioè non dipende dalla frequenza, ma dall’intensità. Per esempio, una debolissima luce ultravioletta genera meno elettroni di una luce ultravioletta molto intensa, senza che la frequenza della luce venga cambiata. Luce più forte = più elettroni emessi 2) L’energia cinetica, quindi la velocità degli elettroni emessi NON dipende dall’intensità della luce ma dalla frequenza della luce, cioè dal tipo di radiazione. Per esempio, una luce infrarossa (bassa frequenza) emette elettroni con energia cinetica minore (più lenti) rispetto alla luce ultravioletta (alta frequenza). Quindi frequenza più alta = elettroni più veloci 3) Al di sotto di una frequenza ben precisa 𝑓 0 che dipende dal metallo utilizzato, non c’è emissione di elettroni, a prescindere dall’intensità della luce. Tale frequenza è detta frequenza di soglia. Per esempio, colpendo con onde radio (bassa frequenza) una lamina metallica, per quanto sia forte l’intensità della radiazione, non ci sarà emissione di elettroni; al contrario, colpendo la lamina con raggi gamma (alta frequenza) estremamente deboli, ci sarà comunque emissione di elettroni. Queste osservazioni sono in conflitto con la teoria di Maxwell della luce intesa come onda elettromagnetica, perchè 1) Secondo Maxwell, l’energia di un’onda dipende dalla sua intensità. Quindi in teoria, una radiazione infrarossa molto debole dovrebbe avere meno energia di una radiazione infrarossa molto intensa. Dai dati sperimentali questo non risulta perché si evidenzia che l’energia dipende solo dalla frequenza. 2) Al contrario, la frequenza non dovrebbe incidere sull’energia. Questo perchè secondo la fisica classica, in tutte le onde (non solo quelle elettromagnetiche) l’energia non è funzione della frequenza. 3) Dovrebbe esserci emissione di elettroni a qualsiasi frequenza, per quanto bassa. Non c’è modo di giustificare la frequenza di soglia, nè tanto meno di calcolarne il valore con le equazioni di Maxwell. L’IPOTESI DEI FOTONI Per spiegare l’effetto fotoelettrico, Einstein recupero l’ipotesi di Plank secondo cui la luce scambia energia tramite pacchetti discreti, a cui dà il nome di fotoni. L’energia di ognuno di questi pacchetti di energia è data dalla formula di Plank 𝐸 = ℎ𝑓 dove ℎ è la costante di Plank e 𝑓 è la frequenza della radiazione elettromagnetica. Questo significa che luce a frequenza più alte (es: ultravioletto) scambia energia a pacchetti più grandi. Questa ipotesi spiega l’effetto fotoelettrico, in particolare va a compensare le difficoltà della teoria di Maxwell 1) L’emissione degli elettroni della lamina è dovuta all’interazione di un singolo fotone alla volta con un singolo elettrone. Quando un elettrone assorbe un fotone, ne acquisisce l’energia 𝐸 = ℎ𝑓, quindi ha senso vedere elettroni emessi con più energia se la luce incidente ha frequenza più alta. 2) Aumentando l’intensità della luce non si aumenta l’energia ma solo il numero dei fotoni. Se più fotoni colpiscono la lamina metallica, più elettroni vengono emessi. Questo spiega perché luce più intensa produce più elettroni 3) Gli elettroni nel metallo sono legati ai nuclei atomici da un’energia potenziale elettrica. Se i fotoni assorbiti non forniscono sufficiente energia agli elettroni, essi non possono uscire dalla piastra vincendo l’attrazione elettrica. Ha quindi senso l’esistenza di una frequenza di soglia: al di sotto di una cerca frequenza, l’energia dei singoli fotoni non è sufficiente a fornire agli elettroni la velocità necessaria per uscire dal metallo. L’energia minima per consentire agli elettroni di lasciare il metallo è detta lavoro di estrazione 𝑊𝑒 Si può quindi calcolare la frequenza di soglia 𝑓 0 = 𝑊 𝑒 /ℎ e i risultati degli esperimenti concordano con i calcoli teorici. Il grosso salto concettuale che fa Einstein rispetto a Plank è di considerare i fotoni come un effettivo comportamento della luce: per Plank la quantizzazione dell’energia della luce era solo un artificio matematico, mentre per Einstein ha un significato anche fisico. DUALISMO ONDA-PARTICELLA DEI FOTONI A seguito dell’ipotesi di Einstein, la luce viene quindi descritta sia come particella (fotone) sia come onda (campo E e B). Queste due descrizioni dello stesso fenomeno appaiono contraddittorie: per definizione, un’onda non possiede le stesse caratteristiche di una particella e viceversa. Facciamo quindi attenzione a distinguere questi due concetti. 1) Onda: in fisica si parla di onda riferendosi a una quantità che è descritta da un’equazione del tipo 𝑦 = 𝐴 ⋅ 𝑠𝑖𝑛(𝑘𝑥 − 𝜔𝑡 + 𝜙), detta equazione d’onda, al cui interno compaiono quantità come l’ampiezza, la frequenza, la lunghezza d’onda, la fase. Per definizione un’onda non è localizzata in un punto preciso e ha un’evoluzione nel tempo. 2) Particella: in fisica le particelle sono oggetti di dimensioni microscopiche o puntiformi, descritte da quantità quali massa, quantità di moto (velocità), posizione. La principale differenza tra onda e particelle è che per definizione le particelle sono oggetti discreti (si possono contare). E’ quindi lecito chiedersi come si possono conciliare questi due concetti: la luce è un’onda o una particella? Una possibile risposta alla domanda potrebbe essere: la luce è un’onda formata da tante singole particelle, in analogia con le onde meccaniche (es: onde dell’acqua). Ciò significa che il comportamento ondulatorio emerge quando tanti fotoni si trovano insieme. Per testare questa ipotesi, venne effettuato un esperimento già noto nell’800, ovvero l’esperimento di Young a doppia fenditura, con un adattamento all’ipotesi dei fotoni. ESPERIMENTO DI YOUNG A DOPPIA FENDITURA A SINGOLO FOTONE L’esperimento di Young prevede di far incidere un fascio di luce contro una parete su cui sono presenti due fenditure. Al di là della parete è posto uno schermo. La luce passa attraverso le due fenditure e, comportandosi da onda, genera interferenza. Sullo schermo appare quindi uno schema di bande chiare e scure alternate, segno della natura ondulatoria della luce. Nel contesto del dualismo onda-particella del fotone, l’esperimento viene ripetuto con una modifica: la sorgente luminosa è impostata per emettere un singolo fotone alla volta, a intervalli di tempo regolari. Si sta considerando la luce in forma di particella, e ci si aspetta quindi che il singolo fotone attraversi una delle due fenditure. Poichè un solo fotone alla volta colpisce lo schermo, non si dovrebbe osservare nessun pattern di interferenza. Dopo l’emissione di diversi fotoni, ci si aspetterebbe quindi che essi colpiscano lo schermo in corrispondenza delle due fenditure, creando solo due bande luminose ben definite. Quello che accade è invece che le frange chiare e scure compaiono come nella versione classica dell’esperimento Questo risultato ha solo due possibili spiegazioni 1) I fotoni riescono a interferire tra loro anche senza arrivare contemporaneamente alle fenditure. Ciò implicherebbe problemi logici di causalità (i fotoni dovrebbero “parlarsi” indietro/avanti nel tempo) 2) Il singolo fotone possiede tutte le proprietà dell’onda elettromagnetica e quindi non passa da una o dall’altra fenditura, ma passa da entrambe e interferisce con se stesso. L’implicazione dell’esperimento è che la natura ondulatoria della luce può manifestarsi anche a livello dei singoli fotoni. Per essere precisi, la luce può comportarsi da onda o da particella anche quando si ha a che fare con singoli fotoni. Questo rigetta l’ipotesi che le onde elettromagnetiche siano l’effetto del comportamento di un grande numero di fotoni. Rimane però aperto un problema: il singolo fotone è passato effettivamente da una delle due fenditure? Se accettiamo l’ipotesi che la luce abbia anche natura di particella (provata dall’effetto fotoelettrico) allora la risposta dovrebbe essere affermativa. Viene pertanto ripetuto l’esperimento, questa volta posizionando due rilevatori dopo le due fenditure. Questo permette quindi di identificare l’esatta traiettoria dei fotoni e quindi da quale fenditura sono passati. Quello che si osserva in questa configurazione è che lo schema di interferenza sullo schermo sparisce: non si presentano più bande chiare e scure ma solo due bande luminose in corrispondenza delle fenditure. Quindi: aver cercato di osservare la luce come una particella ne ha fatto sparire la natura ondulatoria. Ne consegue che la luce ha natura sia particellare che ondulatoria, ma più precisamente essa si manifesta in una o nell’altra forma a seconda di come si decide di misurarla. Questa osservazione è nota come principio di complementarietà: in caso di dualismo onda- particella, non si possono osservare contemporaneamente le due nature, ma se ne manifesta una a seconda del tipo di esperimento svolto. Non ha dunque senso cercare di dire se la luce sia “davvero” una particella o “davvero” un’onda: essa si comporta da onda e particella, a seconda di come la si osserva. ESPERIMENTO DEL FILTRO POLARIZZATORE A SINGOLO FOTONE E’ chiaro quindi che i singoli fotoni possiedono tutte le caratteristiche dell’onda elettromagnetica di cui fanno parte. Con questo si intende che tutte le quantità che descrivono un’onda elettromagnetica (campo E, campo B, energia, polarizzazione, vettore di Poynting...) sono anche quantità caratteristiche dei fotoni. Questo crea però alcune contraddizioni e richiede un’ulteriore analisi del dualismo onda- particella. Un esempio di queste problematicità è dato dal seguente esperimento. Un filtro polarizzatore verticale è posto vicino a una sorgente di luce. Tale sorgente emette solo luce polarizzata con un angolo di 45°. Dalla nozione di polarizzazione, sappiamo che quando la luce incide sul filtro, la sua componente verticale viene trasmessa oltre il filtro e la sua componente orizzontale viene bloccata. Oltre il polarizzatore emerge quindi luce polarizzata verticalmente, con intensità ridotta rispetto alla radiazione incidente. Ora, la sorgente luminosa viene tarata in modo da emettere un singolo fotone alla volta. Come già detto, questo singolo fotone ha tutte le proprietà dell’onda, quindi ha anche una polarizzazione di 45°. Cosa accade quindi quando il fotone incide contro il filtro? Ci si potrebbe aspettare che il fotone polarizzato a 45° si “divida” in un fotone polarizzato verticalmente e in uno polarizzato orizzontalmente. A quel punto, il filtro lascerebbe passare il primo e bloccherebbe il secondo. Questo però non può accadere, perché per definizione il fotone è la particella elementare della luce e non può dividersi a sua volta. Perciò, il fotone passa per intero o non passa proprio dal filtro. Un secondo possibile esito potrebbe essere che il filtro blocchi completamente il fotone, perché la polarizzazione non è verticale. Questo però non è possibile: sappiamo già dall’esperimento che oltre il filtro passa della luce, quindi alcuni fotoni devono attraversarlo. Rimane quindi solo una possibile spiegazione: quando il fotone colpisce il filtro, ha una certa probabilità di attraversarlo o di essere respinto. Non sembra quindi esserci modo di prevedere se un singolo fotone attraverserà o meno il filtro: il processo è del tutto casuale. Quello che si può fare è valutare la probabilità che ciò accada, tenendo conto dell’angolo di inclinazione della polarizzazione. Questo esperimento mette in evidenza un fatto problematico per la teoria classica dell’elettromagnetismo e in generale per la meccanica: ci sono situazioni in cui il comportamento di una singola particella (in questo caso un fotone) è puramente probabilistico e non sembra avere spiegazioni ulteriori legate alle sue caratteristiche fisiche. In altre parole, anche conoscendo tutte le proprietà del singolo fotone, non si può fare altro che prevedere la probabilità che si comporterà o meno in un certo modo. Appare chiaro quindi che il concetto di probabilità intrinseca e il dualismo onda-particella sono correlati. IPOTESI DI DE BROGLIE SUL DUALISMO-ONDA PARTICELLA Assodato che la luce presenta un comportamento dualistico onda-particella, nel 1923 Louis De Broglie ipotizzò che questa caratteristica non fosse unica della luce ma anzi fosse applicabile a tutte le particelle già note (elettroni, protoni...) Ipotizzò che ad ogni particella fosse associata un’onda di lunghezza d’onda detta lunghezza d’onda di De Broglie ℎ 𝜆= 𝑝 dove h è la costante di Plank e p è la quantità di moto della particella. Si pone però un problema concettuale. Per la luce, la natura ondulatoria è ben descritta da Maxwell, cioè sappiamo come si comporta e da cosa è formata un’onda elettromagnetica (campo E e campo B). Per la materia ordinaria, non è chiaro quale sia il significato da attribuire alla natura ondulatoria: cos’è “l’onda” associata a un elettrone? Cos’è che “oscilla”? A seguito dell’ipotesi di De Broglie, viene effettuato un analogo dell’esperimento di Young a doppia fenditura usando gli elettroni al posto della luce: l’esperimento evidenzia che, come i fotoni, gli elettroni possono produrre interferenza e creano la caratteristica alternanza di bande chiare e scure. Ciò significa che anche gli elettroni possono manifestare comportamento da onda. L’onda associata alle particelle della materia prende in meccanica quantistica il nome di funzione d’onda, indicata con la lettera greca “psi” 𝛹. Per cercare di dare un senso alla funzione d’onda, si riprende l’analogia con la luce: la funzione d’onda è legata alla probabilità di osservare un certo comportamento della particella. L’analogia sta nel fatto che già con i fotoni era emerso (esperimento del polarizzatore) il concetto di probabilità. Più precisamente, la funzione d’onda è una funzione di densità di probabilità, cioè indica la probabilità di osservare una particella in un determinato punto e con determinate caratteristiche in un certo volume di spazio. L’elemento rivoluzionario di questa concezione è che non si sta parlando di una probabilità in senso classico: non è l’ignoranza del sistema che impedisce di fare previsioni più accurate, ma la natura stessa del comportamento delle particelle è puramente probabilistica. Le informazioni che abbiamo sul sistema consentono solo di calcolare le probabilità che esso si comporti in un determinato modo. Questa visione della funzione d’onda è detta interpretazione di Born. Formalmente, come la luce è descritta nella sua forma di onda dalle equazioni di Maxwell, così la funzione d’onda è descritta da una legge matematica detta equazione di Schrodinger. Non affrontiamo le formule né i calcoli della meccanica quantistica in quanto richiedono strumenti matematici avanzati: ad esempio, la funzione Ψ è una funzione in campo complesso (numeri immaginari). LA SOVRAPPOSIZIONE QUANTISTICA Per capire meglio questo concetto di probabilità, facciamo un esempio. Un elettrone viene inserito dentro una scatola vuota e lasciato libero di muoversi. La scatola viene chiusa. Posso descrivere l’elettrone come una pallina che si muove e rimbalza dentro la scatola (particella) oppure come un’onda che si muove dentro la scatola (funzione d’onda). L’equazione di Schrodinger permette anche di dire com’è fatta questa funzione d’onda. In questo caso, per esempio, mettiamo che sia fatta in questo modo Qual è il senso di questa rappresentazione? L’interpretazione di Born della funzione d’onda ci dice che essa rappresenta la probabilità di osservare l’elettrone in una determinata posizione; in altre parole, più è intensa l’onda, più è probabile che in quel punto troverò l’elettrone. In quest’ottica non ha senso chiedersi “dove” si trova l’elettrone, se non cerco di osservarlo: nel momento in cui apro la scatola e guardo, lo troverò in una posizione precisa, ma non ho modo di calcolare a priori quale essa sia. Ciò significa che prima della mia osservazione, l’elettrone non era in un punto ben localizzato: è stato l’atto di misurare la sua posizione che ha “costretto” la funzione d’onda a mostrare una posizione precisa. Questo concetto prende il nome di sovrapposizione degli stati quantici: prima di compiere un’osservazione (una misura), il sistema non si trova in uno stato (posizione) precisa, ma possiamo dire che formalmente è in tutti gli stati contemporaneamente; l’atto di misurare fa collassare questa sovrapposizione in uno stato definito. Questo comportamento all’apparenza paradossale è alla base della meccanica quantistica e ha implicazioni complesse (vedi gatto di Schrodinger). E’ bene però chiare che questo meccanismo avviene per sistemi microscopici: ha senso parlare di sovrapposizione quantistica per singole particelle, per fotoni, elettroni e analoghi. Per sistemi macroscopici la descrizione quantistica finisce col coincidere con la fisica classica. L’interpretazione del significato fisico della meccanica quantistica è tutt’oggi oggetto di dibattito: si tratta di una teoria di natura altamente formale e matematica, le cui predizioni sperimentali sono efficaci, ma non è sempre semplice attribuire a una formula un senso sulla realtà fisica delle cose che descrive.